lo spazio - Rivista Telematica Nuova Didattica
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1 Rivista Telematica Nuova Didattica Produzione di itinerari didattici IL CONCETTO DI SPAZIO di A Annddrreeaa B Beegghhiinnii Il percorso interdisciplinare • Introduzione alle questioni filosofiche. Analisi terminologica • • Alcuni aspetti teoretici: Dallo Spazio relativo allo Spazio assoluto Dallo Spazio assoluto allo Spazio come campo Alcuni aspetti storici: • Il concetto di Spazio nella filosofia classica: Platone e Aristotele. • Il concetto di Spazio nella filosofia moderna: - Descartes, - Leibniz e gli empiristi, - Kant (Prolegomeni ad ogni futura metafisica che voglia presentarsi come scienza) Introduzione Come si può impostare l’idea di Spazio? Prima di tentare una definizione è opportuno, per non dire necessario, affermare la complessità della riflessione epistemologica sullo Spazio. Come si può enucleare dalle considerazioni di Grey 1 , il concetto di Spazio come nozione filosofica permette di prendere atto dell’origine arcaica del problema e del fatto che è sempre oggetto di nuovi orientamenti epistemologici. Questo significa che non si può proporre un’unica via interpretativa, bensì una pluralità di definizioni e di accezioni concettuali spesso tra loro in relazione, talvolta in contraddizione o quantomeno contrapposte. Infatti, del concetto di Spazio si parla da molti punti di vista nell’ambito delle singole scienze, pertanto non si può definire in modo generico lo Spazio senza incorrere in equivoci tra le varie materie. Alcune espressioni scientifiche, ad esempio, possono creare problemi in campo filosofico e nello stesso tempo produrre un discorso unitario sullo spazio significa intrecciare tutte le differenti posizioni e le loro rispettive problematiche di natura psicologica, cosmologica, metafisica e teologica. Per fare chiarezza circa la definizione terminologica si può leggere quanto scrive Nicola Abbagnano nel Dizionario di filosofia alla voce Spazio 2 . “La nozione di S. ha dato origine a tre problemi diversi o meglio a tre ordini di problemi: 1° quello circa la natura dello S.; 2° quello circa la realtà dello S.; 3° quello circa la struttura metrica dello S. Una risposta a quest’ultimo problema non è che una geometria e le diverse risposte a d esso 1 Cfr. J. GREY, Ideas of Space, Oxford 1989. Cfr. N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. Terza edizione aggiornata e ampliata da G.Fornero, Utet, Torino 1998, p.1027. Spazio (gr. χώρα,; lat. Spatium; ingl. Space; franc. Espace; ted. Raum). 2 2 costituiscono le differenti geometrie. (…) Il primo problema concerne il vero e proprio concetto di S. ed è il problema circa la natura dell’esteriorità in generale cioè di ciò che rende possibile il rapporto estrinseco tra gli oggetti. Einstein nella prefazione ad un libro storico sul concetto di Spazio (M. JAMMER, Concepts of Space, 1954) ha distinto due fondamentali teorie dello Spazio, cioè: a) lo S. come la qualità posizionale degli oggetti materiali nel mondo; b) lo S. come contenente di tutti gli oggetti materiali. A questi due concetti si può aggiungere l’altro che lo stesso Einstein ha fondato, c) quello dello S. come campo” Jammer 3 sostiene che la teoria dello Spazio assoluto, che a sua volta fonda tutta la meccanica newtoniana, deriva dal confluire di due modelli fondamentali: l’emancipazione dello Spazio dal modello aristotelico sostanza- accidente e lo Spazio come attributo di Dio. Il primo capitolo del saggio di Jammer è dedicato al concetto di Spazio nella dimensione antica e classica, il secondo alle influenze teologiche, soprattutto giudaico cristiane, fino a H. Moore, il terzo all’emancipazione del concetto di Spazio dall’aristotelismo, il quarto a Newton e alle critiche di Leibniz, il quinto alla modernità. Questa riflessione, prendendo le mosse dalla lettura della prefazione