Titolo della Tesi - Università Politecnica delle Marche

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Titolo della Tesi - Università Politecnica delle Marche
Università Politecnica delle Marche
Scuola di Dottorato di Ricerca in Scienze dell’Ingegneria
Curriculum Ingegneria dei Materiali, delle Acque e dei Terreni
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Studio di materiali nanostrutturati
mediante tecniche di microscopia
elettronica e diffrazione di raggi X
Tesi di Dottorato di:
Ing. Eleonora Santecchia
Tutor Accademico:
Prof. Paolo Mengucci
Coordinatore Curriculum:
Prof. Erio Pasqualini
12° Ciclo - Nuova Serie
Università Politecnica delle Marche
Dipartimento di Scienze e Ingegneria della Materia, dell’Ambiente ed Urbanistica
(SIMAU)
Via Brecce Bianche — 60131 - Ancona, Italia
Abstract
Il lavoro svolto durante il Dottorato di ricerca riguarda l’applicazione di tecniche di
microscopia elettronica e diffrazione di raggi X a materiali nanostrutturati.
La ricerca è stata articolata su tre macroaree tematiche: materiali per l’immagazzinamento
dell’idrogeno allo stato solido (film sottili e compositi), materiali per uso biomedico
(biomateriali e detector) e leghe metalliche leggere.
Per la prima area, film sottili di Mg puro e Mg drogato con Nb e campioni compositi di
particelle di Pd e silicone, sono stati sottoposti a cicli di assorbimento/desorbimento di H2.
La caratterizzazione ha mostrato che il Nb nei film sottili forma dei clusters, creando
percorsi percolativi che velocizzano la reazione con H2. I compositi hanno mostrato, invece,
un comportamento peculiare rispetto all’idrogeno e una propria identità scientifica, aprendo
nuove prospettive applicative.
Nel campo dei biomateriali è stata caratterizzata la lega Co-Cr-Mo prodotta tramite Direct
Metal Laser Sintering (DMLS), al fine di ottimizzare i parametri produttivi e far luce sui
fenomeni che hanno luogo nella microstruttura durante la produzione. I risultati hanno
indicato che il laser induce una trasformazione martensitica atermica dalla fase da γ (fcc)
alla fase ε (hcp) nella polvere metallica, producendo un intricato network di lamelle ε nella
fase γ. E’ la prima volta in assoluto che viene osservato un fenomeno di questo genere in
simili condizioni.
Nel campo dei detector per applicazioni mediche è stata caratterizzata una serie di cristalli
scintillatori LYSO (detector per la PET). Questo lavoro ha permesso di chiarire la
microstruttura e legare la produzione di luce alle caratteristiche strutturali di tali cristalli.
Nel campo delle leghe metalliche leggere per impieghi aereonautici, è stata affrontata la
caratterizzazione strutturale della lega AZ31B saldata per Friction Stir Welding (FSW) e
della lega di allumino 2219, sottoposta ad Equal Channel Angular Pressing (ECAP).
This Ph.D. Thesis is about the application of electron microscopy and X-ray diffraction to
several classes of materials.
Three different macro areas have been addressed to: materials for solid state hydrogen
storage (thin films and composites), materials for biomedical use (biomaterials and
detectors) and light metal alloys.
In the first thematic area, thin films of pure Mg and Mg doped with 5at.% Nb and
composite samples of particles of Pd and silicon, have all been subjected to cycles of
absorption/desorption of hydrogen. The characterization showed that Nb in thin films forms
clusters, creating percolative paths that speed up the reaction with H2. The composites
showed a behavior with hydrogen which makes them materials having their own scientific
identity, opening new application perspectives .
In the field of biomaterials a Co-Cr-Mo alloy produced via Direct Metal Laser Sintering
(DMLS) has been characterized, in order to optimize the production parameters and clarify
the phenomena occurring in the microstructure during production. The results showed that
the laser induces, in the powder, a martensitic athermal transformation from the γ (fcc)
phase to the ε phase (hcp), producing an intricate network of ε lamellae in the γ phase. This
is the first time ever that this phenomenon was observed in similar conditions.
In the field of detectors for medical applications a series of LYSO crystal scintillators
(detectors for PET) has been characterized. This work allowed to clarify the microstructure
and to correlate the light yield properties to the microstructure of the crystals.
In the field of light metal alloys for aeronautical applications, the research was focused on
the structural characterization of the AZ31B alloy welded with Friction Stir Welding
(FSW) and on the aluminum alloy 2219 subjected to Equal Channel Angular Pressing
(ECAP).
Ringraziamenti
Desidero ringraziare tutto il personale del Dipartimento di Scienze e Ingegneria della
Materia, dell’Ambiente ed Urbanistica (SIMAU) e soprattutto i Docenti ed i tecnici con cui
ho avuto il piacere e l’onore di lavorare a stretto contatto: il Prof. Giuseppe Majni, il Dott.
Ing. Adriano Di Cristoforo, il Dott. Gianni Barucca, il Dott. Luigi Gobbi, la Dott.ssa Liana
Lucchetti, il Dott. Daniele Rinaldi.
Nell’ambito del lavoro sull’immagazzinamento dell’idrogeno allo stato solido,
ringrazio calorosamente il Dott. Riccardo Checchetto ed il Prof. Antonio Miotello
dell’Università degli Studi di Trento, per la collaborazione e per il tempo prezioso che mi
hanno dedicato durante lo stage presso il loro laboratorio, oltreché al Dott. Gianfranco
Carotenuto (CNR-IMCB, Napoli) per la preparazione dei campioni compositi.
Ringrazio il Prof. Franco Rustichelli e la Dott.ssa Emmanuelle Girardin (DISCO,
Università Politecnica delle Marche), il Prof. Andrea Gatto e tutto il Suo gruppo di lavoro
dell’Università di Modena e Reggio Emilia, la Prof. Aleksandra Czyrska-Filemonowicz
(AGH University of Technology, Cracovia, PL) e la Dott.ssa Etiennette Auffray (CERN,
Ginevra, CH) per le fruttuose collaborazioni nel campo dei materiali per uso biomedico.
Un ringraziamento và anche al Prof. Marcello Cabibbo (DIISM, Università Politecnica
delle Marche) per la collaborazione nel campo delle leghe metalliche leggere.
Desidero, infine, ringraziare tutti i Componenti dei Gruppi che hanno contribuito alle
ricerche sviluppate in questa Tesi di Dottorato.
Indice
Introduzione Generale............................................................................................ 1
Capitolo 1: Tecniche di caratterizzazione............................................................. 2
1.1 Raggi X ........................................................................................................... 2
1.1.1 La natura dei raggi X ............................................................................... 2
1.1.2 Produzione di raggi X ed interazione con la materia ............................... 4
1.1.3 Scattering dei raggi X .............................................................................. 7
Scattering da elettroni .................................................................... 9
Scattering da atomi………………………………………………12
1.1.4 Scattering da cristalli: la Legge di Bragg.................................... 15
1.1.5 Assorbimento dei raggi X ...................................................................... 22
1.1.6 Il diffrattometro a raggi X ...................................................................... 25
1.2 Microscopia Elettronica ................................................................................ 27
1.2.1 Interazione elettroni – materia ............................................................... 28
1.2.2 Il Microscopio Elettronico a Scansione ................................................ 34
1.2.3 Segnali e rivelatori nel SEM .................................................................. 43
Elettroni secondari……………………………………………….43
Elettroni retrodiffusi……………………………………………..47
1.2.4 Il Microscopio Elettronico a Trasmissione……………………………51
Aberrazioni sferiche……………………………………………..56
Aberrazioni cromatiche………………………………………….58
1.2.5 Modalità di funzionamento del TEM..................................................... 59
Dark field e bright field………………………………………….59
Diffrazione di area selezionata (SAD)…………………………..62
Convergent-Beam Electron Diffraction (CBED)………………..65
High resolution TEM (HRTEM)……………..…………………..66
1.3 Spettroscopia a Dispersione di Energia (EDS) ............................................. 68
1.3.1 La radiazione X continua (Bremsstrahlung) .......................................... 68
1.3.2 La radiazione X caratteristica ................................................................ 71
1.3.3 Rivelatori per la microanalisi EDS ........................................................ 73
Wavelenght Dispersive Spectrometer (WDS)…………………..73
Energy Dispersive X-ray Spectrometer (EDS)………………...74
Bibliografia Capitolo 1 ....................................................................................... 77
Capitolo 2: Materiali per immagazzinamento dell’idrogeno allo stato solido. 78
2.1 Introduzione .................................................................................................. 78
2.2 Film sottili ..................................................................................................... 81
2.2.1 Deposizione ........................................................................................... 81
2.2.2 Interazione con l’idrogeno: cinetiche di reazione .................................. 82
2.2.3 Caratterizzazione strutturale .................................................................. 85
Misure XRD…………………………………………………….85
Osservazioni SEM………………………………………………90
Osservazioni TEM..……………………………………………..93
2.2.4 Discussione ............................................................................................ 97
2.3 Compositi .................................................................................................... 100
2.3.1 Descrizione dei campioni e delle misure ............................................. 101
2.3.2 Interazione con l’idrogeno: apparato di misura e risultati ................... 102
2.3.3 Caratterizzazione strutturale ................................................................ 108
Osservazioni SEM....…………………………………………..108
Misure XRD…………………………………………………...110
2.3.4 Discussione .......................................................................................... 111
2.4 Conclusioni ................................................................................................. 113
Bibliografia Capitolo 2 ..................................................................................... 115
Capitolo 3: Materiali per uso biomedico .......................................................... 119
3.1 Introduzione ................................................................................................ 119
3.2 Biomateriali metallici.................................................................................. 119
3.2.1 La Prototipazione Rapida..................................................................... 123
3.2.2 Caratterizzazione della lega Co-Cr-Mo prodotta via DMLS ............... 125
Preparazione dei campioni……………………………...126
Caratterizzazione microstrutturale………………………128
3.2.3 Discussione .......................................................................................... 132
3.2.4 Conclusioni .......................................................................................... 134
3.3 Rivelatori per applicazioni mediche ........................................................... 135
3.3.1 Teoria dei rivelatori ............................................................................. 138
3.3.2 Rivelatori a scintillazione .................................................................... 143
3.3.3 I cristalli scintillatori LYSO:Ce ........................................................... 151
3.3.4 Risultati della caratterizzazione di cristalli LYSO:Ce ......................... 154
Caratterizzazione meccanica e resa di luce………..…….154
Caratterizzazione microstrutturale……………………….156
3.3.5 Discussione .......................................................................................... 162
3.3.6 Conclusioni .......................................................................................... 163
Bibliografia Capitolo 3 ..................................................................................... 164
Capitolo 4: Leghe metalliche leggere ................................................................ 170
4.1 Leghe metalliche leggere di Al e Mg .......................................................... 170
4.1.1 Lega di Mg AZ31B saldata per Friction Stir Welding (FSW) ............. 170
4.1.2 Conclusioni .......................................................................................... 176
4.2 Lega di alluminio 2219 sottoposta ad Equal Channel Angular Pressing
(ECAP) ....................................................................................................... 176
4.2.1 Caratterizzazione microstrutturale della lega AA2219 sottoposta ad
ECAP: risultati .............................................................................................. 177
4.2.2 Discussione .......................................................................................... 186
4.2.3 Conclusioni .......................................................................................... 189
Bibliografia Capitolo 4 ..................................................................................... 190
Conclusioni Generali .......................................................................................... 195
Bibliografia Conclusioni Generali .................................................................... 196
Introduzione Generale
La presente Tesi di Dottorato in Ingegneria dei Materiali, delle Acque e dei Terreni (12°
Ciclo) illustra e documenta il lavoro svolto dall’Ing. Eleonora Santecchia presso il
Dipartimento di Scienze e Ingegneria della Materia, dell’Ambiente ed Urbanistica
(SIMAU), Università Politecnica delle Marche.
Per questo lavoro sono state utilizzate tecniche di caratterizzazione microstrutturale
(microscopia elettronica e diffrazione di raggi X) applicate a materiali nanostrutturati di
varia natura. Questo studio ha permesso alla candidata di acquisire una elevata competenza
su strumenti quali:
 Diffrattometro a raggi X (XRD) Bruker D8 Advance.
 Microscopio elettronico a scansione (SEM) Philips XL20.
 Microscopio elettronico a scansione a emissione di campo (SEMFEG) Zeiss Supra 40.
 Microanalisi a dispersione di energia (EDS) Bruker 200-Z10.
 Microanalisi a dispersione di energia (EDS) Edax Phoenix.
Le tecniche di caratterizzazione sono ampiamente spiegate nel Capitolo 1. Nei capitoli
successivi vengono illustrate le diverse tematiche affrontate nei tre anni ed i principiali
risultati ottenuti con l’applicazione delle tecniche di caratterizzazione strutturale.
Le tematiche affrontate sono state le seguenti:
 Materiali per l’immagazzinamento dell’idrogeno allo stato solido, Capitolo 2.
 Materiali per uso biomedico (biomateriali e detector), Capitolo 3.
 Leghe metalliche leggere, Capitolo 4.
Infine, nelle Conclusioni Generali viene brevemente riassunto il lavoro svolto,
puntualizzando le determinanti collaborazioni esterne ed i risultati ottenuti in termini di
Produzione Scientifica.
1
Capitolo 1
Tecniche di caratterizzazione
1.1 Raggi X
I raggi X sono stati scoperti da Wilhelm Conrad Röntgen nel 1895. Da quel momento sono
divenuti una prova indiscutibile della struttura della materia. I raggi X hanno energie
comprese tra 100 eV a 10 MeV e lunghezze d’onda tra 10 e 10-3 nm; sono classificati come
onde elettromagnetiche che differiscono da onde radio, luce e raggi gamma soltanto per
lunghezza d’onda ed energia.
Un fascio di raggi X è un'onda elettromagnetica caratterizzata da un campo elettrico
vibrante a frequenza costante, perpendicolare alla direzione di propagazione. Questa
variazione del campo elettrico conferisce agli elettroni (particelle cariche) una variazione
sinusoidale nel tempo alla stessa frequenza. Il risultato di questa accelerazione e
decelerazione periodica dell'elettrone è la generazione di una nuova onda elettromagnetica,
ovvero di raggi X. In questo senso, i raggi X vengono diffusi (o scatterati) dai singoli
elettroni. Questo fenomeno è chiamato scattering Thomson. D'altra parte, il fenomeno
fisico denominato "diffrazione in funzione della posizione atomica " si riscontra anche
quando un fascio di raggi X incontra un cristallo la cui disposizione atomica mostra
periodicità a lungo raggio. L'intensità diffratta dei raggi X dipende non solo dalla
disposizione atomica, ma anche dalla tipologia di specie atomica. Quando si considera la
diffrazione di raggi X da un cristallo, sono necessarie informazioni riguardo i “fattori di
scattering atomico" che forniscono una misura della capacità di dispersione di raggi X per
ogni atomo. Poiché il nucleo di un atomo è relativamente pesante se confrontato con un
fotone X, questo non diffonde raggi X. La capacità di diffusione di un atomo dipende,
infatti, solo dal numero e dalla distribuzione degli elettroni [1].
1.1.1 La natura dei raggi X
I raggi sono onde elettromagnetiche con lunghezze d’onda nella regione dell’Ångström
(10−10 m).
Nella maggior parte delle situazioni risulta interessante un fascio di raggi X
monocromatico, come raffigurato in Fig. 1.1.
2
Fig. 1.1 Tre rappresentazioni di un’onda elettromagnetica piana; è mostrato solo il campo elettrico. In
alto: variazione spaziale, descritta dalla lunghezza d’onda λ o dal numero d’onda k, in un determinato
istante nel tempo. Centro: variazione temporale, descritta dal periodo T o dalla frequenza ciclica ω, in
un determinato punto dello spazio. In basso: vista dall’alto di una onda piana in cui solo le creste
d’onda sono indicate dalle linee nere, e la direzione di propagazione è data dalle frecce. La sfumatura
indica la variazione spaziale dell’ampiezza del campo [2].
La direzione del fascio è presa lungo l’asse z, perpendicolare al campo elettrico E ed al
campo magnetico H; per semplicità iniziamo considerando solo il campo elettrico e
trascuriamo l’effetto del campo magnetico. La parte alta di Fig. 1.1 mostra, in un
determinato istante nel tempo, la dipendenza spaziale del campo elettromagnetico che è
caratterizzata da λ, o allo stesso modo, dal numero d’onda k=2π/λ. A livello matematico
l’ampiezza del campo elettrico è espressa come un’onda sinusoidale, sia nella sua forma
reale E0sin(kz), sia in quella complessa E0eikz.
Nella parte bassa di Fig. 1.1 si può osservare una illustrazione alternativa di una onda piana
monocromatica; vengono mostrate solo le creste dell’onda (linee piene perpendicolari
all’asse z), per enfatizzare che si tratta di un’onda piana con un campo elettrico che è
costante ovunque nel piano perpendicolare all’asse z. Sebbene un fascio non sia mai
idealmente collimato, l’approssimazione con una onda piana è ritenuta comunque valida.
La variazione spaziale e temporale dell’onda piana che si propaga lungo l’asse z può essere
espressa in una singola espressione, E0ei(kz−ωt). Più in generale, nelle tre dimensioni la
3
polarizzazione del campo elettrico può essere scritta come un singolo vettore ε, ed il vettore
d’onda come k, così da ottenere l’espressione seguente (Eq. 1.1):
E(r,t) = εE0ei(k·r-ωt)
(1.1)
Dato che le onde elettromagnetiche sono trasversali si ottiene che il prodotto vettoriale tra
numero d’onda e campo elettrico è uguale al prodotto con il campo magnetico, ovvero pari
a zero (Fig. 1.2).
Fig. 1.2. Un raggio X è un’onda elettromagnetica trasversale, in cui il campo elettrico ed il campo
magnetico sono perpendicolari l’uno rispetto all’altro e alla direzione di propagazione k. La direzione
del campo elettrico è data dal vettore unitario di polarizzazione ε [2].
Quella appena esposta è la classica descrizione di un’onda elettromagnetica piana
linearmente polarizzata. Da un punto di vista quantistico, un fascio monocromatico è visto
come quantizzato in fotoni, ciascuno avente una sua energia (ħω) ed un suo momento (ħk).
L’intensità del fascio è data quindi dal numero di fotoni che passano attraverso una
determinata area per unità di tempo. Dato che l’intensità è proporzionale al quadrato del
campo elettrico, ne consegue che anche l’ampiezza del campo risulta quantizzata [2].
1.1.2 Produzione di raggi X ed interazione con la materia
Lo spettro dei raggi X generato da un tubo di raggi X consiste, in generale, di diversi picchi
intensi, le cosiddette linee spettrali caratteristiche, sovrapposte ad una curva di fondo,
4
conosciuta come radiazione bianca. La parte continua dello spettro è generata da elettroni
che decelerano rapidamente ed imprevedibilmente, alcuni istantaneamente, altri
gradualmente, e la distribuzione delle lunghezze d’onda dipende dalla tensione di
accelerazione. La radiazione bianca, conosciuta anche come bremmstrahlung (termine
tedesco per “radiazione di frenamento”), è altamente indesiderata nella analisi di
diffrazione di raggi X.
Mentre è difficile stabilire l’esatta distribuzione delle lunghezze d’onda nello spettro bianco
analiticamente, è possibile stabilire la più piccola lunghezza d’onda che appare nello spettro
continuo, in funzione della tensione di accelerazione. I fotoni con energia più elevata
(ovvero i raggi con lunghezza d’onda più corta), sono emessi da elettroni che vengono
fermati istantaneamente dal target. In questo caso, l’elettrone può trasferire tutta la sua
energia cinetica:
mv2
 eV
2
(1.2)
ad un fotone con energia:
 
c

(1.3)
Dove m è la massa a riposo, v è la velocità, e è la carica dell’elettrone (1.602×10-19 C), V è
la tensione di accelerazione, c è la velocità della luce nel vuoto (2.998×10 8 m/s), ħ è la
costante di Planck (6.626×10-34 J s), υ è la frequenza e λ è la lunghezza d’onda dell’onda
associata all’energia del fotone.
Combinando le due equazioni e risolvendo rispetto a λ, è facile ottenere l’equazione che
lega la più corta lunghezza d’onda possibile (λSW in Å) e la tensione di accelerazione (in
V).
SW 
1.240 104
Å
V
(1.4)
Osservando la Fig. 1.3 si vedono tre linee caratteristiche abbastanza intense, che risultano
dalle transizioni di elettroni in livelli più alti del core dell’atomo, a vacanze in livelli a più
bassa energia, da cui un elettrone è stato espulso dall’impatto con un elettrone accelerato
nel tubo dei raggi X.
5
Fig. 1.3 Tipico spettro di emissione di raggi X, in cui è indicato il background continuo e le tre
lunghezze d’onda caratteristiche: Kα1, Kα2, Kβ che hanno alta intensità. La freccia verticale indica la
lunghezza d’onda più corta possibile (λSW), come determinato dalla Eq. 1.4 [3].
Le differenze di energia tra diversi livelli in un atomo sono specifiche di ogni elemento,
quindi ciascun elemento chimico emette raggi X con una costante, o meglio, caratteristica,
distribuzione di lunghezze d’onda che appaiono grazie all’eccitazione degli elettroni del
core dell’atomo, bombardati dagli elettroni ad alta energia del target [3]. Ovviamente,
prima che gli elettroni del core possano essere eccitati dai loro livelli a minore energia, gli
elettroni bombardanti devono avere una energia che sia uguale o superiore alla differenza di
energia tra i due livelli di energia più vicini del materiale target. Le transizioni dalle shell L
ed M alla shell K, cioè L → M e M → K, sono indicate come radiazione Kα e Kβ,
rispettivamente. La K corrisponde alla shell con numero quantistico principale n = 1, L a n
= 2 e M a n = 3. La componente Kα consiste di due caratteristiche lunghezze d’onda
nominate Kα1 e Kα2 che corrispondono alle transizioni 2p1/2 → 1s1/2 e 2p3/2 → 1s1/2,
rispettivamente, dove s e p si riferiscono ai corrispondenti orbitali. I pedici 1/2 e 3/2
corrispondo al numero di momento angolare quantico, j. Anche la componente Kβ si
compone di diverse linee spettrali discrete, di cui le più intense sono Kβ 1 e Kβ3, che sono
così vicine tra loro da risultare praticamente indistinguibili nello spettro dei raggi X della
maggior parte dei materiali usati come anodo [3].
I raggi X vengono prodotti quando elettroni ad alta velocità incidono sulla materia. I
fenomeni che risultano dalla decelerazione di questi elettroni sono molto complessi ed i
raggi X sono, in generale, il risultato di due tipi di interazioni degli elettroni con gli atomi
del materiale target. Un elettrone ad alta velocità può colpire e spostare un elettrone
fortemente legato all’interno dell’atomo vicino al nucleo, producendo quindi la
ionizzazione dell’atomo. Quando una determinata shell interna di un atomo viene ionizzata
in questo modo, un elettrone di una shell esterna può cadere nel posto vacante: il risultato di
6
questo è l’emissione di un raggio X caratteristico dell’atomo coinvolto. Questa produzione
di raggi X è un processo quantistico, simile all’origine dello spettro ottico Le basi
fondamentali di questa teoria sono state sviluppate originariamente da Kossel [4] sulla base
della teoria atomica di Bohr [5] e sulla misura dello spettro dei raggi X di Moseley [6].
Un elettrone ad alta velocità può essere rallentato anche da un altro processo. Invece di
collidere con un elettrone di una shell interna dell’atomo del materiale target, può
semplicemente essere decelerato a causa del passaggio attraverso un forte campo elettrico
vicino al nucleo dell’atomo. Anche questo fenomeno è un processo quantistico, e la
diminuzione di energia ΔE di un elettrone si manifesta con un fotone X di frequenza υ,
come espresso dall’equazione di Einstein:
ħυ=ΔE
(1.5)
dove ħ è la costante di Planck. La radiazione X prodotta in questa maniera è indipendente
dalla natura degli atomi bombardati ed appare come una banda con lunghezza d’onda che
varia continuamente ed il cui limite inferiore è funzione dell’energia massima degli
elettroni incidenti [7].
Quando i raggi X interagiscono con una sostanza si osserva la concomitanza di molti
effetti, tra cui i principali che prenderemo in considerazione sono:
 Scattering coerente, che produce fasci con la stessa lunghezza d’onda di quello
incidente (primario). L’energia dei fotoni rimane invariata se paragonata a quella
del fascio primario.
 Scattering incoerente (effetto Compton), in cui la lunghezza d’onda del fascio
scatterato è maggiore di quella del fascio incidente, grazie alla perdita di energia
del fotone nella collisione con il nucleo dell’elettrone.
 Assorbimento dei raggi X, in cui alcuni fotoni sono dissipati in direzioni random a
causa dello scattering ed alcuni perdono la loro energia a causa della ionizzazione
o dell’effetto fotoelettrico.
1.1.3 Scattering dei raggi X
E’ ben noto che quando un’onda interagisce con un punto oggetto, viene diffusa
(scatterata); il risultato di questa interazione è una nuova onda che si propaga in tutte le
direzioni. Se non c’è perdita di energia, l’onda risultante avrà stessa frequenza di quella
incidente (primaria) e avrà luogo lo scattering elastico. Nelle tre dimensioni, l’onda
elasticamente diffusa è sferica ed ha punto di origine coincidente con l’oggetto (Fig.1.4).
7
Fig. 1.4 Illustrazione dell’onda sferica prodotta dallo scattering elastico dell’onda incidente in un
punto [3].
Quando l’onda interagisce con due o più punti, questi producono tutti onde sferiche con
stessa λ, le quali interferiscono le une con le altre sommando le loro ampiezze. Se due onde
sono scatterate con vettori di propagazione paralleli si dicono completamente in fase e
l’onda risultante avrà ampiezza doppia; se, invece, le due onde sono del tutto non in fase, si
estingueranno l’una con l’altra (Fig. 1.5). Il primo caso di interazione prende il nome di
interferenza costruttiva, mentre il secondo di interferenza distruttiva. Quando l’interferenza
costruttiva ha luogo nel caso di array periodici di punti, accresce l’ampiezza dell’onda
risultante di diversi ordini di grandezza: questo fenomeno è alla base della teoria della
diffrazione.
Fig. 1.5 I due casi limite dell’interazione tra onde con vettori di propagazione paralleli (k):
l’interferenza costruttiva di due onde in fase ha come risultato una nuova onda con ampiezza d’onda
doppia (in alto), e l’interferenza distruttiva di due onde del tutto non in fase ha come risultato un’onda
con ampiezza zero, le onde si estinguono l’una con l’altra (in basso) [3].
8
La diffrazione si osserva solo quando la lunghezza d’onda è dello stesso ordine di
grandezza della distanza ripetitiva tra gli oggetti scatteranti (diffusivi). Quindi, nei cristalli
la lunghezza d’onda dovrebbe essere nello stesso range della più piccola distanza
interatomica che è compresa tra ~0.5 e ~2.5 Å. Questa condizione è soddisfatta quando si
utilizza una radiazione elettromagnetica del tipo dei raggi X. È importante notare che i
raggi X vengono scatterai dagli elettroni, quindi i centri attivi di scattering non sono i nuclei
ma gli elettroni stessi, o più precisamente la densità elettronica periodicamente distribuita
nel reticolo cristallino.
Scattering da elettroni
L’origine di un’onda elettromagnetica elasticamente scatterata da un elettrone può essere
ben compresa ricordando che l’elettrone è una particella carica. Quindi, il campo elettrico
oscillante dell’onda incidente esercita una forza sulla carica elettrica (elettrone), forzando
l’elettrone ad oscillare con la stessa frequenza della componente del campo elettrico
dell’onda elettromagnetica. L’elettrone oscillante accelera e decelera a seconda delle
variazioni di ampiezza del vettore campo elettrico, ed emette una radiazione
elettromagnetica che viene diffusa in tutte le direzioni. In questo senso, il fascio di raggi X
elasticamente scatterato è semplicemente irradiato dall’elettrone oscillante ed ha stessa
frequenza e lunghezza d’onda dell’onda incidente: come già accennato in precedenza,
questo tipo di diffusione è detto “scattering coerente”.
Anche se i raggi X vengono diffusi in tutte le direzioni da un elettrone, l’intensità del fascio
scatterato dipende dall’angolo di scattering. Tale dipendenza fu dimostrata da Thomson nel
1906 [8] come spiegato più avanti. Consideriamo che un fascio di raggi X viaggi lungo
l’asse x ed interagisca con un elettrone di carica e (C) e massa m (kg) posizionato
nell’origine O, l’intensità I dei raggi X scatterati nella posizione P del piano x-z a distanza r
(m) dall’origine può essere espressa secondo l’equazione di Thomson, (Eq. 1.5):
2
4
K  1  cos 2 2 
 0   e  2

I  I0 
  2 2  sin   I 0 2 
r 
2
 4   m r 

(1.5)
dove I0 è l’intensità del fascio incidente, µ0 = 4π × 10-7 m kg C-1, K è uguale al quadrato del
raggio elettronico re della teoria elettromagnetica classica, re = (2,8179 × 10-15)2 m2, e α è
l’angolo tra la direzione di scattering e la direzione di accelerazione dell’elettrone. In Fig.
1.6 (alto) si può osservare invece che 2θ rappresenta l’angolo tra la linea che congiunge i
punti O e P e la direzione del fascio incidente (asse x).
9
Fig. 1.6 Alto: Relazione tra le componenti del vettore elettrico nel punto O e le componenti di quello
della radiazione scatterato al punto di osservazione P [1]. Basso: Cinque punti equamente spaziati
producono cinque onde sferiche a causa dello scattering elastico di una singola onda incidente [3].
L’equazione di Thomson mostra chiaramente che l’intensità dei raggi X scatterati decresce
con l’inverso del quadrato della distanza dall’elettrone nell’origine, così come una funzione
dell’angolo di scattering. Il termine nell’ultima parentesi della Eq. 1.5 è chiamato “fattore
di polarizzazione”. Trovare il valore assoluto dell'intensità di scattering da un elettrone
usando la Eq. 1.5 è un compito arduo; tuttavia, nella maggior parte delle applicazioni sono
richiesti solo i valori relativi delle intensità dei raggi X scatterati e di quelli diffratti. Si può
presumere, inoltre, che tutti i termini che appaiono nella (1.5) possano essere considerati
costanti ad eccezione del fattore di polarizzazione [1].
Quando più di un punto (elettrone), viene interessato dalla stessa onda incidente,
l’ampiezza complessiva di scattering sarà il risultato dell’interferenza di tutte le onde
sferiche. Come esposto in precedenza, l’ampiezza varierà a seconda differenza di fase delle
onde multiple con vettori di propagazione paralleli, ma con punti di origine differenti
(Fig.1.6 basso).
10
Un modo alternativo di descrivere l’interazione dei raggi X con un elettrone libero si
ottiene considerando questi ultimi come un fascio di fotoni. Per semplicità consideriamo
che inizialmente l’elettrone sia libero e a riposo. In una collisione l’energia verrà trasferita
dal fotone all’elettrone, con il risultato che il fotone scatterato avrà energia inferiore a
quella del fotone incidente; questo fenomeno prende il nome di effetto Compton.
Storicamente questo effetto non risultava spiegabile con i concetti della teoria classica e
diede quindi maggiore supporto alla emergente teoria quantistica. La perdita di energia del
fotone può essere facilmente calcolata considerando la conservazione dell’energia e del
momento durante la collisione.
Fig. 1.7 Compton scattering: un fotone con energia Ɛ = ħck e momento ħk, scatterato da un elettrone
a riposo con energia mc2. L’elettrone viene sbalzato via con un momento ħq’ come indicato dal
triangolo di scattering [2].
Il risultato del calcolo è che la variazione della lunghezza d’onda è proporzionale alla
lunghezza dello scattering Compton:


 3.86  103 Å
mc
(1.6)
11
Scattering da atomi
Quando un fascio di raggi X incontra un atomo composto da un nucleo ed un certo numero
di elettroni, ciascun elettrone produce scattering coerente con intensità data dall’equazione
di Thomson. Dato che la massa del nucleo è molto più grande di quella dell’elettrone, il
fascio di raggi X non può far oscillare il nucleo in maniera apprezzabile. Quindi, quando si
considera l’effetto di scattering dei raggi X da un atomo, è necessario tenere in
considerazione soltanto lo scattering degli elettroni associati all’atomo. Questo risulta
evidente anche dalla Eq. 1.5 dato che il quadrato della massa della particella che diffonde
appare al denominatore.
L’ampiezza di scattering di un singolo atomo con numero atomico Z contenente Z elettroni,
è uguale a Z volte l’ampiezza di scattering di un elettrone nella direzione di propagazione.
Dato che proprio nella direzione di propagazione, l’angolo di scattering è zero (2θ = 0), le
fasi di tutti i raggi X scatterati dagli elettroni di un atomo saranno del tutto coincidenti e
quindi le ampiezze si andranno a sommare. Quando invece l’angolo di scattering ha valori
diversi da zero, si ha una variazione nella fase dei raggi X scatterati dagli elettroni di un
atomo. In altre parole, i raggi X scatterati da elettroni che si trovano, ad esempio, nei punti
A e B dello spazio, avranno fasi differenti perché si ha una differenza di cammino ottico
quando l’angolo di scattering è diverso da zero. Il risultato è che l’ampiezza di scattering di
un singolo atomo decresce all’aumentare dell’angolo θ. Inoltre, l’ampiezza di scattering
dipende anche dalla lunghezza d’onda del fascio incidente; infatti, agli stessi angoli di
scattering 2θ, minore è la lunghezza d’onda e maggiore diventa la differenza di fase.
Questo implica che l’ampiezza di scattering diventa relativamente piccola quando viene
utilizzata una lunghezza d’onda piccola.
Per determinare l’ampiezza di scattering di atomi contenenti più di due elettroni, è
necessario tenere presente che la carica degli elettroni non è posizionata in un punti fissi,
ma piuttosto è distribuita nello spazio come una nuvola. Consideriamo la funzione di
densità elettronica ρ (r) come funzione della distanza dal nucleo all’origine, e consideriamo
i vettori d‘onda s0 per il fascio incidente ed s per il fascio diffuso. Ad una distanza pari ad r,
il fascio scatterato genera una differenza di cammino ottico rispetto al fascio incidente pari
a (s-s0)·r; se la lunghezza d’onda dei raggi X primari è λ, allora l’ampiezza di scattering dei
raggi X irradiati è data dall’espressione seguente (Eq. 1.6):
 2i
s  s0   r  dV
 

 exp 
(1.6)
L’ampiezza dello scattering coerente da singolo elettrone può essere ottenuta integrando sul
volume occupato dall’elettrone; si può quindi definire il “fattore di scattering” per elettrone
(in unità elettroniche) come (Eq. 1.7):
12
 2i
s  s0   r dV
f e   exp 



(1.7)
Inoltre, la relazione che lega i due vettori d’onda s0 ed s è la seguente:
 q  q  2 sin 
q  s  s0

(1.8)
Il vettore q è chiamato “vettore d’onda” (anche detto “vettore di scattering”) ed è il vettore
necessario per ruotare la direzione del fascio incidente rispetto a quello scatterato di un
angolo pari a 2θ. Dato che la distribuzione di densità elettronica nelle shell più interne
dell’atomo ha una simmetria approssimabile a quella sferica, i fattori di scattering per atomi
che contengono più di due elettroni possono essere facilmente stimati. Ad esempio, se la
distribuzione di densità elettronica intorno al nucleo posto all’origine è data da ρ = ρ(r),
allora il fattore di scattering può essere ottenuto come:

f e   4r 2  (r )
0
sin 2qr
dr
2qr
(1.9)
L’ampiezza del fattore di scattering coerente per un atomo che include n elettroni è
calcolata dunque come la somma degli fe di tutti gli elettroni usando la seguente equazione:

f   f e, n    4r 2  j (r )
j
j
0
sin 2qr
dr
2qr
(1.10)
Questo valore di f viene solitamente chiamato “fattore di scattering atomico”, o anche
“fattore di forma”, in quanto dipende da come gli elettroni sono distribuiti intorno al
nucleo. La quantità f mostra l’efficacia o abilità di scattering coerente per atomo ed è
definita come il rapporto tra l’ampiezza dell’onda scatterata da un atomo e l’ampiezza di
quella scatterata da un elettrone nelle stesse condizioni.
L’equazione 1.10 implica che f sia una funzione di (sinθ/λ) per ogni atomo; calcoli teorici
ed approssimazioni come quelle di Hatree-Fermi e Fermi-Thomas-Dirac hanno permesso di
calcolare il fattore di scattering atomico per ogni elemento in funzione del valore (sinθ/λ),
di cui un esempio è riportato in Fig. 1.8 [9].
13
Fig. 1.8 Fattori di scattering atomico di Al, Fe, e Ag [9].
Arrivati a questo punto è importante ricordare che, come accennato in precedenza nel corso
di questo capitolo, quando un fascio di raggi X monocromatico incontra un atomo, hanno
luogo due processi di scattering, coerente ed incoerente, che sono simultanei ed interessano
tutte le direzioni.
L’intensità di scattering incoerente (Compton) per elementi leggeri (con piccolo numero
atomico) risulta aumentare al diminuire del numero atomico Z. Inoltre, quando la quantità
(sinθ/λ) aumenta lo fa anche l’intensità di scattering incoerente. Quindi, le intensità di
diffusione, non modificata (coerente) e modificata (incoerente), cambiano in maniera
opposta con Z e (sinθ/λ). Inoltre, la somma delle intensità di scattering coerente ed
incoerente è uguale alla classica intensità di scattering per l’elettrone singolo [1,3].
14
1.1.4 Scattering da cristalli: la Legge di Bragg
Quando un fascio di raggi X incide su un cristallo, le onde diffuse coerentemente dai vari
atomi, disposti ai nodi del reticolo cristallino tridimensionale, interferiscono tra loro: si
hanno dei massimi di interferenza soltanto nelle direzioni in cui le onde diffuse da tutti gli
atomi appartenenti ad uno stesso reticolo sono in concordanza di fase; supporremo, inoltre,
che la diffusione dei raggi X da parte dei vari atomi del reticolo sia coerente, cioè non
comporti variazione di lunghezza d’onda rispetto alla radiazione incidente (Fig. 1.9). Siano
A1 e A2 due atomi appartenenti ad uno stesso reticolo; il vettore r che li ha come estremi è
dato da
r  ua  vb  wc
(1.11)
dove a, b e c sono i vettori che individuano il reticolo primitivo di Bravais del cristallo, ed
u, v e w sono numeri interi qualsiasi, zero compreso. La direzione di incidenza del fascio
monocromatico di raggi X (lunghezza d’onda ) è indicata dal versore s0, mentre quella di
diffrazione dal versore s, come nella figura sottostante.
Fig. 1.9 Fascio incidente e fascio diffratto.
Nella direzione individuata da s si ha interferenza positiva quando la differenza di cammino
(A1N-A2M) tra il raggio I1A1D1 e quello I2A2D2 è uguale ad un numero intero di lunghezze
d’onda. E’ facile notare che tale differenza di cammino è esprimibile come
A1 N - A 2 M = r  s  r  s 0  n
(1.12)
da cui, ponendo S = s-s0, si ottiene:
r  S  n
(1.13)
Sostituendo la (1.11) nella (1.13) si ha:
15
 ua  vb  wc  S  n
(1.14)
da cui:
 S  S
 S
ua    vb    wc    n
   