di Albert Einstein al saggio di Jammer, intende appurare come le due teorie a e b del concetto di Spazio si siano alternate nel corso della storia del pensiero e come tale alternanza abbia influito sulle filosofie di alcuni tra i maggiori pensatori di ogni tempo. L’evoluzione del concetto di Spazio, infatti, rappresenta indirettamente l’evoluzione del nostro modo di porci nei confronti della realtà, del nostro modo di comprenderla ed interpretarla e, di conseguenza, del nostro modo di pensare e di vivere nella realtà che comprendiamo. Dallo Spazio relativo allo Spazio assoluto L’attenzione dello scienziato si concentra sui fenomeni osservabili. Ci sono tuttavia dei concetti che sembrano del tutto innati come il concetto di Spazio o il principio di non contraddizione, quasi che siano un assorbimento biologico se non addirittura genetico. Dunque, lo scienziato è abituato a sfruttare questi strumenti concettuali del pensiero come qualcosa di ovvio, di evidente, di incontrovertibile. Eppure la scienza deve impegnarsi nella critica ai principi fondamentali onde evitare di essere dominata da essi senza saperlo. Il concetto di Spazio fu preceduto da quello più semplice di luogo inteso come una piccola porzione della superficie terrestre con un nome specificato. La cosa il cui luogo viene specificato è un oggetto materiale o corpo. Una semplice analisi mostra che per luogo si può anche intendere un gruppo di oggetti materiali. A questo punto è legittimo chiedersi se il luogo abbia significato indipendente dall’oggetto materiale. Se così non fosse il luogo sarebbe semplicemente un ordine di oggetti materiali e non avrebbe senso parlare di Spazio vuoto. Si può pensare, tuttavia, in modo diverso e a questo proposito Einstein propone il seguente esempio. In una data scatola si possono mettere dei grani o dei chicchi di riso, quindi la proprietà della scatola si associa alla scatola stessa, si tratta di una “possibilità di” o di “potenza”, come direbbe Aristotele. Si può parlare, dunque, di spazio della scatola come proprietà della scatola. In tal modo il concetto di Spazio assume la libertà dall’oggetto materiale tanto da assurgere a dimensione universale, infatti tutte le scatole hanno la stessa proprietà che può essere a sua volta estesa ad una scatola di dimensioni infinite. Si può così pensare ad uno Spazio illimitato e assoluto. Questa riflessione porta ad abbracciare la seconda teoria dello Spazio per cui esso è contenente di tutti gli oggetti materiali, in quanto lo Spazio appare come una realtà che in un certo senso è superiore al mondo materiale. Tuttavia, entrambi i concetti di spazio (a e b) non sono altro che libere creazioni della mente umana, mezzi progettati per una più facile comprensione della nostra esperienza sensibile e in tal senso lo Spazio può essere inteso come Spazio della percezione. Le definizioni a e b attengono alla natura dello Spazio rispettivamente dal punto di vista geometrico e dal punto di vista cinematico. Essi vengono, però, conciliati dall’introduzione del sistema di coordinate, sebbene esso già presupponga il concetto b, da parte di Cartesio. Successivamente il concetto di Spazio 3 Cfr. M. JAMMER, Concepts of Space, 1954. 3 fu arricchito da Galilei e Newton soprattutto in relazione al significato del principio classico di inerzia, terzo principio della dinamica. Dallo Spazio assoluto allo Spazio come campo Se su un corpo agiscono più forze la cui somma vettoriale è il vettore nullo, allora tale corpo si muove in moto rettilineo uniforme, ovvero il corpo si muove su una retta con velocità di modulo costante. A questo punto si deve introdurre lo Spazio come causa indipendente del comportamento inerziale dei corpi e questa fu la massima conquista di Newton che in questo superò Galileo. In opposizione a Huygens e Leibniz, Newton ebbe chiaro che il concetto a di Spazio non serviva sufficientemente alla fondazione del principio di inerzia perché, in caso contrario, sarebbe venuto meno l’aspetto cinematico. Newton giunse a questa conclusione arrivando ad assegnare allo Spazio un ruolo non solo indipendente dagli oggetti materiali, ma anche assoluto nell’intera struttura causale della teoria del movimento. Questo ruolo è assoluto nel senso che lo Spazio, in quanto sistema di riferimento in cui vale il principio di inerzia, ovvero in quanto sistema inerziale, agisce su tutti gli oggetti materiali mentre questi non intervengono in alcun modo sullo Spazio. La conclusione di Newton era la sola utile e possibile nella sua epoca, ma il successivo sviluppo dei problemi, procedendo in modo obliquo, ha fatto ritorno alle intuizioni di Leibniz e Huygens, che a loro volta erano ben fondate, ma si trovavano senza strumenti adeguati per poter essere giustificate. Si richiese, dunque, uno sforzo per superare il concetto di Spazio indipendente e assoluto. Jammer propende a dire che il concetto b di Spazio non fu sviluppato fino al Rinascimento, mentre per Einstein già Democrito poteva aver intuito lo Spazio come contenente degli oggetti materiali, diversamente da Aristotele che escluse lo Spazio assoluto e indipendente. La vittoria sul concetto di Spazio assoluto o di sistema inerziale è stata possibile perché il concetto materiale è stato sostituito in fisica dal concetto di campo. Sotto le idee di Faraday e di Maxwell si è sviluppata la nozione che l’intera realtà fisica potrebbe essere sviluppata come un campo dipendente dalle quattro dimensioni spazio- temporali. Se le leggi di questo campo sono generalmente covarianti, ovvero non dipendono da un particolare sistema di coordinate, l’introduzione di uno Spazio indipendente e assoluto non è necessaria. Ciò che pertanto costituisce il carattere spaziale della realtà è semplicemente la “tetra” dimensionalità del campo. Allora non esiste nessuno Spazio vuoto, ovvero non esiste uno Spazio senza campo. L’idea di Spazio in sé e per sé, di fatto, non esiste. La dimensione classica Nel mondo greco la riflessione sullo Spazio può essere considerata molto precoce visto che già i Pitagorici l’avevano sollevata nell’ambito della spazialità numerica, mentre gli atomisti di Democrito e, successivamente, gli epicurei la associavano allo Spazio vuoto, ovvero alla condizione necessaria di assenza di materia ove gli ατομοι potessero muoversi e combinarsi liberamente. Anche gli eleati rifletterono sullo Spazio ma su posizioni diametralmente opposte rispetto a quelle degli atomisti: in coerenza con l’insegnamento del loro maestro, il “venerando e terribile” Parmenide, essi vedevano l’universo come un tutto continuo e di conseguenza limitato e chiuso, tale da portare alla negazione del vuoto, in quanto il vuoto coincide con il nulla e il nulla non può esistere. La teoria eleatica, che incarnò appieno il sentimento di “horror vacui” degli Elleni, ebbe la meglio su quella corpuscolare- democritea tanto da influenzare le successive riflessioni di Platone e di Aristotele che pure tentarono di risolvere le αποριαι parmenidee. Platone sviluppa una teoria sullo spazio molto importante in uno dei suoi dialoghi più complessi, il Timeo. Precisamente egli introduce la nozione di Spazio nel tentativo di spiegare il rapporto tra mondo sensibile e mondo intelligibile rispetto alle due specie (δυο ειδη) che compongono l’universo quella di “ciò che è sempre ma che non ha un’origine” e quella di “ciò che diviene sempre ma 4 non è mai” 4 , ovvero “la prima posta come modello, intelligibile e immutabile” e “la seconda come riproduzione del modello, in divenire e visibile” 5 . Lo Spazio è considerato una terza specie nuova per la quale Platone usa aggettivi come “difficile e confusa” 6 ; si tratta di una sorta di natura ibrida, intermedia tra mondo reale e sensibile. Lo Spazio viene illustrato con