 
(1.15)
Quindi, affinché nella direzione s i raggi diffusi da tutti gli atomi del reticolo siano in
concordanza di fase, l’equazione (4.4) deve essere valida per tutte le terne di numeri interi
(u,v,w), inclusa la terna (0,0,0). Ciò accade, evidentemente, se, e solo se, i tre termini tra
parentesi tonde sono a loro volta interi, cioè se, e solo se, valgono simultaneamente le
seguenti tre equazioni
a
S

b
c
S

S

h
k
l
(1.16)
con h, k, l numeri interi qualsiasi, zero compreso. Le precedenti tre equazioni sono note
come equazioni di Laue [10]. Se indichiamo con 1, 2, 3 gli angoli formati da a, b e c con
s0, cioè col versore della direzione di incidenza, e con 1, 2, 3 quelli formati con s, cioè
col versore della direzione di diffrazione, le equazioni di Laue si possono scrivere anche
nella forma:
a cos 1  cos  1   h
b cos  2  cos  2   k
c cos  3  cos  3   l
(1.17)
Queste equazioni debbono essere simultaneamente verificate affinché nella direzione
individuata dai tre angoli 1, 2, 3 si abbia un massimo di diffrazione, quando la radiazione
incide sul cristallo secondo la direzione individuata dai tre angoli 1, 2, 3 . E’ interessante
notare che le equazioni di Laue, che danno, come visto, le direzioni in cui si osservano i
raggi diffratti dal cristallo, dipendono solo dalle costanti reticolari a, b e c e non dal
contenuto della cella elementare. Dunque la geometria della diffrazione dipende solo dalla
metrica del reticolo, ovvero della cella elementare, e non dal suo contenuto. Con un
16
semplice riarrangiamento, le equazioni di Laue (1.17) possono essere riscritte nella forma
seguente:
a cos 1  cos 1 
h

bcos 2  cos  2 
k

ccos 3  cos 3 
l

(1.18)
I massimi di diffrazione si osservano, come detto in precedenza, in corrispondenza dei
valori di cos1, cos2 e cos3 (coseni direttori della direzione del raggio diffratto) che sono
soluzioni del precedente sistema, con h, k ed l numeri interi. E’ innanzitutto evidente che
questo sistema ammette sempre la soluzione banale i = i, per la quale i tre numeri interi
sono h=k=l=0 e che corrisponde, fisicamente, al passaggio della radiazione incidente
attraverso il cristallo senza deviazione (riflessione di ordine zero). E’ interessante trovare,
invece, le condizioni per cui le equazioni di Laue abbiano soluzioni non banali. E’ chiaro
che, scelto un cristallo (e quindi fissati a, b, c), orientato quest’ultimo in una certa direzione
rispetto al fascio incidente (e quindi fissati i tre coseni direttori cos 1, cos2, cos3) e
fissata una certa lunghezza d’onda, in generale non esisteranno soluzioni del sistema (1.18)
con h, k ed l tutti e tre nulli. Quindi, un cristallo fisso investito da raggi X monocromatici,
in generale non darà luogo a massimi di diffrazione dei raggi X. Per avere soluzioni del
precedente sistema si può operare fondamentalmente in due modi:
1) il cristallo è fatto muovere rispetto al fascio incidente monocromatico. In questo modo, i
coseni direttori del fascio incidente variano in modo continuo in opportuni intervalli e si
troveranno dei valori per i quali il sistema ammette soluzioni per h, k ed l interi; ciò
corrisponde, sperimentalmente ai metodi del cristallo ruotante o delle polveri;
2) il cristallo è fisso, ma si impiega una banda continua di lunghezze d’onda. All’interno di
tale banda esisterà un valore di lunghezza d’onda per il quale il sistema ammette una
soluzione; ciò corrisponde sperimentalmente al metodo di Laue.
Le equazioni di Laue, discusse in precedenza, consentono di determinare le direzioni nelle
quali si osservano i massimi di diffrazione prodotti da un cristallo, in termini di lunghezza
d’onda dei raggi X e di metrica del reticolo cristallino (geometria della diffrazione). Tali
equazioni possono essere espresse mediante una relazione più semplice, dovuta a Bragg,
che ha il vantaggio di ricondurre, formalmente, il fenomeno della diffrazione dei raggi X da
un cristallo a quello della riflessione di tali raggi da parte di piani reticolari del cristallo.
Riscriviamo le equazioni di Laue nella forma
a
b
c
 S  ;  S  ;  S  
h
k
l
(1.19)
17
Sottraendo la seconda equazione dalla prima e la terza dalla prima, si ottengono le seguenti
due equazioni:
a b
  S  0
h k 
a c
  S  0
h l 
(1.20)
che costituiscono un sistema equivalente a quello delle (1.19). Dalle (1.20) si deduce che il
vettore S è perpendicolare ai due vettori
a b a c
  e   
h k  h l 
(1.21)
Consideriamo ora il piano reticolare di indici di Miller hkl (fig. 10), riportato nella figura
sottostante. Per definizione, esso intersecherà l’asse a ad a/h, l’asse b a b/k e l’asse c a c/l.
Fig. 1.10 Rappresentazione dei vettori di Eq. 1.21 e del piano reticolare con indici di Miller hkl.
E’ facile vedere che i due vettori (1.21) giacciono entrambi nel piano reticolare hkl e che,
quindi, il vettore S è perpendicolare a tale piano.
D’altra parte, essendo S = s-s0, ed essendo i moduli di s e s0 uguali in quanto versori, si ha
che il vettore S biseca l’angolo formato dai due versori; essendo poi, come visto, S
perpendicolare al piano hkl, si ha che tale piano forma lo stesso angolo, , sia con s che con
s0. Poiché s0 rappresenta la direzione ed il verso dei raggi X incidenti ed s quella dei raggi
diffratti (Fig. 1.11), si ha che il piano hkl si comporta, formalmente, come un piano di
riflessione dei raggi X.
18
Fig.1.11 Composizione dei vettori incidente (s0) e diffratto (s).
Indichiamo ora con dhkl la spaziatura (spacing) dei piani reticolari della famiglia hkl, cioè la
distanza OD tra l’origine ed il piano hkl. E’ facile vedere che dhkl è la proiezione di a/h su
S, cioè:
d hkl 
a S

h S
(1.22)
E’ facile vedere che il modulo di S è uguale a:
S  2sin
(1.23)
Sostituendo nella (1.22) la (1.23) e la prima delle (1.19) si ha:
d hkl 
Ovvero:

2 sin
(1.24)
2d hkl sin  
(1.25)
che è l’equazione di Bragg [1-3,7].
Da questa relazione si deduce che, data una famiglia di piani reticolari, di indici di Miller
hkl, con spacing dhkl, si ha diffrazione dei raggi X, di lunghezza d’onda , solo per un ben
determinato valore dell’angolo θ formato dalla direzione del fascio incidente coi piani di
tale famiglia, un valore cioè tale da soddisfare la (1.25); la radiazione diffratta emerge
allora dal cristallo formando lo stesso angolo θ con la famiglia di piani e quindi è come se
venisse riflessa dai piani stessi. La ”riflessione” dei raggi X è dunque selettiva, a differenza
della riflessione vera e propria (ad esempio quella della luce visibile su uno specchio) che
19
avviene qualunque sia l’angolo di incidenza. L’analogia formale tra diffrazione dei raggi X
dai cristalli e riflessione da parte dei piani reticolari messa in luce dalla legge di Bragg ha
portato all’introduzione in cristallografia di una terminologia particolare. Così, ad esempio,
i massimi di diffrazione prodotti da un cristallo vengono comunemente chiamati riflessi o
riflessioni.
Una dimostrazione più elementare della legge di Bragg si può ricavare (indipendentemente
dalle equazioni di Laue) ipotizzando che i piani reticolari riflettano i raggi X. Si abbia un
fascio di raggi X paralleli e monocromatici, che incide secondo con un angolo θ sui piani
della famiglia hkl, il cui spacing è dhkl, (Fig. 1.12). Affinché nella direzione di riflessione
AR1, formante un angolo θ con i piani (hkl) si abbia interferenza costruttiva, la differenza di
cammino tra il raggio I1AR1 e quello I2BR2, che vale (BN+BN’), deve essere uguale ad un
numero intero n di lunghezze d’onda. Semplici calcoli trigonometrici portano alla
relazione:
2d hkl sin   n
(1.26)
che è appunto l’equazione di Bragg. In particolare, da questa espressione, si vede che
l’ordine di diffrazione n-esimo dalla famiglia di piani (hkl) può essere considerato anche
come primo ordine di diffrazione da parte della famiglia di piani (nh nk nl), il cui spacing è,
evidentemente, (dhkl/n). Dalla equazione di Bragg si ricava quanto segue:
sin   1


2d hkl
 1 ovvero d hkl 

2
(1.27)
cioè, per una data lunghezza d’onda, non tutti i piani reticolari potranno ”riflettere” i raggi
X, ma solo quelli il cui spacing soddisfa la precedente relazione. Cambiando la lunghezza
d’onda è possibile variare la soglia minima di spacing per le famiglie di piani che possono
dare riflessione.
Fig. 1.12 Interazione di fasci incidenti con piani reticolari posti a distanza d hkl.
20
In sostanza, nel formalismo della legge di Bragg, ogni riflessione (massimo di diffrazione)
può essere messa in relazione con la famiglia di piani reticolari (h k l) che l’ha prodotta. Gli
spacing dhkl delle varie famiglie di piani reticolari possono essere espressi in funzione delle
costanti reticolari (a, b, c, , , ) e dei numeri interi relativi h, k ed l attraverso formule già
riportate in precedenza.
L’attribuzione di ogni riflessione alla corrispondente famiglia di piani reticolari che l’ha
prodotta, ovvero, il che è lo stesso, l’attribuzione dei tre numeri h, k ed l ad ogni riflessione
prende il nome di indicizzazione del riflesso ed è uno stadio molto importante nell’analisi
strutturale di un cristallo. In effetti, gli spacing d hkl delle varie riflessioni osservate vengono
misurati sperimentalmente, senza nessuna conoscenza della metrica e della simmetria del
reticolo cristallino. Se, tuttavia, le varie riflessioni vengono indicizzate, allora è possibile
risalire, dalle formule richiamate precedentemente, alle costanti reticolari e quindi alla cella
elementare del cristallo. La procedura di indicizzazione dei riflessi è pressoché immediata
quando l’analisi strutturale è eseguita su cristalli singoli (metodo di Weissenberg o di
precessione). In questo caso, infatti, è possibile risalire agli indici di ogni riflesso in modo
diretto; è già più complessa quando si lavora su fotogrammi di cristallo singolo oscillante o
di fibra, nel qual caso è possibile ricavare direttamente dal fotogramma, per ogni
riflessione, solo uno dei tre indici, e diventa molto complessa quando si lavora su spettri di
diffrazione da polveri, nei quali non si dispone, a priori, di nessuna informazione sugli
indici delle riflessioni [1-3,7].
21
1.1.5 Assorbimento dei raggi X
L’assorbimento dei raggi X genera una serie di fenomeni ben rappresentati in Fig. 1.13.
Fig. 1.13 Schematico diagramma con i livelli energetici dell’atomo. Per chiarezza sono state indicate
solo le tre shell più interne dell’atomo. a) Processo di assorbimento fotoelettrico, b) Emissione di
fluorescenza X, c) Emissione di un elettrone Auger [2].
Quando un fotone X viene assorbito da un atomo, l’eccesso di energia viene trasferito ad un
elettrone che è espulso dall’atomo, che viene quindi ionizzato. Questo processo è
conosciuto come “assorbimento fotoelettrico”. Quantitativamente, l’assorbimento è dato dal
coefficiente di assorbimento lineare µ. Per definizione, la quantità µdz è l’attenuazione del
fascio di raggi X attraverso un foglio di spessore infinitesimo dz a distanza z dalla
superficie (Fig. 1.14).
22
Fig. 1.14 Attenuazione del fascio di raggi X dovuta al’assorbimento, durante il passaggio attraverso
un campione. L’attenuazione segue un decadimento esponenziale con una lunghezza di attenuazione
caratteristica lineare 1/µ, dove µ è il coefficiente di assorbimento [2].
L’intensità I(z) attraverso il campione deve quindi soddisfare la condizione:
 dI  I ( z)dz
(1.28)
dI
  dz
I ( z)
(1.29)
Che porta alla equazione differenziale:
Imponendo che l’intensità del fascio incidente in z=0 sia I(z=0)=I0, si ottiene la seguente
soluzione:
I ( z )  I 0e  z
(1.30)
Il fattore µ si può quindi determinare sperimentalmente come rapporto tra le intensità dei
fasci con e senza il campione. Il numero di eventi di assorbimento, W, nel foglio sottile è
proporzionale ad I e al numero di atomi per unità di area, ρatdz, dove ρat è la densità
atomica. Il fattore di proporzionalità è per definizione la sezione trasversale di
assorbimento, σa, così che:
W  I ( z)  at dz a  I ( z)dz
(1.31)
Il coefficiente di assorbimento risulta quindi legato a σa tramite la relazione seguente:
23
 m N A 
 a
 M 
   at a  
(1.32)
dove NA, ρm e M sono, rispettivamente, il numero di Avogadro, la densità di massa e la
massa molare. In un materiale composito, ciascun tipo di atomi con numero di densità ρat,j e
sezione di assorbimento σa,j, la probabilità di assorbimento in uno strato dz è ottenuta
sommando ρat,jσadz, la probabilità totale di assorbimento per un atomo di tipo j. Quindi il
coefficiente di assorbimento per un materiale composito è:
    at, j a , j
(1.33)
j
Quando un fotone X espelle un elettrone da una shell atomica interna, si crea una lacuna.
Consideriamo l’immagine in Fig. 1.13 in cui si illustra il caso di un elettrone eccitato della
shell K. La lacuna formatasi viene subito riempita da un elettrone delle shell più esterne, ad
esempio L, con la simultanea emissione di un fotone con energia pari alla differenza tra le
energie di legame degli elettroni K ed L. La radiazione emessa è conosciuta con il nome di
“fluorescenza X”. In alternativa, l’energia rilasciata da un elettrone che salta dalla shell L
alla lacuna della shell K può essere usata per espellere un altro elettrone da una delle shell
più esterne (Fig 1.13c). Questo elettrone secondario emesso è chiamato elettrone Auger, dal
nome del fisico francese che per primo scoprì questo fenomeno.
La natura monocromatica della fluorescenza X è una impronta unica del tipo di atomo che
ha prodotto la fluorescenza stessa. Moseley scoprì la seguente legge empirica:
 K [keV ]  1.017 102 (Z  1) 2
dove
(1.34)
 K è l’energia della linea Kα per un dato elemento e Z è il numero atomico. L’analisi
della radiazione di fluorescenza può essere utilizzata per le analisi chimiche non distruttive
ed ha il vantaggio di essere molto sensibile. La sezione trasversale di assorbimento
fotoelettrico varia con il numero atomico Z del materiale assorbente, approssimativamente
come Z4; questa variazione, e quindi questo contrasto, rende i raggi X una tecnica di
immagine molto utile, soprattutto nel caso della tomografia assiale computerizzata (TAC).
24
1.1.6 Il diffrattometro a raggi X
Un tipico diffrattometro a raggi X utilizzato nell’analisi dei materiali si compone dei
seguenti elementi essenziali:
 una sorgente di raggi X, solitamente un tubo di raggi X;
 un goniometro, che assicura precisi movimenti meccanici del tubo, del detector ed
eventualmente del campione;
 un detector;
 un apparato elettronico per conteggiare gli impulsi del rivelatore e sincronizzarli
con le posizioni del goniometro.
I tubi a raggi X convenzionali sono tubi di diodi in condizioni di vuoto, con un filamento a
cui è applicata una differenza di potenziale tipicamente a -40 kV. Gli elettroni vengono
emessi termoionicamente dal filamento e vengono accelerati nell’anodo, che è mantenuto a
potenziale di terra. Il voltaggio utilizzato e la corrente nel tubo di raggi X sono selezionati
tipicamente per ottimizzare l’emissione di radiazione caratteristica, dato che è una sorgente
di radiazione monocromatica. Per una particolare tensione di accelerazione, l’intensità di
tutte le radiazioni aumenta con la corrente di elettroni nel tubo. I raggi X caratteristici
vengono eccitati più efficientemente con una tensione di accelerazione, V, più elevata [11]:
I char  V  VC 
1.5
(1.35)
dove Vc è l’energia della radiazione caratteristica. D’altro canto, l’intensità di
bremsstrahlung aumenta approssimativamente con:
I brem  V 2 Z 2
(1.36)
Per massimizzare l’intensità della radiazione X caratteristica rispetto a quella continua si
imposta quanto segue:
d I char
d (V  VC )1.5

0
dV I brem dV
V2
(1.37)
V  4VC
(1.38)
Da cui si ottiene:
Tutto ciò indica quindi che il voltaggio ottimale per eccitare la radiazione X caratteristica è
circa 3.5-4 volte l’energia della radiazione X caratteristica. Il materiale più utilizzato per
25
l’anodo è il rame, che permette anche di beneficiare della sua elevata conduttività termica.
Tra tutte le possibili configurazioni in cui può lavorare un diffrattometro a raggi X, una
delle più interessanti, oltreché quella utilizzata in tutte le misure riportate in questa tesi, è la
geometria Bragg-Brentano. Questa geometria offre vantaggi di alta risoluzione e analisi con
fasci ad alta intensità, con il relativo svantaggio di richiedere un allineamento molto preciso
e campioni preparati con cura. Inoltre, questa geometria richiede che la distanza tra
sorgente e campione sia costante e pari alla distanza tra campione e rivelatore. Errori di
allineamento portano spesso a difficoltà di identificazione e quantificazione impropria delle
fasi. Planarità, rugosità, e posizionamento corretto del campione sono vincoli che
impediscono la misura del campione in linea. Inoltre, i sistemi XRD tradizionali sono
spesso basati su apparecchiature ingombranti con requisiti di elevata potenza nonché di
sorgenti ad alta potenza per aumentare il flusso di raggi X sul campione, aumentando i
segnali di diffrazione rilevati dal campione. La classica geometria Bragg-Brentano è
riportata in Fig. 1.15.
Fig. 1.15 Geometria di un diffrattometro Bragg-Brentano. I due angoli relativi al campione sono
identici (180°-2θ) [11].
In questo goniometro, sia il detector che il tubo si trovano sulla circonferenza del “cerchio
del goniometro”, che ha come centro il campione. La divergenza del fascio è indicata nella
figura dal percorso dei due raggi dal tubo al detector. Anche se i due raggi uscenti dal tubo
incidono con angoli differenti sulla superficie del campione, passando attraverso l’ultima
fenditura, formano lo stesso angolo, 180°-2θ, con il campione [11].
26
1.2 Microscopia Elettronica
La microscopia elettronica consente di ottenere informazioni su morfologia, struttura e
composizione locale dei materiali, attraverso l’analisi dell’interazione elettrone-materia. La
possibilità teorica e pratica di ottenere immagini ingrandite di oggetti microscopici
utilizzando come fonte di “illuminazione” particelle materiali cariche (elettroni) al posto di
fotoni, è nota sin dal 1932, ed il principio attraverso il quale un corpo dotato di massa si
può comportare come un’onda ed essere quindi utilizzato per la microscopia, si basa sulle
seguenti osservazioni:

l’identità tra il principio di Maupertuis, che regola il percorso di una particella in
un campo di forze, e quello di Fermat, che regola il percorso di un raggio luminoso
attraverso mezzi riflettenti e rifrangenti, ovvero “il principio di Fermat applicato
all’onda di fase è identico al principio di Maupertuis applicato all’oggetto in
movimento”

l  A, B 
p  dl  0    n  dl  0
l  A, B 
(1.39)
con p quantità di moto della particella ed n indice di rifrazione del mezzo;

la possibilità di realizzare campi elettrici e magnetici tali che il loro effetto su
particelle cariche equivalga a quello di una lente sui raggi luminosi;

il riconoscimento della natura ondulatoria dell’elettrone, esplicitata dall’equazione
di De Broglie (1924):

h
mv
(1.40)
con λ lunghezza d’onda associata alla particella, h costante di Planck e mv la quantità di
moto della particella. Per velocità relativistiche la formula diventa:

h

E
2m0 E 1 
 2 E0



(1.41)
27
Dove h è la costante di Planck, m0 la massa a riposo dell’elettrone, E ed E0 rispettivamente
energia cinetica (e x V, con e carica dell’elettrone e V potenziale di accelerazione) ed
energia dell’elettrone (m0c2).
Da queste teorie è derivata la possibilità di trattare un elettrone come un’onda, la cui
lunghezza d’onda è inversamente proporzionale alla velocità della particella. La risoluzione
spaziale di uno strumento ottico è la minima distanza tra due punti, tale che essi siano
distinguibili, ed è data dal criterio di Rayleigh:
d
0,61   
n  sin  
(1.42)
dove n è l’indice di rifrazione del mezzo, α la semi-apertura angolare del microscopio e λ la
lunghezza d’onda. Il potere risolutivo (risoluzione) di un microscopio elettronico risulta
migliore di quello di un microscopio ottico, in quanto la luce visibile ha una lunghezza
d’onda dell’ordine dei 600 nm (arrivando così ad una risoluzione massima di 150 nm),
mentre un elettrone può essere accelerato fino ad ottenere un potere risolutivo di 1 nm
(limitato soltanto dalle aberrazioni).
1.2.1 Interazione elettroni – materia
Quando gli elettroni vengono accelerati fino ad alte energie (alcune centinaia di keV) e
vengono focalizzati su un materiale, possono essere diffusi o retrodiffusi, elasticamente o
anelasticamente, e produrre diverse interazioni, sorgenti di differenti segnali come raggi X,
elettroni Auger o luce.
28
Fig. 1.16 Immagine riassuntiva di tutte le possibili interazioni tra elettrone e materia.
Il volume di interazione tra il fascio ed il campione è molto piccolo; il campione è infatti
molto sottile (10-200 nm) per essere trasparente agli elettroni.
Come illustrato in Fig. 1.16, quando un fascio di elettroni interagisce con la materia, si
possono avere diverse interazioni che producono diversi risultati, quali:
 Fascio di elettroni trasmesso: gli elettroni coerenti danno l’immagine o la
diffrazione. Per gli elettroni che hanno perso energia si applica la tecnica “Energy
Loss”, che analizza come gli e- abbiano perso energia interagendo con la materia.
Dagli elettroni incoerenti si ottengono informazioni sui legami chimici.
 Elettroni retrodiffusi (BSE): Si parla di retrodiffusione (backscattering) quando si
ha una variazione di direzione maggiore di 90°. Inoltre, l’elettrone possiede
un’energia che va da circa 50 eV fino a quella di incidenza e che varia a seconda
del numero di urti e dell’energia persa in ciascuno di essi (Fig. 1.17). Nel TEM gli
e- retrodiffusi sono molto pochi, perché poco è il volume di interazione.
 Elettroni secondari (SE): vengono generati nell’urto anelastico, oppure dagli
elettroni retrodiffusi, prima che emergano.
 Elettroni Auger (AE): l’emissione di elettroni Auger è un metodo di
stabilizzazione atomica, concorrenziale all’emissione di raggi X. Gli e - Auger sono
caratteristici dell’atomo e del legame chimico, infatti derivano dalle orbite esterne
29


e presentano l’energia caratteristica del loro livello atomico (corrispondente al
salto energetico ΔE).
Raggi X caratteristici: vengono impiegati per la microanalisi. Sono generati
quando un elettrone viene espulso dall’atomo: se tale e- è vicino al nucleo, la sua
espulsione rende l’atomo instabile. Questo porta l’atomo a richiamare e - dalle
orbite più esterne. Nel salto elettronico di stabilizzazione (caratteristico dell’atomo
stesso) viene quindi liberata energia sotto forma di raggi X.
Radiazione di Bremmstrahlung: raggi X non caratteristici, che possono avere
energia e λ qualsiasi, dovuti al “frenamento” degli elettroni. La radiazione di
“frenamento” viene emessa quando particelle cariche vengono accelerate e
generalmente si osserva quando il bersaglio è metallico.
Gli elettroni secondi, retrodiffusi e Auger, insieme ai raggi X, sono quelli captati dai
detector posti nel SEM.
Gli elettroni trasmessi sono quelli utilizzati dalla microscopia a trasmissione (TEM) e
possono essere diffusi elasticamente o anelasticamente.
Durante la diffusione elastica, l’elettrone urta elasticamente contro i nuclei degli atomi
bombardati e rimbalza con una variazione della direzione che non implica una apprezzabile
perdita di energia.
La profondità di penetrazione del campione, da parte del fascio di elettroni, è inversamente
proporzionale al numero atomico Z del campione stesso, infatti per Z elevati l’elettrone
colliderà più facilmente con i nuclei, con grande probabilità di essere retrodiffuso già nei
primi strati superficiali del materiale. Quindi per alti valori di Z gli elettroni hanno a
disposizione un libero cammino medio più elevato, tendendo a penetrare maggiormente e
ad essere maggiormente soggetti alla diffusione multipla.
Fig.1.17 Intensità degli elettroni generati in funzione dell’energia.
Quando si ha la diffusione anelastica, l’elettrone interagisce con il campo colombiano del
nucleo o con la nube che lo circonda in maniera anelastica, perdendo una gran quantità di
30
energia. Gli effetti di questa interazione possono essere vari, nel senso che se l’elettrone,
interagendo con un atomo in prossimità della superficie, collide con un altro elettrone
appartenente agli orbitali esterni, quest’ultimo può ricevere una energia tale (0-50 eV) da
svincolarlo dall’atomo e riuscire in superficie, prendendo il nome di elettrone secondario;
questi elettroni secondari vengono facilmente riassorbiti dalla materia, quindi riescono ad
emergere in superficie solo quelli generati a piccole profondità (10 nm). Quando un
elettrone degli orbitali più interni viene colpito da un elettrone primario (appartenente al
fascio incidente) si eccita saltando ad orbitali maggiori, oppure abbandona completamente
l’atomo. Quest’ultimo può essere reso nuovamente stabile con il ritorno dell’elettrone
eccitato, o di un altro elettrone più esterno, nell’orbita vacante, accompagnato
dall’emissione di un fotone X, oppure con l’emissione di un diverso elettrone, detto
elettrone Auger, eccitato a sua volta dalla radiazione X [11].
Quando gli elettroni del fascio penetrano nel campione, interagiscono come particelle
cariche negativamente con il campo elettrico degli atomi che costituiscono il campione. La
carica positiva dei protoni è concentrata nel nucleo, mentre la carica negativa degli elettroni
degli atomi è più dispersa nella struttura a livelli (shell). L’interazione fascio elettronicocampione può deflettere il fascio di elettroni lungo una nuova traiettoria, dando il fenomeno
di “scattering elastico”, in cui non si ha perdita di energia. Durante questo fenomeno, gli
elettroni vengono letteralmente diffusi all’indietro rispetto al punto in cui incide il fascio,
ma la loro energia resta sostanzialmente invariata; classico esempio di scattering elastico è
quello degli elettroni retrodiffusi.
L’interazione tra elettroni del fascio ed atomi del campione può anche avvenire in modo
anelastico; in questo caso l’interazione produce una forte diminuzione dell’energia degli
elettroni, mentre la loro traiettoria risulta quasi invariata. Gli elettroni secondari, la
radiazione di frenamento, la catodoluminescenza ed i raggi X caratteristici sono tutti esempi
di scattering anelastico. In Fig.1.18 è rappresentatala classica “pera di interazione” del
fascio di elettroni con il campione, da cui si deduce che gli elettroni Auger vengono
generati dalla zona in cui interagisce il fascio vicino alla superficie del campione ed hanno
bassissime energie. Poco sotto la superficie del campione, l’interazione con il fascio
elettronico genera l’emissione di elettroni secondari, mentre ancora più in profondità si ha
emissione di elettroni retrodiffusi e raggi X caratteristici: questo spiega perché questi due
ultimi segnali siano fortemente legati alla composizione stessa del campione.
31
Fig. 1.18 Penetrazione del fascio elettronico nel campione e relative zone di generazione dei segnali
(“pera di interazione”).
La profondità di penetrazione del fascio può essere determinata essenzialmente in due
modi:
 Bethe-Bloch: è utilizzato per lo più per fenomeni anelastici e rappresenta la
diminuzione di energia per unità di lunghezza del fascio di elettroni veloci, in funzione
della distanza percorsa all’interno della materia:

dEm
Z  1.166  Em
 2e 4 N 0
ln
dx
A Em
J
(1.43)
dove e è a carica dell’elettrone, ρ è la densità del materiale, Z il numero atomico, A il peso
atomico, N0 il numero di Avogadro, J è il potenziale di ionizzazione medio del materiale
colpito (eV), e Em è l’energia media del fascio elettronico alla distanza x, misurata lungo il
percorso effettivo dell’elettrone. Da questa equazione si ottiene l’insieme delle distanze
percorse dagli e- fino a raggiungere l’equilibrio termico con il campione, ovvero:
R
0
E0
1
dE
dE
dx
(1.44)
32
 Kanaya-Okayama: è una legge sperimentale che tiene conto anche dei fenomeni
anelastici e permette di calcolare la profondità di penetrazione (R) nel modo seguente:
RK O  0.0276
A E01.67
 z 0.89
(1.45)
dove A, Z e ρ sono rispettivamente peso atomico, numero atomico e densità del fascio, e E0
è l’energia del fascio incidente (keV).
Un altro modo per calcolare il volume di interazione è quello di ricorrere alle simulazioni
Montecarlo. In questo modo, tenendo conto delle probabilità di interazione per i vari
processi, dei liberi cammini medi, del tipo di materiale di cui è costituito il campione, della
tensione di accelerazione del fascio e degli altri parametri in gioco, è possibile simulare le
traiettorie degli elettroni nel campione. Ciò che risulta evidente da queste simulazioni è che
il volume di interazione interno al campione aumenta all’aumentare dell’energia degli
elettroni incidenti. Dunque la sonda che arriva sulla superficie con dimensioni
nanometriche, si allarga in profondità ed il volume di interazione assume la tipica forma a
pera. Tale volume cresce al crescere del tempo di esposizione del campione al fascio
elettronico e soprattutto al crescere della tensione di accelerazione (Fig. 1.19).
Fig. 1.19 Simulazioni Montecarlo che mostrano la variazione del volume di interazione al variare
della tensione di accelerazione del fascio. Il campione considerato è Fe spesso ed il diametro della
sonda sul campione è di 10 nm.
33
1.2.2 Il Microscopio Elettronico a Scansione
Il microscopio elettronico a scansione (SEM) fa parte della famiglia dei microscopia a
scansione di sonda; in questo caso la sonda è un fascio collimato di elettroni con energia
dell’ordine dei keV (1-40 keV).
I principali elementi costitutivi di un microscopio elettronico a scansione sono riportati in
Fig. 1.20 e sono i seguenti:
 Cannone elettronico, è la sorgente di elettroni.
 Sistema da vuoto, per la generazione ed il corretto comportamento del fascio
elettronico.
 Lenti elettromagnetiche, formate da un nucleo cilindrico di ferro dolce contenente
un avvolgimento di spire di ferro. Quando viene fatta passare una corrente si
genera un campo elettromagnetico parallelo all’asse della lente che agendo sulla
carica elettrica dell’elettrone, ne devia il moto.
 Bobine di deflessione, permettono di effettuare la scansione del fascio sul
campione: una coppia di bobine deflette il fascio lungo l’asse X, la seconda coppia
lungo l’asse y. Le bobine sono sincronizzate con il sistema di raccolta e
formazione dell’immagine finale. L’operatore può determinare la velocità di
scansione.
 Lente obiettivo, che focalizza il fascio di elettroni sul campione.
 Rivelatori di segnale (detector), che catturano i diversi segnali uscenti dal
campione.
 Sistema di trasformazione dei segnali in immagini.
 Camera con porta-campioni.
Fig. 1.20 Il microscopio elettronico a scansione.
34
Fig. 1.21 Schema del sistema di lenti all’interno di un classico SEM.
In Fig. 1.21 è riportato il sistema di lenti tipico di un microscopio elettronico a scansione.
Le lenti sono elettromagnetiche e sono costituite da un corpo cilindrico (pezzo polare) di
ferro dolce, contenente avvolgimenti con spire di rame. Il passaggio di corrente nelle spire
genera un campo elettromagnetico che interagisce con gli elettroni e ne controlla la
traiettoria. Le prime lenti incontrate dal fascio elettronico sono le lenti condensatrici, che
controllano le dimensioni del fascio e regolano il livello di rimpicciolimento dell’immagine
della sorgente; queste lenti creano inoltre la focalizzazione del fascio nel punto d 1 in Fig.
1.21 (crossover). Le lenti finali della colonna sono le lenti obiettivo, le quali hanno lo scopo
di focalizzare il fascio elettronico sulla superficie del campione e contribuiscono alla
ulteriore diminuzione delle dimensioni della sonda. Dato che le lenti obiettivo sono molto
più forti delle condensatrici, il flusso di corrente che scorre sulle spire è molto più elevato e
quindi è necessario equipaggiare questo sistema di lenti elettromagnetiche, con un sistema
di raffreddamento ad acqua.
A parità di rapporto segnale/rumore e di diametro del fascio, la risoluzione di un SEM
dipende da:
 Aberrazioni cromatiche e sferiche delle lenti elettromagnetiche;
 Numero di crossover e relativo spread energetico;
 Effetti dei campi magnetici ambientali.
Per quanto riguarda le aberrazioni delle lenti, gli effetti dell’aberrazione cromatica
aumentano all’aumentare dello spread energetico e sono più importanti a basse tensioni di
accelerazione. Inoltre, le normali lenti elettromagnetiche, essendo esclusivamente
35
convergenti, non consentono di correggere gli effetti dell’aberrazione sferica. La
formazione dell’immagine della sorgente operata dalle lenti condensatrici ed obiettivo,
porta la formazione di cross-over all’interno della colonna del SEM, risultando in un
indesiderato spread energetico. Da tutte queste considerazioni è nata la necessità di
costruire una colonna del microscopio elettronico di nuova generazione che fosse in grado
di ottimizzarne il funzionamento, soprattutto lavorando a basse tensioni di accelerazione.
Questa nuova colonna prende il nome di “colonna GEMINI ®” ed è rappresentata nella
Fig.1.22.
Fig. 1.22 Schema della colonna GEMINI®.
Nella colonna GEMINI® il percorso del fascio di elettroni è stato disegnato in modo tale da
non avere cross-over, quindi i raggi elettronici si focalizzano solo sulla superficie del
campione; in questo modo viene mantenuto lo spread energetico iniziale. All’interno della
colonna è stato posto anche un sistema elettronico che accelera il fascio (beam booster),
mantenendolo ad alta energia durante il transito nella colonna, indipendentemente dalla
tensione scelta. In questo modo è possibile minimizzare gli effetti dei campi magnetici
ambientali; inoltre, gli effetti delle aberrazioni cromatiche a basse tensioni sono ridotti di
circa 40 volta. Altra importante caratteristica di questa colonna elettronica innovativa è la
lente finale (Fig. 1.23), che è composta da una lente magnetica ed una lente elettrostatica,
ed opera quindi come una lente convergente/divergente: in questo modo è stato
minimizzato l’effetto dell’aberrazione sferica. Questa lente, inoltre, aumenta l’angolo di
36
apertura del fascio, migliorando sia la risoluzione che la corrente; in questo modo si ha un
miglior rapporto segnale/rumore e di conseguenza una immagine di qualità migliore.
Fig. 1.23 Lente finale della colonna GEMINI®.
Lo scopo del cannone elettronico è produrre un fascio di elettroni stabile e con energia
regolabile. Il cannone elettronico più comune si compone di tre elementi: un filamento di
tungsteno che ha la funzione di catodo (elettrodo negativo), la calotta grigliata o Wehnelt
(elettrodo di controllo), e l’anodo (elettrodo positivo). Questi componenti vengono
mantenuti a tensioni elettriche differenti da connessioni appropriate al sistema di alta
tensione, variabile nel range 0.1-30 K. Ad esempio, se la tensione di accelerazione è
impostata a 20 kV, il filamento sarà posto a -20000 V rispetto all’anodo, che è al potenziale
di terra. Il Wehnelt agisce come focalizzatore di elettroni all’interno del cannone e controlla
la quantità di elettroni emessi; tale elemento è connesso al filamento per mezzo di un
resistore variabile. La corrente di emissione lasciando il filamento, viene rimpiazzata da
una uguale corrente del filamento attraverso il resistore. Questo effetto genera una tensione
negativa tra il Wehnelt ed il filamento.
Le principali caratteristiche che permettono di misurare la performance di una sorgente di
elettroni sono: l’emissione di corrente, la brillanza, la vita utile, le dimensioni della
sorgente, lo spread energetico e la stabilità. La caratteristica più importante è la brillanza,
perché la qualità delle immagini ad alti ingrandimenti dipende quasi interamente da questo
parametro.
Il concetto di brillanza elettro-ottica β, incorpora i parametri di corrente elettronica ib, la
sezione del fascio d e α, semiangolo del cono di raggi che convergono per formare il crossover. La brillanza è definita come densità di corrente elettronica per unità di angolo solido.
La brillanza in ogni punto della colonna assume lo stesso valore misurato nella sorgente
elettronica stessa, anche se i valori dei parametri da cui essa dipende (ib, d, α) variano. La
brillanza di una sorgente elettronica può essere quindi determinata tramite la seguente
equazione:
37

ib
4i
 2 2b 2
 d 
 d 

   2
 4 
(1.46)
2
Sostituendo i valori sperimentali dei parametri del fascio nella Eq. 1.46, si può stimare la
brillanza di un cannone elettronico. I difetti delle lenti, chiamati aberrazione, portano a
stimare un valore di brillanza inferiore a quello reale. Per tutti i cannoni elettronici, la
brillanza cresce linearmente con la tensione di accelerazione in modo che ogni sorgente è
10 volte più luminosa a 10 keV di quanto non lo sia ad 1 keV. Nella tabella seguente (Tab.
1.1) sono riportati i parametri delle principali sorgenti elettroniche che verranno discusse in
seguito.
Sorgente
Filamento W
LaB6
Emissione di
campo (freddo)
Emissione di
campo (caldo)
Brillanza
relativa al W
1
30
Dimensioni
sorgente
50 micron
1 micron
Energia
(eV)
3
1.5
500
5 nm
3-5
500
5 nm
3
Vita (h)
50
300
Dipende
dal vuoto
100
Vuoto
(Pa)
<10-3
10-6
10-10
10-7
Tab. 1.1 Parametri caratteristici delle principali sorgenti elettroniche.
Come già ampliamente esposto, nella microscopia elettronica a scansione la sonda è un
fascio di elettroni ben collimato. Tale fascio viene generato utilizzando due possibili metodi
[12]:
(i) emissione termoionca,
(ii) emissione di campo.
Nell’emissione termoionica un filamento di metallo viene percorso da corrente, si riscalda
per effetto Joule e consente l’emissione di elettroni eccitati termicamente; aumentando la
temperatura di un metallo aumenta l’energia cinetica degli elettroni degli atomi che lo
compongono. Alcuni elettroni acquisiscono un’energia sufficiente a portarsi nel vuoto in
prossimità della superficie del materiale, ovvero una energia maggiore di quella
superficiale. Applicando una differenza di potenziale è possibile generare un fascio di
elettroni ad energia controllata.
38
Fig. 1.24 Schema fisico dei livelli energetici metallo-vuoto.
La densità di corrente Jc emessa da un materiale per effetto termoionico è espressa dalla
formula di Richardson-Fermi:
J C  AT e
2