linguaggio metaforico come “il ricettacolo e quasi la nutrice di ogni divenire” 7 , per poi passare all’esposizione di una concezione della realtà che presuppone l’esistenza di una dialettica tra mondo intelligibile e mondo sensibile. “Stando così le cose, bisogna ammettere che esiste una sola specie immutabile, ingenerata e immortale, che in sé non riceve null’altro da altre parti né si muta mai in altro, invisibile e anche impercettibile, che solo l’intelletto ha la ventura di contemplare; ma c’è un’altra specie omonima, simile a quella, sensibile, generata, sempre in movimento, che nasce in un luogo e poi da lì sparisce, ed è percepibile con l’opinione fondata sulla sensazione. Il terzo genere è quello dello spazio, che non ammette deperimento e procura una sede a tutto quanto nasce, e si può afferrare senza la sensazione con un ragionamento illegittimo, a stento credibile, tenendo conto del quale noi vendiamo sogni e diciamo che necessariamente l’essere deve stare tutto in un luogo e possedere uno spazio, mentre questo non è possibile che si trovi né sulla terra né in cielo” 8 . (52 a,b). Dal passo emerge che la funzione del terzo genere, ovvero dello Spazio, è quella di sede delle cose che nascono, che si pongono, che si danno nell’evidenza includente. Lo Spazio, pur essendo il genere in cui si diviene, pur avendo la possibilità di ricevere le cose, tuttavia non coincide con esse e le loro forme. Se, infatti, la matrice che accoglie la materia assumesse la forma di ciò che viene accolto, ebbene non potrebbe ricevere più nulla che non fosse quella stessa cosa, o comunque riprodurrebbe male la sembianza delle altre cose. Lo Spazio si limita a piegarsi in funzione delle forme conservando la possibilità di trascendere le forme stesse rimanendone estraneo: “infatti non perde nulla della propria potenza, anzi accoglie in sé tutte le cose, e non assume assolutamente nessuna forma simile a nessuna delle cose che entrano in lei; per natura è uno stampo di ogni cosa, modificato e conformato da ciò che vi entra, e, a causa loro, appare ora in un modo ora in un altro: le cose che entrano e quelle che escono sono imitazioni di quelle che sempre sono, e portano la loro impronta in un modo quasi indicibile e mirabile” 9 . Si arriva così alla definizione platonica suggestiva ma problematica: “Perciò la madre e nutrice di ciò che è stato creato visibile e insomma sensibile non dobbiamo definirla né terra né aria né fuoco né acqua né i loro derivati o le loro cause; mentre non sbaglieremo a chiamare tale una forma invisibile e senza contorni, capace di accogliere ogni cosa, partecipe dell’intelligibile in maniera molto oscura e difficile da comprendersi” 10 . Nella visione platonica lo Spazio, pur trascendendo le singole dimensioni sensibili, esiste solo in relazione alla materia, in quanto esso esiste esclusivamente in qualità di “dove” fisico rispetto alla 4 Cfr. PLATONE, Timeo, 28a; tr. di G. Lozza, Oscar Mondadori, Milano 1994, p. 25. Qui Platone riprende la fondamentale distinzione fra essere e divenire già a lungo discussa nei dialoghi Parmenide, Sofista e Filebo. 5 Cfr. Ibi, p. 63. “…εν μεν ως παραδειγματος ειδος υποτεθεν, νοητον και αει κατα ταυτα ον, μιμημα δε παραδειγματος δευτερον, γενεσιν εχον και ορατον…” (48 e). 6 Cfr. Ibidem. “…χαλεπον και αμυδρον…” (49 a). 7 Cfr. Ibidem. “…πάσης ειναι γενέσεως υποδοχήν αυτήν οιον τιθήνην…” (49 a). 8 Cfr. Ibi, p. 69. “…τούτων δεουτως εχοντων ομολογητεον έν μεν ειναι το κατα ταυτα ειδος εχον, αγεννητον και ανωλεθρον, ουτε εις εαυτο εισδεχομενον αλλο αλλοθεν ουτε αυτο εις αλλο ποι ιον, αορατον δε και αλλως αναισθητον, τουτο ο δενοησις ειληχεν επισκοπειν· το δε ομωνυμον ομοιον τε εκεινω δευτερον, αισθτον, γεννητον, πεφορημενον αει, γιγνομενον τε εν τινι τοπω και παλιν εκειθεν απολλυμενον, δοξη μετ’αισθησεως περιληπτον· τριτον δε αυ γενος ον το της χωρας αει, φθοραν ου προσδεχομενον, εδραν δε παρεχον οσα εχει γενεσιν πασιν, αυτο δε μετ’αναισθησιας απτον λογισμω τινι νοθω, μογις πιστον, προς ο δη και ονειροπολουμεν βλεποντες και φαμεν αναγκαιον ειναι που το ον απαν εν τινι τοπω και κατ’εχον χωραν τινα, το δε μητ’εν γη μητε που κατ’ουρανον ουδεν ειναι…” (52 a,b). 