EW
kT
(1.47)
dove A è una costante tipica del materiale considerato, EW è l’energia di estrazione
(anch’essa tipica del materiale), T è la temperatura, e k è la costante di Boltzmann. Il
materiale ottimale per un filamento deve avere quindi elevata temperatura di fusione e
bassa energia di estrazione (funzione lavoro); per queste ragioni il materiale più utilizzato
per realizzare i filamenti risulta il tungsteno. Altre sorgenti ad emissione termoionica molto
efficaci e di ampio utilizzo sono i cristalli di esaboruro di lantanio (LaB 6). Come mostrato
dalla Fig. 1.25 i cristalli di questo genere vengono modellati in modo da avere una punta,
così come avviene con i filamenti di W, in modo poter sfruttare il cosiddetto “effetto
punta”, effetto per il quale si ha formazione di campo elettrico più intenso nelle zone con
raggio di curvatura più elevato.
Fig. 1.25 Sorgenti di emissione termoionica: a) filamento di tungsteno, b) cristallo di LaB6 [12].
39
In Fig. 1.26 è riportato lo schema del sistema di generazione del fascio di elettroni per
emissione termoionica. Il filamento è tenuto a potenziale negativo rispetto all’anodo, e gli
elettroni emessi vengono accelerati verso l’anodo. Il cilindro di Wehnelt è tenuto ad un
potenziale leggermente più negativo rispetto al filamento (qualche centinaio di V) e
permette di controllare la zona del filamento che emette elettroni.
Fig. 1.26 Schema di una sorgente ad emissione termoionica.
Nel caso dell’emissione di campo (field emission gun o FEG) [12], la generazione del
fascio di elettroni è dovuta ala capacità di intensi campi elettrici di estrarre elettroni da un
materiale emettitore, rappresentato da un cristallo di tungsteno molto appuntito (Fig. 1.27).
Fig. 1.27 Sorgente ad emissione di campo (cristallo di tungsteno).
Il campo elettrico ad elevata intensità (> 109 V/m) fa sì che ci sia l’elevata probabilità che
un elettrone si muova esternamente al metallo stesso, superando la barriera di potenziale
imposta dalla superficie. Questo effetto prende il nome di “effetto tunneling”. L’emissione
di elettroni dovuta a questo effetto è maggiore rispetto a quella che si ha per effetto
40
termoionico. In questo secondo caso le punte hanno dimensioni molto più piccole rispetto a
quelle utilizzate nell’altro caso, poche centinaia di nanometri. La corrente emessa per
effetto di campo dipende fortemente dal campo elettrico applicato F e può essere calcolata
secondo l’equazione Fowler-Nordheim [12]:
Ef 
  

j  6.2 10 6 
3

  6.8 109  2
exp 
(E f   )
F







(1.48)
dove Ef è l’energia di Fermi, F il campo elettrico applicato e Φ è la funzione lavoro di
estrazione. In accordo con questa equazione, maggiore è il campo elettrico applicato e
maggiore è la corrente, ovvero l’effetto tunnel. Il cannone elettronico è composto da due
anodi e dal filamento: il primo anodo (detto soppressore) ha una funzione simile a quella
del cilindro di Wehnelt, mentre il secondo anodo (estrattore), ha una elevata differenza di
potenziale (Fig. 1.28).
Fig. 1.28 Sorgente ad emissione di campo: a) Schema dei livelli energetici, b) Schema effettivo della
sorgente.
L’emissione di campo a freddo richiede che la superficie del catodo sia perfettamente
pulita. Dato che anche ad un vuoto di 10-5 Pa uno strato monoatomico di gas si deposita
ogni secondo, l’operare per periodi lunghi richiede un livello di vuoto di 10 -8-10-9 Pa. Prima
dell’uso, la punta viene riscaldata per qualche secondo ad una temperatura di circa 2500 K.
In seguito, la punta emette in maniera ottimale, ma tende a decadere in un periodo di 10-15
minuti, quando il gas ricomincia a depositarsi sulla punta. Una volta che un monolayer di
molecole di gas si forma sulla punta, l’emissione si stabilizza e resta essenzialmente
costante per diverse ore, finché non si destabilizza nuovamente e si interviene con un
ulteriore riscaldamento della punta. Ogni volta che la punta viene sottoposta a questo
41
trattamento diventa lievemente meno luminosa e dopo alcune migliaia di “riscaldamenti” il
sistema potrebbe avere tensione insufficiente per raggiungere l’emissione di corrente
desiderata; in questo caso la punta andrebbe sostituita. Dato che di solito è necessario un
unico riscaldamento della punta al giorno, il processo di decadimento può avvenire in
diversi anni e quindi la vita utile di un cold field emission (CFE) è molto lunga. I principali
vantaggi di questa tecnica di generazione sono:
 le dimensioni della sorgente (3-5 nm);
 il limitato spread energetico,
 la lunga durata della punta, che permette alla intera colonna elettro-ottica di
rimanere intatta, pulita ed allineata.
La seconda classe di sorgenti include gli emettitori Schottky (Schottky field emission, SFE)
e gli emettitori di campo termici (thermal field emission, TFE). Un emettitore TFE ha le
stesse proprietà del CFE ma opera a temperatura elevata. Questo aiuta a mantenere la punta
pulita, riducendo rumore ed instabilità anche in condizioni di vuoto non ottimali.
Negli emettitori di tipo Schottky, il campo sulla punta, un cristallo di tungsteno orientato,
viene utilizzato per lo più per ridurre la barriera effettiva della funzione lavoro. Per
abbassare ancora la funzione lavoro, viene depositato ossido di zirconio (ZrO 2) sulla punta
[12]. Quindi, anche se il SFE è una sorgente termoionica, brillanza e densità di emissione
sono paragonabili a quelle dei CFE. I cannoni elettronici con SFE includono generalmente
anche una griglia di soppressione, il cui scopo è eliminare involontarie emissioni
termoioniche da regioni al di fuori della punta. Un cannone Schottky ha emissione di
corrente nel range di 30-100 µA e funziona in maniera continuativa anche quando non si ha
estrazione di corrente, per assicurare che la punta rimanga pulita e stabile. Le dimensioni di
una sorgente TFE sono paragonabili a quelle di una sorgente fredda, mentre una SFE ha
dimensioni più elevate (20-30 nm), perché il raggio della punta è più ampio. Questa
caratteristica delle sorgenti SFE può dare dei vantaggi in microscopi in cui è richiesto un
ampio range di dimensioni del fascio. Anche lo spread energetico è più ampio negli SFE
rispetto a quello dei CFE, ma il funzionamento continuo per lunghi periodi e l’eccellente
stabilità degli SFE, li rendono le sorgenti più utilizzate per i microscopi elettronici a
scansione [12].
42
1.2.3 Segnali e rivelatori nel SEM
I principali segnali utilizzati per la formazione dell’immagine nel microscopio elettronico a
scansione sono gli elettroni secondari e gli elettroni retrodiffusi.
Elettroni secondari
Gli elettroni secondari fuoriescono dal materiale con una energia inferiore a 50 eV. Questi
elettroni provengono da profondità di qualche unità di lunghezze d’onda dell’elettrone;
infatti, la probabilità di fuga di un elettrone secondario generato ad una profondità z nel
campione (come esposto in Fig 1.29) è proporzionale a:
 e

z

(1.49)
Fig. 1.29 Intensità di elettroni secondari emessi in funzione della profondità di generazione [12].
Nel 1967 Seiler scoprì che la massima profondità di emissione vale d ≈ 5 λ, dove d ≈ 1 nm
per i metalli e d ≈ 10 nm per gli isolanti. Se ne deduce che la regione di provenienza si
trova ad una profondità minore di 50 nm. Per questo motivo gli elettroni secondari sono
responsabili dell’ottima risoluzione topografica del microscopio elettronico a scansione
(SEM) [12]. Inoltre tali elettroni permettono di ottenere informazioni sulla distribuzione
superficiale del potenziale elettrico, sui campi magnetici e sulla struttura cristallina. Oltre
agli elettroni secondari prodotti dal fascio incidente, vengono generati anche elettroni
secondari dagli elettroni retrodiffusi, che nel tornare verso la superficie continuano ad
interagire con il campione. In altre parole, un elettrone che penetra in un campione, nei
43
primi 30-40 nm genera elettroni secondari, poi proseguendo verso l’interno può essere
retrodiffuso e tornare verso la superficie. Nel tragitto verso l’esterno, l’elettrone
retrodiffuso può così generare elettroni secondari in una posizione un po’ diversa da quella
del fascio primario (elettroni secondari di tipo 3); questo effetto può produrre una immagine
non a fuoco. Il fatto che gli elettroni secondari abbiano libero cammino medio
intrinsecamente basso e siano facilmente assorbibili dalla materia, sono effetti legati al
piccolo volume di interazione: questo li rende ottimi per ottenere informazioni sulla
topografia del campione. Per tenere conto di entrambe le sorgenti di elettroni secondari, si
definisce il “coefficiente di elettroni secondari” come [12]:

nSE
  B   BS
nB
(1.50)
dove nSE è il numero di elettroni secondari generati da un campione bombardato con un
fascio di nB di elettroni, δB e δBS sono i coefficienti per gli elettroni secondari generati dagli
elettroni incidenti e retrodiffusi, e η è il coefficiente di retrodiffusione. Il coefficiente δBS
vale circa 3 volte δB poiché gli elettroni retrodiffusi hanno angolo di incidenza ed energia
minori. Pertanto il numero di elettroni secondari rilevato dipende principalmente dai
seguenti parametri:
 Energia del fascio incidente: diminuendo l’energia del fascio incidente, questo
penetra per una profondità minore dando origine ad un maggior numero di
elettroni secondari.
 Rotazione del campione: maggiore è l’angolo di tilt e maggiore è il contrasto
topografico (Fig. 1.30).
Fig. 1.30 Elettroni secondari emessi in funzione dell’energia del fascio e dell’angolo di tilt del
campione [12].
44
I rivelatori di elettroni secondari che si trovano installati nei migliori microscopi sono due:
 Everhart-Thornley Detector (ETD).
 Through The Lens Detector (TTLD).
Il rivelatore Everhart-Thornley è riportato in Fig. 1.31.
Fig. 1.31 Il detector Everhart-Thornley.
Gli elettroni secondari fuoriescono dal campione ad energie molto basse intorno ai 50 eV .
Queste energie sono troppo piccole per la rivelazione degli elettroni (non riescono ad
eccitare uno scintillatore), per questo motivo è necessario accelerare gli elettroni secondari
fino ad una energia di qualche keV. Il rivelatore è pertanto costituito da un materiale
scintillante che viene portato ad un certo potenziale positivo (10 kV ) rispetto al campione
che si trova al potenziale terra. Gli elettroni vengono così accelerati verso lo scintillatore, lo
irraggiano e ne provocano l’emissione di luce. Misurando l’emissione di luce indotta dagli
elettroni si risale al numero di elettroni secondari. Lo scintillatore è posto a circa 90 gradi
rispetto alla normale del campione principalmente per due motivi. Primo è che in questo
modo devia gli elettroni che deve rivelare verso di sé, riuscendo a discriminare secondari
(SE) e retrodiffusi (BSE) (vedi Fig.1.31). Infatti, gli elettroni retrodiffusi fuoriescono dal
campione ad energie tali per cui la loro traiettoria non viene incurvata significativamente
dal campo elettrico dovuto allo scintillatore, che dunque non riesce a raccoglierli. Il
secondo motivo che spiega la posizione del detector ETD è che una posizione simile
permette di vedere la morfologia e le ”ombre” del campione; infatti, poiché gli elettroni
devono percorrere una traiettoria incurvata prima di arrivare allo scintillatore, qualora
avessero vicino al punto di uscita una rugosità di importanti dimensioni, potrebbero urtarla
e quindi non verrebbero rivelati. Ovviamente non tutti gli elettroni retrodiffusi sfuggono
all’incurvamento della traiettoria, e alcuni di essi sono rivelati come secondari. Quindi il
45
rivelatore Everhart-Thornley vede anche elettroni retrodiffusi, ma questi sono in numero
molto minore rispetto ai secondari; l’efficienza di raccolta è elevata per gli elettroni
secondari (50%), mentre è bassa per quelli retrodiffusi (< 10%). Questo detector, come
visibile nella Fig. 1.31, ha una griglia polarizzata positivamente per attrarre un maggior
numero di elettroni: agendo sulla polarizzazione della griglia e facendo in modo che sia
totalmente negativa, si può eliminare l’apporto degli elettroni secondari e vedere
l’informazione portata solo dagli elettroni a più alta energia, cioè i retrodiffusi. Questo
modo di utilizzare il detector ETD è molto utile, qualora non si abbia a disposizione un
rivelatore per i retrodiffusi ed il campione sia caratterizzato da evidenti differenze
composizionali ben definite (altrimenti la risoluzione del ETD non è sufficiente per i
retrodiffusi).
Il secondo tipo di detector, ovvero il Through the Lens (TTLD), è posto fisicamente tra la
lente condensatrice e quella obiettivo e si può trovare installato soltanto in colonne di tipo
GEMINI®, in cui non c’è cross-over, mentre per il detector ETD non c’è alcuna restrizione.
Si tratta di un detector anulare allo stato solido. Quando il campione si trova molto vicino
alla lente elettromagnetica, gli elettroni secondari (SE) che fuoriescono dal campione
vengono attratti dal campo magnetico della lente obiettivo, e muovendosi a spirale rientrano
in colonna fino ad arrivare ad essere focalizzati sul detector anulare TTLD (Fig. 1.32).
Questo tipo di collezione di SE non interferisce con il fascio primario. Non è necessario
quindi prevedere addizionali bobine per la correzione dell’astigmatismo e della distorsione.
Fig. 1.32 Detector Through the Lens (TTL).
46
Elettroni retrodiffusi
Gli elettroni retrodiffusi (backscattered electrons, BSE) sono elettroni del fascio che
fuoriescono dal campione dopo aver subìto soprattutto urti elastici. La loro energia è
dunque alta e prossima a quella degli elettroni incidenti (e comunque minore in generale).
Gli elettroni retrodiffusi provengono da una profondità dell’ordine di grandezza di circa
0.5−1 μm, dunque forniscono una bassa risoluzione topografica. La caratteristica di questi
elettroni è infatti quella di consentire di ricavare informazioni sui campi magnetici e sulla
struttura cristallina degli strati più profondi del campione, nonché sulla sua composizione
chimica. Importante caratteristica degli elettroni retrodiffusi è che essi hanno energia che
dipende dal numero di eventi di scattering e dalla quantità di energia persa in ciascuno di
questi; inoltre, il numero totale di BSE emessi aumenta con il numero atomico degli
elementi presenti nel campione. Per tutti questi motivi, gli elettroni retrodiffusi danno
informazioni principalmente composizionali.
E’ possibile definire il coefficiente di retrodiffusione con il seguente rapporto [12]:

nBS
nB
(1.51)
dove nBS è il numero di elettroni retrodiffusi prodotti da un campione bombardato con un
fascio di nB elettroni. Sperimentalmente, aumentando il numero atomico aumenta il numero
di elettroni retrodiffusi (η), come visibile in Fig. 1.33.
Fig. 1.33 Coefficiente di retrodiffusione in funzione del numero atomico [12].
La relazione fenomenologica ricavabile dal fit dei dati sperimentali [12] riportati in Fig.
1.33 è la seguente:
47
  0.0254  0.016  Z  0.000186  Z 2  8.31107  Z 3(1.52)
Da questa relazione si deduce che se il rivelatore di elettroni retrodiffusi segnala pochi
conteggi, questo significa che il coefficiente di retrodiffusione è piccolo, e così anche il
numero atomico. Ovviamente, ad alti coefficienti di retrodiffusione corrispondo elementi
con elevato numero atomico. Quindi, come accennato in precedenza, l’analisi degli
elettroni retrodiffusi fornisce informazioni sulla composizione chimica dei campioni. Se il
campione è composto da diversi elementi in soluzione solida, il coefficiente di
retrodiffusione può essere calcolato seguendo una semplice legge basata sulle
concentrazioni in peso (Ci) degli elementi costituenti [12]:
   Cii
i
(1.53)
dove i indica il singolo costituente, ηi è il coefficiente di retrodiffusione del singolo
elemento e la sommatoria è effettuata su tutti i componenti.
Come si può dedurre dal diagramma in Fig. 1.34a, il numero di elettroni retrodiffusi non
dipende in modo significativo dall’energia del fascio; infatti, pur variando notevolmente il
volume di interazione (maggiore profondità di penetrazione ad alta energia), la velocità di
perdita di energia diminuisce e quindi gli elettroni hanno più possibilità di uscire dal
materiale a seguito dei ripetuti urti. Se si procede invece con il misurare il coefficiente di
retrodiffusione in funzione dell’angolo di tilt θ, definito come il complementare dell’angolo
tra il fascio e la superficie del campione, allora si riscontra un incremento monotono del
coefficiente in funzione dell’angolo di tilt (Fig. 1.34b).
a)
b)
Fig. 1.34 Valori del coefficiente di retrodiffusione in funzione di a) Numero atomico e tensione di
accelerazione, b) Angolo di tilt del campione ed elemento considerato [12].
48
La pendenza di η con θ è inizialmente leggera, ma tende ad aumentare aumentando l’angolo
di tilt. Ad angoli molto elevati corrispondenti ad incidenza radente, il valore di η tende
all’unità. In Fig. 1.34b sono riportati i coefficienti di retrodiffusione di diversi elementi ed è
possibile osservare come i valori tendano a convergere per alti valori di θ. L’espressione
seguente [12] dà il coefficiente di retrodiffusione in funzione del numero atomico Z e
dell’angolo di tilt θ:
 ( )  1 1  cos   p
con
p9
Z
(1.54)
Gli elettroni retrodiffusi possono essere rivelati tramite due tipologie di detector:
 Detector allo stato solido (Solid State Setector, SSD).
 Detector a selezione di energia (Energy Selective Detector, EsB).
I rivelatori allo stato solido, anche detti a semiconduttori hanno una struttura mostrata in
Fig. 1.35.
Fig. 1.35 Detector allo stato solido.
Gli elettroni retrodiffusi fuoriescono dal campione ad un’energia maggiore (intorno ai keV)
rispetto ai secondari e quindi non hanno bisogno di essere accelerati per essere rivelati. Il
rivelatore a semiconduttore è costituito da sottili wafer a cui si può dare una qualunque
forma. Questo rivelatore, solitamente un disco di silicio bucato, viene collocato sotto la
lente obiettivo e può essere posto molto vicino alla superficie del campione, così da
migliorare l’efficienza di raccolta. Il rivelatore a semiconduttore non è sensibile agli
elettroni secondari perché ha un filtro di energia a circa 200-300 eV. Il principio di
49
funzionamento è semplice. Gli elettroni retrodiffusi vanno ad interagire con il
semiconduttore del detector e producono delle coppie elettrone-lacuna. La produzione di
queste cariche, all’interno del bulk del dispositivo, genera una carica indotta agli elettrodi e
dunque una corrente. Dalla misura di questa corrente è possibile risalire all’energia e al
numero di particelle che hanno interagito.
Quando si utilizza una colonna GEMINI®, è possibile che si possa usufruire (ove installato)
dell’altro tipo di detector degli elettroni retrodiffusi, cioè EsB (Fig. 1.36). Questo rivelatore
è sempre a semiconduttore ed ha forma anulare: ciò che lo rende unico è la posizione
all’interno della colonna, dietro al detector TTL dei secondari. Gli elettroni retrodiffusi ad
alta energia che fuoriescono dal campione, rientrano nella colonna, vengono deviati dalla
lente obiettivo ed a causa della loro energia vanno ad incidere in una posizione diversa
rispetto ai secondari, senza interferire con il detector TTL di questi ultimi. Per evitare
qualunque interferenza legata agli elettroni secondari, davanti al detector EsB è posta una
griglia polarizzata negativamente che allontana proprio i secondari (aventi energia inferiore
ai retrodiffusi, i quali riescono, invece, ad oltrepassarla senza problemi).
Fig. 1.36 Rivelatore EsB nella colonna GEMINI®.
50
1.2.4 Il Microscopio Elettronico a Trasmissione
Il microscopio elettronico a trasmissione (TEM) è uno strumento di primaria importanza
per la caratterizzazione strutturale dei materiali. I pattern di diffrazione misurati con i raggi
X danno informazioni più quantitative rispetto ai pattern di diffrazione degli elettroni, ma
questi ultimi hanno l’importante vantaggio, rispetto ai raggi X, di poter essere focalizzati
facilmente. Facendo in modo che un fascio di elettroni sia focalizzato in un punto, è
possibile misurare pattern di diffrazione di regioni microscopiche e, spesso, è possibile
selezionare un singolo cristallo per la misura di diffrazione. L’apparato ottico dei
microscopi elettronici può essere utilizzato per catturare immagini della densità elettronica
del campione. Ad esempio, la tecnica di imaging che sfrutta variazioni di intensità nella
diffrazione elettronica attraverso un campione sottile , chiamata “contrasto di diffrazione”,
è molto utile per ottenere immagini di difetti come dislocazioni, interfacce e particelle di
seconde fasi. Al di là della microscopia a contrasto di diffrazione, che misura l’intensità
delle onde diffratte, nella microscopia elettronica ad alta risoluzione (high resolution TEM
o HRTEM) la fase delle onde elettroniche diffratte si conserva e si può avere interferenza
costruttiva o distruttiva. Questa tecnica, chiamata “immagine a contrasto di fase” (phase
contrast imaging), è utilizzata per ottenere immagini di colonne di atomi.
Tutto il discorso riguardante le sorgenti di elettroni utilizzate nel microscopio elettronico a
scansione, affrontato nel Cap. 1.2.2 è assolutamente valido anche per il microscopio
elettronico a trasmissione e non verrà quindi ulteriormente trattato. In figura 1.37 è riportato
lo schema degli elementi del microscopio elettronico a trasmissione.
51
Fig. 1.37 Schema degli elementi costitutivi di un TEM [13].
In un microscopio elettronico a trasmissione sono presenti diverse tipologie di lenti:
 Lenti condensatrici, che focalizzano il fascio di elettroni sul campione.
 Lente obiettivo, per formare la diffrazione sul piano focale posteriore e l’immagine del
campione sul piano immagine.
 Lenti intermedie, per ingrandire l’immagine o il pattern di diffrazione sullo schermo.
Lente proiettiva, ha il compito di proiettare l’immagine o la diffrazione sullo schermo
(costituito da un piatto metallico fluorescente).
Le lenti elettroniche sono, come già detto, composte da avvolgimenti di rame su cui viene
fatta scorrere corrente, generando un campo magnetico che interagisce con il fascio di
elettroni. Per descrive la formazione dell’immagine da lenti elettroniche si usano gli stessi
principi dell’ottica tradizionale. Nella formazione dell’immagine da parte di lenti ideali,
queste ultime vengono considerate come lenti “sottili” (cioè spesse abbastanza da far sì che
la loro azione sul fascio di elettroni possa essere illustrata con rifrazioni di raggi elettronici
nel piano principale delle lenti). Tutti gli elettroni che passano attraverso la lente vengono
rifratti nel suo piano centrale, in modo da formare un punto immagine nel punto in cui
danno luogo a cross-over. Questa è la prima azione fondamentale di una lente ideale.
Soltanto due tra tutti i raggi elettronici che si incontrano nel punto immagine sono necessari
per trovare la posizione di questo punto. Il primo raggio importante è quello passante per il
52
centro della lente, la cui direzione non viene modificata dall’azione della lente. Il secondo
raggio è quello che ha percorso parallelo all’asse opto-elettronico prima di entrare nella
lente; questo raggio viene rifratto per azione della lente in modo da incrociare l’asse optoelettronico nel punto di fuoco del piano focale posteriore della lente (Fig. 1.38).
Fig. 1.38 Formazione dell’immagine di un punto sorgente. Il diagramma restringe lo spread degli
elettroni entranti nelle lenti, che contribuiscono alla formazione dell’immagine. Il cross-over di due
raggi particolari è stato usato per trovare l’immagine del punto oggetto[13].
In Fig. 1.39 è illustrata la formazione dell’immagine di un oggetto finito (indicato da una
freccia). Partendo da tre punti diversi del pianto oggetto (punto di inizio, centro e parte
bassa della freccia), un set di tre raggi elettronici viene disegnato; il set di raggi in ognuno
dei tre punti di partenza è composto da un raggio parallelo all’asse elettro-ottico e due raggi
con stessa inclinazione rispetto a questo.
53
Fig. 1.39 Illustrazione di due caratteristiche fondamentali della formazione dell’immagine di un
oggetto finito (freccia), con l’ausilio di un diagramma a raggi. Le distanze importanti sono nominate
con u, v e f. tutti i raggi che emergono da un punto nel piano oggetto sono raccolti dalla lente e fatti
convergere nel punto coniugato sul piano immagine. Raggi paralleli originati in punti diversi del
piano oggetto sono focalizzati sul piano focale posteriore della lente [13].
Seguendo il percorso dei raggi di Fig. 1.39, per ciascun punto di partenza nel piano oggetto
si trova un punto corrispondente nel piano immagine, trovando il punto di crossover per
ciascun set di tre raggi nel piano immagine. D’altronde, il piano immagine è coniugato al
piano oggetto, ovvero i due piani sono equivalenti da un punto di vista elettro-ottico e
quindi raggi che partono da uno stesso punto in un piano si incontrano nuovamente in un
punto nel piano coniugato e viceversa. Considerando le distanze u e v (Fig. 1.39) è
possibile esprimere l’ingrandimento M dell’oggetto tramite la seguente espressione:
M
v
u
(1.55)
Introducendo la distanza focale della lente, f, l’equazione di Newton per le lenti risulta
essere valida (Eq. 1.56):
1 1 1
 
u v f
(1.56)
54
Un’altra importante caratteristica della formazione dell’immagine illustrata in Fig. 1.39 è la
seguente: raggi paralleli originati in punti diversi del piano oggetto vengono focalizzati nel
piano focale posteriore della lente. I raggi che attraversano la lente parallelamente all’asse
opto-elettronico, si focalizzano in un punto appartenente all’asse e al piano focale
posteriore, noto come fuoco della lente.
La forza di Lorentz con cui ogni elettrone in movimento interagisce con il campo elettrico
ed il campo magnetico e le deflessioni risultanti, sono la base fisica del funzionamento delle
lenti elettroniche. In presenza di un campo elettrico E ed un flusso magnetico B, la forza di
Lorentz F è:
F = -e(E + v ×B)
(1.57)
dove e e v sono rispettivamente la carica e la velocità dell’elettrone. Un campo magnetico
omogeneo agisce come una debole lente elettronica per raggi con piccola inclinazione
rispetto alla direzione del campo. Nella pratica, lenti magnetiche con piccole lunghezze
focali vengono ottenute concentrando il campo magnetico con pezzi polari (pole piece,
come nel SEM) [13].
Come si può osservare in Fig. 1.40, una lente magnetica convenzionale, come già accennato
nel Cap. 1.2.2 è composta da fili di rame avvolti simmetricamente intorno all’asse elettroottico.
Fig. 1.40 Concentrazione del campo magnetico rotazionale simmetrico nel gap tra due pezzi polari
della lente, e principio di azione su un fascio elettroni [13].
55
L’avvolgimento è posto all’interno di una cassa di ferro; solo un piccolo gap viene lasciato
tra due pezzi polari, attraverso i quali si manifesta il campo focalizzante. La corrente che
viene fatta scorrere negli avvolgimenti determina la forza delle lenti, espressa dalla
lunghezza focale. Gli elettroni viaggiano inizialmente in maniera parallela all’asse optoelettronico finché non incontrano un campo di forze tangenziale dovuto all’interazione della
velocità assiale con la componente radiale del campo magnetico; questa interazione porta
ad una deviazione del fascio. Il cammino elettronico risultante è elicoidale e, diventando
l’azione del campo sempre maggiore all’aumentare della distanza dall’asse elettro-ottico, si
ottiene il crossover nel punto di fuoco della lente. La rotazione dell’immagine causata dal
movimento elicoidale degli elettroni attraverso il campo magnetico focalizzante è una
caratteristica tipica delle lenti magnetiche.
Importanti criteri per determinare la performance di un microscopio elettronico a
trasmissione sono la più piccola caratteristica spaziale che può essere risolta in un
campione, o la più piccola dimensione del fascio elettronico focalizzato sul campione.
Questi criteri sono largamente influenzati dalla performance delle lenti obiettivo del
microscopio. Queste lenti, come tutte le lenti magnetiche, sono affette da aberrazioni che ne
alterano il corretto funzionamento e si tratta principalmente di:
 Aberrazioni sferiche.
 Aberrazioni cromatiche.
 Astigmatismo.
Aberrazioni sferiche
Con aberrazione sferica si intende l’incapacità della lente di focalizzare tutti i raggi
incidenti da un punto sorgente ad un altro punto. Questo difetto è causato da campi
magnetici delle lenti che agiscono in maniera non omogenea sui raggi fuori asse (Fig. 1.41).
56
Fig. 1.41 Formazione del disco di confusione dovuto alle aberrazioni sferiche [13].
Il piano immagine Gaussiano è definito come il piano immagine per condizioni di
immagine parassiale; in queste condizioni i raggi sono vicini all’asse opto-elettronico e
formano solo piccoli angoli con esso. In Fig 1.41 si può notare che più un elettrone è
lontano dall’asse opto-elettronico e tanto minore è la sua distanza focale. Di conseguenza,
per un punto oggetto si forma un disco immagine nel piano immagine Guassiano. Il raggio
rs di questo disco, detto disco di aberrazione, dipende dall’angolo di apertura α0 secondo
l’espressione:
rs  Cs 03
(1.58)
dove Cs è il coefficiente di aberrazione sferica, che è una lunghezza caratteristica che
determina la qualità di una lente elettronica [13]. Un tipico valore di questo coefficiente è 3
mm per una lente obiettivo in un TEM, mentre per un HRTEM sia ha un valore più basso e
pari a circa 1 mm. Per una lente elettronica posta dietro la lente obiettivo, l’apertura del
fascio incidente è più piccola dell’apertura del fascio incidente sulla lente obiettivo di un
fattore dato dall’ingrandimento di tale lente. Questo spiega perché solo le aberrazioni
57
sferiche della lente obiettivo vengono tenute in considerazione quando si va a valutare il
limite di risoluzione di un microscopio.
Aberrazioni cromatiche
Nell’ottica tradizionale la distanza focale di una lente varia con la lunghezza d’onda della
luce, analogamente nelle lenti elettroniche la distanza focale varia con l’energia degli
elettroni. Le lenti trattengono fortemente elettroni con bassa energia e quindi, anche in
questo caso, da un punto nel piano oggetto si ottiene un disco nel piano immagine
Gaussiano. Il raggio rc di questo disco è dato dall’espressione:
rc  Cc
E
0
E
(1.59)
dove Cc è il coefficiente di aberrazione cromatica delle lente (lunghezza), ΔE è la
variazione di energia dell’elettrone dal suo valore medio E, e α0 è sempre l’angolo di
apertura della lente. Il coefficiente di aberrazione cromatica Cc di una lente magnetica ha
solitamente un valore numerico leggermente inferiore a quello della lunghezza focale.
Questo tipo di aberrazione degrada l’immagine quando gli elettroni nel fascio cessano di
essere monoenergetici e questo si può verificare quando:
 vengono generati elettroni dal cannone elettronico con uno spread di energie;
 si hanno tensioni di accelerazione o correnti nelle spire che fluttuano nel tempo;
 il fascio di elettroni perde energia attraverso le collisioni, passando attraverso un
campione.
Nei microscopi più moderni la stabilità della tensione di accelerazione e della corrente nella
lente sono arrivate ad essere così ben controllate da non risultare più influenti per le
aberrazioni cromatiche, se paragonate con la perdita di energia associata agli elettroni
trasmessi attraverso il campione. Lo scattering inelastico degli elettroni ad alta energia da
parte delle eccitazioni plasmoniche è uno effetto classico per cui gli elettroni perdono 10-20
eV; questo effetto è ancor più importante nel caso di campioni spessi. Quindi, per
minimizzare le aberrazioni cromatiche nel TEM è necessario utilizzare campioni che siano
il più possibile sottili [13].
58
1.2.5 Modalità di funzionamento del TEM
Bright-field e dark-field
Per comodità, iniziamo assumendo che il sistema di generazione del fascio produca tutti
raggi che si propagano parallelamente all’asse ottico, prima di colpire il campione. Come si
può osservare nella Fig. 1.42, tutti i raggi trasmessi e diffratti che lasciano il campione
vengono combinati in modo da formare una immagine sullo schermo, così come avviene in
un microscopio ottico elementare che forma una immagine sulla retina del microscopista; in
questo modo il campione mostra un leggero contrasto.
Fig 1.42 Percorso dei raggi in modalità immagine [13].
Ogni punto nel piano focale posteriore della lente obiettivo contiene raggi provenienti da
tutte la parti del campione, quindi non tutti i raggi nel piano focale posteriore sono
necessari per la formazione dell’immagine. Una immagine completa può essere formata
solo con i raggi che passano attraverso un punto del piano focale posteriore; ciò che
distingue i punti di questo piano è che tutti i raggi che passano in un punto sono stati
scatterati dal campione con lo stesso angolo. Posizionando la “apertura obiettivo” in una
posizione specifica nel piano focale posteriore, è possibile ottenere l’immagine dovuta
59
soltanto agli elettroni diffratti con un angolo specifico. Questo definisce due distinte
modalità di ottenere una immagine, illustrate in Fig. 1.43:
 Quando l’apertura è posizionata in modo che passino soltanto gli elettroni trasmessi (o
non diffratti), si forma l’immagine in bright-field (BF).
 Quando l’apertura è posizionata in modo che passino soltanto alcuni diffratti, si forma
l’immagine in dark-field (DF).
Fig. 1.43 Sinistra: modalità bright-field (BF). Destra: modalità dark-field (DF) [13].
Nella maggior parte degli studi con CTEM (conventional TEM) di materiali cristallini, le
caratteristiche dell’immagine si generano per lo più dal “contrasto di diffrazione”. Il
contrasto di diffrazione è la variazione nell’intensità della diffrazione elettronica attraverso
il campione. Questo contrasto si osserva inserendo una apertura obiettivo nel fascio; in
questo modo le caratteristiche dell’immagine diventano più definite. La ragione fisica che
spiega perché il contrasto di diffrazione di una immagine DF o BF sia decisamente migliore
rispetto a quello di una immagine “senza apertura” (“apertureless”) è la seguente: quando
60
c’è una elevata intensità nei fasci diffratti, c’è una elevata perdita complementare di
intensità nel fascio trasmesso. Le immagini in BF e DF mostrano un forte contrasto di
diffrazione. Senza l’apertura obiettivo, l’intensità diffratta si ricombina con quella
trasmessa sullo schermo: questo sopprime il contrasto di diffrazione. L’immagine
“apertureless” mostra, tuttavia, un generico contrasto di massa-spessore che aumenta con il
numero e con lo spessore del materiale. Questo tipo di contrasto (massa-spessore) si origina
principalmente per lo scattering elastico di atomi individuali, in cui gli elettroni incidenti
vengono deviati dalle interazioni di Coulomb quando passano attraverso l’atomo. Il modo
più opportuno per ottenere micrografie ad alta risoluzione in dark-field è quello di tiltare la
radiazione incidente sul campione; l’angolo di tilt deve essere uguale all’angolo di
diffrazione, 2θB, della particolare diffrazione usata per l’immagine in DF. Questa tecnica è
chiamata dark-field assiale (Fig. 1.44).
Fig. 1.44 Dark-field assiale [13].
Sul piano focale posteriore, la posizione del fascio trasmesso è stata tiltata nella posizione
della diffrazione sulla sinistra, ed il fascio trasmesso viene bloccato dalla apertura obiettivo.
Il fascio diffratto verso destra passa attraverso la apertura obiettivo e forma l’immagine
dark-field. I raggi diffratti giacciono sull’asse ottico, minimizzando i difetti di sfocatura
61
delle lenti. Nei microscopi le aperture obiettivo hanno tipicamente diametri tra 0.5 e 20 µm,
sono movibili con precisione meccanica e possono essere posizionate intorno a diffrazioni
selezionate nel piano focale posteriore della lente obiettivo.
Diffrazione di area selezionata (SAD)
In Fig. 1.45 è riportato il diagramma di raggi che spiega in modo semplificato come
ottenere un pattern di diffrazione al TEM.
Fig. 1.45 Selected Area Diffraction (SAD) [13].
In questa configurazione la lente intermedia è focalizzata sul piano focale posteriore della
lente obiettivo, come confermato da raggi e frecce tratteggiate. Una seconda apertura,
“apertura intermedia”; posizionata nel piano immagine della lente obiettivo, ha la funzione
di limitare il pattern di diffrazione ad una area selezionata del campione. Il campione viene
prima osservato in una delle modalità esposte in precedenza finché non si riscontra la
presenza di un particolare interessante. A questo punto l’apertura intermedia viene inserita e
62
posizionata intorno al particolare cui si è interessati. Il microscopio viene poi riportato in
modalità diffrazione e sullo schermo appare il pattern SAD originato dall’area selezionata
in modalità immagine. Diffrazione di area selezionata può essere fatta su regioni con
diametro di 10-4 cm; le aberrazioni sferiche della lente obiettivo limitano questa tecnica a
regioni con all’incirca questa dimensione. Per effettuare “nano diffrazione” è necessario
usare la tecnica del nanobeam (fascio di dimensioni nanometriche), come la diffrazione
elettronica a fascio convergente (convergent-beam electron diffraction o CBED). Esempi di
pattern di diffrazione sono riportati in Fig. 1.46.
Fig. 1.46 SAD ottenibili a seconda del tipo di cristallo.
La distanza tra gli spot di diffrazione sullo schermo può essere utilizzata per determinare le
distanze interplanari nei cristalli. Per fare questo è necessario utilizzare l’equazione della
fotocamera (“camera equation”). Si consideri la geometria esposta in Fig. 1.47 che mostra
la “lunghezza di camera”, L, che è una grandezza caratteristica delle ottiche del
microscopio.
63
Fig. 1.47 Geometria per la diffrazione elettronica e per la definizione della lunghezza di camera, L
[13].
Come già detto, la legge di Bragg è la seguente (Eq. 1.60):
2d sin   
(1.60)
Consideriamo che θ ~ 1° per diffrazioni di basso ordine con elettroni a 100 keV (λ = 0.037
Å) è una situazione che si verifica per molti materiali. Per angoli così piccoli risulta che
[13]:
sin   tan  
1
tan(2 )
2
(1.61)
Considerando la geometria esposta in Fig. 1.47, si può scrivere che:
tan 2 
r
L
(1.62)
Che sostituita nelle Eq. 1.60 e 1.61 permette di scrivere quanto segue:
2d
1r

2L
(1.63)
64
rd  L
(1.64)
L’ultima equazione ottenuta (Eq. 1.64) è l’equazione della fotocamera (”camera equation”)
e permette di determinare l distanza interplanare, d, misurando la separazione tra gli spot di
diffrazione, r. Per far questo è necessario conoscere il prodotto λL, conosciuto come
costante della fotocamera (“camera constant”), espresso in [Å cm].
Convergent-Beam Electron Diffraction (CBED)
Il sistema delle lenti condensatrici nei TEM moderni, permette di avere grande versatilità
nelle modalità di illuminazione del campione. La forma del fascio incidente (divergenza
angolare e sezione) può essere controllata con precisione e modulata nel tempo. La tecnica
della diffrazione a fascio convergente (convergent-beam electron diffraction o CBED)
mostra queste possibilità ed è una tecnica fondamentale per ottenere diffrazione da regioni
di dimensioni nanometriche. Nella CBED il fascio incidente viene focalizzato con le lenti
condensatrici e con il pre-campo della lente obiettivo (quindi il fuoco della lente obiettivo
cambia facendo variare l’illuminazione). In Fig. 1.48 è riportato il paragone tra
l’illuminazione parallela convenzionale e l’illuminazione nel caso di convergent-beam.
Fig. 1.48 Sinistra: illuminazione convenzionale. Destra: illuminazione in convergent-beam [13].
Nel caso di illuminazione parallela, i fasci diffratti formano fasci paralleli, mentre nel
CBED i raggi incidenti passano attraverso il campione con angoli differenti. Questo range
angolare è piccolo e, in pratica, tutti gli elettroni del cono incidente possono essere diffratti
almeno di qualche grado. Il fascio diffratto si allontana dal campione diviso in un set di
coni divergenti, ciascuno con ampiezza tipica di 1°. La sezione di questi coni diventa più
larga man mano che scende attraverso la colonna del microscopio, e sullo schermo finale
vanno a formarsi dei dischi. L’organizzazione di tali dischi sullo schermo è la stessa del
65
pattern di diffrazione convenzionale. L’intensità dei dischi di CBED non è uniforme ed i
dettagli delle linee e delle strutture all’interno di questi ultimi è di grande utilità nell’analisi
cristallografica al TEM. La simmetria dei pattern nei dischi può essere utilizzata per
ottenere informazioni riguardanti il gruppo di simmetria puntuale della struttura cristallina
[14]. La tecnica CBED è quindi fondamentale, in quanto fornisce informazioni sulla
struttura tridimensionale di un cristallo.
Fig. 1.49 Esempio di pattern di CBED [15].
High resolution TEM (HRTEM)
Le tecniche di immagine bright-field e dark-field non possono essere utilizzare per ottenere
immagini TEM di colonne di atomi in alta risoluzione. Le immagini in alta risoluzione
possono essere spiegate utilizzando la trasformata di Fourier. La funzione d’onda
dell’elettrone diffratto, ψ(Δk), è la trasformata di Fourier della distribuzione del fattore di
scattering nel materiale, f(r). La funzione f(r) segue l’organizzazione degli atomi nel
materiale, mentre Δk è il vettore di diffrazione (differenza tra i vettori d’onda uscente ed
incidente). La trasformata di Fourier degli atomi organizzati nello spazio reale del
campione, F[f(r)], è [13]:

ψ(Δk) = F[f(r)]
f(r) = F-1[ψ(Δk)]
(1.65)
La forma esplicita delle trasformata è:
(k ) 
f (r ) 
1
2
1
2






f (r )e ikr d 3r
(k )e ikr d 3k
(1.66)
(1.67)
66
Il range di Δk può essere selezionato usando l’apertura obiettivo nel piano focale posteriore
della lente obiettivo; tuttavia questa apertura tronca la trasformata di Fourier di Eq. 1.67.
Per una lente obiettivo che seleziona un range δk, il più piccolo dettaglio spaziale
dell’immagine avrà dimensione δx, dove:
x 
2
k
(1.68)
Per risolvere le periodicità atomiche è necessario avere una apertura che incorpori il range
k  2 d , dove d è la distanza interatomica. Infatti, δk è il “vettore del reticolo
reciproco”, ovvero la tipica separazione nello spazio k del primo spot di diffrazione dal
fascio trasmesso. Per ottenere le immagini in bright-field e dark-field viene utilizzata una
apertura più piccola, così da catturare elettroni che vengono diffratti in un particolare spot;
di conseguenza, il troncamento dello spazio k non permette di ottenere immagini ad alta
risoluzione in modalità DF e BF. Per ottenere una immagine in alta risoluzione è necessario
utilizzare una apertura obiettivo grande abbastanza da includere sia il fascio trasmesso che
almeno uno dei fasci diffratti. Il fascio trasmesso (o per meglio dire “scatterato in avanti”)
fornisce una referenza riguardo la fase del fronte d’onda elettronico; le immagini ad alta
risoluzione sono, infatti, pattern di interferenza formati dalle relazioni di fase dei fasci
diffratti, cioè tra le funzioni d’onda dell’elettrone diffratto e di quello trasmesso [13].
Fig. 1.50 Esempio di immagine ad alta risoluzione. Negli inserti sono riportate la SAD (in alto) e
l’ingrandimento di una zona di interesse (in basso) [16].
67
1.3 Spettroscopia a Dispersione di Energia (EDS)
La spettroscopia a dispersione di energia, anche conosciuta come microanalisi EDS
(Energy dispersive spectroscopy), è una tecnica analitica che permette di ottenere
informazioni sulla composizione chimica di un campione, grazie ai segnali caratteristici
emessi dagli elementi costitutivi.
Come già esposto nel paragrafo 1.2.1, un fascio di elettroni che incide su un campione
produce un gran numero di eventi e segnali. Tra questi, i raggi X che emergono dal
campione hanno energie specifiche degli elementi del campione, mentre altri fotoni X non
hanno relazioni con gli elementi costitutivi e vanno a far parte del fondo dello spettro (Fig.
1.50).
1.3.1 La radiazione X continua (Bremsstrahlung)
Quando un fascio di elettroni interagisce con il campo di forze coulombiano degli atomi di
un campione, subisce una decelerazione. La perdita di energia degli elettroni ΔE che si
verifica a causa della decelerazione, si manifesta con l’emissione di un fotone. L’energia di
questo fotone è ΔE = ħν, dove ħ è la costante di Planck e ν è la frequenza della radiazione
elettromagnetica. Questa radiazione emessa è chiamata radiazione di frenamento o
Bremsstrahlung [12].
Dato che le interazioni sono random, l’elettrone può perdere qualsiasi quantità di energia da
un valore pari a zero fino al valore dell’energia originale dell’elettrone incidente E0,
formando uno spettro elettromagnetico continuo (Fig. 1.51).
68
Fig. 1.51 Tipico spettro di emissione del rame, in cui sono indicati i picchi caratteristici e la
radiazione continua [12].
Nel descrivere i raggi X, si fa uso sia della loro energia E (keV) che della lunghezza d’onda
associata λ (nm), legate dalla seguente espressione:

1.2398
nm
E
(1.69)
La massima energia osservabile in uno spettro corrisponde a quella del fascio di elettroni
che ha perso tutta la sua energia in un singolo evento. Dato che le lunghezze d’onda dei
raggi X sono inversamente proporzionali alle energie, i raggi X con maggiore energia
avranno minima lunghezza d’onda, λSWL, chiamata anche limite di Duane-Hunt [12] (Fig.
1.52).
69
Fig. 1.52 Radiazione continua e limite di Duane-Hunt [17].
L’intensità della radiazione X continua, Icm, a qualsiasi energia o lunghezza d’onda, è stata
quantificata da Kramers [12]:
I cm  i p Z
E0  E
E
(1.70)
dove ip è la corrente della sonda elettronica, Z è il numero atomico medio basato sulle
frazioni in massa (pesi) degli elementi del campione, E0 è l’energia del fascio incidente, e
Eν è l’energia del fotone continuo in un punto dello spettro. A basse energie fotoniche,
l’intensità della radiazione continua aumenta rapidamente per l’elevata probabilità di
leggere deviazioni della traiettoria dovute al campo di Coulomb degli atomi. L’intensità
della radiazione continua aumenta all’aumentare della corrente e dell’energia del fascio, e
del numero atomico del campione.. Nella tecnica di analisi di spettroscopia a dispersione di
energia (EDS), la radiazione continua è molto importante perché forma un background
(fondo) sotto i picchi caratteristici. Una volta che il fotone è stato generato con una energia
specifica è impossibile determinare se appartiene alla radiazione continua o a quella
caratteristica. Quindi, l’intensità del background, dovuto alla radiazione continua che si
manifesta alle stesse energie dei raggi X caratteristici, fissa un limite alla quantità minima
identificabile di un elemento. E’ importante notare dalla Eq. 1.70, che la radiazione
continua contiene informazioni sul numero atomico medio del campione e quindi sulla
composizione totale. Di conseguenza, regioni del campione con differente numero atomico
medio, emetteranno radiazione continua con differente intensità a tutti i livelli di energia.
Questa dipendenza del Bremsstrahlung dal numero atomico causa numerosi artefatti nella
mappatura dei raggi X di elementi in minor concentrazione, che possono portare a gravi
errori di interpretazione se non sono riconosciuti e corretti.
70
1.3.2 La radiazione X caratteristica
Un fascio di elettroni può interagire con elettroni fortemente legati delle orbite più interne
all’atomo di un campione, espellendo un elettrone dall’orbita. Perdendo un elettrone,
l’atomo è nello stato energetico eccitato ed è quindi ionizzato. Da parte sua, il fascio
elettronico incidente lascia l’atomo avendo perso una energia almeno pari ad EK, dove EK è
l’energia di legame dell’elettrone espulso dalla shell (livello energetico atomico) K.
L’elettrone espulso dall’orbitale lascia l’atomo con una energia cinetica che dipende dal
tipo di interazione e che può assumere valori da qualche eV a diversi keV. L’atomo stesso
viene lasciato nello stato eccitato avendo perso un elettrone della shell più interna e ritorna
allo stato fondamentale in 1 ps approssimativamente, attraverso un set di transizioni
consentite di elettroni dalle shell più interne, che vanno a riempire la vacanza nella shell
interna. Le energie degli elettroni nelle shell sono precisamente definite da valori
caratteristici di ogni specifico elemento; la differenza di energia tra le shell elettroniche è
una caratteristica specifica di ciascun elemento. Durante il passaggio dell’atomo allo stato
fondamentale, l’eccesso di energia può essere rilasciato in due modi (Fig. 1.53):
 Emissione di elettrone Auger, per transizioni tra shell esterne;
 Emissione di un raggio X (fotone X) caratteristico, per transizioni tra shell interne.
Fig. 1.53 Processo di emissione di fotoni X ed elettroni Auger.
In Fig. 1.54 sono riportati diagrammi con tutte le principali transizioni possibili. La
ionizzazione di un elettrone nella shell K aumenta l’energia dell’atomo al livello K. se un
elettrone della shell L va nella shell K per riempire la vacanza, l’energia dell’atomo
decresce al livello L, ma c’è di nuovo un sito vacante nella shell L, che sarà riempito da un
elettrone di un livello energetico inferiore, e così via.
71
Fig. 1.54 Sinistra: diagramma dei livelli energetici. Destra: ionizzazione dell’atomo.
Il diagramma dei livelli energetici ha origine da accurate rappresentazioni quantomeccaniche dell’atomo, risultanti dalla soluzione dell’equazione d’onda di Schrödinger.
L’energia di un atomo è rappresentata dalle energie dei diversi stati vacanti (cioè da cui
sono stati espulsi elettroni) che possono essere creati dall’azione del fascio elettronico. Le
shell sono ordinate in funzione della crescente distanza dal nucleo atomico e prendono il
nome di shell K, L, M ecc…; sono legate ai numeri quantici e sono divise in sottolivelli
(subshells). Le linee dei raggi X caratteristici di uno spettro sono il risultato di transizioni
tra sottolivelli; tuttavia, la teoria atomica spiega che solo le transizioni tra determinati
sottolivelli sono consentite e quindi non tutte le transizioni hanno come risultato
l’emissione di raggi X caratteristici. La nomenclatura adottata per le righe di emissione
(notazione Siegbahn) è la seguente:
 K, L, M, N = serie in cui cade l’elettrone diseccitato;
 α, β, γ, δ = livello della transizione più probabile;
 1, 2, 3…= sottolivello della transizione più probabile (pedice).
Riguardo la probabilità di una transizione, è possibile affermare che, in generale, maggiore
è la differenza di energia nella transizione elettronica e meno probabile e meno intensa sarà
la linea X. Quindi, le linee Kβ saranno meno intense delle Kα. Per elementi con numero
atomico maggiore di Z = 18, si ha un rapporto tra le intensità delle linee Kα e Kβ pari a
circa 10:1.
I raggi X emessi durante una transizione elettronica permessa sono chiamati “raggi X
caratteristici” a causa dei valori caratteristici di energia e lunghezza d’onda del particolare
elemento che è stato eccitato. Le energie dei livelli elettronici variano in funzione del
72
numero atomico, così anche i raggi X emessi avranno energie caratteristiche che dipendono
dal numero atomico. La differenza di energia tra le shell cambia con step regolari quando il
numero atomico varia di una unità. Questa proprietà fu scoperta da Moseley e può essere
espressa con la seguente equazione (Legge di Moseley):
E  AZ  C 
2
(1.71)
dove E è l’energia della linea del raggio X, A e C sono costanti che differiscono per
ciascuna serie di raggi X (C = 1.13 per la serie K e circa 7 per la serie L). La legge di
Moseley è alla base dell’analisi qualitativa dei raggi X e, quindi, dell’identificazione degli
elementi che costituiscono un campione.
E’ importante puntualizzare che quando un fascio di elettroni ha energia sufficiente a
ionizzare una particolare shell di un atomo per produrre raggi X caratteristici, tutti gli altri
raggi X caratteristici, con energie minori, dello stesso atomo verranno eccitati, ammesso
che ci siano elettroni disponibili per tali transizioni. La produzione di raggi X a bassa
energia avviene a causa sia della ionizzazione diretta di quelle shell a causa del fascio
elettronico, sia a causa della propagazione degli stati vacanti verso l’esterno (da K a L a M)
quando l’atomo torna allo stato fondamentale.
1.3.3 Rivelatori per la microanalisi EDS
Come già ampiamente esposto, conoscere l’energia dei raggi X caratteristici significa
conoscere le differenze tra i livelli atomici della sostanza che li emette e, quindi, conoscere
gli elementi che la compongono. Le principali tecniche utilizzate per l’analisi del segnale
sono due:
 WDS : Wavelenght - Dispersive Spectrometer.
 EDS : Energy - Dispersive x-ray Spectrometer.
Wavelenght Dispersive Spectrometer (WDS)
La tecnica WDS, ovvero spettroscopia a dispersione di lunghezza d’onda, si basa sulla
natura ondulatoria dei fotoni X emessi. Il raggio X che proviene dal campione viene
mandato su un monocromatore che seleziona le diverse lunghezze d’onda (nλ) e le
trasferisce ad un rivelatore. In questo caso il detector non ha il compito di misurare
l’energia perché questa è già stata selezionata dal monocromatore, per cui è sufficiente un
contatore proporzionale che abbia elevata efficienza e un basso rumore. Come reticolo di
diffrazione si utilizza un cristallo, che sfrutta la legge di Bragg (distanza interatomica
paragonabile alla lunghezza d’onda dei fotoni incidenti) analogamente a quanto si fa nella
73
diffrazione di raggi X. In questo modo fotoni con diversa lunghezza d’onda vengono
separati e poi rilevati singolarmente per essere discriminati. La geometria di focalizzazione
dei raggi X è conosciuta come cerchio di Rowland (Fig. 1.55).
Fig. 1.55 Illustrazione del funzionamento del detector WDS e del cerchio di Rowland.
Una volta scelto il cristallo, il rivelatore ruota in modo da selezionare diverse energie (se
cambia θ cambia anche λ). E’ necessario utilizzare diversi cristalli (diversi d) a seconda
dell’intervallo di energie di interesse. La tecnica WDS fornisce una risoluzione spettrale
molto elevata, dell’ordine dei 10 eV ma ha il difetto di avere tempi di acquisizione più
lunghi rispetto alla tecnica EDS.
Energy Dispersive X-ray Spectrometer (EDS)
Con questa tecnica si utilizza uno spettrometro in grado di discriminare le energie. Per
questo scopo si sfrutta l’interazione energetica tra i raggi X e un monocristallo raffreddato
con azoto liquido (-192°C) di Si ad alta resistività drogato con Li (o un monocristallo di
Ge) che sfrutta la proprietà per cui un fotone incidente su un semiconduttore produce
coppie elettrone-lacuna in numero proporzionale alla sua energia.
74
Fig. 1.56 Illustrazioni del detector EDS [18].
Ogni fotone produce un certo numero di cariche all’interno del dispositivo (in particolare
all’interno della regione di svuotamento), che danno origine ad una carica indotta agli
elettrodi la cui variazione provoca un passaggio di corrente. Misurando questa corrente è
possibile risalire alla carica totale indotta agli elettrodi e quindi, indirettamente, all’energia
del fotone X incidente. Il silicio ha un’energia caratteristica, detta energia di creazione della
coppia elettrone-lacuna, che è pari a 3.6 eV; questa è l’energia media che la radiazione
ionizzante perde per creare una coppia. Tale valore è circa tre volte più grande dell’energia
di gap dello stesso elemento. La radiazione X perde parte della sua energia dal punto di
vista elettrico e parte dal punto di vista termico, perché oltre alla produzione di coppie si ha
produzione di fononi. Il numero di coppie create per fotone incidente è:
n
E
 coppia
(1.72)
dove E è l’energia del fotone e ɛcoppia è l’energia di creazione della coppia elettrone-lacuna.
Come già detto, la creazione di carica (mobile) all’interno del dispositivo genera una carica
indotta agli elettrodi. L’elettronica impiegata nel detector EDS è tale da convertire il
segnale in carica generato dal passaggio del fotone, in un segnale di tensione, utilizzando
un circuito integratore. Tale circuito restituisce in uscita l’integrale del segnale in ingresso
e, essendo l’integrale della tensione proporzionale alla carica rilasciata, è possibile risalire
all’energia del fotone.
Esiste ora una nuova generazione di detector EDS ovvero i silicon drift detector (SDD). Si
tratta di rivelatori di silicio di tipo “n” ad alta resistività in cui l’anodo ha piccola massa ed
è confinato in un piccolo spazio, mentre la finestra di entrata è polarizzata ad elevata
tensione negativa. Gli elettroni vengono generati all’interno del volume a causa
dell’assorbimento della radiazione ionizzante e vengono forzati ad andare verso il piccolo
anodo, da un campo elettrico con una forte componente parallela al wafer di silicio. I
detector SDD hanno forma circolare, gli elettrodi sono concentrici e polarizzati con
75
tensione sempre più negativa a partire dall’anodo: la direzione del gradiente di tensione è
tale da far sì che l’anodo sia a potenziale più positivo e collezioni tutti gli elettroni rilasciati
all’interno del volume, a causa dell’assorbimento della radiazione ionizzante. In questo
modo si ottiene l’assenza di regioni libere dal campo elettrico. Per ottimizzare questi
detector per la spettroscopia a raggi X, sulla superficie maggiore è stata posta la giunzione
p+, mentre sul lato opposto c’è l’anodo n-.
Fig. 1.57 Silicon Drift Detector.
La capacità anodica ha un valore estremamente piccolo e risulta sostanzialmente
indipendente dall’area attiva del dispositivo; questa caratteristica, unita alle piccole
dimensioni fisiche dell’anodo, consente di ottenere un segnale di tensione all’anodo di
ampiezza maggiore rispetto al comune EDS e con tempi di elaborazione del segnale più
brevi. Inoltre, in questo caso non è necessario il raffreddamento con azoto liquido, ma è
sufficiente utilizzare un sistema di raffreddamento Peltier (-25°C).
76
Bibliografia Capitolo 1
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Examples and Solved Problems, Springer 2011.
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Dublin Philosophical Magazine and Journal of Science 26.151 (1913) 1-25.
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and Dublin Philosophical Magazine and Journal of Science 26.156 (1913) 1024-1034.
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amorphous materials, Wiley-VCH Ed. 1974.
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distortion, Acta Crystallographica 15.12 (1962) 1311-1312.
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novel technique for materials characterisation at sub-microscopic levels, Sādhanā 28
(2003) 763–782.
[16] Yang J, Yang Y, Waltermire SW, Wu X, Zhang H, Gutu T, Jiang Y, Chen Y, Zinn
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due to van der Waals interfaces, Nature Nanotechnology 7 (2012) 91–95.
[17] http://www.ammrf.org.au/myscope/analysis/eds/xraygeneration/bremsstrahlung/
[18] www.emcourses.com
77
Capitolo 2
Materiali per immagazzinamento
dell’idrogeno allo stato solido
2.1 Introduzione
L’idrogeno è un promettente vettore energetico alternativo che può facilitare la transizione
dai combustibili fossili alle sorgenti di energia pulita, grazie a diversi vantaggi quali:
 elevata densità di energia (142 MJ kg-1) [1];
 grande varietà di potenziali sorgenti (acqua, biomassa, materiale organico);
 peso molecolare più basso di tutti i gas (2 g mol-1);
 basso impatto ambientale (l’acqua è il solo prodotto della combustione).
Per queste proprietà, un chilogrammo di idrogeno riempie un volume di 12.2 m 3 in
condizioni normali. Una grande mole di ricerche è stata fatta negli ultimi anni (ed ancora
oggi prosegue) in tutto il mondo per sviluppare sistemi di stoccaggio di idrogeno che siano
sicuri, compatti ed efficienti. I possibili sistemi di stoccaggio di H 2 sono i seguenti [2]:
 stoccaggio in forma di gas compresso, fino a 70 MPa in contenitori ad alta pressione
[3];
 stoccaggio criogenico allo stato liquido a 21 K [3];
 combustibile solido in combinazione chimica o fisica con materiali quali, idruri
metallici, idruri complessi, materiali a base di carbonio [4,5], metal-organic frameworks
[6], polimeri nanoporosi [7];
 produzione on-board sui veicoli tramite steam reforming del metanolo [8].
Per lo stoccaggio di idrogeno, l’obiettivo da raggiungere stabilito dal Dipartimento
dell’Energia degli Stati Uniti (DOE) è fissato al 5.5wt.% H2 per il 2015 [9].
L’impiego di idruri metallici rappresenta al momento il miglior modo di procedere perché,
rispetto agli altri sistemi elencati in precedenza, gli idruri hanno caratteristiche peculiari
quali elevata densità di immagazzinamento di H2 ed elevata sicurezza di impiego. I
principali requisiti che i sistemi di idruri metallici devono soddisfare sono i seguenti [4]:
78
 elevata capacità di idrogeno per unità di massa e di volume;
 basse temperature e moderate pressioni di dissociazione;
 basso calore di formazione (per minimizzare l’energia necessaria per il rilascio di H 2);
 bassa dissipazione di calore (durante la reazione esotermica di formazione dell’idruro);
 reversibilità;
 limitata perdita di energia durante i processi di carico e scarico dell’idrogeno;
 cinetiche veloci;
 elevata stabilità rispetto all’ossigeno e suoi composti, per un lungo ciclo di vita;
 stabilità con cicli a lungo termine;
 elevata sicurezza.
Le leghe a base di magnesio hanno attratto la maggiore attenzione grazie alla elevata
capacità di stoccaggio di H2 ed al basso costo; infatti, il Mg puro può immagazzinare fino al
7.6 wt.% di idrogeno [1, 2]. L’entalpia di formazione dell’idruro di magnesio (MgH 2) è pari
a -74.7 kJ/mol H2 e la relativa energia di attivazione è valutata pari a 86 kJ/mol H2 [10].
Nonostante la elevata capacità di stoccaggio, nell’utilizzare film sottili di Mg e sue leghe
per questo scopo, ci sono senza dubbio dei rilevanti svantaggi quali:
1. cinetiche lente;
2. elevata temperatura di impiego;
3. elevata reattività con l’ossigeno.
Nell’ambito di questo lavoro di Tesi svolto durante gli anni di Dottorato, è stato
inizialmente valutato il comportamento di film sottili di Mg puro, effettuando test di
idrogenazione per ottenere dati sulla quantità di H2 assorbito e sulle cinetiche di reazione. Il
problema della elevata tendenza all’ossidazione (3) è stato risolto depositando sui film
sottili di Mg uno strato di Pd di circa 20 nm di spessore, che di fatto protegge la superficie
del film da qualsiasi esposizione all’ossigeno; inoltre, il Pd ha anche la duplice funzione di
catalizzare la reazione di dissociazione dell’idrogeno H 2 → H + H sulla superficie del
film, velocizzandone l’assorbimento. Per rendere più veloci le cinetiche di reazione, lavori
già presenti in letteratura [4,11,12] hanno suggerito di eseguire un drogaggio dei film,
depositando insieme al Mg, il 5% in atomi di un metallo di transizione, quale il niobio
(Nb). I risultati dei test di idrogenazione e della caratterizzazione microstrutturale sono
riportati all’interno di questo capitolo. Tuttavia, nonostante i miglioramenti ottenuti con il
drogaggio, le cinetiche ottenute non sono ancora veloci al punto da poter pensare di
implementare realmente il sistema. Inoltre, i film sottili soffrono di una grave mancanza di
stabilità, quale il fenomeno della decrepitazione, ovvero l’effettiva polverizzazione del film
sottile dovuta all’infragilimento indotto dai cicli di assorbimento/desorbimento di H 2.
Una possibile soluzione a questi problemi può essere rappresentata dai materiali compositi
di metallo e polimero, in cui un materiale metallico formante la fase idruro, viene disperso
in una matrice polimerica. L’uso di un polimero adatto come matrice, può preservare la
stabilità a lungo termine delle particelle metalliche e proteggerle dalla reazione con
ossigeno o altri gas contaminanti [13]. Inoltre, il passaggio da film sottili a particelle di
79
dimensioni micro- e nano-metriche, induce importanti cambiamenti nelle proprietà fisicochimiche caratteristiche dei materiali. Infatti, considerando l’immagazzinamento di H2,
studi recenti indicano che il nanoconfinamento (ovvero confinamento di nanoparticelle in
matrici) apporta un forte miglioramento delle proprietà cinetiche e permette di
destabilizzare termodinamicamente gli idruri metallici [14-16]. Il nanoconfinamento
permette di proteggere le particelle dalla coalescenza e dagli ambienti reattivi.
L’idea principale è quella di creare un sistema bifasico composto da uno scaffold in cui
nanoparticelle metalliche vengono inglobate nei pori della struttura ospite. Esistono al
momento due modalità di sintesi per preparare campioni di questo genere. Il primo metodo,
definito ship-in-the-bottle, consiste nel partire da un material nanoporoso ed infiltrare il
precursore del metallo, che verrà poi trasformato in metallo con trattamenti chimici o
termici, così da ottenere il materiale ibrido finale. Il secondo metodo, bottle-around-theship, consiste nell’intrappolare le specie metalliche nello scaffold durante le preparazione
chimica di quest’ultimo. Quando si sceglie l’appropriato scaffold per applicazioni di
stoccaggio di H2, devono essere considerati diversi criteri:
 elevata area specifica superficiale con adeguata distribuzione di pori;
 stabilità termica e chimica (per evitare reazioni quali ossidazione e passivazione;
 peso leggero;
 basso costo;
 facile reperibilità;
 nessun pericolo per l’ambiente.
Attualmente, come materiali per scaffold, sono di grande interesse i materiali a base
carboniosa [17-20], metal organic framework [21-29] e materiali polimerici [30-34].
Riguardo le nanoparticelle, tra tutti i possibili metalli, due sono le tipologie più importanti
per il nanoconfinamento [35]:
 metalli nobili (altamente resistenti alla reazioni chimiche, per lo più si tratta di particelle
a base di Pd) che formano idruri metallici interstiziali,
 metalli leggeri (nanoparticelle a base di Mg) che formano idruri ionici.
Nel presente lavoro, dopo aver affrontato le problematiche dei film sottili di Mg puro e Mg
drogato con 5% Nb, si è posta l’attenzione sullo sviluppo e sulle proprietà di un materiale
composito ottenuto da componenti disponibili in commercio e a basso costo. I compositi
sono stati realizzati mescolando particelle di Pd con polisilossano (Saratoga), in diverse
percentuali in peso. I risultati principali sono riportati nel paragrafo 2.3 della presente tesi
[36].
80
2.2 Film sottili
2.2.1 Deposizione
I campioni, forniti dal Dipartimento di Fisica dell’Università di Trento, sono film sottili di
Mg-Nb 0at.% e Mg-Nb 5at.%; le percentuali si riferiscono al niobio atomico. Il Nb è
disperso in soluzione solida nel magnesio. I campioni sono stati depositati tramite r.f.
magnetron sputtering su wafer di grafite.
Il processo di sputtering (Fig. 2.1) consiste nel bombardare un materiale solido, bersaglio
(target), mediante un fascio di particelle sufficientemente energetiche da produrre
l'emissione di atomi, ioni o frammenti molecolari, dalla superficie del target stesso. In un
sistema r.f. magnetron sputtering il plasma è attivato da una radiofrequenza a 13.56 MHz
(Radio Frequency). Il sistema di deposizione fa inoltre uso di un dispositivo passivo in
grado di generare un campo magnetostatico; le particelle e gli ioni dotati di carica elettrica
sono soggetti alla forza di Lorentz e vengono quindi deviati dalle linee di flusso del campo,
in modo da impattare più volte con il target del materiale da depositare. Con questo sistema
si immette più materiale nel plasma ottenendo velocità di deposizione maggiori a pressioni
minori. Come gas di processo si utilizza argon con una purezza del 99.999%. Il processo di
deposizione è stato realizzato ad una pressione di gas all'interno del sistema da vuoto di 0.5
Pa (il vuoto base della camera è inferiore ai 10 −5 Pa) utilizzando una potenza di 150 W; con
questi parametri operativi, la differenza di potenziale tra gli elettrodi risulta compresa fra i
300 ed i 400 V. La generazione degli ioni Ar- avviene mediante una scarica prodotta tra due
elettrodi. Per i film di Mg viene utilizzato un target di magnesio di purezza 99.95%; per i
campioni Mg con Nb viene, invece, realizzato un target apposito, ponendo dei frammenti di
niobio, caratterizzati da una purezza del 99.95%, sopra il target di Mg. La concentrazione
effettiva di niobio nei film viene poi misurata mediante tecnica EDS (Energy Dispersive
Spectroscopy). Senza interrompere le condizioni di vuoto, su tutti i film preparati viene
depositato, sempre per r.f. magnetron sputtering, un sottile strato di palladio (pochi nm),
utilizzando un target con una purezza del 99.95%. La deposizione del palladio ha un
duplice scopo: evitare l'ossidazione superficiale del materiale e favorire la dissociazione
della molecola di H2 durante il processo di idrogenazione.
81
Fig. 2.1. Rappresentazione schematica del processo di sputtering.
2.2.2 Interazione con l’idrogeno: cinetiche di reazione
Una volta sfogliati dalla grafite, i campioni si presentano come film di circa 1 cm di
diametro, con superficie lucida. Prima di iniziare i cicli è necessario sottoporre i campioni a
base di Mg ad alcuni cicli di attivazione a 350°C e 15 atm di idrogeno, al fine di eliminare
la presenza di contaminazione superficiale e di ossidi di magnesio (il layer di palladio, a
causa della elevata rugosità, non ricopre efficacemente tutta la superficie del magnesio) che
ostacolano l'assorbimento di idrogeno. Terminata questa prima fase, si procede con i
ciclaggi veri e propri: l'assorbimento del gas idrogeno viene effettuato mantenendo i
campioni per 24h a 15 atm di pressione di idrogeno e alla temperatura di 350 °C. Per il
desorbimento si esegue l'evacuazione della camera, mantenendo la temperatura a 350 °C.
Tra un ciclo ed il successivo la camera in cui si trovano i campioni non viene mai aperta e
quindi questi ultimi non entrano in contatto con l'ossigeno o con il vapore acqueo presenti
nell’atmosfera.
I campioni analizzati hanno uno spessore compreso nel range 28÷43 nm, mentre lo strato
superficiale continuo di Pd ha uno spessore variabile tra i 3÷30 nm. I campioni sono stati
osservati così come depositati (0 cicli) e dopo 8 cicli, dove con un ciclo si intende un
82
completo assorbimento ed un completo desorbimento di idrogeno, da parte del campione
[12,37-38]. Le misure cinetiche hanno consentito di valutare come evolvono i tempi di
reazione, in funzione del numero di cicli di assorbimento e desorbimento di idrogeno. Per
quanto concerne i film di magnesio puro si osserva un progressivo miglioramento delle
cinetiche in seguito ai primi cicli di attivazione superficiale.
Fig. 2.2 Curve cinetiche integrali misurate a 350°C relative ai cicli di un campione di magnesio puro.
La curva del ciclo 8 è relativa alle condizioni stazionarie.
Dalla Fig. 2.2 è possibile vedere come all’ottavo ciclo si raggiunga il massimo
assorbimento di idrogeno (circa 7.6 wt%). Con l’inserimento del niobio all’interno della
matrice di magnesio, si osserva un netto miglioramento delle cinetiche, tanto che il ciclo
peggiore (a livello cinetico) dei campioni Mg-Nb 5% è comunque migliore del più veloce
ciclo riscontrabile con i campioni di magnesio puro.
83
Fig. 2.3 Cicli di attivazione dei campioni Mg-Nb 5%.
Fig. 2.4 Andamento delle cinetiche di reazione dal quinto ciclo in poi.
84
2.2.3 Caratterizzazione strutturale
Misure XRD
Le informazioni ottenute dalle misure XRD riguardano le fasi cristalline, l'orientazione e la
dimensione dei grani oltreché il livello di stress presente nei film. La dimensione media dei
grani è stata calcolata mediante l’equazione di Scherrer [39]:
L
k
 cos 
(2.1)
dove k è il fattore di forma adimensionale (circa 0.9), λ è la lunghezza d'onda della
radiazione impiegata (1.5406 Å), mentre β è l'ampiezza a metà altezza (FWHM = Full
Width at Half Maximum) del picco. Per il magnesio è stato utilizzato, come riferimento per
il calcolo, il picco (002) in tutte le misure; infatti, tale picco risulta essere il più intenso per
tutti i campioni, a causa del fatto che la crescita del film avviene con l'asse c orientato
ortogonalmente al substrato.
La caratterizzazione strutturale dei campioni è stata realizzata tramite spettroscopia XRD
nella configurazione convenzionale di Bragg-Brentano mediante un diffrattometro a raggi
X Bruker D8 Advance, utilizzando la radiazione CuKα (λ = 0.15414 nm).
Lo spettro dei raggi X per i campioni “as deposited” è quello riportato nella Fig. 2.5.
Fig. 2.5 Sinistra: spettro dei raggi X del campione Mg-Nb 0% “ as deposited”; per i campioni Mg-Nb
5% si ottiene uno spettro analogo. Destra: spettro raggi X dei campioni Mg-Nb 0% dopo un ciclo.
85
Gli spetti riportati in Fig. 2.5 mostrano come il magnesio cresca in maniera preferenziale
lungo la direzione (002), che è quella termodinamicamente favorita. I campioni di
magnesio puro sono stati analizzati ai raggi X dopo 1, 2, 3, 4 e 8 cicli. Dopo un ciclo di
assorbimento/desorbimento dell’idrogeno, oltre ai picchi caratteristici del magnesio, si
osserva la presenza di MgH2 residuo nel campione e la formazione di ossido in minima
parte (2θ ≈ 43°). Sono presenti diversi picchi relativi al composto Mg 6Pd, mentre non si
riscontra alcuna presenza di Pd. Unendo gli spettri, ricavati ad ogni analisi, si ottiene
quanto riportato in Fig. 2.6.
Fig. 2.6 Spettro raggi X riassuntivo per il campioni Mg-Nb 0% [40].
In Fig. 2.6 si vedono chiaramente tutti i picchi relativi al magnesio; quello relativo a Mg
(002) a 2θ = 34° è il più elevato in tutti i cinque casi. Si noti la presenza di picchi,
particolarmente importanti dal secondo ciclo in poi, relativi al composto Mg6Pd. I picchi
relativi all'idruro di magnesio sono maggiormente visibili nello spettro del secondo ciclo e
si attenuano all'aumentare del ciclaggio.
Per i campioni drogati con il 5% in atomi di Nb, l’analisi ai raggi X, effettuata dopo il
primo ciclo, ha permesso di ottenere il seguente spettro di diffrazione:
86
Fig. 2.7 Spettro del campione Mg-Nb 5% dopo un ciclo; è interessante osservare il multipletto legato
alla sovrapposizione dei tre picchi relativi a Mg, Nb0,89 e Mg6Pd.
Osservando questo spettro si notano subito i picchi del magnesio. Come ipotizzabile, si
osserva la presenza di Nb e soprattutto di idruro di niobio (NbH 0.89), mentre non vi è alcuna
traccia di MgH2 residuo. Si noti, inoltre, la presenza di Mg6Pd ad un angolo 2θ di circa 38°.
Lo spettro riassuntivo dell’analisi ai raggi X per i campioni Mg-Nb 5% si presenta come
indicato nella Fig. 2.8.
Fig. 2.8 Sovrapposizione di tutti gli spettri XRD dei campioni Mg-Nb 5%.
87
La Fig. 2.8 mostra che i picchi del Nb diventano più intensi dal secondo ciclo in poi, mentre
il picco relativo al composto Mg6Pd visibile nello spettro del primo ciclo, si attenua con il
passare dei cicli. Un comportamento analogo si riscontra anche per l’idruro di niobio
(NbH0,89). Il picchi del magnesio sono ovviamente ben distinguibili in tutti gli spettri. I
picchi relativi al palladio e all’ossido di magnesio sono, invece, soltanto accennati,
rispettivamente a 0 cicli e ad 8 cicli.
Considerando tutti gli spettri XRD dei campioni di Mg puro e Mg-Nb 5% (Fig. 2.6, Fig.
2.8), è possibile notare la formazione del composto Mg6Pd legata alla diffusione del Pd nel
magnesio a partire dal primo ciclo di assorbimento/desorbimento. Il picco relativo a questo
composto tende a crescere nel caso del magnesio puro, mentre nei campioni drogati con
niobio si osserva l’effetto contrario. Un risultato evidente, e particolarmente enfatizzato nei
campioni Mg-Nb 5%, è la diminuzione dell’ampiezza del picco Mg (002) durante il
ciclaggio. Inoltre, ciclo dopo ciclo l’ampiezza di picchi relativi ad altre orientazioni del Mg
tende ad aumentare indicando che il magnesio passa dall’essere monocristallino nella
condizione “as deposited” (0 cicli) al diventare policristallino. Nei campioni di magnesio
drogato si osserva inoltre un aumento del picco relativo al niobio, dal primo ciclo in poi.
Le analisi degli spettri XRD hanno permesso di stimare il livello di stress del reticolo di
magnesio in tutti i campioni, utilizzando il picco Mg (002) che è sempre il più intenso.
L’esatta posizione angolare della riflessione Mg (002) è stata ricavata dall’interpolazione
Lorentziana del picco e la corrispondente distanza interplanare (d) è stata calcolata
applicando la legge di Bragg. Lo stress reticolare del piano Mg (002) espresso in termini di
variazione della distanza interplanare, è stato determinato grazie alla formula:

d  d0
d
(2.3)
dove d0 è la spaziatura dei piani Mg (002) nel reticolo privo di stress. Per il calcolo è stato
assunto un d0 = 0.605 nm, che corrisponde alla distanza interplanare per Mg (002) nel
reticolo senza stress, riportata nella card ICDD n.° 35-381. In queste condizioni, l’errore
relativo associato alla deformazione del reticolo ɛ è di ~0.15%.
88
Fig. 2.9 Evoluzione degli stress residui per campioni di magnesio drogato con diverse concentrazioni
di niobio (0% e 5.%) in funzione del numero dei cicli di assorbimento e desorbimento di H 2 [40].
Dalla Fig. 2.9 risulta evidente la differenza di stress tra la matrice di Mg puro e quella di
Mg-Nb 5%. Nel caso del magnesio drogato, l’interazione con l’idrogeno causa un parziale
rilassamento della matrice concentrato nei primi quattro cicli. Al contrario, la curva
tratteggiata, relativa al magnesio puro, ha un andamento sostanzialmente costante sempre
nell’intorno del valore 0 di ɛ, indice che la matrice in questo caso non è sottoposta a
particolari stress, né dopo la deposizione, né durante il ciclaggio. All’ottavo ciclo, i livelli
di stress in entrambi i casi, diventano confrontabili.
Per ciò che concerne le dimensioni dei grani, considerando sempre il picco Mg (002), si è
ottenuto il risultato mostrato in Fig. 2.10.
89
Fig. 2.10 Evoluzione della dimensione dei grani cristallini di magnesio per i campioni Mg-Nb 0% e
Mg-Nb 5% in funzione del numero dei cicli di assorbimento e desorbimento dell'idrogeno.
Osservazioni SEM
CAMPIONI Mg-Nb 0%
Il campione di magnesio puro “as deposited” (Fig. 2.11a) mostra di avere una superficie,
sul lato dove è deposto il palladio, particolarmente rugosa, composta di scaglie aventi
dimensioni medie variabili tra 1 e 10 micron. Queste scaglie hanno una forma squadrata e
gli angoli tra le facce sono di circa 120°.
90
Fig. 2.11 Superfici dei campioni di Mg-Nb 0% su cui è stato depositato il palladio: “as deposited” (a),
dopo 8 cicli (b).Micrografie delle sezione di campioni Mg-Nb 0%, non ciclato (c), e ciclato otto volte
(d).
Dopo aver subìto otto cicli di idrogenazione, la superficie del film presenta una struttura
finemente rugosa (Fig. 2.11b) e non più la struttura a scaglie osservata in precedenza. La
rugosità di tale superficie è da ritenersi legata al fatto che i grani di magnesio sono
colonnari e crescono lungo una direzione preferenziale. Il palladio depositato sulla
superficie ne ricalca tutte le increspature; questo giustifica la non uniformità dello spessore
di tale strato e la conseguente necessità di cicli di attivazione.
Gli stessi campioni, 0 cicli (Fig. 2.11d) ed 8 cicli (Fig. 2.11e), sono stati osservati in
sezione. Nel campione sottoposto ad 8 cicli, si osserva una struttura molto porosa, mentre la
sezione del campione non ciclato appare piatta con qualche gradino e, nel complesso,
strutturalmente più ordinata.
91
CAMPIONI Mg-Nb 5%
Nei campioni drogati con niobio, la situazione superficiale si dimostra subito molto diversa
rispetto ai campioni precedentemente osservati (Mg puro), come visibile in Fig. 2.12.
Fig. 2.12 Immagine superficiale del campione di Mg-Nb 5%, dopo il primo ciclo (a), dopo 8 cicli (b).
Micrografie delle sezioni dei campioni di Mg-Nb 5%, “as deposited” (c) e dopo otto cicli (d).
La superficie del campione di Mg puro sulla quale è stato depositato il Pd (Fig. 2.12a, Fig.
2.12b), presenta una struttura a squame di forma irregolare. In questo caso, gli angoli di
120° tra le facce delle scaglie visibili nel caso del magnesio puro non si distinguono più. Le
squame hanno dimensioni che variano tra 1 e 10 μm. Dopo aver sottoposto il campione con
analoga composizione a 8 cicli di idrogenazione, si osserva che la superficie mantiene la
struttura a squame osservabile dopo il primo ciclo. Come per i campioni di magnesio puro,
è stata caratterizzata al SEM anche la sezione dei campioni a 0 ed 8 cicli. Il campione “as
deposited” presenta una struttura caratterizzata da nano porosità (Fig. 2.12c). Dopo otto
cicli si osserva una struttura fortemente porosa, caratterizzata da pori di dimensioni più
elevate e da una struttura ben organizzata, rispetto alla situazione precedente (Fig. 2.12d).
92
Osservazioni TEM
Dalle osservazioni al TEM [40] è stato subito rilevato un ispessimento del film, passando
dalla condizione “as deposited” (nessuna idrogenazione) all’ottavo ciclo, che passa da ~28
µm nel caso del campione “as deposited” a ~43 µm nel caso del film sottoposto ad 8 cicli.
Nei campioni di Mg puro (Mg-Nb 0%) il film cresce con orientazione (001). Tale
orientazione preferenziale tende a ridursi all'aumentare del numero di cicli di assorbimento
e desorbimento. In Fig. 2.13 è riportata una immagine TEM che evidenzia lo strato di
palladio depositato sulla superficie di tutti i campioni (Mg puro “as deposited”, in questo
caso). Tale ricoprimento ha uno spessore di ~20 nm.
Fig. 2.13 Film di Mg puro in cui è evidente lo strato di palladio. Nell’inserto è mostrata la figura di
diffrazione di una zona a cavallo del layer di Pd.
La Fig. 2.14 mostra due micrografie TEM dei film di Mg puro in condizioni “as deposited”
(sinistra) e dopo 8 cicli di assorbimento e desorbimento (destra). Nel primo caso si
osservano grani di magnesio con la tipica struttura colonnare e dimensione maggiore
confrontabile con lo spessore del film. Dopo l’interazione con l’idrogeno (Fig. 2.14 destra),
la struttura del film è totalmente cambiata: i grani colonnari sono stati sostituiti da una
struttura frastagliata e porosa, indice della reazioni tra magnesio ed idrogeno. L’analisi
degli anelli e degli spot di diffrazione più intensi, ha mostrato la presenza di Pd(111), Pd
(200), Pd (220), MgO (200) e MgO (220), risultato compatibile con la posizione del punto
in cui è stata effettuata la diffrazione.
93
Fig. 2.14 Panoramica TEM del film sottile di magnesio puro a 0 cicli (sinistra) e 8 cicli (destra).
Nelle osservazioni del campione Mg-Nb 0% ciclato 8 volte, è stata focalizzata l’attenzione
sulla ricerca di Mg6Pd, già individuato dai raggi X. Questo composto è caratterizzato da
parametri reticolari molto grandi e tali da renderne visibile la struttura cristallina già in
condizioni di “bright field” e “dark field”.
Fig. 2.15 Immagine TEM del campione Mg-Nb 0% ad 8 cicli, della zona di Mg6Pd; in particolare, si
riescono a vedere gli atomi appartenenti a tale composto.
94
Fig. 2.16 Cristallo di Mg6Pd formatosi nel campione di Mg puro ciclato otto volte: immagine in
bright-field (sinistra) e dark field (destra). Nell’inserto della micrografia in bright-field c’è la relativa
figura di diffrazione.
L’indicizzazione della figura di diffrazione nell’inserto di
distanze interplanari relative sia agli spot che agli anelli,
parametri reticolari del composto Mg6Pd. L’immagine del
gli spot più intensi attribuiti alla fase Mg6Pd, permette
dimensioni variano tra 5 e 60 nm.
Fig. 2.16 ha mostrato che le
sono in pieno accordo con i
campione in “dark field”, con
di vederne i cristalli le cui
CAMPIONI Mg-Nb 5%
Il campione sottoposto a otto cicli di assorbimento e desorbimento di H 2 risulta essere
estremamente fragile, pertanto è stato preparato per le osservazioni al TEM, frantumandone
i resti all’interno di un mortaio e depositando la polvere così ottenuta su una griglia di rame
ricoperta con un film di carbonio. Tra i frammenti di campione ottenuti sono stati scelti
quelli più sottili e quindi trasparenti al fascio elettronico.
95
Al fine di determinare la natura delle nanoparticelle, sono state eseguite delle misure di
diffrazione elettronica su aree selezionate. Una tipica figura di diffrazione è riportata
nell’inserto di Fig. 2.17. Gli anelli di diffrazione corrispondono a distanze interplanari in
perfetto accordo con i piani reticolari del Nb (cubico, a = 0.3306 nm) che è presente in
forma policristallina.
Per documentare l’esatta posizione dei cristalli di Nb è stata realizzata un’immagine del
campione, dal quale è stata presa la diffrazione, in bright-field (Fig. 2.17 sinistra). A destra
c’è un’immagine dello stesso campione in dark-field (Fig. 2.17 destra); con questa tecnica
le particelle di Nb appaiono molto luminose. Risulta quindi senza alcun dubbio che le
nanoparticelle osservate sono cristalli di Nb.
Fig. 2.17 Immagine del campione con 5% di Nb in bright-field (destra) e in dark-field (sinistra).
Nell’inserto della micrografia di sinistra si ha la relativa figura di diffrazione, la cui indicizzazione
indica presenza di Nb.
In Fig. 2.18 è riportata una immagine TEM del campione Mg-Nb 5% dopo 8 cicli in cui è
visibile l’amorfizzazione del magnesio in corrispondenza dei clusters del niobio.
Nell’inserto si ha la relativa figura di diffrazione in cui i cerchi sono indicizzabili come Nb
e gli spot come Mg. Il niobio forma clusters aventi dimensioni pari a ~10 nm.
96
Fig. 2.18 Micrografia TEM del campione Mg-Nb 5% dopo 8 cicli. Nell’inserto c’è la relativa figura
di diffrazione: gli spot corrispondo a Mg, gli anelli a Nb [40].
2.2.4 Discussione
Osservando i grafici delle cinetiche (Fig. 2.2, Fig. 2.3, Fig. 2.4) , risulta evidente come
l’idrogeno venga assorbito e desorbito con una velocità maggiore di circa di un ordine di
grandezza nel caso di Mg-Nb 5%, rispetto al magnesio puro. Questo effetto è legato alla
presenza del niobio che viene disperso in soluzione solida con il magnesio, proprio per
migliorarne le cinetiche di reazione. Pur favorendone la penetrazione nel campione, la
presenza del niobio nella matrice di magnesio, causa una leggera diminuzione della quantità
di H2 assorbito, a parità di ciclo considerato. Per i campioni di magnesio puro si osserva
una evoluzione delle cinetiche fino all’ottavo ciclo, superato il quale l’andamento si
mantiene sostanzialmente costante. Questo risultato può essere spiegato considerando che,
durante i ciclaggi, si forma una fase amorfa all’interno del campione. Tale fase cresce ciclo
dopo ciclo fino a raggiungere l’equilibrio con quella cristallina, segnando quindi il punto
oltre il quale le cinetiche non migliorano più.
Osservando gli spettri XRD (Fig. 2.6, Fig. 2.8) , si nota chiaramente la formazione di
Mg6Pd cubico, dovuta alla diffusione del Pd nel magnesio, a partire dal primo ciclo. Il
picco relativo a questo composto aumenta con il passare dei cicli nel caso del magnesio
puro, mentre nei campioni drogati con niobio si osserva l’effetto contrario. Un risultato
evidente, e particolarmente enfatizzato nei campioni Mg-Nb 5%, è la riduzione di ampiezza
97
del picco Mg (002) durante il ciclaggio. Questo risultato, unito all’aumento di ampiezza di
picchi relativi ad altre orientazioni dei grani di Mg, indica che con il ciclaggio il magnesio
monocristallino tende a diventare policristallino. Sempre nei campioni Mg-Nb 5% si
osserva un aumento del picco relativo al niobio, dal primo ciclo in poi.
Osservando le immagini SEM della superficie relativa al campione di Mg puro non ciclato
(Fig. 2.11a), si vede che il lato su cui è stato depositato il palladio è composto da scaglie di
diverse dimensioni. La rugosità di tale superficie è da ritenersi legata al fatto che i grani di
magnesio sono colonnari e crescono lungo una direzione preferenziale. Il palladio
depositato in superficie, ne ricalca tutte le increspature; questo giustifica la non uniformità
dello spessore di tale strato e la conseguente necessità di cicli di attivazione. Ciclando il
campione di Mg puro (Fig. 2.11b), si osserva una diminuzione della rugosità superficiale,
mentre aumentando la concentrazione di niobio nel magnesio (Fig. 2.12a), si ha il
passaggio da una struttura a scaglie, più o meno geometricamente ordinata, ad una a
squame. Questa struttura si conserva anche dopo otto cicli di assorbimento/desorbimento
(Fig. 2.12b).
L’analisi delle immagini SEM, relative ai campioni in sezione, mostra che, nel caso del
magnesio puro (Fig. 2.11c), la struttura è sostanzialmente piana e ordinata. Dopo otto cicli
(Fig. 2.11d) si nota chiaramente la formazione di porosità. Nei campioni Mg-Nb 5% la
presenza di porosità si riscontra anche a 0 cicli (Fig. 2.12c), soprattutto a livello
nanometrico; con il ciclaggio (Fig. 2.12d) questo effetto si accentua, ma le dimensioni dei
pori aumentano. È evidente quindi che il campione di magnesio drogato con niobio è più
poroso di quello di magnesio puro, soprattutto a 0 cicli.
Durante il ciclaggio è stato osservato un ispessimento del campione di Mg puro.
Questo aumento di spessore del film potrebbe essere riconducibile alla formazione della
fase idruro che, essendo caratterizzata da parametri reticolari maggiori rispetto a quelli del
magnesio, non può non modificarne il reticolo. Infatti, l'assorbimento di H 2 comporta
innanzitutto un cambiamento della struttura reticolare, con il passaggio da quella esagonale
compatta del magnesio (hcp-Mg), a quella tetragonale dell'idruro. In fase di desorbimento si
ha poi la reazione contraria, con la ricostituzione della struttura hcp-Mg. Poiché non si ha
fuoriuscita di materia, al di là dell’idrogeno desorbito, il verificarsi di tali modificazioni
all’interno del film ne giustifica l’aumento di volume.
Confrontando le immagini TEM del campione di Mg puro a 0 cicli e 8 cicli (Fig. 2.14), è
evidente come la formazione e la decomposizione di MgH2 durante i cicli modifichi la
struttura interna del magnesio, causando la scomparsa dei classici grani colonnari e la
formazione di una struttura irregolare, caratterizzata da fori di grandi dimensioni.
Con il ciclaggio si osserva la rapida diffusione del Pd nel magnesio e quindi la formazione
di Mg6Pd cubico (Fig. 2.15, Fig. 2.16). I parametri reticolari di tale composto sono talmente
grandi da renderne visibile la struttura cristallina. La presenza di Mg 6Pd si osserva anche
nei campioni di magnesio drogato con niobio (Fig. 2.18) e, anche in questo caso, è in forma
cristallina. Nei campioni Mg-Nb 5% è anche visibile una amorfizzazione del magnesio, che
98
risulta più importante dove si hanno più clusters di niobio. Questo risultato potrebbe essere
spiegabile ipotizzando che, a causa della riduzione di energia, le superfici dei clusters
diventino zone di innesco della formazione di idruro, il quale tende poi ad amorfizzare la
struttura. La fase amorfa non è compatta (sembra una schiuma, con bolle) e quindi lì si
possono formare percorsi percolativi che favoriscono la diffusione di H 2. Ciò che sembra
quasi certo dalle osservazioni è che la fase cristallina del campione funge da serbatoio
mentre la fase amorfa si limita a fare da “strada” all’idrogeno.
Dal grafico relativo all’evoluzione degli stress (Fig. 2.9) per le due tipologie di campioni
analizzate, si vede che, nei campioni Mg-Nb 5%, il ciclaggio modifica in maniera
importante lo stato tensionale della matrice di Mg. È evidente come inizialmente la
presenza di niobio, in soluzione solida con il magnesio, crei un grande stress al reticolo di
quest’ultimo. Con il passare dei cicli questo stress tende a diminuire, fino a diventare
confrontabile con quello di Mg-Nb 0%, dal quarto ciclo in poi. Alla diminuzione dello
stress corrisponde anche una diminuzione delle dimensioni dei grani di Mg (Fig. 2.10),
causata dal fatto che il niobio forma dei clusters. L’unione di questi effetti favorisce la
diffusione intergranulare dell’idrogeno.
Per il magnesio puro, la curva si mantiene sostanzialmente costante e le piccole variazioni
potrebbero essere imputate alla presenza di impurità nel reticolo; tali impurità non
permettono ai grani di Mg di crescere liberamente e creano quindi un leggero aumento
dello stress del reticolo.
99
2.3 Compositi
Come puntualizzato nel paragrafo precedente, l’immagazzinamento dell’idrogeno in film
sottili di magnesio, sia puro che drogato con metalli di transizione, incontra dei grandi
ostacoli che ne limitano le possibilità di reale implementazione.
Le tipiche limitazioni nell’implementazione pratica dei sistemi di idruri metallici sono:
 decrepitazione, ovvero effettiva polverizzazione dei film dopo ripetuti cicli di
interazione con l’idrogeno;
 bassa conduttività termica;
 effetti di contaminazione ed ossidazione, legati all’esposizione all’aria, soprattutto nel
caso del Mg che reagisce fortemente con l’ossigeno presente nell’aria;
 cinetiche di reazione con H2 lente [41-42].
Il confinamento di particelle metalliche di dimensioni nanometriche (nanoconfinamento)
[35] che formano idruri in polimeri [43] o matrici porose [44], può risolvere questi gravi
problemi di stabilità.
A seconda del fattore di riempimento, i compositi metallo-polimero possono assumere due
diverse microstrutture:
 polymer-like, in cui le particelle metalliche sono inglobate in una matrice polimerica
continua;
 metal-like, in cui le particelle metalliche sono in mutuo contatto.
Nella seconda configurazione, il polimero ha soltanto la funzione di legante ed i domini
metallici formano dei percorsi percolativi. La microstruttura dei compositi può influenzare
le proprietà di immagazzinamento di idrogeno e le cinetiche di reazione secondo diverse
modalità. Il trasporto di idrogeno nel materiale composito è inoltre controllato da:
 diffusione molecolare nella frazione polimerica vetrosa del materiale e trasferimento di
H2 verso specie che formano idruro, attraverso le interfacce metallo-polimero,
 diffusione dell’idrogeno atomico nei domini metallici e trasferimento degli atomi di H
nel composito metal-like, attraverso interfacce metallo-metallo.
I sistemi efficienti di immagazzinamento di idrogeno, richiedono quindi specifiche
caratteristiche ai compositi in questione, affinché il trasporto di massa sia basato sul
percorso di diffusione più favorevole, tra quelli elencati in precedenza.
Altre importanti proprietà legate alla microstruttura sono l’abilità del sistema composito di
permettere il trasferimento di calore durante l’utilizzo e la possibilità della fase metallica di
espandere senza produrre danni macroscopici, quali debonding interfacciale e formazione
di cricche nella matrice polimerica. Questo ultimo punto suggerisce l’impiego di una
matrice elastomerica, ovvero una gomma [45].
100
2.3.1 Descrizione dei campioni e delle misure
I campioni in questione sono compositi di palladio e poli-dimetilsilossano (PDMS). Il
primo è stato a scelto grazie alla sua elevata permeabilità all’idrogeno ed ha caratteristiche
quali:
 stabilità termica nell’intervallo -100°C ÷ 250°C;
 bassa conduttività termica;
 bassa reattività chimica;
 bassa tossicità;
 bassa solubilità per H2 (~0.05 cm3(STP)/(cm3·atm);
 elevata costante di diffusione H2 (1.4×10-4 cm2s-1) [46].
Il palladio, reagendo con l’idrogeno forma una fase idruro con stechiometria PdH0.67 [47]
(Tab. 2.1), molto meno conveniente, dal punto di vista dell’immagazzinamento, rispetto
all’idruro di magnesio (MgH2). Tuttavia, l’assorbimento dissociativo delle molecole di H 2
avviene con una barriera di attivazione quasi nulla, le cinetiche di reazione sono molto
veloci e le reazioni sono reversibili; inoltre, il palladio è molto meno reattivo rispetto al
magnesio e reagisce solo con l’idrogeno (non si ha formazione di ossido di palladio).
Idruro
PdH0.6
Wt.% H
0.56
P (bar)
0.02
T (°C)
25
Tab. 2.1 Caratteristiche dell’idruro di palladio.
Il dato più importante della Tab. 2.1 è che la formazione della fase idruro avviene in
condizioni di temperatura e pressione pari a quelle atmosferiche. Il confronto tra queste
caratteristiche e quelle del’idruro di magnesio, permette di comprendere subito perché
come frazione metallica formante idruro sia stato scelto il Pd. Quindi, come frazione
metallica è stato impiegato palladium black powder prodotto ed acquistato da SigmaAldrich (99.9% Pd), utilizzato senza frazionamento per la preparazione del composito.
Come riportato nelle note tecniche fornite dal produttore le particelle di Pd hanno un’area
superficiale nominale variabile tra 40 e 60 m2/g. Le particelle di Pd sono state disperse
accuratamente in silicone acetico auto-polimerizzante polisilossano (polisilicone con
formulazione Saratoga) utilizzando una comune spatola in acciaio su un substrato di vetro,
mescolando per 5 min. La pasta solida omogenea così ottenuta è stata lasciata polimerizzare
in aria a temperatura ambiente. Sono state preparate tre diverse composizioni con contenuto
nominale di Pd in peso percentuale pari a:
 5% (Sample A);
101
 15% (Sample B);
 50% (Sample C).
2.3.2 Interazione con l’idrogeno: apparato di misura e risultati
L’analisi della capacità di immagazzinamento di idrogeno e lo studio delle cinetiche di
assorbimento e desorbimento di idrogeno, sono solitamente effettuati tramite due differenti
apparati sperimentali, gravimetrici o volumetrici. Il campione viene mantenuto all’interno
di una camera ad una determinata temperatura e ad un determinato valore di pressione; la
quantità di idrogeno assorbito o desorbito viene valutata tramite:
 misurazione della variazione di massa del campione, tramite una microbilancia (tecnica
gravimetrica);
 misurazione della variazione della pressione di idrogeno nella camera di reazione
(tecnica volumetrica) [38].
L’apparato tipo Sievert utilizzato per le misure sui campioni di questa tesi di dottorato, i cui
risultati sono esposti in seguito, è stato costruito presso l’Università di Trento [38,45].
L’apparato in questione, descritto successivamente, è stato progettato per studiare le
cinetiche di desorbimento di H2, misurando il flusso F di idrogeno, desorbito dal campione
in funzione del tempo, mediante un flussometro di massa opportunamente calibrato.
L’apparato di misura, il cui schema è riportato in Fig. 2.19, è costituito da un manicotto con
una camera portacampioni cilindrica (SC), realizzato con acciaio inox AISI 304L, linee del
gas ottenute da tubi di rame con diametro interno di 6 mm, valvole Swagelock® ON/OFF
sigillate con soffietti metallici e misuratori Swagelock®. La pressione del gas viene
misurata da barometri meccanici (risoluzione 0.1 atm) posti in due differenti punti del
sistema: nella camera porta campioni (PG2) e sulla linea del gas (PG1). La camera porta
campioni viene inserita in un forno tubolare (TO) e la temperatura viene monitorata da una
termocoppia K-type e controllata dal sistema PID (proportional-integral-derivative
controller). La misura del flusso di idrogeno desorbito viene fatta da un flussometro di
massa (FM) MKS 179° calibrato dal produttore proprio per misurare flussi di idrogeno.
L’apparato viene messo in condizioni di vuoto fino ad una pressione minima di 10 -2 mbar
(livello di fondo) grazie ad una pompa meccanica (MP), equipaggiata con trappole di
zeoliti. Durante l’esperimento, l’acquisizione del valore di flusso di massa di H 2, in
funzione del tempo, viene effettuata tramite computer utilizzando un software Labview
opportunamente progettato. Fissando la temperatura del campione (T S), la camera
portacampioni viene riempita con H2 gas e l’analisi della cinetica di desorbimento viene
eseguita dopo che il campione ha raggiunto condizioni di equilibrio con il gas. Questa
condizione è assicurata dal valore stabile di P EQ, cioè della pressione di idrogeno nella SC,
102
come indicato dal misuratore PG2. In queste condizioni, le valvole V4 e V5 sono chiuse , la
linea del gas è in vuoto e le valvole V1, V2 e V3 sono aperte.
Fig. 2.19 Apparato “tipo Sievert” utilizzato per studiare le cinetiche di desorbimento di H2,
diagramma schematico (sinistra) ed apparato reale (destra).
La procedura per l’analisi delle cinetiche di desorbimento di H2 inizia aprendo le valvole
V4 e V5: questa apertura dà luogo ad una immediata evacuazione della camera. Quando la
pressione all’interno della camera portacampioni raggiunge il livello di fondo, (PG2 indica
la pressione uguale a zero), si innesca la misura chiudendo le valvole V4 e V3: in questa
configurazione l’idrogeno desorbito dal campione passa attraverso il flussometro e viene
poi risucchiato dal sistema di pompaggio (la freccia in Fig. 2.2 indica la direzione del flusso
di H2 durante il desorbimento). Mentre il segnale del flusso di massa in funzione del tempo
è una misura diretta del flusso di idrogeno desorbito, l’integrale nel tempo del flusso di
massa è una misura della quantità di idrogeno desorbito dal campione al tempo t dopo
l’innesco (Eq. 2.2):
t
m(t )   F ( )d
0
(2.2)
103
Il limite di rilevabilità dell’apparato è stato valutato nel modo seguente: la camera vuota
(senza campione) è stata riempita con idrogeno gas. Con la camera caricata, le valvole V4 e
V5 sono state aperte per evacuarla; quando la pressione in camera raggiunge il livello di
fondo, le valvole V4 e V3 vengono chiuse e si registra il flusso F. Il valore del flusso di gas
registrato in questa situazione è chiaramente legato alla non completa evacuazione della
camera, data la limitata conduttanza delle linee del gas. Il valore integrale del flusso di
massa fornisce il dato della quantità di idrogeno che passa attraverso il flussometro e viene
assunto come limite di rilevabilità nella presente configurazione. Ad una pressione di carico
di H2 inferiore a ~10 atm, questo limite è ~10-5 g di H2 [45].
Fig. 2.20 Foto dell’apparato di misura realmente utilizzato.
L’elevata reattività del palladio con l’idrogeno non richiede cicli di attivazione. Le misure
di desorbimento sono state fatte a tre diversi livelli di temperatura:
 60 °C;
 80 °C;
 100 °C.
104
Per ciascun livello di temperatura, le proprietà di idrogenazione dei tre campioni sono state
valutate a tre diversi livelli di pressione di assorbimento:
 0.2 atm (bassa pressione);
 1 atm (media pressione);
 2 atm (alta pressione).
In questo modo, sono state effettuate 9 misure per ciascuna composizione. Le misure di
desorbimento di idrogeno sono state effettuate in condizioni di vuoto, a un valore di
pressione pari a 0.05 atm [45]. I valori di temperatura e pressione sono stati scelti in virtù
di due motivazioni:
a) queste condizioni sono facilmente riproducibili in un sistema reale, considerando lo step
dell’implementazione;
b) il goal per il 2015 indicato dal Dipartimento dell’Energia degli Stati Uniti (DOE) per i
sistemi di immagazzinamento di idrogeno, richiede temperature di lavoro nel range
compreso tra -40°C e +80°C [48].
Negli esperimenti di assorbimento/desorbimento di idrogeno, i campioni sono stati tagliati
in piccoli frammenti con dimensione tipica di ~5 mm.
E’ necessario puntualizzare che l’analisi della capacità di stoccaggio di H 2 del polimero
puro indica che il suo contenuto di idrogeno all’equilibrio con il gas H2 per valori di
pressione fino a 10 atm, è inferiore al limite di rilevabilità dello strumento. Quindi, tutti i
risultati ottenuti dall’interazione tra i campioni compositi e l’idrogeno, sono stati imputati
soltanto alla frazione metallica (Pd).
I risultati di tutte le misure effettuate su tutti i campioni sono riportati in Fig. 2.21.
Fig. 2.21 Proprietà di immagazzinamento di idrogeno dei compositi. L’asse orizzontale di figura
riporta il contenuto di H rispetto alla frazione metallica del composito. Simboli pieni - 60°C, simboli
vuoti - 80°C, simboli vuoti con croce - 100°C.
105
In Figura 2.21 quadrati, triangoli e cerchi si riferiscono rispettivamente al campione A (5
wt.%), al campione B (15 wt.%) e al campione C (50 wt.%). In Fig. 2.21 è evidente
l’influenza dei valori di temperatura e pressione di assorbimento, sulle proprietà di H 2
storage dei campioni compositi. La quantità di idrogeno immagazzinato aumenta con la
temperatura per tutte le composizioni, mentre la pressione di assorbimento ha una influenza
pressoché trascurabile, a parità di temperatura e composizione. Al contrario, il contenuto
della frazione metallica nel composito sembra giocare un ruolo molto importante; infatti,
come chiaramente esposto in Fig. 2.21, il campione A (Pd 5%), immagazzina una quantità
di idrogeno che è 3-4 volte maggiore rispetto ai due campioni B (Pd 15%) e C (Pd 50%).
Fig. 2.22 Quantità di H2 desorbito dai tre campioni compositi e dalla polvere di Pd puro in
condizioni di (a) bassa T - bassa P e (b) alta T - alta P.
106
La Fig. 2.22 riporta le cinetiche di desorbimento dei tre campioni compositi (A, B, C)
insieme alla cinetica della polvere di Pd puro. La Fig. 2.22a riporta le quantità di
idrogeno desorbito in condizioni di bassa temperatura (60°C) e bassa pressione di
assorbimento (0.2 atm), mentre la Fig. 2.22b mostra i risultati ottenuti in condizioni di
alta tempeartura (100°C) e alta pressione (2 atm), in funzione del tempo di desorbimento.
In entrambi i casi sull’asse verticale è riportato il valore dell’idrogeno desorbito in
funzione della percentuale atomica (at.%) della sola frazione metallica. Le curve
cinetiche della polvere di Pd sono riportate come referenza.
Tutte le curve esibiscono un trend simile: una crescita iniziale, la cui pendenza dipende
dal tasso di desorbimento, seguita da un plateau. La fine della reazione di desorbimento
corrisponde al punto di inizio della regione di plateau. È importante notare che la
condizione di equilibrio, corrispondente alla fine della reazione di desorbimento, viene
raggiunta dal Pd puro in un intervallo di tempo che è sempre minore rispetto ai campioni
compositi. In particolare, come illustrato in Fig. 2.22a, a bassa temperatura e bassa
pressione di assorbimento, il campione A (5 wt.%) esibisce la cinetica di reazione più
lenta rispetto a tutti gli altri campioni. Questo comportamento risulta molto più
pronunciato se si paragona la curva cinetica del campione A con quella del campione di
Pd puro. In questo caso, infatti, tutto l’idrogeno viene desorbito dal Pd puro dopo circa
1.7·103 s, mentre per ilcampione A è necessario un tempo pari a 7.1·103 s perché il
processo di desorbimento sia completo (Fig. 2.22a). Ad ogni modo, nonostante le
cinetiche di reazione lente, il campione A immagazzina sempre la maggiore quantità di
idrogeno rispetto agli altri campioni compositi (Fig. 2.22a), mentre nelle stesse
condizioni, il campione C (50 wt.%) esibisce il comportamento opposto (minore quantità
di idrogeno immagazzinato). Ad alta tempeartura ed alta pressione di assorbimento (Fig.
2.22b) il campione C (Pd 50%) mostra la peggiore performance in termini di cinetica di
reazione (7.7 ·103 s), mentre il campione A mostra di immagazzinare la più alta quantità
di idrogeno, superiore anche alla polvere di Pd puro. È chiaro come in Fig. 2.22 le
cinetiche dei campioni compositi siano decisamente variabili, ma in ogni caso la
differenza tra i tempi delle reazioni di desorbimento è sempre inferiore di un ordine di
grandezza e, quindi, sostanziamente trascurabile.
107
2.3.3 Caratterizzazione strutturale
Osservazioni SEM
Fig. 2.23 Micrografie SEM della polvere di Pd puro (sinistra) e della matrice di PDMS puro (destra).
In Fig. 2.23 sono riportate due micrografie dei componenti del materiale composito, prima
della preparazione dei campioni. La polvere di palladio puro (Fig. 2.23 sinistra) mostra di
essere composta da particelle aventi diametro compreso tra 200 nm e 400 nm. La matrice di
PDMS mostra, invece, la presenza di cricche di dimensioni micrometriche e riconducibili
alla fuoriuscita di componenti volatili durante la fase di polimerizzazione.
In Fig. 2.24 sono riportare le micrografie dei tre campioni PDMS-Pd nella condizione “as
produced” (cioè prima dell’interazione con l’idrogeno).
108
Fig. 2.24 Micrografie SEM a basso (riga superiore) ed alto ingrandimento (riga inferiore) dei
campioni A (a, d), B (b, e) e C (c, f).
Tutte le micrografie riportate in Fig. 2.24 sono state ottenute utilizzando il segnale degli
elettroni retrodiffusi (BSE) in condizioni simili a basso ingrandimento (Fig. 2.24a, b, c) ed
alto ingrandimento (Fig. 2.24d, e, f). Considerando che il contrasto dell’immagine è legato
principalmente alle variazioni di numero atomico, è possibile concludere che in Fig. 2.24 le
zone più scure rappresentano la matrice polimerica, mentre le zone più chiare rappresentano
la frazione metallica. Ciò che risulta subito evidente da Fig. 2.24 è la tendenza delle
particelle metalliche a formare degli aggregati. La dimensione di questi clusters metallici
aumenta all’aumentare della frazione metallica, raggiungendo un massimo in
corrispondenza del campione C (50 wt.%). Questo effetto è principalmente attribuibile alle
grandi dimensioni delle particelle metalliche che non possono implicare alcun effetto di
nanoconfinamento [35]. Dalle micrografie ad alto ingrandimento (Fig. 2.24d, e, f) emerge
che gli aggregati metallici diventano sempre più interconnessi all’aumentare della frazione
metallica. Inoltre, l’analisi sulle immagini effettuata con il software dedicato ImageJ [49]
ha permesso di identificare particelle con un diametro nel range 200-400 nm ed una
dimensione media dei clusters che dipende dalla composizione dei campioni. Ad ogni
modo, valori esatti per le dimensioni del clusters non sono ottenibili con ImageJ, perché il
programma non è in grado di risolvere particelle posizionate a differenti profondità nei
campioni.
109
Misure XRD
Per caratterizzare completamente la microstruttura della frazione metallica, misure di
diffrazione di raggi X sono state fatte su tutti i campioni compositi, sia in condizioni “as
prepared” che dopo i test di idrogenazione. La Fig. 2.25 mostra gli spettri XRD del
campione C nelle due condizioni appena menzionate.
Fig. 2.25 Spettri XRD del campione C nella condizione “as prepared” e dopo i test di
idrogenazione.
I risultati dei raggi X per i campioni A e C non sono riportati perché sono tutti molto simili
tra loro. I quattro picchi principali del campione “as prepared” sono dovuti alla polvere di
palladio e sono stati indicizzati con la card ICDD n.° 46-1043); il picco più intenso si
presenta sempre a 2θ = 40.12° ed è dovuto al Pd (111). Dopo i cicli di assorbimento e
desorbimento di idrogeno, tutti i campioni mostrano dei picchi aggiuntivi, legati soltanto al
diverso portacampioni utilizzato per fissare questi ultimi alla base del diffrattometro.
Per valutare la presenza di eventuali modificazioni nella struttura interna della frazione
metallica, le dimensioni medie dei grani del Pd sono state calcolate applicando la formula
di Scherrer (Eq. 2.2) [39] al picco Pd (111). Le dimensioni medie dei grani di Pd sono
riportate nella Tab. 2.2.
110
Sample
A (5 wt.%)
Condition
As prepared
After cycling
L (nm)
26
26
B (15 wt.%)
As prepared
After cycling
25
29
C (50 wt.%)
As prepared
After cycling
26
29
Tab. 2.2 Dimensione media (L) di tutti i grandi di Pd, stimati dagli spettri XRD.
I valori delle dimensioni medie dei cristalliti, stimati con la formula di Scherrer sono affetti
da un errore relativo del 5%. La Tab. 2.2 illustra chiaramente che le dimensioni medie dei
grandi di Pd rimangono sostanzialmente invariate dopo i cicli di interazione con l’idrogeno,
per tutti i campioni.
2.3.4 Discussione
Come riportato da Merkel et al. [46] a 35 °C la concentrazione di idrogeno nel
polidimetilsilossano in equilibrio con H 2 gas (P < 10 atm) è minore di 0.5 cm3(STP)/cm3
polimero e la costante di diffusione è circa 10-4 cm2s-1. Quindi tutti i risultati riguardanti
l’interazione tra i campioni compositi e l’idrogeno sono stati attribuiti solo alla frazione
metallica. Inoltre, l’elevata diffusività delle molecole di idrogeno indica che il polimero
non riesce a fungere da barriera alla diffusione, quindi un eventuale livello di
idrogenazione inferiore a quello atteso non può essere attribuito alla matrice di PDMS.
La performance di immagazzinamento di idrogeno è riportata in Fig. 2.21, dove si può
osservare un trend seguito da tutti i campioni, che può essere riassunto come: maggiore è
la temperatura, maggiore è la quantità di idrogeno desorbito. Il campione A mostra i più
alti valori di idrogeno immagazzinato rispetto a tutti i campioni testati. Il campione C (50
wt.%) è quello che mostra la peggiore performance in termini di H2 immagazzinato, nelle
condizioni operative applicate. Questi ultimi risultati possono essere legati alla chiara
tendenza delle particelle metalliche a formare aggregati (Fig. 2.24), con una conseguente
riduzione dell’area superficiale esposta all’azione dell’idrogeno. Un’altra ragione che
111
permette di spiegare il basso livello di idrogenazione del campione C può essere trovata
nella microstruttura dei clusters metallici che, secondo la nostra opinione, non è
sufficientemente evoluta da potersi comportare come un composito con struttura metallike [45]. Quindi, anche se i domini metallici sono vicini gli uni agli altri, non sono in
grado di formare un network ben interconnesso, impedendo la migrazione dell’idrogeno
attraverso di essi. I risultati delle cinetiche (Fig. 2.23a, Fig. 2.23b) indicano che i tipici
tempi di desorbimento della polvere di Pd sono di gran lunga inferiori rispetto a q uelli
osservati per i campioni compositi. La reazione complessiva comprende (i) la
dissociazione dell’idrogeno, (ii) la ricombinazione all’interfaccia metallo -polimero e (iii)
la migrazione delle molecole di H 2 verso la superficie del composito durante il
desorbimento. Le cinetiche di idrogenazione più lente dei compositi rispetto al Pd puro
sono una conseguenza del processo di diffusione attraverso la matrice polimerica oltreché
un effetto della distribuzione delle particelle metalliche nella matrice, poic hé la chimica
di interfaccia non gioca un ruolo particolare nel caso dei compositi PDMS-Pd [50]. E’
necessario puntualizzare che l’alta diffusività dell’idrogeno nel PDMS, pur non avendo
un ruolo importante nella performance di immagazzinamento di idrogeno, ha un ruolo
cruciale nelle cinetiche di desorbimento dei campioni compositi. Analizzando la Fig. 2.23
in dettaglio, si può osservare che tutti i campioni analizzati (inclusa la polvere di Pd),
tendono ad immagazzinare un maggiore quantitativo di idrogeno all’aumentare della
temperatura e della pressione di assorbimento (paragonare Fig. 2.23a e Fig. 2.23b).
Questo comportamento è molto più pronunciato per il campione A che, in condizioni di
alta temperatura ed alta P di assorbimento, raggiunge un rapporto H/Pd vicino al valore
teorico di 0.67, come può essere dedotto dalla stechiometria dell’idruro di palladio
(PdH0.67). Quest’ultimo risultato è ancora più importante, considerando che il Pd puro
raggiunge sempre valori di H/Pd ben al di sotto del limite teorico. Quindi, è possibile
concludere che il materiale composito con il minore contenuto di frazione metallica (Pd
5 wt.%) a temperature di 100°C e pressione di assorbimento di 2 atm, assorba una
quantità di idrogeno persino maggiore di quella del Pd puro, nelle stesse condizioni. Gli
spettri XRD (Fig. 2.25) non mostrano differenze importanti nella microstruttura del Pd,
prima e dopo l’interazione con l’idrogeno. Variazioni nell’altezza dei picchi sono
principalmente attribuibili alle differenti quantità di campioni sottoposti a XRD.
Calcolando le dimensioni dei grani di Pd, applicando la formula di Scherrer, si ottengono
i risultati riportati in Tab. 2.2; le dimensioni così calcolate non variano in maniera
importante dopo i cicli di idrogenazione, suggerendo che la reazione di formazione e
decomposizione dell’idruro di palladio sia sostanzialmente reversibile e che non influenzi
la stabilità della frazione metallica.
Questi risultati sono in perfetto accordo i dati riportati in letteratura [51,52]. Le pro prietà
di hydrogen storage possono essere messe in relazione con i risultati delle osservazioni
SEM, in cui è chiara la tendenza dei campioni a formare aggregati. La formazione di
clusters metallici risulta enfatizzata all’aumentare della quantità di Pd e porta ad una
112
riduzione dell’area superficiale complessiva esposta all’idrogeno. Quindi, in questo caso
particolare, gli effetti di superficie risultano più importanti rispetto a quelli di volume, a
causa della perdita della natura nanometrica delle particele di palladio.
A causa della loro particolare interazione con l’idrogeno, i campioni compositi PDMS Pd si pongono in una posizione intermedia tra le strutture bulk e le nanoparticelle,
potendo essere ragionevolmente considerati come strutture aventi una propria identità
scientifica.
2.4 Conclusioni
Per riuscire ad ottimizzare le cinetiche di assorbimento e desorbimento e poter realizzare
serbatoi per l'immagazzinamento d'idrogeno, applicabili nel campo della mobilità, risulta
d'importanza cruciale comprendere quali siano i meccanismi microscopici coinvolti nella
formazione e dissociazione della fase idruro e quale sia il ruolo rivestito dai catalizzatori in
tali processi. A tale fine è stato eseguito uno studio sistematico su campioni di Mg puro e di
Mg drogato con 5 at.% Nb, depositati tramite r.f. magnetron sputtering.
Per superare i limiti applicativi dei film sottili quali la decrepitazione e le lente cinetiche di
reazione con H2, sono stati preparati dei campioni di compositi polidimetilsilossano
(PDMS)-palladio con differenti contenuti di frazione metallica (5, 15, 50 in wt.%). I test di
idrogenazione sono stati eseguiti in un apparato tipo Sievert, mentre la microstruttura è
stata caratterizzata tramite osservazioni SEM e misure XRD.
Tutte le conclusioni principali sono qui di seguito riportate.
Campioni di Mg puro:
 Dalle curve di desorbimento del magnesio puro si osserva la stabilizzazione delle
cinetiche dal ciclo 8 in poi in un tempo di circa 4000 s.
 Dagli spettri XRD e dalle osservazioni al TEM si è vista la formazione del composto
Mg6Pd.
 La curva relativa a Mg-Nb 0% riportata nel grafico dello stress del reticolo, mostra un
andamento sostanzialmente costante (le variazioni rientrano nel margine d’errore) e
indipendente dai cicli.
 Le dimensioni dei grani crescono dal primo ciclo in poi, compatibilmente con il fatto
che ad ogni ciclo il magnesio subisce un trattamento termodinamico.
113
 La superficie del campione è fortemente rugosa, effetto dovuto alla tipica crescita
colonnare dei grani di Mg. Osservando le sezioni è stato riscontrato un forte aumento
della porosità legato al ciclaggio.
 Durante il ciclaggio si osserva un ispessimento del film di magnesio, imputabile alle
variazioni di volume introdotte dalla formazione (e dalla successiva scomposizione) di
MgH2 ad ogni ciclo.
Campioni Mg-Nb 5%:
 Le cinetiche sono di un ordine di grandezza più veloci rispetto al magnesio puro; la
stabilizzazione si ha, infatti, dopo circa 400 s ed in corrispondenza del ciclo 4.
 Il niobio è inizialmente disperso in soluzione solida nel magnesio e con l’aumentare dei
cicli tende a cristallizzare in niobio metallico.
 La clusterizzazione del niobio provoca la diminuzione dello stress reticolare
(inizialmente importante) e delle dimensioni dei grani di Mg.
 Il magnesio subisce una amorfizzazione durante il ciclaggio e tale effetto è maggiore
dove la presenza di clusters è magggiore.
 Con il ciclaggio la porosità aumenta e con essa aumentano anche le dimensioni dei pori.
Campioni compositi PDMS-Pd:
 La matrice di PDMS è termicamente e strutturalmente stabile, ma non permette di avere
alcun tipo di confinamento sulle particelle di Pd.
 Sia la microstruttura della matrice polimerica che quella della frazione metallica
rimangono essenzialmente invariate durante i cicli di assorbimento/desorbimento di
idrogeno.
 La reazione di desorbimento per la polvere di Pd puro è sempre più veloce di quella dei
compositi PDMS-Pd, dando risalto al ruolo cruciale della distribuzione delle particelle e
del processo di diffusione attraverso la matrice polimerica.
 Il peggioramento delle proprietà di immagazzinamento di idrogeno all’aumentare della
frazione metallica all’interno dei compositi, è legato alla formazione di clusters di Pd
che porta ad una riduzione della superficie esposta all’azione dell’idrogeno.
 Il campione C (50% Pd) ha ancora una struttura “polymer-like”; ciò porta a concludere
che i domini metallici non sono perfettamente interconnessi e l’idrogeno non può
migrare attraverso essi. In questo modo, il campione C non può neanche sfruttare gli
effetti benefici propri delle strutture simili al bulk.
114
Bibliografia Capitolo 2
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118
Capitolo 3.
Materiali per uso biomedico
3.1 Introduzione
Per definizione, un biomateriale è un materiale che si interfaccia con i sistemi biologici per
valutare, trattare, aumentare o sostituire una matrice biologica (cellulare, tissutale,
funzionale). In questo senso, l’ingegneria, la fisica e la biologia stanno interagendo sempre
più strettamente con la medicina odierna e settori specifici di ognuna di queste branche
vengono dedicati allo sviluppo e all’implementazione di biomateriali in grado di curare in
maniera sempre più efficace patologie importanti e di aumentare le prospettive di vita.
In questo capitolo verranno trattati due aspetti della biomedicina ed dei biomateriali in
generale. Nel paragrafo 3.2 verranno trattati i biomateriali metallici utilizzati per protesi
ortopediche ed odontoiatriche prodotti con tecniche di prototipazione rapida. Nel paragrafo
3.3, invece, si darà spazio ad una classe di biomateriali che non entra in contatto diretto con
il corpo umano, ma che interagisce con esso grazie a fenomeni fisici ben precisi: si tratta
dei rivelatori inorganici a scintillazione utilizzati principalmente nella tomografia ad
emissione di positroni (PET).
3.2 Biomateriali metallici
Nella storia della medicina, i metalli vengono utilizzati come impianti da più di 100 anni,
quando Lane per primo introdusse la fissazione di fratture ossee tramite piastre metalliche
[1]. Nei primi periodi di applicazione gli impianti metallici si trovavano a fronteggiare
problemi di corrosione e di inadeguata resistenza [2,3]. Negli anni ’20, poco dopo la sua
introduzione, l’acciaio inox 18-8, caratterizzato da una resistenza alla corrosione che non
119
aveva paragoni all’epoca, suscitò un notevole interesse nei medici; da allora gli impianti
metallici hanno avuto un vasto sviluppo per diverse patologie.
Le tipologie di metalli utilizzate per applicazioni biomediche dipendono dalla specifica