9 Cfr. Ibi, p.67. “…εκ γαρ της εαυτης το παραπαν ουκ εξισταται δυναμεως - δεχεται τε γαρ αει τα παντα, και μορφην ουδεμιαν τοτε ουδενι των εισιοντων ομοιαν ειληφεν ουδαμηου δαμως· εκ μαγειον γαρ φυσει παντι κειται, κινουμενον τε και διασχηματιζομενον υπο των εισιοντων, φαινεται δε δι’εκεινα αλλοτε αλλοιον –τα δε εισιοντα και εξιοντα των οντων αει μιμηματα, τυπωθεντα απ’αυτων τροπον τινα δυσφραστον και θαυμαστον…” (50 b,c). 10 Cfr. Ibi, p.67. “…διο δη την του γεγονοτος ορατου και παντως αισθητου μετερα και υποδοχην μητε γην μητε αερα μητε πυρ μητε υδωρ λεγωμεν μητε οσα εκ τουτων μητε εξ ων ταυτα γεγονεν· αλλ’ανορατον ειδος τι και αμορφον πανδεχες μεταλαμβανον δε απορωτατα πη του νοητου και δυσαλωτοτατον αυτο λεγοντες ου ψευσομεθα…” (51 a,b). 5 presenza materiale degli oggetti-imitazioni dei modelli perfetti. Per cui il filosofo esprime la negazione della possibilità che lo Spazio possa estendersi al di là dell’universo materiale, ovvero nega assolutamente l’esistenza del vuoto. Aristotele, affrontando nel quarto libro della Fisica la nozione di movimento, incontra, oltre ai concetti di Spazio e vuoto, anche quello di luogo: “è necessario che lo studioso di fisica faccia luce anche sul luogo, come sull’infinito: se esiste o no, e che cos’è” 11 . Come per Platone gli oggetti non sono del non essere che è scandaloso a pensarsi e che non ha possibilità di esistere, ma sono in un dove, in un luogo. “Tutti infatti suppongono che gli enti siano in un certo luogo(…), e la specie massimamente comune e più importante del movimento, che chiamiamo traslazione, è secondo il luogo” 12 . Il luogo, dunque, esiste ed è una realtà chiara in relazione al movimento per spostamento dei corpi che si spostano reciprocamente e non possono contemporaneamente occupare un medesimo luogo già occupato (è necessaria una sostituzione, sempre e comunque, come l’aria sostituisce l’acqua che esce dal vaso). “Ora che il luogo esista sembra essere chiaro dallo spostamento reciproco. Chè, dove ora vi è acqua, qui, qui quando sia uscita come da un vaso, vi è di nuovo aria. E quando qualcun altro dei corpi occupa questo stesso luogo, ebbene questa cosa, ad avviso unanime, è diversa da tutte quelle che sopraggiungono e che mutano.” 13 Questa identificazione dei corpi con il luogo dimostra che il luogo esiste realmente indipendentemente dagli oggetti e lo Spazio è da considerare come il luogo in cui si muovono gli oggetti stessi. In questo senso Aristotele parla di luogo naturale. Secondo il filosofo, l’esperienza mostra che per ciascun corpo esiste un sito naturale: “ciascuno infatti, se non è impedito, si porta nel suo luogo, l’uno in alto, l’altro in basso. Queste sono, infatti, le parti e le specie del luogo: l’alto, il basso e le altre sei dimensioni. Ma le determinazioni di questo tipo: l’alto, il basso, la destra e la sinistra, non sono soltanto in rapporto a noi: giacchè per noi non sono sempre identiche, ma si costituiscono secondo la posizione, nel modo in cui ci volgiamo; ond’è che sovente la medesima cosa è a destra e sinistra, in alto e in basso, davanti e dietro. Invece nella natura ciascuna di queste determinazioni si definisce in modo assoluto. Chè l’alto non è qualunque cosa, ma dove si portano il fuoco e il leggero; similmente anche il basso non è qualunque cosa, ma dove si portano le cose che hanno pesantezza e quelle terrose, poiché non differiscono soltanto per la posizione, ma pure per la potenza” 14 . Questa proprietà si trasforma in una vera e propria dottrina del luogo naturale e il luogo viene fatto oggetto di differenze qualitative in contrapposizione