applicazione dell’impianto. L’acciaio inox 316L (316L SS) è tra i più usati in tutti i tipi di
impianto: si va dalle applicazioni cardiovascolari a quelle otorinolaringoiatriche. Tuttavia,
quando è necessario che l’impianto abbia elevata resistenza all’usura, come nel caso dei
giunti artificiali, è più indicato l’uso di una lega CoCrMo. In Tab 3.1 sono riportate le
tipologie di metalli più utilizzate ed i diversi campi di applicazione.
Divisione
Cardiovascolare
Ortopedica
Ortodontica
Craniofacciale
Otorinologica
Esempio di Impianto
Stent
Valvola Artificiale
Fissaggio osseo (Piastre, viti..)
Giunti artificiali
Componenti ortodontici
Piastre e viti
Timpano artificiale
Metallo impiegato
316L SS; CoCrMo; Ti
Ti6Al4V
316L SS; Ti; Ti6Al4V
CoCrMo;Ti6Al4V
316L SS; CoCrMo; TiMo
316L SS; CoCrMo; Ti; Ti6Al4V
316L SS
Tab 3.1 Tipologie di impianto e relativi metalli impiegati [4].
I biomateriali metallici vengono impiegati per applicazioni biomediche grazie alle
caratteristiche strutturali e di inerzia. I metalli infatti, non possiedono biofunzionalità quali
la compatibilità con il sangue, la conduttività dell’osso e la bioattività, quindi è necessario
modificarne la superficie. Miglioramenti della conduttività ossea si ottengono generalmente
ricoprendo gli impianti con ceramiche bioattive quali l’idrossiapatite [5], mentre per
aumentare la emo-biocompatibilità si è ricorsi in passato al rivestimento con biopolimeri
[6]. Negli ultimi decenni c’è stato un grande sviluppo di materiali metallici composti da
elementi non tossici ed anti-allergici; sono stati anche proposti nuovi materiali metallici
biodegradabili per impianti temporanei [7]. In generale, tutti gli impianti hanno alta densità
e devono essere assolutamente non magnetici. Queste proprietà sono determinanti perché
gli impianti risultino compatibili con tecniche di diagnostica come la risonanza magnetica
(Magnetic Resonance Imaging, MRI) e siano visibili nelle radiografie ai raggi X. Molti
impianti sono soggetti a carichi, statici o ripetitivi, ed in questi casi è necessario che si
abbia una eccellente combinazione di resistenza e duttilità: questa è la caratteristica che, per
determinate applicazioni, rende più performanti i metalli rispetto ai materiali ceramici ed ai
polimeri. Le specifiche dei metalli impiegati dipendono dalle specifiche richieste
120
dall’applicazione dell’impianto. Stents e grafts vengono generalmente impiantati su stenosi
di vasi sanguigni aperti, di conseguenza le caratteristiche principali richieste al materiale
saranno plasticità per l’espansione e rigidità per il mantenimento della dilatazione. Per
impianti ortopedici, invece, i metalli devono avere eccellente durezza, elasticità, e
resistenza alla frattura. Per la sostituzione totale di una articolazione, i metalli devono
essere resistenti all’usura, quindi la formazione di detriti, dovuta alla frizione, deve essere
totalmente evitata. Infine, gli impianti dentali necessitano di metalli forti e rigidi e, per un
risultato eccellente, di metalli che abbiano capacità di memoria della forma. Ad oggi, tra i
metalli più utilizzati per gli impianti si trovano acciaio inossidabile, leghe di Ti e leghe
CoCrMo. L’acciaio inossidabile contiene ~18 wt% Cr e ~8 wt% Ni, che lo rendono più
resistente del normale acciaio alla corrosione. Aggiungendo a questa composizione il
molibdeno (Mo) si ha un ulteriore miglioramento della resistenza alla corrosione e si
ottiene l’acciaio inox 316. Negli anni il contenuto di carbonio è stato ridotto dallo 0.08 wt%
allo 0.03 wt%, con un conseguente miglioramento della resistenza a soluzioni cloridriche;
questo ultimo acciaio prende il nome di 316L. Questo acciaio inossidabile contiene una
quantità considerevole di Ni che, però, tende a reagire a contatto con il corpo umano
causando allergie [8]. Per questo motivo sono stati sviluppati acciai Ni-free, sostituendo il
nichel con maggiori quantità di N e Mn, che sono anch’essi buoni stabilizzatori della fase
austenitica [8]. Poiché la biocompatibilità del manganese non è ben definita, è stato
sviluppato un metodo di fabbricazione di acciaio austenitico Ni-free e Mn-free ad alto
contenuto di azoto, partendo da acciaio inox ferritico [9,10].
Il titanio ha come caratteristica principale la leggerezza; ha densità di solo 4.5 g/cm 3,
decisamente inferiore a quella degli altri due materiali citati, ovvero 7.9 g/cm 3 per il 316L e
8.3 g/cm3 per le leghe CoCr pressofuse [11]. Il Ti commerciale puro (cp Ti) è considerato
uno dei migliori materiali metallici per la biocompatibilità; inoltre, le sue proprietà
superficiali inducono la spontanea crescita di uno strato di ossido inerte e stabile. La lega a
base di titanio maggiormente impiegata in ambito biomedico è la Ti6Al4V, molto
conosciuta per l’eccellente resistenza a trazione e per la resistenza alla corrosione da
pitting. Ad ogni modo, nel caso di applicazione di impianti permanenti, questa lega ha dei
possibili effetti tossici legati al rilascio di ioni vanadio ed alluminio. Inoltre, l’alluminio è
ben noto per essere neurotossico: l’accumulo di Al è stato associato a diversi disturbi
neurologici [12]. Per questa ragione sono state introdotte diverse leghe senza V e Al, per
applicazioni biomediche, basate sulla lega Ti-6Al-4V; queste nuove leghe includono Ti13Nb-13Zr (ASTM F1713) e Ti-12Mo-6Zr (ATM F 1813) [13].
Le leghe a base di cobalto CoCrMo sono ampiamente utilizzate per applicazioni mediche
come artroplastica totale del ginocchio e dell’anca, grazie alle eccellenti caratteristiche di
biocompatibilità, resistenza a corrosione ed usura oltreché buone proprietà meccaniche [1416].
Nella lega CoCrMo la barriera superficiale che limita le cinetiche di corrosione è nella
forma di uno strato passivo di ossido. La formazione e lo spessore di questo strato di ossido
121
di cromo dipende dal campo elettrico che attraversa l’ossido, poiché i processi di riduzione
e ossidazione hanno luogo quando è necessario mantenere il campo elettrico costante [17].
In generale, per applicazioni in vivo è accettabile un film passivo di Cr2O3 con spessore di
2-8 nm [18].
Un altro metallo di considerevole importanza per applicazioni biomediche è il Mg. Il
magnesio ha densità pari a 1.74 g/cm3 ed è quindi un metallo molto leggero, così come
leggere sono le sue leghe (1.75-1,85 g/cm3) i cui valori sono molto simili alla densità
dell’osso corticale umano (1.75 g/cm3) [19]. Il modulo elastico e la resistenza a trazione del
magnesio sono molto simili a quelli dell’osso naturale. Inoltre, il magnesio è un elemento
essenziale per il metabolismo umano ed è naturalmente presente nel tessuto osseo [20-23].
Quello che in diversi campi ingegneristici è il principale limite applicativo del magnesio,
cioè la bassa resistenza a corrosione soprattutto in ambienti acquosi ed elettrolitici, diventa
una proprietà che lo rende interessante in campo biomedico. Nelle applicazioni in vivo,
infatti, la corrosione di impianti a base di Mg induce la formazione di un ossido solubile e
non tossico del tutto innocuo, che viene eliminato con l’urina. Tuttavia, questa proprietà
diventa un problema quando l’impianto viene assorbito dal corpo umano troppo in fretta
rispetto ai tempi necessari per l’effettiva guarigione [19,24].
Un altro metallo utilizzato per gli impianti è il tantalio (Ta) poiché ha eccellenti proprietà di
biocompatibilità in vivo ed in vitro [25].
In Tab. 3.2 sono riportate le principali proprietà meccaniche e fisiche di vari materiali
metallici per impianti, paragonate con l’osso naturale.
Proprietà
Densità (g/cm3)
Modulo elastico (GPa)
Resistenza a
compressione (MPa)
Resistenza a frattura
(MPa·m1/2)
1.8-2.1
3-20
1.74-2.0
41-45
Leghe
di Ti
4.4-4.5
110-117
130-180
65-100
758-1117
450-1000
170-310
3-6
15-40
55-115
N/A
50-200
Ossa
Magnesio
Leghe di
Acciaio Inox
CoCr
8.3-9.2
7.9-8.1
230
189-205
Tab.3.2 Proprietà fisiche e meccaniche di vari materiali per impianti, paragonati all’osso naturale
[24].
122
3.2.1 La Prototipazione Rapida
La necessità di ottenere prodotti innovativi con tempi di realizzazione molto brevi ha
portato allo sviluppo di nuove filosofie ingegneristiche come la Rapid Response to
Manufacturing (RRM). La RRM utilizza le conoscenze dei prodotti già progettati come
base per svilupparne di nuovi. L'ambiente RRM si è sviluppato integrando tecnologie quali
modellazione CAD, ingegneria “knowledge-based” per l’integrazione del design di
prodotto e processo, e concetti di “direct manufacturing” (o additive manufacturing, AM),
con cui un oggetto tridimensionale viene costruito strato su strato. In questa situazione si
inseriscono la prototipazione rapida (RP) e la produzione rapida (rapid manufacturing, RM)
in quanto insieme di tecniche che consentono la conversione diretta dei dati di un modello
3D CAD in un prototipo (o prodotto) fisico vero e proprio. La principale differenza tra i
classici processi CNC (Computer Numerically Controlled) e la prototipazione rapida sta nel
fatto che, mentre nei primi si procede con la rimozione di materiale per ottenere l’oggetto
finito, con la RP si costruisce l’oggetto finito aggiungendo materiale strato su strato [2628].
Il principale vantaggio delle tecniche RP risiede nella possibilità di creare un modello che
possieda tutti i dettagli della geometria interna, piuttosto che il solo contorno superficiale.
Le tecniche di prototipazione si vanno facendo strada velocemente anche nel campo della
bioingegneria. Esistono tre livelli di applicazione delle tecniche RP dedicate a biomateriali.
Il primo livello è la produzione di protesi di organi, che può essere a sua volta diviso in due
classi, a seconda dell'impianto:
 in vitro, nessun impianto, non necessitano di biocompatibilità e sono costituite di
materiale non biologico; si usano nell’assistenza alla diagnosi, nella pianificazione degli
interventi chirurgici, nella comunicazione con i pazienti oltreché nella chirurgia assistita
[29-31].
 in vivo: sono protesi impiantate, di solito si tratta di protesi ossee in lega di acciaio
inox/titanio, cartilagini dell’orecchio e della laringe. Consistono principalmente di
materiali bioinerti al fine di evitare infiammazioni e rigetti da parte del sistema
immunitario [32-34].
In pochi anni le tecniche di prototipazione rapida sono arrivate a rappresentare la principale
alternativa a tutte le altre tecniche di ricostruzione di protesi ortopediche e dentali, nonché
di scaffolds per la rigenerazione di ossa (bone regeneration).
L’applicazione di queste tecniche a materiali metallici ha prodotto risultati che mostrano
proprietà microstrutturali e meccaniche non ottenibili con le consuete tecniche di
preparazione (casting, forging ecc…). Le caratteristiche uniche delle leghe metalliche
prodotte con le nuove tecnologie di prototipazione rapida e additive manufacturing ne
testimoniano l’importanza ed offrono nuove prospettive per la creazione di prodotti con
architetture microstrutturali controllate. La caratterizzazione microstrutturale rappresenta
quindi un passaggio chiave per chiarire gli effetti della tecnica di produzione sulla
123
microstruttura del materiale e valutare eventuali modifiche dei parametri operativi o delle
materie prime in funzione degli obiettivi preposti [35-37].
Le tecniche di prototipazione rapida possono essere divise in due grandi categorie, a
seconda della tecnologia di produzione: (i) tecniche basate su fascio ad alta energia (laser,
fascio elettronico) e (ii) tecniche basate sul getto di gocce (droplet jetting) o sulla estrusione
di liquidi densi (slurry extrusion). Le tecniche più rappresentative della prima categoria
sono: stereolitografia (SL) [38], sinterizzazione laser selettiva (selective laser sintering o
SLS) [39], fusione laser selettiva (selective laser melting o SLM) e fusione con fascio
elettronico (electron beam melting o EBM) [40]. Tra queste risulta di grande interesse la
sinterizzazione laser selettiva ed in particolare l’applicazione di questa a polveri metalliche,
ovvero la tecnica di Direct Metal Laser Sintering (DMLS) [41]. Questa tecnica produce
l’oggetto impilando strati di metallo sinterizzato. La macchina contiene strumenti laser
(CO2 o Nd:YAG con lunghezza di banda nel vicino infrarosso e potenza di 50-200 W), un
sistema ottico, un generatore di funzione, un computer in grado di controllare la scansione
laser nel piano X-Y ed un sistema di distribuzione della polvere. La caratteristica principale
di questa tecnica è che l’effetto del laser sul materiale in polvere si manifesta in due step: il
primo riguarda effetti di assorbimento e riflessione della superficie della polvere, legati alla
lunghezza d’onda del laser usato ed allo stato della superficie delle particelle. Il secondo
step, invece, riguarda il trasferimento di calore al materiale in polvere. In questo stadio i
processi di riscaldamento e raffreddamento sono molto veloci ed i parametri del materiale
variano rapidamente con la temperatura; questo rende complicato ed instabile il processo di
conduzione termica [42].
La seconda categoria di RP è rappresentata al meglio dalle tecniche di fused deposition
modeling (FDM) [43], ink jet printing (IJP) [44] e 3-D printing (3DP) [45]. Queste ultime
due, IJP e 3DP, sono le tecniche più rappresentative di questa categoria: la prima costruisce
oggetti “sparando” goccioline di materiale da ugelli piezoelettrici di stampanti a inchiostro,
mentre l’altra impiega gli stessi ugelli per iniettare goccioline di legante sulla superficie
della polvere solida.
124
3.2.2 Caratterizzazione della lega Co-Cr-Mo prodotta via DMLS
Come già anticipato nel paragrafo 3.2.1, le leghe Co-Cr-Mo sono ampiamente utilizzate per
impianti biomedici come articolazioni artificiali per il ginocchio e l’anca, grazie alle loro
eccellenti caratteristiche di resistenza alla corrosione, resistenza all’usura e
biocompatibilità.
Il Co è caratterizzato da due fasi [15,46]:
 γ, con struttura cubica a facce centrate (fcc), stabile ad alte temperature,
 ɛ, con struttura esagonale compatta (hcp), stabile a basse temperature.
L’equilibrio stabile della fase γ è determinato dalla relativa energia libera di Gibbs, ΔG γ→ɛ,
tra le fasi γ ed ɛ [47-48]. La trasformazione fcc→hcp nel Co e nelle sue leghe è molto lenta
a causa delle limitate forze motrici chimiche disponibili alla temperatura alla quale avviene
la trasformazione. Quindi, in normali condizioni di raffreddamento, la fase fcc rimane entro
il bordo di fase in stato metastabile [49]. Nel Co puro la trasformazione avviene a circa
427°C tramite meccanismo martensitico (senza diffusione), in cui la forza motrice è data
dallo stress interno causato dal sottoraffreddamento sotto il bordo di fase. Nelle leghe CoCr-Mo, il cromo ed il molibdeno espandono la zona con struttura hcp e la temperatura di
transizione di fase aumenta fino a circa 970°C [50]. L’aggiunta del Cr aumenta la resistenza
alla corrosione e all’ossidazione, così come la durezza, la duttilità e la resistenza all’usura,
grazie alla formazione di carburi. Il molibdeno induce un aumento della resistenza alla
corrosione ed ha un ruolo di rafforzamento in soluzione solida grazie alla formazione del
composto intermetallico Co3Mo [51]. Anche se la scarsa stabilità della fase γ nelle leghe
Co-Cr-Mo aumenta fortemente la resistenza all’usura, l’applicabilità in impianti biomedici
e componenti strutturali è ostacolata dalle scarse proprietà di allungamento e lavorabilità a
temperatura ambiente. Leghe Co-Cr-Mo, comunemente impiegate per applicazioni
ortopediche ed odontoiatriche, vengono prodotte con tecniche di pressofusione in
conformità con lo standard ASTM F75. I principali difetti prodotti da questa tecnica di
preparazione sono eterogeneità chimica, ritiri e grani di grandi dimensioni [52-53]. La
presenza di questi difetti negli impianti spiega i bassi valori di resistenza meccanica e a
fatica, che possono indurre una frattura prematura del sistema [54]. A fronte di questi gravi
difetti indotti dai consueti metodi di ottenimento della lega, di recente si sta ricorrendo
all’applicazione delle tecniche di manifattura additiva per la creazione di impianti in campo
biomedico (e di pezzi finiti in altri campi dell’ingegneria) [35,55].
Durante il dottorato di ricerca, in collaborazione con l’Università di Modena e Reggio
Emilia e con il Politecnico di Torino, è stata svolta una ricerca focalizzata sull’applicazione
della tecnica di sinterizzazione laser diretta del metallo (Direct Metal Laser Sintering o
DMLS) alla lega metallica Co-Cr-Mo per uso biomedico. I campioni ottenuti con questa
tecnica sono stati sottoposti a prove di durezza HRC, mostrando dei valori molto più alti
rispetto a quelli caratteristici di questa lega [56]. Per trovare una spiegazione a questo
fenomeno, la microstruttura è stata caratterizzata tramite diffrazione di raggi X,
microscopia elettronica a trasmissione (TEM) e a scansione (SEM).
125
Preparazione dei campioni
In Tab. 3.3 è riportata la composizione della polvere di partenza inserita nel sintetizzatore
laser.
Elementi
wt.%
Co
59.5
Cr
31.5
Mo
5.0
Si
2.0
Mn
1.0
Altri
1.0
Tab. 3.3 Composizione della polvere di partenza.
I campioni sono stati preparati tramite sinterizzazione laser diretta del metallo (Direct Metal
Laser Sintering o DMLS) utilizzando un sistema laser a fibra di itterbio (Yb) EOSINTM270.
In Tab 3.4 sono riportati i parametri utilizzati nel DMLS.
Potenza del laser
Diametro dello spot laser
Velocità di scansione
Velocità di costruzione
Spessore dello strato
Atmosfera protettiva
200 W
0.200 mm
fino a 7.0 m/s
2-20 mm3/s
0.020 mm
1.5% O2 max
Tab. 3.4 Parametri di funzionamento del DMLS.
In Fig. 3.1 è illustrato il funzionamento dei sistemi di sinterizzazione laser selettiva, quindi
anche del DMLS.
126
Fig. 3.1 Schema che illustra la sinterizzazione laser selettiva.
Come si può osservare in Fig. 3.1, il sistema è formato da due pistoni, di cui uno avente la
funzione di fornire la polvere da sinterizzare (powder dispenser) e l’altro di fare da base alla
polvere e all’oggetto in fase di sinterizzazione (build platform). Prima che il materiale
venga sinterizzato, tutto il powder bed (cioè l’area che contiene la polvere da sinterizzare)
viene riscaldato ad una temperatura poco inferiore a quella di fusione del materiale, in
modo da minimizzare le distorsioni termiche e facilitare la fusione dello strato sinterizzato.
In seguito, il fascio laser fa una scansione della sezione sulla superficie della polvere, in
accordo con i profili sezionali ottenuti dai dati del disegno 3D CAD, scaldando la polvere e
causando la fusione delle particelle metalliche, così da formare uno strato solido. Quando
uno strato viene completato, il part bed viene abbassato ed il powder dispenser, pieno di
polvere da sinterizzare, si alza. Una spatola ricopritrice dispone quindi un nuovo strato di
polvere su quello appena sinterizzato ed il processo di sinterizzazione viene ripetuto. La
polvere che non è oggetto della scansione laser e che, quindi, non viene sinterizzata, rimane
sulla build platform e fa da supporto agli strati successivi di polvere; alla fine del processo
il materiale in eccesso non sinterizzato viene riciclato.
I campioni di Co-Cr-Mo sinterizzati via DMLS sono dei parallelepipedi lunghi 250 mm,
spessi 6 mm e larghi 4 mm. Per minimizzare gli effetti di anisotropia, ogni strato è stato
costruito con una particolare strategia: il laser agisce su ogni strato con direzioni di
scansione parallele e in accordo con un definito vettore di scanning, che viene ruotato di
25° di strato in strato.
127
Caratterizzazione microstrutturale
La polvere di partenza ed il campione sinterizzato sono stati sottoposti a misure di
diffrazione di raggi X, e gli spettri risultanti sono riportati in Fig. 3.2.
a)
b)
Fig. 3.2 Spettri risultanti dalle misure XRD su a) polvere di partenza, b) pezzo sinterizzato via
DMLS.
Tutti i picchi degli spettri di Fig. 3.2a sono riconducibili alla fase γ del cobalto
(metastabile). Questa fase ha reticolo cubico a facce centrate (fcc) con parametro reticolare
nominale a = 0.35447 nm (ICDD card n.° 15-806). La deconvoluzione dei tre picchi
presenti ha permesso di calcolare il parametro reticolare nominale, avente valore a = 0.3586
nm. La Fig. 3.2b riporta lo spettro XRD del campione sinterizzato. In questo caso, oltre alla
presenza della fase γ, si osserva la comparsa di picchi riconducibili anche alle fase ɛ del
cobalto. Il picco più intenso posto a 2θ = 43.94° e il picco a 2θ = 75.09 sono stati indicizzati
con entrambe le fasi (γ, ɛ) a causa della sovrapposizione delle riflessioni dovute ad esse. La
fase ɛ ha reticolo esagonale compatto e con parametri nominali a = 0.25031 nm e c =
0.40605 nm (ICDD card n.° 5-727). La deconvoluzione dei picchi dovuti alle riflessioni ɛ
(100) e ɛ (101) ha permesso di determinare i parametri reticolari della lega ottenuta, che
sono a = 0.2539 nm e c = 0.4122 nm., con un rapporto c/a pari a 1.623. La deconvoluzione
del picco principale di Fig. 3.2b, corrispondente alla riflessione γ (200), ha permesso di
determinare il parametro reticolare di tale fase a = 0.3589. Tutti i parametri reticolari
calcolati nella Fig. 3.2 sono in accordo con quanto riportato in letteratura [57].
L’applicazione del metodo Sage - Gillaud [58] alle intensità integrate dei picchi γ (200) ed
ɛ (101) ha permesso di calcolare la frazione volumetrica di quest’ultima, che risulta essere
fhcp = 0.49±0.03.
128
In Fig. 3.2b oltre ai contributi delle due fasi, sono visibili dei picchi allargati attribuibili a
carburi metallici genericamente indicizzati come M23C6 (M = Cr, Co, Mo, W), aventi la
struttura cubica del composto Cr23C6 (ICDD card n.° 35.783).
In Fig. 3.3 sono riportate le micrografie SEM relative alla polvere di partenza (Fig. 3.3a) ed
al pezzo sinterizzato (Fig. 3.3b).
Fig. 3.3 Immagini SEM di: (a) polvere di partenza e (b) pezzo sinterizzato (zona di rottura dovuta a
prove di trazione precedenti)
Le particelle della polvere di partenza (Fig. 3.3a) hanno forma sferica e dimensioni
comprese tra 4 e 90 µm. I campioni sinterizzati sono stati poi sezionati parallelamente
all’azione del fascio laser e sottoposti a preparazione metallografica ed etching
elettrochimico, per evidenziare le strutture interne (Fig. 3.4).
Fig. 3.4 Immagini SEM dei campioni sinterizzati in condizioni di basso ingrandimento (a) e alto
ingrandimento (b).
129
Le linee visibili in particolar modo in Fig. 3.4a rappresentano diverse zone sinterizzate dalla
scansione del laser; aumentando l’ingrandimento all’interno della singola zona sinterizzata
si osservano strutture colonnari aventi diametro compreso tra 300 e 400 nm ed altezza tra 4
e 8 µm e formano dei domani. L’orientazione di queste strutture è la stessa all’interno di un
dominio ma varia tra un dominio e l’altro. Le micrografie in Fig. 3.5 sono state analizzate
con l’ausilio del software Image J [59], evidenziando che la frazione di area occupata da
tali strutture colonnari rispetto alla matrice è circa del 45±5%.
Misure di micronalisi EDS effettuate al SEM sia sulla polvere di partenza che sulla lega
sinterizzata non hanno evidenziato alcuna variazione nella composizione.
I campioni sinterizzati sono stati poi preparati ed osservati al TEM e le risultanti
micrografie sono osservabili in Fig. 3.5 e Fig. 3.6.
Fig. 3.5 Campione sinterizzato: a) immagine TEM in “bright-field” delle lamelle ɛ all’interno della
fase γ; b) pattern SAD relativo alla stessa zona in orientazione di asse di zona <110> γ (sopra) e
corrispondente simulazione software (sotto).
130
Fig. 3.6 Campione sinterizzato: a) immagine TEM “bright-field” in orientazione di asse di zona
<110>γ, b) pattern SAD corrispondente (parte superiore) e simulazione software (parte inferiore).
Le osservazioni TEM confermano la presenza delle due fasi ɛ e γ del cobalto, già
evidenziata dai raggi X. Inoltre, la fase ɛ forma, all’interno della fase γ, delle lamelle aventi
spessore di 1-2 nm che in alcuni casi si aggregano in una regione del campione, formando
strutture alternate di fasi ɛ e γ aventi dimensioni laterali di 400 nm al massimo. In Fig. 3.5a,
ottenuta in orientazione di asse di zona <110>γ, è chiaramente visibile la struttura lamellare
della fase ɛ. Le lamelle sono tra loro parallele e la distanza tra di esse non è costante. In Fig.
3.5b è riportata la figura di diffrazione della stessa zona e, nella parte inferiore, la
simulazione ottenuta con il software CrystlKit [60]. Gli spot più intensi di Fig. 3.5b sono
dovuti alla fase γ, mentre quelli più piccoli alla fase ɛ. La geometria degli spot rivela che le
lamelle ɛ formano, con le seguenti orientazioni, delle relazioni con la matrice γ quali {001}ɛ
// {111}γ , <100>ɛ // >1-10>γ. Gli spot di Fig. 3.5b indicano inoltre che le lamelle crescono
sui piani reticolari {111}γ ed hanno piccolo spessore nella direzione reticolare <111> γ. La
Fig. 3.6 riporta i risultati delle osservazioni TEM nell’asse di zona con orientazione
<111>γ; sono visibili sia le lamelle che gli stacking faults (difetti) che, però, giacciono su
piani reticolari {111}γ diversi. Il pattern di diffrazione in Fig. 3.6b è stato simulato
considerando quattro possibili orientazioni per la fase ɛ sui piani reticolari {111}γ.
La micrografia TEM in Fig. 3.7 mostra la presenza di precipitati aventi forma sferica o
ellittica e dimensioni nel range di 50-300 nm. La microanalisi EDS fatta su tali campioni ha
mostrato concentrazioni di Cr e Mo più elevate rispetto alla composizione della matrice.
131
Fig. 3.7 Immagine TEM “Bright-field” che mostra la presenza di precipitati.
L’analisi dei pattern di diffrazione elettronica in corrispondenza dei precipitati ha
evidenziato la presenza di una fase compatibile con la struttura cristalli del carburo Cr 23C6.
3.2.3 Discussione
Gli spettri dei raggi X (Fig. 3.2) mostrano una trasformazione di fase connessa al
trattamento laser. Infatti, mentre la polvere è composta dalla sola fase γ (fcc), il campione
sinterizzato contiene sia la fase γ che la fase ɛ (hcp). La fase metastabile fcc può
trasformarsi in hcp tramite invecchiamento isotermo a temperature tra 650 e 950°C e
tramite raffreddamento rapido da temperature di annealing (> 1100°C) [61-63]. In
quest’ultimo caso, le frazioni di volume della martensite atermica sono fortemente
influenzate dalla velocità di raffreddamento e dalla composizione della lega [61]. Nei
campioni oggetto di questo lavoro, il fascio laser produce una fusione locale delle particelle
metalliche che solidificano rapidamente e si raffreddano a causa della conduttività termica
della lega, nonché della piccola regione riscaldata. Quindi, dove agisce il laser si vengono a
creare le condizioni responsabili della trasformazione martensitica atermica.
Le osservazioni SEM mostrano una struttura complessa dovuta all’azione del laser, formata
da strutture colonnari che si raggruppano in domini. Questa morfologia è molto diversa da
quella dendritica riscontrabile in letteratura [64], in cui viene mostrata la tipica struttura
della lega Co-Cr-Mo prodotta tramite microdeposizione laser di polvere (laser powder
microdeposition o LPMD). Così come nel DMLS, anche in questa tecnica una piccola
quantità di polvere viene sciolta e rapidamente raffreddata: i risultati ottenuti mostrano la
132
formazione di grandi quantità di fase ɛ, come nel nostro caso. La stima della frazione
volumetrica occupata dalle strutture colonnari rispetto alla matrice, fatta sulle micrografie
SEM, dà un risultato paragonabile alla percentuale di fase ɛ ottenuta dai raggi X. La
frazione di ɛ-martensite atermica che si ottiene può variare tra il 10 wt.% e il 15wt.%, a
seconda della composizione della lega, delle temperature in gioco, del tempo e della
velocità di raffreddamento [50]. Usando, invece, polveri sinterizzate in modo
convenzionale [65] o via laser [64] si ottiene una produzione di ɛ-martensite tra il 30wt.% e
il 70wt.%. La ragione di questo comportamento è imputabile principalmente alla
importante nucleazione di embrioni ɛ promossa dalle superfici libere e dallo sviluppo dei
grani sulle superfici di contatto della polvere. Questo effetto è combinato con la
ricristallizzazione e la crescita dei grani all’interno delle particelle, promossa dai bordi dei
grani tra zone dendritiche ed interdendritiche.
Nei nostri campioni, non è stata osservata la struttura dendritica e le particelle si sciolgono
completamente durante la sinterizzazione, queste sono le motivazioni che giustificano la
formazione della grande quantità di fase ɛ. Nelle leghe Co-Cr-Mo- convenzionali, si ha
formazione di ɛ-martensite atermica [15,66]. In questo caso, la fase ɛ forma delle spesse
bande all’interno della fase γ: la formazione di un network intricato tra le due fasi come
quello illustrato in Fig. 3.5 e Fig. 3.6, non è mai stato riportato in letteratura. Questo
suggerisce che il processo di DMLS possa indurre velocità di raffreddamento così rapide da
produrre la formazione di un gran numero di difetti durante la solidificazione: questi difetti
rappresentano proprio gli embrioni della fase ɛ, che promuovono la trasformazione
martensitica. Durante il processo di sinterizzazione, inoltre, i layers depositati vengono
riscaldati mentre il successivo viene depositato: questi trattamenti termici potrebbero
indurre trasformazioni martensitiche isotermiche nella lega. Come riportato in letteratura
[67-68], la formazione di martensite isoterma avviene simultaneamente alla formazione di
file discontinue di carburi. I carburi sferici presenti nei nostri campioni (Fig. 3.7) non
soddisfano tale premessa e quindi si sono probabilmente formati durante la solidificazione.
I valori di durezza misurati [57] per questi campioni ottenuti via DMLS sono superiori a
quelli riportati in letteratura per le convenzionali leghe Co-Cr-Mo (25-35 HRC) e tendono
ad aumentare linearmente con l’incremento della fase ɛ [64]. Questo risultato è dovuto alla
crescita della fase ɛ sui piani {111}γ che restringono lo scivolamento delle dislocazioni nel
reticolo fcc. Inoltre, lo scivolamento nelle lamelle hcp è inibito dall’intersezione di queste
con altre lamelle hcp nella regione fcc [68]. Tutti questi fenomeni ed il particolare network
intricato di lamelle ɛ può spiegare gli alti valori di durezza dei nostri campioni. La presenza
di carburi metallici potrebbe giocare un ruolo nel rafforzamento della lega per il
meccanismo di Orowan, ma considerandone la quantità irrisoria, è più probabile che il
principale meccanismo di rafforzamento sia la trasformazione martensitica indotta nella
lega dal processo di DMLS.
133
L’elevato rafforzamento, manifestato dai campioni sinterizzati, unito all’omogeneità
microstrutturale osservata possono rendere le tecniche di DMLS molto utili per produrre
impianti biomedici in leghe a base di cobalto.
3.2.4 Conclusioni
In questa sezione della presente tesi di dottorato è stato trattato il caso di una classica lega
Co-Cr-Mo per applicazioni biomediche che, prodotta con il metodo di manifattura additiva
DMLS, ha mostrato di avere valori di durezza HRC superiori a quelli tipici di questa lega.
La caratterizzazione microstrutturale via XRD, SEM e TEM ha spiegato le motivazioni che
determinano questo comportamento.
Le principali conclusioni possono essere riassunte come segue:
 il trattamento laser fonde la polvere metallica Co-Cr-Mo ed induce una trasformazione
dalla fase γ (fcc) alla fase (hcp);
 la trasformazione di fase è martensitica atermica e produce un intricato network di
sottili lamelle ɛ all’interno della fase γ, mai osservato prima;
 la grande quantità di lamelle ɛ formatesi è attribuibile alla grande nucleazione di
embrioni ɛ promossa dai difetti reticolari formatisi durante il rapido raffreddamento
della polvere fusa;
 sono presenti carburi nei grani della lega che si sono probabilmente formati durante la
solidificazione;
 i valori di durezza dei campioni, più elevati rispetto a quelli riscontrabili in letteratura,
sono dovuti alla presenza di lamelle ɛ che crescono sui piani {111} γ e limitano il
movimento delle dislocazioni nella fase γ (fcc). Inoltre, lo scivolamento nelle lamelle ɛ è
inibito dalla loro intersezione con altre lamelle hcp o con regioni fcc.
134
3.3 Rivelatori per applicazioni mediche
Nell’ultimo ventennio nuovi scintillatori ad elevate luminosità hanno suscitato particolare
interesse in quanto candidati promettenti per applicazioni nel campo della diagnostica
medica [69-71]. In particolare, la disponibilità di una ampia varietà di cristalli con range
differenti di proprietà di scintillazione, sono stati impiegati come sensori fotoelettrici che
permettono di ottenere informazioni riguardo la profondità di interazione tramite
discriminazione a forma di impulso (pulse shape discrimination o PSD). Ad ogni modo, il
numero di scintillatori con caratteristiche idonee per PSD e per il simultaneo utilizzo nella
tomografia ad emissione di positroni (positron emission tomography o PET), rimane
decisamente limitato. La PET è una tecnica di medicina nucleare e di diagnostica medica;
lo scopo principale del suo impiego consiste nella produzione di bioimmagini prettamente
in ambito oncologico, al fine di ottenere la visualizzazione di tumori, ma può anche essere
sfruttata per ricerche cardiologiche e neurologiche. Con l'esame PET si ottengono mappe
dei processi funzionali in atto all'interno del corpo.
Esistono anche metodi di indagine alternativi che consentono di fare imaging, come ad
esempio la tomografia assiale computerizzata (TAC) o la risonanza magnetica nucleare
(NMR); tuttavia, mentre TAC e NMR permettono di identificare alterazioni organiche e
anatomiche nel corpo umano, le scansioni PET sono in grado di rilevare alterazioni a livello
biologico-molecolare, che spesso precedono l'alterazione anatomica, attraverso l'uso di
marcatori molecolari che presentano un diverso ritmo di assorbimento a seconda del tessuto
interessato. Con una scansione PET è possibile visualizzare e quantificare con discreta
precisione le variazioni di afflusso sanguigno nelle varie strutture anatomiche (attraverso la
misurazione della concentrazione dell'emettitore di positroni iniettato). Il principio di
funzionamento della PET è il seguente: un isotopo tracciante con breve tempo di vita e
legato ad una molecola metabolicamente attiva (in genere uno zucchero), viene iniettato
(solitamente per via endovenosa) nel soggetto da esaminare. Il radiofarmaco viene
assimilato dal corpo come se fosse glucosio semplice (C6H12O6), concentrandosi
maggiormente nelle zone che hanno un metabolismo più accelerato (le regioni che
consumano glucosio in maggior quantità sono le cellule tumorali, i reni e le zone attive del
cervello). Quando la molecola metabolicamente attiva raggiunge una determinata
concentrazione all’interno del tessuto interessato, il paziente viene posizionato all’interno di
uno scanner. L'isotopo di breve vita media decade β+:
( A, Z )  ( A, Z  1)  e   e
(3.1)
Il positrone emesso, dopo un percorso di pochi millimetri durante i quali perde energia
cinetica, si annichila con un elettrone presente nella materia, dando luogo alla formazione
135
di una coppia di fotoni γ da 511Kev ciascuno emessi back-to-back, come mostrato in Fig.
3.8.
Fig. 3.8 Schema di emissione dei positroni [72].
Gli emettitori di positroni impiegati in un esame PET possiedono delle caratteristiche
precise, ossia:
 poter essere prodotti in quantità utili con costi non proibitivi e con purezza idonea;
 permettere la costruzione di radiofarmaci atti a tracciare i meccanismi fisiologici e
patologici d’interesse: si usano radiofarmaci differenti per sondare attività tumorali
piuttosto che malattie neurologiche degenerative.
Tra gli emettitori di positroni utilizzati più di frequente si trovano: 11C, 13N, 15O, 18F, 82Rb. I
fotoni d’annichilazione vengono poi rivelati per mezzo di un apparato in coincidenza
temporale, che li registra come eventi veri solo se incidono sui due rivelatori in un range
temporale cosi ristretto da poter considerare la rivelazione contemporanea. In genere
l’intervallo di tempo è dell’ordine dei nanosecondi. I rivelatori impiegati sono degli
scintillatori, che possiedono un elevato potere di arresto e un’alta efficienza di rivelazione,
permettendo di ottenere buoni risultati anche iniettando una bassa dose di isotopo nel
paziente. Una volta raggiunti gli scintillatori posti intorno al paziente in modo concentrico
(come mostrato in Fig. 3.9), i fotoni danno luogo a scintillazione che viene rivelata
attraverso tubi fotomoltiplicatori. In questo modo, acquisendo dati per un numero di linee
di retroproiezione sufficientemente elevato da poter campionare adeguatamente la regione
spaziale d’interesse, si riescono a ricostruire le immagini della distribuzione del
radionuclide emettitore di positroni e si può anche determinare l'attività e l'utilizzo della
molecola metabolicamente attiva all'interno delle parti del corpo in esame.
136
Fig. 3.9 Funzionamento del sistema PET [73].
Tra tutti i materiali utilizzabili per costruire rivelatori, gli ossiortosilicati hanno dimostrato
di possedere il miglior comportamento a livello di scintillazione per ciò che concerne la
tomografia ad emissione di positroni [74].
In questa parte del capitolo verranno esposte ed analizzate le caratteristiche di cristalli di
ossiortosilicato di lutezio e ittrio drogati con cerio (LYSO:Ce).
137
3.3.1 Teoria dei rivelatori
Un rivelatore di particelle è in generale uno strumento in grado di evidenziare il passaggio
di una radiazione. Quando una particella (carica o neutra) attraversa la materia interagendo
con essa in modo elettromagnetico o nucleare, cede al mezzo tutta o parte della sua energia,
determinando l’eccitazione degli atomi (o molecole) con conseguente emissione di fotoni o
ionizzazione: i fotoni e gli elettroni prodotti possono essere rivelati, consentendo di
riconoscere il passaggio della particella. Per una vasta categoria di rivelatori, si può
affermare che il risultato finale dell’interazione è la presenza nel mezzo di un certo numero
di cariche elettriche. In realtà esistono vari tipi di rivelatori che, oltre a segnalare il
passaggio della particella, sono in grado di fornire ulteriori informazioni su:
 energia delle particelle che hanno attraversato il rivelatore;
 posizione;
 numero di particelle;
 quantità di moto;
 istante di attraversamento;
 identificazione della/e particella/e.
Una schematizzazione un pò semplicistica suddivide i diversi rivelatori in due
categorie:
 contatori, che sono in grado semplicemente di contare le particelle che attraversano il
mezzo, senza fornire informazioni sulla loro traiettoria;
 rivelatori a visualizzazione, che oltre a segnalare il passaggio delle particelle,
permettono di osservarne la traccia e di misurarne le caratteristiche.
E’ bene precisare che, allo stato attuale, anche strumenti noti come contatori consentono di
evidenziare la traccia lasciata dalle particelle. La prima considerazione da fare su un
rivelatore è la sua capacità di produrre un segnale utile per un dato tipo di radiazione e di
energia. Nessun rivelatore sarà sensibile a tutti i tipi di radiazione e a tutte le energie [75].
In realtà, ogni rivelatore è progettato per essere sensibile ad un certo tipo di radiazione in un
determinato intervallo di energie; al di fuori di tale regione, si ottiene generalmente un
segnale inutilizzabile o una forte diminuzione dell’efficienza di rivelazione.
Tale caratteristica dipende da diversi fattori:
 la sezione d’urto per le interazioni all’interno del rivelatore;
 la massa del rivelatore;
 il rumore prodotto ;
 il materiale di protezione che circonda il volume sensibile del rivelatore.
La sezione d’urto e la massa del rivelatore determinano la probabilità che la radiazione
incidente ceda tutta o parte della sua energia all’interno del rivelatore per ionizzazione. Il
minimo segnale rivelabile [75] dipende dal limite inferiore fissato dal rumore generato dal
rivelatore stesso e dall’elettronica annessa. Il rumore si presenta come una fluttuazione
nella tensione o nella corrente in uscita dal rivelatore ed è in ogni caso presente anche se
non c’è nessuna radiazione incidente (fondo). Ovviamente il segnale prodotto dalla
138
ionizzazione, per essere rivelato, dovrà essere maggiore del valore medio di rumore
presente. Come convenzione, si definisce generalmente minimo rivelabile il valore del
segnale pari al livello medio di rumore di fondo più tre volte la sua incertezza. Un ulteriore
limite è fornito, inoltre, dal materiale di protezione che ricopre la finestra di ingresso del
rivelatore. A causa dell’assorbimento del mezzo di protezione, infatti, solo una radiazione
con energia sufficiente per attraversare tale spessore di materiale può essere rivelata.
La particella incidente può rilasciare tutta o parte della sua energia nel rivelatore oppure
attraversarlo senza subire interazioni, con probabilità che variano a seconda del tipo di
radiazione, della sua energia e delle dimensioni del rivelatore. Si definisce efficienza di
rivelazione assoluta ɛass di un dato strumento il rapporto tra il numero di particelle rivelate e
il numero di quelle emesse realmente dalla sorgente esaminata; il valore di tale grandezza
dipende, ovviamente, oltre che dalle caratteristiche del rivelatore anche dalle condizioni
geometriche sperimentali e, in particolare, dalla distanza sorgente-rivelatore. Come
esempio, consideriamo un rivelatore cilindrico e una sorgente puntiforme ad una distanza d
sull’asse del rivelatore, come illustrato nella Fig.3.10.
Fig. 3.10 Efficienza di rivelazione per un rivelatore cilindrico ed una sorgente puntiforme.
La probabilità che una particella che incide sul rivelatore venga effettivamente rivelata è:
P( x) 1  e  x
(3.2)
dove µ è il coefficiente di attenuazione lineare della radiazione nel mezzo di cui è composto
il rivelatore e dove x è il cammino percorso all’interno del rivelatore. L’efficienza assoluta
può essere fattorizzata in due parti: l’efficienza intrinseca ɛint e l’efficienza geometrica ɛgeom,
per cui è possibile scrivere:
139
 ass   int   geom
(3.3)
Per efficienza di rivelazione intrinseca ɛint si intende il rapporto tra il numero di impulsi
registrati dal rivelatore e il numero di quelli che ne attraversano la zona attiva, tenendo
conto, quindi, della geometria di irraggiamento. Inoltre nel caso in cui siano registrati solo
gli eventi di assorbimento, cioè esclusivamente le interazioni in cui la particella cede tutta
la sua energia nel rivelatore, si parla di “efficienza di picco”.
Da un punto di vista teorico, la risoluzione energetica viene definita come la minima
differenza di energia necessaria affinché il rivelatore riesca a discriminare due particelle di
energia diversa [76].
Per cercare di chiarire meglio il significato di risoluzione energetica si consideri il caso di
un rivelatore spettrometrico investito da una radiazione monoenergetica. La distribuzione
differenziale dell’ampiezza di impulso (spettro) prende il nome in questo caso di funzione
risposta ed è illustrata, come esempio, nella Fig. 3.11.
Fig. 3.11 Funzione risposta del rivelatore.
Le due curve rappresentano due possibili distribuzioni nell’intorno di un ampiezza di
impulso media E0. La curva 1 mostra la risposta di un rivelatore con caratteristiche migliori
rispetto a quello relativo alla curva 2. Infatti, assumendo che nei due casi venga registrato lo
stesso numero di eventi, le aree sottese alle due curve sono uguali ma, anche se tutte e due
le distribuzioni sono centrate intorno allo stesso valore E 0, per la seconda curva si ha una
peggiore risoluzione energetica perché la sua larghezza è maggiore. Tale larghezza è dovuta
alle maggiori fluttuazioni registrate da impulso a impulso a parità di energia depositata nel
rivelatore (in tale ragionamento è stata implicitamente esclusa la possibile fluttuazione che
può essere determinata dal processo di trasferimento dell’energia dalla radiazione al
rivelatore). Se queste fluttuazioni fossero rese sempre più piccole la risposta del rivelatore
140
tenderebbe ad una funzione delta di Dirac. Convenzionalmente si definisce risoluzione
energetica il rapporto tra la FMWH (Full Width at Half Maximum) del picco, cioè la
larghezza della distribuzione spettrale in corrispondenza della metà della massima ordinata,
e il valore centrale E0:
R
FWHM
E0
(3.4)
Fig. 3.12 Risoluzione energetica del picco.
Esiste un certo numero di potenziali sorgenti di fluttuazione nella risposta che causano un
peggioramento della risoluzione energetica. Bisogna considerare innanzitutto possibili
derive delle caratteristiche operative del rivelatore durante la misura, sorgenti di rumore
interne al rivelatore e all’apparato di misura e rumore statistico dovuto alla natura discreta
dello stesso segnale misurato. Quest’ultimo è di fondamentale importanza poiché
costituisce una fonte ineliminabile di rumore e, in molti casi, rappresenta anche la sorgente
dominante di fluttuazione del segnale, ponendo pertanto un limite inferiore alle prestazioni
del rivelatore. Più precisamente, il rumore statistico nasce dal fatto che la carica Q generata
nel rivelatore da una radiazione non è una variabile continua ma rappresenta, invece, un
numero discreto di portatori carichi che è soggetto comunque a fluttuazioni da evento a
evento, anche se nel rivelatore viene rilasciata la stessa quantità di energia; è quindi una
sorgente intrinseca di rumore. Assumendo che il processo di formazione di ciascun
portatore di carica segua la statistica di Poisson, se chiamiamo N il numero di cariche
generate, l’incertezza sulla media è stimabile con la grandezza N . Inoltre, visto che N è
generalmente un numero grande, la risposta dello strumento si può ben approssimare con
una gaussiana. Se inoltre si assume che la risposta del rivelatore sia lineare, si può scrivere:
141
E 0 K  N
(3.5)
dove K è una costante. La deviazione standard sarà allora:
 K N
(3.6)
Si può quindi ottenere quanto segue:
FWHM  2.35K N
(3.7)
In conclusione, si può scrivere la risoluzione energetica come:
R
FWHM 2.35