netta con la teoria corpuscolare. “In forza di queste osservazioni si può dunque comprendere che il luogo è alcunché al di là dei corpi, e che ogni corpo sensibile è in un luogo” 15 ; in verità la concezione realistica dello Spazio come luogo non porta Aristotele alla concezione del luogo come realtà che prescinda dai corpi o all’identificazione del luogo con i corpi stessi. Aristotele definisce il luogo come limite del corpo. “Poiché una cosa si dice per sé, un’altra per altro, anche il luogo in un senso è comune: quello nel quale sono tutti i corpi, in un altro è proprio: quello nel quale un corpo è come nel luogo primo(…) se il luogo è la cosa prima che contiene ciascuno dei corpi, sarà un limite; per cui il luogo sembrerà essere la forma e la sagoma di ciascuna cosa, con la quale si determinano la grandezza e la materia della grandezza(…) Se il luogo non è né la forma, né la materia, né un certo intervallo sempre sussistente come diverso da quello della cosa che si sposta, è necessario che il luogo sia (…) il limite del corpo contenente, secondo il quale esso è contiguo al corpo contenuto” 16 . La nozione di luogo come limite non è da confondere con il luogo come recipiente: infatti, mentre il vaso è sempre mobile, il luogo è una specie di vaso non trasportabile, è immobile ed è pertanto definito come primo immobile limite del contenente, si può dire, cioè, che esso è un involucro a patto che sia unico con la cosa, perché il limite è insieme con il limitato. Aristotele, in definitiva, giunge 11 Cfr. ARISTOTELE, Fisica, libro IV, 208 a; a cura di M. Zanatta, Utet, Torino 1999, p.209. Cfr. Ibidem. 13 Cfr. Ibi, 208 b. 14 Cfr. Ibi, p.210. 15 Cfr. Ibidem. 16 Cfr. Ibi, 209 a; 209 b; 212 a; (pp. 212, 220) 12 6 alla conclusione che non è pensabile uno spazio infinito, cioè un luogo fuori dell’Universo, né un luogo in cui sia collocabile l’Universo. R. Descartes Il principale riferimento per quanto concerne l’età moderna va alla riflessione di Cartesio, colui che pose l’insanabile scissione tra il soggetto conoscente e l’oggetto conosciuto, tra pensiero ed essere, tra mente e corpo, tra res cogitans e res extensa, dove il soggetto pensante acquisisce un ruolo di preponderante importanza nella determinazione del mondo fuori da sé. Cartesio riflette il mutato atteggiamento culturale che si ebbe con l’affermazione della scienza moderna (tanto che egli arrivò fondare il metodo matematico e l’algebra moderna) e nello stesso tempo manifesta nella sua riflessione un riferimento costante, autobiografico, alla sua personale esperienza vissuta, tanto che Paul Valery ha parlato, a proposito del Discours de la Methode, dell’ “avventura intellettuale di un magnifico e memorabile Io”. La riflessione di Cartesio nasce da un grande dubbio metafisico, un dubbio iperbolico che porta il filosofo a domandarsi se la realtà davanti a sé non sia altro che il frutto di una mera illusione, se l’oggetto sia effettivamente tale o piuttosto qualcos’altro, se un demone maligno non stenda un velo di sogno e di illusione sul mondo che l’uomo crede di conoscere. Il dubbio tuttavia, secondo una tradizione che si rifà alla polemica con gli scettici di Sant’Agostino, porta all’affermazione di un’evidenza incontrovertibile: io non posso dubitare dell’esercizio del mio dubbio e, siccome il dubitare è un’attività del pensiero, non posso dubitare di pensare. Ma ciò che non esiste non può pensare e dunque io esisto (cogito ergo sum) ed esisto come sostanza pensante, come res cogitans, giacchè so di esistere ma non so ancora nulla circa l’esistenza dei corpi che mi circondano. Scrive Cartesio: “Io sono, io esisto: questo è certo; ma per quanto tempo? Invero, per tanto tempo quanto penso; perché forse me potrebbe accadere, se cessassi di pensare, di cessare in pari tempo d’ essere o d’esistere. Io non ammetto adesso nulla che non sia necessariamente vero: io non sono, dunque, per parlare con precisione, se non una cosa che pensa, e cioè uno spirito, un intelletto o una ragione, i quali sono termini il cui significato m’era per lo innanzi ignoto. 