E0
N
(3.8)
Per migliorare la risoluzione energetica intrinseca occorre pertanto aumentare il numero di
fotoelettroni N. Se non sono trascurabili, le altre sorgenti di fluttuazioni nella catena di
formazione del segnale si combinano con la risoluzione intrinseca del rivelatore per dare la
risoluzione energetica totale del sistema. In generale la FWHM totale sarà data dalla
somma quadratica delle FWHM delle singole sorgenti di fluttuazioni, cioè:
2
2
2
FWHM totale
 FWHM statistica
 FWHM elettronic
a  .....
(3.9)
Un’altra importante caratteristica dei rivelatori è il tempo morto, definito come l’intervallo
di tempo T0 che deve trascorrere dopo il passaggio di una particella, affinché lo strumento
sia in grado di rivelarne una successiva. Se indichiamo con N' il numero di particelle
rivelate nell’unità di tempo e con N il numero di quelle che hanno realmente attraversato il
rivelatore, si può scrivere:
N
N
1  N   T0
(3.10)
142
3.3.2 Rivelatori a scintillazione
Nell’ambito della rivelazione delle particelle ionizzanti, la combinazione di un cristallo
scintillante con un tubo fotorivelatore rappresenta uno dei rivelatori più utilizzati per le
applicazioni pratiche, soprattutto in medicina nucleare [77]. Il rivelatore a scintillazione
presenta, infatti, molti vantaggi rispetto ad altri tipi di rivelatori, quali un veloce tempo di
risposta e un’alta efficienza di rivelazione. La Fig. 3.13 illustra uno schema esemplificativo
del funzionamento di un rivelatore a scintillazione, realizzato mediante l’accoppiamento di
uno scintillatore e di un tubo fotomoltiplicatore [76].
Fig. 3.13 Schema di un Rivelatore a scintillazione [78].
Si consideri ora l’interazione dei fotoni con il rivelatore. Come risultato della cessione
energetica del fotone nel cristallo, si ottiene emissione di luce di scintillazione. Ipotizzando
un’interazione fotoelettrica ed una risposta del cristallo scintillante di tipo lineare,
l’ammontare di luce di scintillazione prodotta per ogni singolo evento di interazione è
proporzionale all’energia del fotone gamma incidente; il fattore di proporzionalità
rappresenta l’efficienza luminosa intrinseca del cristallo. La luce di scintillazione viene
emessa nel cristallo secondo una distribuzione isotropa; solo una frazione di questa
raggiunge l’interfaccia cristallo-vetro, a causa delle perdite per processi di riflessione sulle
pareti laterali del cristallo e, secondariamente, per autoassorbimento. Inoltre, è necessario
considerare le perdite di luce causate dall’accoppiamento ottico fra cristallo e vetro del
PMT (photomultiplier o fotomoltiplicatore) che generalmente viene realizzato mediante
grasso o olio siliconico. Se gli indici di rifrazione del cristallo scintillante e del vetro non
sono simili, la raccolta dei fotoni può essere influenzata anche da fenomeni di rifrazione e
di angolo limite [77]. Per ogni evento di interazione fotoelettrica nel cristallo scintillante,
all’uscita del fototubo si ottiene un segnale in tensione la cui ampiezza è proporzionale
all’energia del fotone gamma incidente, oppure, per una interazione qualsiasi, all’energia
143
rilasciata nel cristallo. E’ quindi possibile misurare con accuratezza la distribuzione
energetica della radiazione incidente, analizzando la distribuzione in ampiezza dei segnali
uscenti dal tubo fotomoltiplicatore per mezzo di un analizzatore multicanale (multi channel
analyzer o MCA) [75].
Fig. 3.14 Tubo fotomoltiplicatore [78].
Supponendo che una particella ionizzante attraversi un mezzo in grado di emettere luce,
l’assorbimento di energia da parte della materia e la successiva riemissione nella zona del
visibile prende il nome di luminescenza. In particolare, tale processo prende il nome di
fluorescenza, se l’emissione avviene in tempi dell’ordine di 10 -8 s, e di fosforescenza, se
sono in gioco tempi molto più lunghi, variabili dai microsecondi alle ore. Le particelle (o
fotoni) incidenti possono avere bassa energia (bande ottiche o UV) o alta energia (con
energia E>1keV); in questo secondo caso, se vi è emissione di radiazione visibile, si parla
di scintillazione anziché di luminescenza. In alcuni casi è possibile che una radiazione di
alta energia non sia in grado di far scintillare il materiale, mentre si ha comunque il
fenomeno della fluorescenza con particelle (o fotoni) di bassa energia. In generale, il
materiale scintillante è in grado di convertire in luce solo una parte molto piccola
dell’energia ricevuta dalla radiazione incidente; a questo proposito si introduce una
grandezza che definisce la frazione di energia rilasciata nel mezzo che viene riemessa sotto
forma di impulsi luminosi, indicata con il nome di efficienza di scintillazione. È evidente
che un’alta efficienza di scintillazione è una delle caratteristiche richieste ad un buon
materiale scintillante. Gli scintillatori utilizzati per la rivelazione vengono generalmente
suddivisi in due categorie: scintillatori organici ed inorganici. Gli organici danno
generalmente una risposta veloce entro i 10 ns (2 ns per i plastici) ma producono poca luce
(~ 4000 eV) ed hanno una bassa efficienza di rivelazione; sono quindi più indicati per
misure di tempo. Gli inorganici, tra cui hanno particolare importanza NaI(Tl) e CsI(Tl) e gli
ossiortosilicati di lutezio LSO e LYSO sono, invece, più lenti con tempi tipici di risposta di
144
200-500 ns, ma hanno una maggiore luminosità e risultano più indicati per misure di
energie [79].
I cristalli scintillanti puri (scintillatori intrinseci), qualora vengano attraversati da una
radiazione ionizzante, emettono pochi fotoni, in genere nel range dell’ultravioletto. Nei
cristalli drogati (scintillatori estrinseci), invece, vengono introdotte delle impurità
opportune dette “centri attivatori” che permettono di aumentare l’efficienza luminosa. Si
tratta solitamente di Tl, Eu, Ce, che emettono nello spettro del visibile in tempi dell’ordine
di 10-7secondi [80].
Quando una radiazione attraversa uno scintillatore, lascia una certa quantità di energia al
materiale; una parte di questa energia viene assorbita determinando delle transizioni
elettroniche dalla banda di valenza a quella di conduzione, fornendo cioè l’energia
necessaria all’elettrone per superare il gap. Il risultato di tale assorbimento è quindi la
presenza di un elettrone in banda di conduzione e di una lacuna in banda di valenza,
entrambi liberi di migrare nel cristallo. Se l’elettrone e la lacuna si ricombinano nel
cristallo, l’energia di formazione del sistema viene restituita sotto forma di impulso
luminoso. La presenza dei centri attivatori negli scintillatori estrinseci modifica la struttura
a bande del cristallo puro e vengono a formarsi degli stati di energia all’interno della banda
proibita. Gli elettroni che si muovono nella banda di conduzione possono essere catturati
dai siti attivatori nei livelli elettronici non occupati e diseccitarsi successivamente con
emissioni radiative. I centri possono essere suddivisi più in particolare in tre categorie:
 centri luminescenti: l’elettrone torna al livello fondamentale mediante emissione di
luce;
 centri di spegnimento: il ritorno al livello fondamentale non avviene per emissione
luminosa ma per via fononica;
 trappole: si tratta di livelli instabili. Dopo essere stati catturati, gli elettroni possono
passare nella banda di conduzione per assorbimento di energia termica, oppure scendere
al livello fondamentale con una transizione radiativa, che in genere necessita di tempi
piuttosto lunghi.
Affinché ci sia emissione di luce di scintillazione, è necessario che vengano eccitati i centri
luminescenti del cristallo. A seguito della ionizzazione primaria, l’atomo va incontro ad una
serie di transizioni radiative e non. I fotoni secondari emessi vengono riassorbiti dal
cristallo (ad esempio per effetto fotoelettrico), mentre gli elettroni interagiscono con quelli
degli orbitali più esterni degli atomi, generando una valanga di portatori carichi secondari.
Gli elettroni (e le lacune) altamente energetici vengono convertiti, durante questo processo,
in elettroni (e lacune) termalizzati nella banda di conduzione (e nella banda di valenza), o in
coppie eccitoniche. Durante la termalizzazione si verificano dei processi di dissipazione
energetica, in cui l’energia è resa disponibile per l’eccitazione dei centri di emissione: le
modalità con cui avviene tale trasferimento di energia sono alla base del calcolo
dell’efficienza di scintillazione. L’eccitazione dei centri può essere prodotta anche
dall’assorbimento diretto di un fotone. Elettroni e lacune (divisi o legati in uno stato
145
eccitonico), migrando nel cristallo, possono quindi raggiungere il centro attivatore che
cattura l’elettrone. La lacuna ionizza a sua volta il centro di emissione, strappando
l’elettrone dal suo stato fondamentale: in tal modo si permette ad un elettrone, presente
nello stato eccitato del sito luminescente, di passare allo stato fondamentale, con possibile
emissione di luce di scintillazione in tempi dell’ordine di 10-7 s. L’energia emessa è minore
del gap esistente tra la banda di valenza e quella di conduzione. Il processo di luminescenza
avviene attraverso le transizioni elettroniche permesse tra gli stati eccitati e lo stato
fondamentale del centro di emissione (Fig. 3.15).
Fig. 3.15 Meccanismo di luminescenza in uno scintillatore estrinseco.
Poiché i tempi con cui le coppie elettrone-lacuna migrano nel cristallo sono molto minori
della vita media dei livelli eccitati del sito attivatore, si può ritenere che questi decadano
contemporaneamente. Nel processo di fosforescenza l’elettrone viene catturato
dall’attivatore in uno stato eccitato E1 da cui è proibita la transizione al livello
fondamentale E0. Pertanto, è necessario fornire un’energia addizionale (sotto forma di
energia termica), in modo che l’elettrone possa portarsi allo stato di energia E2>E1, da cui
può decadere al livello fondamentale E0, con emissione di radiazione luminosa. Tale
processo richiede tempi molto più lunghi e la luce emessa prende il nome, come già detto,
di luce di fosforescenza (Fig. 3.16).
146
Fig. 3.16 Meccanismo di fosforescenza.
Il meccanismo di luminescenza che ha origine nei centri attivatori può essere spiegato come
segue. Consideriamo due livelli elettronici differenti, il livello fondamentale e quello
eccitato (che possono essere approssimati a delle parabole nell’intorno del punto di
minimo), con i relativi livelli roto-vibrazionali. Le posizioni di equilibrio dei due stati,
espresse in funzione della coordinata configurazionale Q nel reticolo cristallino, sono
diverse a causa del differente legame chimico tra gli atomi. E’ bene, inoltre, ricordare che le
transizioni elettroniche possono avvenire solo lungo linee verticali, poiché avvengono in
tempi molto più veloci di quelli impiegati dai nuclei per cambiare la loro posizione nel
reticolo cristallino (Q pertanto deve essere considerato costante durante tali transizioni,
principio di Franck-Condon) [81].
I centri di emissione possiedono dei centri energetici situati nella banda proibita, tra la
banda di valenza e la banda di conduzione. Gli elettroni delocalizzati nella banda di
conduzione possono combinarsi con un centro di emissione direttamente o indirettamente,
attraverso dei livelli eccitonici, come illustrato nella Fig. 3.16. Gli elettroni che si sono
combinati con dei centri luminescenti in una configurazione eccitata, possono emettere
radiazione luminosa, diseccitandosi nello stato fondamentale secondo le transizioni
radiative permesse (Fig. 3.17).
147
Fig. 3.17 Meccanismo di luminescenza.
L’eccitazione del centro produce una transizione AC, come evidenziato nel diagramma. A
seguito di tale transizione, il sistema ha un eccesso di energia roto-vibrazionale che dissipa
termicamente con la transizione CB. Quindi esegue una transizione BD, che avviene con
l’emissione di un fotone di luminescenza h', e successivamente con la transizione DA
ritorna al livello fondamentale, dissipando per via termica l’energia roto-vibrazionale. È
importante sottolineare che l’energia (h') del fotone emesso è minore di quella che occorre
per eccitare il centro luminoso (h) e minore ovviamente del gap (Eg). Questa caratteristica,
nota come spostamento di Stokes, è alla base di una proprietà molto importante per gli
scintillatori: lo spettro di emissione, infatti, è spostato verso lunghezze d’onda maggiori
rispetto a quelle proprie dell’assorbimento del cristallo, il quale, pertanto, risulta trasparente
rispetto alla luce emessa dai siti attivatori. Se le curve dei due stati rappresentati in Fig.
3.17 hanno un punto di intersezione (punto F), può accadere talvolta che il sistema eccitato
passi dal punto C al punto F per via fononica, decadendo poi per rilassamento termico allo
stato fondamentale, senza che vi sia emissione di luce. Ovviamente tale processo è in
competizione con quello radiativo descritto in precedenza; in particolare si può dire che,
indicando con T la temperatura, le transizioni radiative sono dominanti se kT << EF - EC,
mentre in caso contrario si assiste ad uno spegnimento della luminescenza.
Come accennato in precedenza, l’elettrone che migra nel cristallo può anche essere
catturato dalle trappole prima di incontrare un centro luminescente; in tal caso la transizione
è detta “non localizzata” e l’emissione luminosa è lenta e dipende in generale dalla
temperatura. In uno scintillatore intrinseco (o puro) il centro luminoso è rappresentato dallo
ione positivo che forma il reticolo cristallino. Una radiazione incidente può ionizzare gli
atomi del reticolo oppure far passare gli elettroni dalla banda di valenza a quella eccitonica.
Gli elettroni presenti nella banda di conduzione possono essere facilmente catturati dai
148
livelli eccitonici e, in questo caso, esiste la possibilità di un emissione radiativa tra il più
basso livello eccitonico ed il livello fondamentale dello ione positivo (Fig. 3.18). Tale
processo risulta però abbastanza inefficiente e la radiazione emessa ha una frequenza
tipicamente più alta rispetto alla luce visibile.
Fig. 3.18 Meccanismo di luminescenza in uno scintillatore intrinseco.
Il processo con cui uno scintillatore converte l’energia ad esso ceduta da un raggio γ in un
impulso di fotoni nel visibile (o UV) ha luogo in tre step consequenziali:
1) Conversione dell’energia del raggio γ in coppie elettrone-lacuna.
2) Trasferimento dell’energia delle coppie ai centri di scintillazione (luminescenza).
3) Effettiva emissione di un impulso da parte dei centri di scintillazione.
Per le particelle cariche (α, β) l’interazione con il cristallo può essere modellizzata con la
teoria del frenamento continuo: le particelle perdono energia in modo continuo dal
momento in cui entrano nel materiale ed è quindi possibile definire una energia media persa
per unità di percorso, dE /dx . Per quanto riguarda la ionizzazione, la perdita di energia per
unità di percorso è espressa dalla ben nota formula di Bethe-Block [75]. Per gli elettroni,
inoltre, al crescere dell’energia, assume importanza anche il fenomeno del frenamento,
originato dall’accelerazione subita da tali particelle che vengono fortemente deviate durante
le collisioni con gli elettroni del mezzo. Per le particelle neutre (fotoni, neutroni) si
definisce, invece, una probabilità di interazione puntuale, giungendo alla legge di
assorbimento:
I (E)  I 0 (E)  e ( E ) x
(3.11)
149
Se un fascio monocromatico di energia E ed intensità I0 (E) incide su un cristallo di
spessore x, la sua intensità sarà attenuata secondo la formula appena scritta, dove (E)
rappresenta un coefficiente di attenuazione lineare relativo all’energia E, cioè la probabilità,
per unità di lunghezza, che la radiazione interagisca con il materiale. Trattandosi di un
modello probabilistico, è possibile definire il cammino libero medio della radiazione nel
mezzo (che prende anche il nome di lunghezza di attenuazione) nel seguente modo:

 (E) 

0

x  e   ( E )x dx

0
e   ( E )x dx

1
 (E)
(3.12)
Tale grandezza rappresenta lo spessore di materiale necessario affinché l’intensità della
radiazione risulti ridotta a un fattore 1/e di quella incidente. L’efficienza generale di
conversione, come esposto da Lempicki et al. [82] è caratterizzata dal prodotto di tre
fattori:
  SQ
(3.13)
dove β è l’efficienza di conversione dell’energia del raggio γ in coppie elettrone-lacuna, S è
l’efficienza di trasferimento dell’energia delle coppie elettrone-lacuna all’attivatore di ioni
(o ad altri centri di luminescenza), e Q è l’efficienza quantica di luminescenza dei centri
stessi. Il termine β può essere calcolato dalle proprietà fisiche fondamentali dei cristalli
scintillatori, come gap di banda elettronica, costanti dielettriche ad elevata frequenza
statica, energia del fotone longitudinale [83]. Per molti materiali scintillatori questi
parametri sono ben conosciuti e quindi le relative efficienze di conversione possono essere
calcolate; ad ogni modo, alcuni parametri conosciuti sono imprecisi e danno un valore di
efficienza calcolato affetto da una incertezza che non può essere trascurata. Il valore
dell’efficienza quantica Q può essere misurato direttamente, eccitando i centri di
luminescenza con luce UV, la cui energia è pari a quella di eccitazione dei centri. In questo
modo, le fasi di creazione delle coppie elettrone-lacuna e di trasferimento dell’energia,
possono essere bypassate, e l’efficienza dei centri di luminescenza stessi può essere
osservata direttamente.
Affinché i cristalli siano idonei per essere usati come rivelatori nella PET, è necessario che
possiedano le seguenti proprietà:
 elevata densità ed elevato numero atomico (elevata efficienza di rivelazione dei raggi γ);
150
 breve tempo di decadimento;
 elevata emissione di luce;
 buona risoluzione energetica;
 emissione con lunghezza d’onda vicina ai 400 nm;
 trasparenza nel visibile;
 indice di rifrazione vicino a 1.5;
 radiazioni forti;
 non igroscopia;
 rugosità;
 processo di crescita economico.
L’efficienza di rivelazione dei raggi γ è la proprietà cruciale richiesta agli scintillatori per
PET, in quanto i requisiti di questa tecnica richiedono tempi di scansione più brevi
possibile ed attività dei traccianti molto bassa.
I cristalli inorganici, in particolar modo il LYSO, possono essere utilizzati anche come
rivelatori a scintillazione nella tomografia computerizzata ad emissione di singolo fotone
(single-photon emissione computed tomography, SPECT) [84-87].
3.3.3 I cristalli scintillatori LYSO:Ce
La maggior parte degli ossiortosilicati di terre rare (rare earth, RE) del tipo (RE) 2(siO4)O
sono stati cresciuti in forma di cristallo singolo, utilizzando la tecnica di Czrochralsky [8889].
La caratteristica più importante di questa tecnica è la crescita di grandi lingotti cilindrici, o
bocce, di silicio monocristallino. Del silicio ad elevata purezza (solo alcune parti per
milione di impurità) viene fuso in un crogiolo, di solito fatto di quarzo. Atomi di drogante
ed impurità possono essere aggiunti al silicio intrinseco fuso in quantità precise, per
conferirgli le caratteristiche richieste nella fase finale di implementazione. Un cristallo
seme, montato su un'asta, viene immerso nel silicio fuso. L’asticciola del cristallo di
inseminazione viene tirata verso l'alto e ruotata allo stesso tempo. Controllando il gradiente
di temperatura, la velocità di trazione e la velocità di rotazione, è possibile estrarre un
grande lingotto cilindrico monocristallino dal fuso. Questo processo viene normalmente
eseguita in atmosfera inerte (Argon) [90-92] come mostrato in Fig. 3.19.
151
Fig. 3.19 Metodo di crescita Czochralski [93].
Tra i cristalli di ossiortosilicati di terre rare cresciuti con il citato metodo Czochralski,
(Gd)2(SiO4)O, Y2(SiO4)O (chiamato anche YSO) e Lu2(siO4)O (meglio conosciuto come
LSO) non hanno linee di assorbimento nella regione del visibile, e sono quindi considerati
degli ottimi cristalli singoli scintillatori. I cristalli YSO e LSO sono drogati con cerio (Ce), i
cui atomi fungono da centri di attivazione (scintillazione). Le caratteristiche che rendono
questi cristalli singoli degli ottimi scintillatori per i detector di raggi γ sono le seguenti:
 elevata densità della struttura cristallina;
 elevato numero atomico medio;
 elevate intensità di emissione in scintillazione (un piccolo cristallo è sufficiente per
essere accoppiato con un PMT);
 veloce decadimento temporale della scintillazione.
I cristalli di LSO hanno una combinazione di ottime proprietà per essere utilizzati nella
PET e per molti anni sono stati considerati il miglior materiale per questo genere di
rivelatori [85]; godono infatti di elevata densità ed elevato numero atomico, hanno un breve
decadimento costante ed elevate emissioni di luce. La presenza di lutezio conferisce a
questo tipo di cristalli un basso livello di radioattività naturale, tale da non interferire con il
segnale emesso dai traccianti per la PET. I cristalli di LSO presentano, tuttavia, anche una
serie di svantaggi per ciò che concerne il processo di produzione di massa, quali:
 elevata temperatura di fusione;
 elevato costo dell’ossido Lu2O3, ovvero del materiale di partenza.
152
Per bypassare questi problemi legati al LSO, si è ricorsi al drogaggio con ittrio (Y). Gli
ossiortosilicati di lutezio e ittrio drogati con cerio hanno mostrato una resa di scintillazione
paragonabile agli LSO e un tempo di decadimento lievemente più lungo (50 ns): questo li
rende promettenti candidati per applicazioni di scintillazione nella diagnostica medica,
soprattutto per la capacità di rivelare particelle di raggi gamma di 511 keV.
L’ossiortosilicato di lutezio e ittrio è considerato una soluzione solida di due silicati,
Lu2SiO5e Y2SiO5 e, nella formazione del composto finale, la concentrazione della soluzione
solida può essere indicata come percentuale del rapporto Y/Lu. Le concentrazioni dei
composti puri determinano i parametri reticolari e le proprietà fisiche dei cristalli LYSO,
come la densità ed il punto di fusione. Attualmente, il principale vantaggio legato alla
sostituzione di atomi di Lu con atomi di Y è la diminuzione della temperatura di fusione,
rispetto a quella del LSO, pari a 50 °C per 10% di ittrio. Al contrario, una eccesiva
concentrazione di YSO nella soluzione solida causa un’importante diminuzione della
densità cristallina, con conseguente diminuzione dell’efficienza di scintillazione [89].
Fig. 3.20 Spettri eccitazione UV ed emissione di LSO e LYSO [74].
153
In Fig. 3.20 sono riportati gli spettri di eccitazione UV e di emissione sia del LSO che del
LYSO.
3.3.4 Risultati della caratterizzazione di cristalli LYSO:Ce
I campioni oggetto della presente ricerca, svolta durante il dottorato, consistono in 4
cristalli ossiortosilicati di lutezio-ittrio drogati con cerio Lu2(1-x)Y2xSiO5:Ce con x=0.1
(LYSO), facenti parte dello stesso cristallo cresciuto con metodo Czochralski. La
composizione nominale dei campioni è quindi Lu1.8Y0.2SiO5:Ce; la stechiometria è riportata
in Tab. 3.5.
Elemento
Lu
Y
Si
O
Wt.%
71.45
4.03
6.37
18.14
Tab. 3.5 Stechiometria dei cristalli LYSO (riportata in peso percentuale).
I cristalli sono ottenuti dalla soluzione solida di Lu2SiO5 che ha struttura monoclina con
parametri reticolare a=1.2362 nm, b=0.6644 nm, c=1.0252 nm e β=102.4°(ICDD card n.°
41-239) ed Y2SiO5, anch’esso con struttura monoclina e parametri reticolari a=1.25013 nm,
b=0.672 nm, c=1.042 nm e β=102.68° (ICDD card n.° 36-1476). Tutti i campioni hanno la
forma di prisma a sezione quadrata di lato d = 5.00 (±0.05) mm e lunghezza l = 100.00 (±
0.20) mm; la lunghezza è diretta lungo l’asse cristallografico [010].
Due dei quattro campioni totali sono stati sottoposti ad un processo di annealing composto
dai seguenti step [94]:
1) rampa di riscaldamento di 1°C/min per 300 minuti;
2) annealing a 300°C per 10 ore (in aria);
3) raffreddamento in aria (0.5°c/min).
Caratterizzazione meccanica e resa di luce
Proprietà meccaniche, quali la resistenza limite alla trazione, σUTS, ed il modulo di Young,
E, sono state valutate effettuando una prova di flessione a quattro punti, che genera un
154
momento flettente costante sul campione e, di conseguenza, una distribuzione nota dello
stress nel campione (Fig. 3.21) [94-95].
Fig. 3.21 Prova di flessione a quattro punti: P è il carico totale applicato, M è il momento flettente
[94].
I risultati dei test sono riportati in Tab. 3.6.
SAMPLE
1
6
8
10
σUTS (MPa)
94
68
78
79
E (MPa)
182
129
174
174
Annealing
Y
Y
N
N
Tab. 3.6 Risultati della prova di flessione. I campioni sono stati numerati in base ad un criterio
stabilito dal produttore.
Le proprietà di emissione di luce dei quattro cristalli sono state valutate presso il CERN di
Ginevra, utilizzando il tubo fotomoltiplicatore Photonis XP2020Q, equipaggiato con
Digitizer Caen standard. I cristalli sono stati caratterizzati usando una sorgente di Cesio137; i cristalli sono stati accoppiati otticamente con grasso ottico al fotocatodo e ricoperti di
Teflon. Per ottenere l’efficienza quantica, lo spettro di emissione dei cristalli è stato
convoluto con la curva di efficienza quantica precedentemente misurata nello stesso tubo. Il
155
risultato del test di resa di luce dei cristalli aventi identiche dimensioni, è riportato in Tab.
3.7.
Campione
1
6
8
10
Annealing
Si
Si
No
No
Resa di luce (Ph/MeV)
16450
16300
16100
16500
Risoluzione energetica
0.16
0.17
0.16
0.16
Tab. 3.7 Risultato delle misure di resa di luce.
Dai dati riportati in Tab.3.7 si osserva che tutti cristalli hanno valori di resa di luce
paragonabili.
Caratterizzazione microstrutturale
La caratterizzazione microstrutturale è stata eseguita utilizzando diffrazione di raggi X
(XRD), microscopia elettronica in trasmissione (TEM) ed a scansione (SEM) e microanalisi
a dispersione di energia (EDS).
La diffrazione di raggi X in configurazione θ-2θ è stata utilizzata in prima istanza per
verificare la direzione di taglio dei cristalli, che è risultata essere lungo il piano
cristallografico (-602) [94]; i cristalli hanno, quindi, tutti stessa orientazione.
Successivamente, la tecnica XRD è stata utilizzata per chiarire la struttura cristallografica
dei cristalli LYSO:Ce.
Infatti, le struttura cristalline dei composti RE2SiO5 sono discretamente complicate: almeno
due strutture cristalline possono essere identificate in funzione del raggio ionico degli ioni
trivalenti RE3+ [96]. Entrambe le strutture hanno simmetria monoclina e differiscono solo
per la coordinazione dell’ossigeno dei cationi RE. Come riportato da Chiriu et al. [97] i
cristalli LSO hanno simmetria C2/c. Gli atomi di Y hanno raggio ionico maggiore rispetto a
quello degli atomi di Lu; questa condizione risulta in una cella unitaria più grande rispetto a
quella del LSO, quando il composto Y2SiO5 cristallizza in simmetria C2/c.
I singoli cristalli sono stati quindi frantumati in un mortaio e sottoposti a misure XRD in
configurazione θ-2θ con radiazione Cu-Kα, con θ variabile tra 13° e 70°. La
determinazione dei parametri reticolari è stata fatta applicando il metodo Rietveld di
affinamento della struttura [98] utilizzando il software FullProf [99]. Il metodo si basa sulla
comparazione tra lo spettro calcolato e lo spettro osservato, che avviene attraverso una serie
156
di “cicli di raffinamento”, in cui la differenza tra i due spettri viene minimizzata. Per il
calcolo, lo spettro è scomposto in una serie di punti “i”, a ciascuno dei quali è associata una
intensità di diffrazione “yi”. Nella fase di confronto tra i due spettri si prendono in esame
simultaneamente tutte le intensità yi, operando la minimizzazione del residuo S:
n
S   wi  yi ,obs  yi ,calc 
2
(3.14)
i 1
Dove wi è il peso assegnato alla singola osservazione (1/Ii,obs), yi,obs è l’intensità di
diffrazione del punto “i” nello spettro osservato e yi,calc è l’intensità di diffrazione del punto
“i” nello spettro calcolato.
Fig. 3.22 Risultato grafico dell’affinamento della struttura.
L’applicazione del metodo Rietveld ha permesso di ottenere come gruppo spaziale il I2/a,
compatibile con C2/c, ed i seguenti valori dei parametri reticolari: a = 1.421 nm, b = 0.661
nm, c = 1.024 nm e β = 122.11°.
Tali valori dei parametri reticolari sono stati confermati tramite misure di diffrazione di
neutroni (ESRF, Grenoble).
Con il software FullProf è stato possibile anche ottenere mappe di Fourier della
disposizione atomica in funzione della densità elettronica (Fig. 3.23).
157
Fig. 3.23 Mappa di Fourier calcolata usando il software FullProf [99].
Le osservazioni dei cristalli al microscopio elettronico a scansione (SEM) Zeiss Supra 40
hanno dato i risultati mostrati in Fig. 3.24: nessuna importante differenza è riscontrabile tra
le superfici dei campioni, ad eccezione di piccole imperfezioni.
158
Fig. 3.24 Micrografie SEM delle superfici dei campioni: a) campione 1, b) campione 6, c) campione
8, d) campione 10 [100].
I campioni osservati sono sezioni dei cristalli originali, tagliate con una sega a lama
diamantata e poi levigate e lucidate tramite operazioni di lappatura e lucidatura con carte
abrasive e panni. Per rendere i campioni conduttivi è stato depositato sulla superficie uno
strato di carbonio.
Per ottenere maggiori informazioni sulla stechiometria (at.%) dei campioni, la microanalisi
EDS è stata eseguita su 20 campi di area di ~(100µm × 100µm). I risultati sono riportati in
Tab. 3.8.
Campione
Lu
Y
Ce
Annealing
1
6
8
10
Nominale
23.0
23.6
22.8
25.0
22.5
2.5
2.5
2.6
3.0
2.5
0.5
0.3
0.6
0.2
Y
Y
N
N
Tab. 3.8 Valori di at.% dei singoli elementi calcolati dalla microanalisi EDS quantitativa, mediati
sulle 20 misure eseguite per ciascun campione.
159
Le quantità calcolate si mantengono in linea con i valori nominali.
I quattro campioni LYSO:Ce sono stati poi osservati tramite microscopio elettronico in
trasmissione Philips CM200 a 200kV. La micrografia ad alta risoluzione riportata in Fig.
3.25 e la relativa figura di diffrazione, hanno permesso di confermare sia la struttura
cristallina che i valori dei parametri reticolari.
Fig. 3.25 Immagine TEM ad alta risoluzione. Nell’inserto si ha la relativa figura di diffrazione [100].
Dalle osservazioni TEM, i campioni 1, 8 e 10 appaiono omogenei e non sembrano mostrare
particolari caratteristiche che potrebbero influenzarne le proprietà meccaniche e di
emissione di luce. Nel campione 6, invece, il TEM ha rilevato la presenza di numerosi
precipitati sferici coerenti, aventi il tipico contrasto “coffee bean” (Fig. 3.26).
160
Fig. 3.26 Micrografie TEM del campione 6 ottenute in zone diverse del campione, ma allo stesso
ingrandimento [100].
Le dimensioni dei precipitati di Fig. 3.26 variano tra i 10 ed 15 nm. Questo tipo di
contrasto è dovuto alla deformazione del reticolo cristallino della matrice, introdotta dalla
presenza dei precipitati stessi.
Per ottenere informazioni sulla composizione dei precipitati sono state fatte diverse
microanalisi EDS sia su regioni con precipitati che su regioni libere da precipitati. I risultati
sono mostrati in Fig. 3.27.
Fig. 3.27 Spettri risultanti dalla microanalisi EDS fatta su: a) regione con precipitati, b) regione senza
precipitati.
161
Gli spettri sono qualitativamente identici, ma la misura delle intensità indica una maggiore
concentrazione di ittrio nella regione con precipitati, rispetto a quella senza. Tuttavia, la
differenza rientra nella sensibilità tecnica dello strumento e, quindi, i valori delle
concentrazioni vanno considerati con cautela. Ad ogni modo, analizzando differenti zone
del campione, il dato di differenza di Y si ripete e questo induce a pensare che le zone con
elevata concentrazione di precipitati, siano realmente più ricche di ittrio.
3.3.5 Discussione
Sono state paragonate le proprietà meccaniche, luminose e microstrutturali di quattro
campioni di cristalli LYSO:Ce. I campioni sottoposti ad annealing (campioni 1e 6) hanno
mostrato di avere in un caso le migliori proprietà meccaniche (campione 1) in termini di
σUTS ed E (Tab. 3.6), mentre nell’altro caso si è ottenuta la peggior performance
complessiva (campione 6). I campioni 8 e 10, non sottoposti ad annealing, dimostrano di
possedere proprietà meccaniche pressoché identiche. Le misure di resa di luce (Tab. 3.7) di
tutti i quattro campioni sono assolutamente paragonabili e dimostrano quindi che i centri di
emissione (Ce) non risentono del particolare trattamento termico applicato.
L’applicazione del metodo Rietveld (affinamento di strutture) sugli spettri di diffrazione di
raggi X di cristalli finemente frantumanti, ha permesso di risalire ai particolari parametri
del reticolo ed alla simmetria cristallina (C2/c); tali risultati sono stati confermati sia dalle
misure di diffrazione di neutroni, sia dai calcoli fatti sulle figure i diffrazione elettronica
(Fig. 3.25). Le superfici delle sezioni di tutti i campioni sono state lucidate ed osservate al
SEM, rivelando piccoli difetti introdotti probabilmente dalla tecnica di preparazione. Le
misure quantitative di microanalisi EDS fatte su venti campi di identica area (100µm ×
100µm) per ciascun campione, hanno mostrato fluttuazioni nelle percentuali atomiche degli
elementi più importanti (Lu, Y) sempre inferiori al 15%. Si registrano fluttuazioni anche
nella percentuale del drogante Ce; tuttavia, la piccola quantità di Ce presente nei campioni,
rasenta il limite di rilevabilità dello strumento ed i valori osservati non possono quindi
essere considerati come assoluti.
Le osservazioni TEM dei campioni 1, 8 e 10 mostrano strutture omogenee e prive di
caratteristiche che potrebbero influenzare le proprietà meccaniche o la microstruttura. Le
micrografie del campione 6 (Fig. 3.26), invece, mostrano la presenza di precipitati sferici
coerenti, che modificano la struttura cristallografica della matrice fornendo il classico
contrasto “coffee bean”. La microanalisi EDS ha mostrato maggiori concentrazioni di ittrio
nelle regioni in cui sono presenti i precipitati.
Il campione 6 si dimostra quindi il più interessante grazie alla presenza dei precipitati
coerenti nella microstruttura ed alle peggiori proprietà meccaniche dimostrate. L‘altro
162
campione sottoposto ad annealing (il numero 1) ha dimostrato di avere, invece, le migliori
proprietà meccaniche, ed una microstruttura senza particolari caratteristiche.
Queste considerazioni portano quindi a supporre che le proprietà meccaniche dei cristalli
LYSO:Ce siano influenzate dalle caratteristiche microstrutturali di questi ultimi, piuttosto
che dal particolare trattamento termico applicato.
3.3.6 Conclusioni
In questa parte del lavoro di dottorato di ricerca, l’attenzione è stata focalizzata sulla
caratterizzazione di cristalli scintillatori LYSO:Ce (composizione nominale
Lu1.8Y0.2SiO5:Ce), utilizzati per applicazioni mediche quali rivelatori per la tomografia ad
emissione di positroni (PET). Due dei quattro campioni sono stati sottoposti ad un
trattamento di annealing. Tutti i campioni sono stati sottoposti a prove meccaniche, test di
emissione di luce, misure XRD, microanalisi EDS ed osservazioni TEM e SEM.
Le conclusioni principali possono essere elencate come segue:
 la struttura cristallografica dei campioni ha simmetria C2/c;
 le proprietà di resa di luce non sono influenzate né dalle proprietà meccaniche, né dai
difetti cristallografici dei cristalli, perché i centri di emissione non ne risentono;
 i campioni non sottoposti ad annealing hanno proprietà meccaniche paragonabili,
mentre quelli sottoposti al trattamento termico hanno in un caso la migliore
performance meccanica (campione 1) e in un altro la peggiore (campione 6);
 il campione 6 è quello che ha peggiori proprietà meccaniche e la cui microstruttura è
caratterizzata dalla presenza di precipitati sferici coerenti (“coffee bean”). La
concomitanza di questi due effetti porta a concludere che sono le caratteristiche
microstrutturali, e non il particolare trattamento termico, a determinare le proprietà
meccaniche dei cristalli.
163
Bibliografia Capitolo 3
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Capitolo 4
Leghe metalliche leggere
4.1 Leghe metalliche leggere di Al e Mg
Parte delle ricerche svolte durante il ciclo di Dottorato sono state dedicate allo studio di
leghe metalliche leggere per scopi industriali ed aereonautici. Le leghe in questione sono a
base di alluminio e magnesio e si tratta delle, ben note, AA2219 e AZ31B. La maggior
parte del lavoro è stata dedicata alla determinazione del rafforzamento della struttura
intermetallica della lega AA2219 sottoposta ad ECAP.
4.1.1 Lega di Mg AZ31B saldata per Friction Stir Welding (FSW)
La necessità di riduzione del peso, nel settore aeronautico ed aerospaziale, ha suscitato un
crescente interesse focalizzato sull’utilizzo di leghe di magnesio in sostituzione di quelle di
alluminio in alcune parti meccaniche e strutturali. In effetti, la densità delle leghe di
magnesio è inferiore del 36% rispetto a quelle di alluminio, con un elevato rapporto
resistenza/peso. Nonostante la lavorabilità limitata a temperatura ambiente, a causa della
struttura esagonale compatta con un limitato numero di sistemi di scorrimento, le leghe di
magnesio hanno le seguenti qualità che le rendono interessanti:
 buona formabilità ad alta temperatura;
 proprietà schermanti all’interferenza elettromagnetica;
 buona resistenza specifica agli stress termici e meccanici;
 buona possibilità di riciclo del materiale.
Le leghe di magnesio possono essere unite utilizzando una varietà di processi, ma quelli
convenzionali hanno mostrato una serie di svantaggi [1-10] che portano a:
 decadimento delle proprietà meccaniche;
 grande zona termicamente alterata (ZTA);
 elevate porosità;
 perdita degli elementi di lega da evaporazione;
170
 criccabilità a caldo;
 elevate tensioni residue con conseguenti distorsioni.
La Friction Stir Welding (FSW) consiste in un metodo alternativo che potrebbe superare gli
inconvenienti dei suddetti problemi metallurgici, permettendo di ottenere una saldatura di
buona qualità, ottimizzando i parametri della saldatura stessa.
Infatti, la saldatura Friction Stir Welding è una tecnologia di giunzione allo stato solido,
perché viene eseguita a temperatura inferiore a quella di fusione del materiale da saldare.
Durante la saldatura, il materiale è deformato grazie al calore sviluppato dal movimento
dell’utensile che ruota ed avanza all’interno delle zone da saldare, giungendo ad una
temperatura alla quale diviene plastico. In tal modo si elimina il rischio di presenza di zone
fuse con conseguenti problemi di presenza di zone interdendritiche o fasi eutettiche fragili e
la formazione di porosità da ritiro. Questa tecnologia permette di saldare materiali sia di
leghe omologhe (per esempio Al-Al, Mg-Mg) sia di leghe dissimili (per esempio Al-Mg)
con ottimi risultati microstrutturali e può essere applicata a vari tipi di giunzioni (butt joint,
lap joint, T butt joint and fillet joint) [2].
171
Fig. 4.1 Immagini di microscopia ottica relative a: (a) mappatura FSW a singolo cordone di AZ31B;
(b) materiale base; (c) zona di transizione termo meccanicamente alterata; (d) zona di materiale
deformato all’estremità dell’utensile; (e) zona di mescolamento; (f) cricca sulla parte inferiore del
campione, g) zona termicamente alterata.
Dopo le prove di trazione e di microdurezza e le osservazioni al microscopio ottico (Fig.
4.1), i campioni a doppio cordone AS–AS e AS–RS sono stati esaminati al microscopio
elettronico a scansione ad alta risoluzione (HRSEM) e spettroscopia a dispersione di
energia (EDS).
I risultati sono visibili in Fig. 4.2 e Fig. 4.3. In entrambi i campioni si osserva che la frattura
è di tipo transgranulare. Sulla superficie di frattura, coerentemente con la presenza di
microstrutture molto variabili, si riscontrano aree con caratteristiche differenti; in
prossimità della zona di mescolamento (punta del campione) del punto di rottura si
osservano dei microvuoti (dimples), mentre spostandosi verso l’interno compaiono anche
172
strutture con caratteristiche più vicine a quelle del clivaggio. La formazione di dimples
indica la presenza di discontinuità di varia natura (inclusioni, impurezze, pile-up,
dislocazioni) e le dimensioni dei dimples sono legate al numero ed alla distribuzione dei
microvuoti che hanno nucleato. La principale differenza tra le due tipologie di campioni
risiede nelle differenti dimensioni dei dimples. Nella zona di frattura del doppio cordone
AS-RS, infatti, i dimples sono più piccoli e questo indica una maggiore presenza di
discontinuità localizzate (inclusioni). Come già osservato in precedenti lavori [8], anche in
questo caso la frattura ha probabilmente avuto inizio nelle zone di clivaggio, poi la
coalescenza dei micro vuoti, durante l’applicazione del carico, ha causato la diminuzione
della resistenza a trazione e la conseguente rottura dei campioni.
Fig. 4.2 Campione doppio cordone AS-AS: a) zona con dimples, b) zona con caratteristiche di
clivaggio [11].
173
Fig. 4.3 Campione doppio cordone AS-RS: a) zona con dimples, b) zona con caratteristiche di
clivaggio [11].
Le inclusioni, probabilmente rimaste intrappolate nella matrice durante il processo di FSW,
sono state analizzate tramite microanalisi a raggi X eseguendo una scansione lungo la linea
evidenziata in giallo (Fig. 4.4). In presenza delle particelle è evidente la differenza di
composizione tra queste e la matrice circostante; nello specifico si osserva una diminuzione
della quantità di Mg e la presenza di elementi quali C, Ca e O. Va ricordato che lo strato
superficiale di ossido, presente inizialmente sulla lamiera, per effetto del processo di FSW
viene trascinato all’interno del cordone, nella zona di mescolamento, e questo fenomeno
può essere la causa della presenza di inclusioni.
174
Fig. 4.4 Microanalisi EDS eseguita in scansione di linea: a) micrografia delle inclusioni, la linea
gialla è quella lungo cui è stata effettuata la microanalisi punto per punto, b) grafico della
composizione in funzione dei punti della linea. Risulta evidente la variazione di composizione in
corrispondenza delle discontinuità intercettate dalla linea [11].
175
4.1.2 Conclusioni
Dal confronto dei campioni ottenuti con le diverse tecniche e condizioni di saldatura
mediante Friction Stir Welding, si è evidenziato che i campioni saldati con la tecnica di
saldatura da due lati manifestano una tendenza verso l’eliminazione delle discontinuità
avute con singola passata. Nella disposizione AS – AS sembrerebbe che il difetto lineare
sia stato completamente eliminato. Nei giunti saldati con tecnica a doppia passata, si
registra un aumento dei valori della durezza nella zona di mescolamento simili a quelli a
singola passata o leggermente più elevati, ma si nota un miglior raccordo nella diminuzione
dei valori fino ad arrivare alla zona inalterata del materiale base. Dalle prove di trazione è
emerso che i campioni saldati con doppia passata hanno avuto un incremento del carico di
rottura (UTS) di circa il 9% rispetto a quello a passata singola. Inoltre, l’allungamento
finale (UE) maggiore è stato ottenuto con la disposizione AS-AS ed è risultato superiore di
circa il 25% rispetto alla singola saldatura. L’analisi della zona di rottura dei campioni con
doppia saldatura ha evidenziato una frattura di tipo transgranulare e si sono riscontrate aree
miste con microvuoti e strutture con caratteristica di clivaggio.
4.2 Lega di alluminio 2219 sottoposta ad Equal Channel Angular Pressing
(ECAP)
La suddivisione di cristalli e grani durante la deformazione è un fenomeno che ha luogo in
forma di bande di deformazione, su scala macroscopica, e di celle e blocchi, su scala
microscopica. All’aumentare dello stress e della deformazione questa suddivisione dei
bordi della microstruttura ha luogo su una scala che è sempre più piccola e la cui velocità
dipende fortemente dalla processo di deformazione usato [12].
Le deformazioni plastiche severe (SPD) sono tecniche conosciute per la produzione di
materiali metallici massivi aventi una struttura a grani fini su scala nanometrica. Tra le
varie tecniche SPD, la Equal Channel Angular Pressing (ECAP) [13-25] può essere in
grado di fornire dimensioni di grani nel range dei 400-800 nm. La tecnica ECAP è un
metodo di processamento particolarmente attraente perché è in grado di produrre grandi
campioni privi di porosità residuali e soggetti a piccole variazioni di forma.
La deformazione plastica dei metalli è il risultato della formazione, del movimento e
dell’accumulo di dislocazioni. Durante la deformazione, il movimento delle dislocazioni è
il maggiore meccanismo di deformazione ed è responsabile della maggior parte dello stress
residuo del materiale. In diversi lavori presenti in letteratura [13-36] oltre al rafforzamento
legato alle dislocazioni ed alle particelle, è stato riconosciuto e studiato un contributo
specifico derivante dagli elementi in soluzione solida.
176
Le leghe di alluminio delle serie 2xxx sono ampiamente utilizzate a causa della loro elevata
resistenza e dell’elevato rapporto resistenza/peso. La lega AA229 ha grandi potenzialità per
un gran numero di applicazioni grazie alla sua elevata resistenza specifica, alla buona
resistenza a frattura e all’eccellente resistenza a stress e corrosione [37-39]. Le proprietà
meccaniche di questa lega sono fortemente influenzate dagli elementi leganti (Fe, Mn, Ni,
Cu e Cr) poiché la maggior parte di essi prende parte alla formazione di composti
intermetallici caratterizzati da elevata stabilità termica ed elevati valori di durezza. Il ferro
rappresenta la principale impurità nelle leghe di alluminio e la sua solubilità solida in Al è
molto bassa; il risultato di questa caratteristica è la formazione di composti intermetallici la
cui natura dipende fortemente dalle altre impurità o dagli elementi della lega. La presenza
di ferro è discretamente pericolosa a causa della tendenza a formare precipitati AlFeSi
molto fragili [39]. Per eliminare, o almeno controllare, la precipitazione dei composti
intermetallici a base di ferro durante la solidificazione solitamente viene aggiunto il
manganese alla composizione della lega [40]. Inoltre, il Mn è in grado di modificare la
tipologia e la morfologia delle fasi intermetalliche da piccole piastre a forme cubiche o
globulari. Queste ultime morfologie risultano molto importanti, in quanto possono
aumentare la resistenza a trazione, l’allungamento e la duttilità della lega considerata [40].
La serie AA2xxx è caratterizzata dalla formazione di fasi intermetalliche (Fe,Mn)Al6 e
(Fe,Mn)3Si2Al15. (Fe,Mn)Al6 è il composto che si forma nei sistemi Al-Fe-Mn-Si di quasi
tutte le leghe commerciali. Tuttavia, in molti caso (Fe,Mn)Al6 reagisce peritetticamente con
il liquido, formando il composto (Fe,Mn)3Si2Al15. Ad ogni modo, nelle leghe ad alto
contenuto di silicone, come la AA2219, il composto (Fe,Mn)3Si2Al15 è la fase intermetallica
primaria [37]. Queste particelle intermetalliche agiscono come fasi secondarie di rinforzo
alla matrice [38].
4.2.1 Caratterizzazione microstrutturale della lega AA2219 sottoposta ad
ECAP: risultati
La composizione chimica delle lega di alluminio 2219 è riportata in Tab. 4.1, in cui è
specificato anche lo stato metallurgico iniziale.
Elementi Cu Fe Si
Wt%
Mn Cr
Zn V
Ti
Zr
Al
5.8 0.3 0.2 0.2 0.18 0.1 0.1 0.1 0.1 bal
Tab. 4.1 Composizione chimica della lega AA2219.
177
Le lega è caratterizzata dalla presenza diffusa di fini particelle di seconda fase Al2Cu. Barre
cilindriche della lega AA219 sono state pressate nel canale ECAP, composto da due
semiblocchi simmetrici di acciaio per utensili SK3 con durezza nominale 45 HRC [41-42].
I due canali cilindrici hanno diametro di 10 mm. Per ridurre la frizione tra i campioni ed i
canali è stato utilizzato MoS2 come lubrificante. I due canali dello stampo ECAP formano
un angolo di 90° ed hanno un raggio di curvatura esterno di 20°. Questa configurazione è
tale da indurre una deformazione equivalente ɛ = 1.08 dopo ogni passaggio attraverso lo
stampo [42-45]. L’ECAP è stato eseguito utilizzando la cosiddetta strada A [46] per due
passaggi (quindi per un valore di deformazione massimo pari ad ɛ = 2.16), ad una velocità
di pressatura di ~ 5 mm∙s-1.
La caratterizzazione strutturale e l’analisi quantitativa degli intermetallici è stata fatta su tre
diversi campioni, corrispondenti alle condizioni “as extruded” (AE), dopo un passaggio
ECAP (ECAP/A-1) e dopo due passaggi ECAP (ECAP/A-2), applicando tecniche di
microscopia ottica (light microscopy, LM), microscopia elettronica a scansione (SEM) e a
trasmissione (TEM) oltreché misure di durezza HRC.
Le osservazioni di microscopia ottica (LM) sono state effettuate sulle superfici lucidate e
sottoposte ad etching elettrolitico, usando una soluzione composta da 5 ml HBF4 in 200 ml
di acqua distillata, a V = 18V, e tempo di immersione inferiore ad 1 minuto.
Per tutte le osservazioni LM è stato utilizzato un microscopio Reichert-Jung MeF-3 e sono
stati caratterizzati tre diversi piani delle billette: estruso(XY), trasverso (XZ) e sezione
(YZ). La Fig. 4.5 mostra la microstruttura della lega AA219 così come estrusa (AE). La
spaziatura laterale dei grani allungati è di 12 µm. La successiva estrusione attraverso lo
stampo ECAP è stata effettuata lungo la direzione di estrusione delle billette, ottenendo
quindi grani severamente deformati già dopo il primo passo.
178
Fig. 4.5 Micrografia ottica della lega AA2219 come estrusa (as extruded).
I risultati dei passaggi ECAP sulla microstruttura sono visibili nella Fig. 4.6 in cui sono
riportate le micrografie caratteristiche delle condizioni ECAP/A-1 ed ECAP/A-2 nei tre
piani di deformazione (XY, XZ, YZ).
Fig. 4.6 Micrografie LM corrispondenti a: 2a) passaggio ECAP/A-1, piano XY; 2b) passaggio
ECAP/A-1, piano XZ; 2c) passaggio ECAP/A-1, piano YZ; 2d) passaggio ECAP/A-2, piano XY; 2e)
passaggio ECAP/A-2, piano XZ; 2f) passaggio ECAP/A-2, piano YX.
179
Dalla Fig. 4.6 risulta evidente che l’ECAP induce l’assottigliamento dei grani allungati.
(Fig. 4.6a, 4.6b, 4.6d, 4.6e), che in alcuni casi iniziano a subire strozzamento (Fig. 4.6d,
4.6e). I grani appaiono meno uniformi con la deformazione plastica accumulata (Fig. 4.6c,
4.6f). La dimensione media dei grani dopo il primo passaggio ECAP è ridotta del 15%
circa, nella direzione di estrusione XY, mentre dal primo al secondo passaggio si riduce
solo del 10% circa. Questa piccola riduzione delle dimensioni dei grani tra i due passaggi è
osservabile anche negli altri due piani (XZ e YZ).
I tre campioni sono stati successivamente osservati al microscopio elettronico a
trasmissione (TEM). Per la preparazione TEM, lamine sottili sono state tagliate
parallelamente all'asse longitudinale delle billette e preparate tramite lucidatura meccanica
per ottenere superfici perfettamente piatte; la zona sottile è stata ottenuta utilizzando
elettro-lucidatore a doppio getto con una soluzione di 20 pct. di acido perclorico in
metanolo. Il microscopio utilizzato è un Philips CM200 (200 kV), equipaggiato con
portacampioni a doppio tilt. Per misurare gli angoli di misorientation dei bordi sono state
utilizzate le linee di Kikuchi [47-52]. La maggior parte dei bordi di dislocazioni a
bassissimo angolo ha mostrato frange di Moiré. In questi casi, è stato applicato un metodo
di misura diretta degli angoli di misorientazione [49-51]. I termini “bordo a basso angolo”
(low-angle boundary, LAB) e “bordo ad alto angolo” (high-angle boundary HAB) si
riferiscono alla generazione, indotta dalla deformazione di taglio subita nell’ECAP, dei
cristalliti aventi le caratteristiche di cella e grano, rispettivamente. La dimensione media, la
frazione di volume e la spaziatura delle particelle di seconda fase è stata valutata per
determinare il loro contributo al rafforzamento [53-54].
In Fig. 4.7 sono mostrate le micrografie TEM più rappresentative della lega prima
dell’ECAP (Fig. 4.7a), dopo ECAP/A-1 (Fig. 4.7b) e ECAP/A-2 (Fig. 4.7c).
Fig. 4.7 Immagini TEM della lega: a) as extruded (AE); b) dopo ECAP/A-1; c) dopo ECAP/A-2.
180
La microstruttura in Fig. 4.7 mostra l’estesa formazione di bande HAB bamboo-like dovute
all’accumulo delle deformazioni; inoltre si osserva la diffusa presenza di particelle di
seconda fase Al2Cu. L’affinamento strutturale della lega è caratterizzato da blocchi di cella
formati dalla suddivisione dei grani e delineati da estesi bordi di dislocazioni con angoli di
misorientazione più ampi di quelli tra celle individuali. All’aumentare della deformazione,
questi blocchi diventano sempre più sottili, con una corrispondente diminuzione nella
spaziatura tra i bordi dei blocchi di cella [55-56]. Dopo il primo passaggio ECAP si ha una
fortissima riduzione delle dimensioni dei grani (di un ordine di grandezza circa), che è
ancora più accentuata dopo il secondo passaggio. La valutazione quantitativa dei grani,
delle dimensioni della cella e delle particelle di seconda fase in funzione della
deformazione, è riportata in Tab. 4.2.
ECAP
strain
=
1.08
=
2.16
LAB-
2.85
dlABMoiré,
µm
1.10
2.20
0.95
4.4
dHAB,
µm
Moiré,
deg.
4.8
dMoiré,
µm
Moiré,
0.35
3.5
0.31
0.24
4.1
0.59
fHAB
deg.
fMoiré
dp,
nm
fps
103
fpn-s
103
p,
µm
0.52
0.17
84
8
2
0.088
0.28
0.13
72
9
<1
0.071
fLABMoiré
Tab. 4.2 Dimensione media di grano, dHAB, cella, dLAB-Moiré, angolo di misorientazione, LAB-Moiré,
dimensione del cristallite Moiré, dMoiré, e relativo bordo di misorientazione, Moiré e frazioni di volume
medie, fHAB, fLAB-Moiré, fMoiré in funzione della deformazione ECAP. I termini oltre la linea tratteggiata
indicano dimensione media, dp, frazione di volume, fps, fpn-s (dove i suffissi s e n-s indicano,
rispettivamente, particelle shearable e non-shearable) e spaziatura media, p, delle particelle di
seconda fase Al2Cu nelle differenti condizioni sperimentali [57].
La Fig. 4.8 documenta, insieme alla precedente Fig. 4.7, che la riduzione della
microstruttura di grani e celle è accompagnata da un processo di parziale dissoluzione delle
particelle Al2Cu.
181
Fig. 4.8 Parziale dissoluzione delle particelle Al2Cu θ' rod-like indotta dall’ECAP: a) ECAp/A-1; b)
ECAP/A-2. Nell’inserto è riportata la SAD relativa a θ' [57].
Il fenomeno della parziale dissoluzione delle particelle di seconda fase indotta dall’ECAP è
stato già documentato nel caso di diverse leghe di alluminio [41,58] e questi risultati
confermano il peculiare aspetto delle deformazioni plastiche severe applicate a leghe di
alluminio termicamente trattabili, rafforzate da particelle.
Le misure di microdurezza sono state effettuate utilizzando un tester Remet HX-1000 e
applicando un carico di 100 gf. Ciascun dato sperimentale è stato ottenuto dalla media di 7
misure individuali. Le misure di durezza sono state fatte lungo i tre diversi piani del
campioni: XY, XZ, YZ. I primi due piani sono stati sezionati a circa 0.3 mm dalle superfici
delle barre cilindriche. La Fig. 4.9 illustra i profili di microdurezza registrati su tre
differenti piani dei campioni.
182
Fig. 4.9 Profili di durezza nelle condizioni AE, ECAP/A-1 e ECAP/A-2, lungo i tre piani
perpendicolari XY, XZ, YZ.
La durezza passa dall’essere pari a 24 Hv, nel caso as extruded, ad assumere valori nel
range 92-105 Hv (un aumento di circa 5 volte). La durezza tende poi ad aumentare di circa
il 20% con il successivo accumulo della deformazione (da ɛ = 1.08 a 2.16) e, nel caso
ECAP/A-2, raggiunge valori nel range 107-122 Hv. Ad entrambi i livelli di deformazione
(ɛ = 1.08, ɛ = 2.16), i profili di durezza lungo le stesse sezioni del piano XY e XZ, non
mostrano una differenza significativa.
I campioni lucidati sono stati poi osservati al microscopio elettronico a scansione (SEM).
Per distinguere i precipitati dalla matrice, è stato utilizzato il segnale degli elettroni
retrodiffusi (BSE). Inoltre, per ridurre qualsiasi effetto della matrice, le osservazioni sono
state effettuate utilizzando alta tensione di accelerazione (15 kV). In Fig. 4.10 sono
mostrate le micrografie SEM più rappresentative, relative alle tre condizioni esaminate. AE
(Fig.4.10a), ECAP/A-1 (Fig. 4.10b) e ECAP/A-2 (Fig. 4.10c). Tutte le immagini sono state
prese sul piano di deformazione YZ, cioè sulla sezione dei campioni.
183
Fig. 4.10 Micrografie SEM delle condizioni: a) as extruded; b) dopo ECAP/A-1; c) dopo ECAP/A-2.
Grazie alle caratteristiche del segnale degli elettroni retrodiffusi (BSE), il contrasto è
principalmente dovuto alle variazioni di numero atomico. Come può essere facilmente
dedotto dalla Fig. 4.10, la parte più scura è la matrice, mentre le zone più chiare sono gli
intermetallici.
L’area di ciascun precipitato nelle micrografie è stata stimata utilizzando un software di
analisi delle immagini (Image ProPlus®) ed i dati sono stati analizzati utilizzando un
metodo stereologico di quantificazione basato sui coefficienti di Woodhead [53] per il
calcolo della distribuzione delle dimensioni delle particelle. Tale studio stereologico ha
permesso di calcolare diversi parametri che caratterizzano le dimensioni degli intermetallici
e le loro mutue distanze all’interno dei diversi campioni. Per i calcoli sono state considerate
184
almeno 5 regioni per ciascuno dei tre campioni (corrispondenti alle tre condizioni AE,
ECAP/A-1, ECAP/A-2).
I risultati ottenuti sono riportati in Tab. 4.3 e Tab. 4.4; inoltre, una rappresentazione grafica
della frazione cumulativa in funzione della distribuzione della dimensione media delle
particelle, è illustrata in Fig. 4.11.
α
d
(µm)
λ
(µm)
IPA
AE
2.39 ± 0.48
1.2 ± 0.05
45.69 ± 0.05
63·10-3 ± 0.2
Variazioni
di IPA
rispetto ad
AE (%)
-
ECAP/A-1
1.91 ± 0.84
0.78 ± 0.01
41.88 ± 0.05
36·10-3 ± 0.4
44
ECAP/A-2
2.02 ± 0.95
0.75 ± 0.01
47.83 ± 0.01
32·10-3 ± 0.5
50
Stato di
deformazione
Tab. 4.3 Fattore di forma, diametro, spaziatura, IPA e variazioni di IPA rispetto alla condizione AE
degli intermetallici (Fe,Mn,Cr)3Si2Al15.
Stato di
deformazione
AE
L
(μm)
2.9
t
(μm)
1.3
Nv
(10-3 μm-3)
50
ΔσLT
(10-2 MPa)
57
ΔσIntermet
(MPa)
1.85
ECAP/A-1
2.3
1.3
78
96
4.4
ECAP/A-2
2.2
1.2
72
88
4.2
Tab. 4.4 Evoluzione di dimensioni, frazione di volume e termini di rafforzamento delle particelle
intermetalliche (Fe,Mn,Cr)3Si2Al15.
185
Fig. 4.11 Dimensione media degli intermetallici in funzione della frazione cumulativa [57].
4.2.2 Discussione
Nel presente lavoro, i contributi della microstruttura al rafforzamento della lega AA2219
sono stati tutti presi in considerazione, calcolati e combinati, in modo da ottenere un valore
del rafforzamento finale che tenga conto di tutti i meccanismi che hanno luogo durante
l’ECAP. Particolare risalto è stato dato al contributo al rafforzamento dei precipitati ricchi
di Fe (intermetallici) e le caratteristiche sono state valutate con un metodo di
quantificazione stereologico basato sull’analisi areale (AA) [53]. I risultati riportati in Tab.
4.3 suggeriscono che la deformazione introdotta dall’ECAP non altera il fattore di forma, α,
degli intermetallici, mentre influenza fortemente la loro spaziatura volumetrica, λ.
Sono stati calcolati diversi parametri che permettono di valutare il contributo al
rafforzamento degli intermetallici. Il primo parametro calcolato è l’indice di apparizione
degli intermetallici (intermetallic appearence index, IPA), che dipende solo dalle
caratteristiche morfologiche dei precipitati:
IPA 
d

(4.1)
186
Questo parametro indica la probabilità di frattura fragile in una matrice morbida rinforzata e
dipende solo dal diametro delle particelle, d, dal fattore di forma, α, e dalla spaziatura
volumetrica, λ, degli intermetallici.
L’altro parametro calcolato è σLT, che definisce il contributo al rafforzamento delle
particelle che contribuiscono al supporto di una parte del carico al quale è sottoposta la
matrice (il suffisso LT indica proprio load transfer). Questo parametro può essere calcolato
come:
  L  t   
 LT   0 1  
 NV 
  4L  
(4.2)
dove σ0 è lo stress della matrice non rinforzata, NV è la frazione di volume degli
intermetallici, L è la dimensione maggiore della particella e t è la dimensione minore della
particella.
Un ulteriore fattore di rafforzamento è stato calcolato, così come proposto da Hazzledine et
al. [59], secondo la seguente espressione:
 Intermet 
MGb  6 N V 


d   
(4.3)
dove d è la dimensione della particelle (diametro). Questo termine indica lo specifico
contributo al rafforzamento dovuto alla presenza dei precipitati intermetallici.
Come visibile in Tab. 4.4, sia σLT che ΔσIntermet aumentano dopo ECAP/A-1, mentre
rimangono sostanzialmente invariati dopo il secondo passaggio ECAP. Questo effetto è in
perfetto accordo con la letteratura [52].
Il contributo totale al rafforzamento della microstruttura può essere calcolato, come
riportato in letteratura [14,16,26,30,33,35,52,60-62] considerando tutti i vari termini relativi
alla microstruttura. Soluzione solida, bordi di dislocazioni e particelle di seconda fase,
forniscono dei contributi che possono essere combinati linearmente come segue [63]:
Δσdisl+spp = 0 + ss + SPD + secondary-phase particles
(4.4)
dove 0 è il contributo della matrice di alluminio, ss è il contributo della soluzione solida,
SPD ( = very-low-angle boundaries(Moiré) + LAB-Moiré + HAB) è la somma dei contributi al
rafforzamento dei bordi (angolo bassissimo, Moirè, basso e molto alto) e secondary-phase
particles è il rafforzamento dovuto alle particelle di seconda fase. Dato che il contributo degli
intermetallici è una caratteristica più grossolana, è verosimilmente cumulabile con il
termine Δσdisl+spp in maniera quadratica, come indicato:
187
((Δσdisl+spp)2 + (ΔσLT + Δσintermet)2)1/2
(4.5)
Nella Tab. 4.5 sono riportati i valori dei termini di rafforzamento dovuti ai bordi delle
dislocazioni, SPD, alle particelle nanometriche, secondary-phase particles e agli intermetallici,
intermetallics = ΔσLT + Δσintermet, nelle condizioni ECAP/A-1 e ECAP/A-2 [63].
SPD,
secondary-
intermetallics,
 = 1.08
220
125
100
Strengthening
contribution
superimposition,
MPa
359
 = 2.16
315
85
92
410
ECAP
strain
MPa
phase,, MPa
MPa
Proof stress,
MPa
(measured through
microhardness)
1020 / 2.8 = 360 
20
1150 / 2.8 = 410 
20
Tab. 4.5 Rafforzamento dovuto alla deformazione plastica severa, SPD, rafforzamento dovuto alle
particelle di seconda fase, secondary-phase e alla fase intermetallica, intermetallics. Il contributo degli
intermetallici nella condizione AE (as extruded) è stato calcolato ed è pari a 59 MPa. Il valore dello
stress calcolato sperimentalmente è riportato nell’ultima colonna [63].
Dalla Tab. 4.5 si evince che il contributo delle particelle di seconda fase si riduce molto con
la deformazione rispetto al contributo delle dislocazioni. Il valore dello stress riportato
nell’ultima colonna è stato calcolato dalle misure di microdurezza, applicando il metodo
descritto da Cabibbo [52]. Si noti che in questo caso è stato ottenuto un perfetto accordo tra
i valori di stress calcolati e quelli misurati [63].
188
4.2.3 Conclusioni
In questa parte del lavoro di dottorato è stato valutato il rafforzamento degli intermetallici
nella microstruttura della lega di alluminio 2219 sottoposta ad ECAP. Il materiale è stato
analizzato in tre condizioni: as extruded (AE, prima dell’ECAP), ECAP/A-1 (dopo il primo
passaggio), ECAP/A-2 (dopo il secondo passaggio).
Le principali conclusioni possono essere riassunte come segue:
 Le osservazioni TEM hanno evidenziato una drammatica riduzione delle dimensioni dei
grani dopo il primo passaggio ECAP.
 L’indice di apparizione degli intermetallici (IPA) ha mostrato una diminuzione dalla
condizione as extruded al primo passaggio ECAP, mentre è rimasto sostanzialmente
costante dopo ECAP/A-2.
 Il presente lavoro ha indicato che il contributo al rafforzamento degli intermetallici
(intermetallics) rappresenta una parte molto importante del calcolo dello stress totale della
lega.
189
Bibliografia Capitolo 4
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Conclusioni Generali
La presente Tesi di Dottorato è il riassunto di tutto il lavoro svolto dall’Ing. Eleonora
Santecchia durante i tre anni in cui ha frequentato la Scuola di Dottorato in Ingegneria dei
Materiali, delle Acque e dei Terreni (12° Ciclo) presso il Dipartimento di Ingegneria della
Materia, dell’Ambiente ed Urbanistica (SIMAU). In questo periodo, lo studio di materiali
nanostrutturati mediante tecniche di microscopia elettronica e diffrazione di raggi X ha
permesso alla candidata di acquisire una elevata esperienza su strumenti quali SEM,
HRSEM e XRD, nonché di fronteggiare e bypassare tutte le problematiche relative alla
diversa natura dei campioni, in particolare durante le fasi critiche della preparazione. Il
lavoro di ricerca è stato sviluppato in tre principali aree tematiche:
 Materiali per l’immagazzinamento dell’idrogeno allo stato solido (film sottili e
compositi).
 Materiali per uso biomedico (biomateriali e detector).
 Leghe metalliche leggere.
Tutti i lavori di ricerca sono stati svolti in collaborazione con Ricercatori di altre istituzioni
(Università e Centri di Ricerca) italiane ed europee, quali:
 Università degli Studi di Trento.
 Università di Modena e Reggio Emilia.
 CNR di Napoli.
 AGH University of Technology (Cracovia, PL).
 CERN (Ginevra, CH).
I risultati delle ricerche effettuate durante il Dottorato di Ricerca si sono concretizzati nella
seguente produzione scientifica:
 8 Pubblicazioni, di cui 5 su Riviste Internazionali [1-6] e 2 su Riviste Nazionali [7,8].
 11 Abstract, di cui 1 Oral Presentation di Eleonora Santecchia, 1 Invited Presentation
del Prof. Mengucci e 9 Poster presentati a Congressi Internazionali [9-19].
 Vincitrice di 1 Best Poster Award nell’ambito del 10th Multinational Congress on
Microscopy 2011, Urbino, 4-9 Settembre 2011.
 Vincitrice del CONTRIBUTO DI PARTECIPAZIONE messo in palio dalla Società
Italiana Scienze Microscopiche (SISM) per la partecipazione al MC2013, Microscopy
Conference 2013, Regensburg, Germania, 25-30 Agosto 2013.
195
Bibliografia Conclusioni Generali
Riviste internazionali
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