17 (…) Ma che cosa, dunque, sono io? Una cosa che pensa. E che cos’è una cosa che pensa? È una cosa che dubita, che concepisce, che afferma, che nega, che vuole, che non vuole, che immagina anche, che sente.” 18 Accertate, secondo le regole del metodo, l’esistenza e le determinazioni della sostanza pensante, resta da verificare o meno l’esistenza del mondo che sta di fronte a noi. Questo è reso possibile solo dopo essere giunti alla dimostrazione dell’esistenza di Dio, terzo termine ed unico garante dell’esistenza del mondo. Tutto ciò che non è res cogitans è res extensa, la realtà sempre piena ed estesa che si contrappone al soggetto pensante, e che da quest’ultimo è conosciuta. È una realtà omogenea ed immediata, priva di qualsiasi caratterizzazione qualitativa, bensì perfettamente riconducibile entro caratteri matematici, quantitativi e meccanicistici. La res extensa è dunque la materia, non intesa in senso aristotelico, ma in generale come l’obiectum che può essere ridotto ai parametri formali della geometria (lunghezza, profondità, altezza). Il mondo materiale diventa così il mondo delle proprietà spaziali: viene a crearsi un rapporto di equivalenza tra materia, estensione e Spazio. Ciò che è materiale e quindi sostanziale è necessariamente esteso e ciò che ha estensione nello Spazio non può essere altro che materia o sostanza, tanto che l’estensione diventa attributo primo della 17 Cfr. R.DESCARTES, Meditazioni metafisiche II, in Opere a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1967, vol. I, p.209. “Ego sum, ego existo; certum est. Quandiu autem? Nempe quandiu cogito; nam forte etiam fieri posset, si cessarem ab omni cogitatione, ut illico totus esse desinerem. Nihil nunc admitto nisi quod necessario sit verum; sum igitur praecise tantùm res cogitans, id est, mens, sive animus, sive intellectus, sive ratio, voces mihi priùs significationis ignotae.” (§ 6). 18 Cfr. Ibidem. “Sed quid igitur sum? Res cogitans. Quid est hoc? Nempe dubitans, intelligens, affirmans, negans, volens, nolens, imaginans quoque, & sentiens. » (§ 8). 7 sostanza. Ma l’estensione spaziale è una determinazione di tipo quantitativo, quindi la certezza della conoscenza della sostanza in quanto res extensa si limita ai caratteri quantitativi e perciò oggettivi. Per Cartesio, anche quando si parla di vuoto, in realtà si parla di sostanza, poiché anche il vuoto sottende un’idea di pieno; infatti il vuoto potrebbe esistere solo se esistesse un luogo senza estensione, ma questo è impensabile perché non vi è luogo al mondo che possa essere separato dall’estensione e, a sua volta l’estensione non può essere pensata se non come proprietà di un corpo materiale, ne deriva che non c’è luogo che non sia “pieno” di sostanza e, quindi, che sia vuoto. Un esempio particolarmente efficace è quello del vaso vuoto: se Dio togliesse il contenuto del vaso i suoi confini si restringerebbero fino a toccarsi, poiché la distanza è una proprietà dell’estensione e come tale non potrebbe sussistere senza qualcosa di esteso. Leibniz e gli empiristi inglesi Decisamente diversa da quella cartesiana è la visione di Leibniz che si impegna a definire lo Spazio in contrapposizione al meccanicismo di Cartesio prima e di Newton poi riportando al centro della questione la riflessione sulla sostanza. Leibniz, scrivendo a Samuel Clarke, fedele discepolo di Newton, sostiene che lo Spazio non è una realtà per sé stante, una sostanza , un attributo divino, ma una mera relazione di disposizione e coesistenza fra i corpi. Parafrasando le parole del filosofo, lo Spazio non risulta altro che un ordine dell’esistenza delle cose. Di conseguenza, per avere l’idea di luogo e quindi, successivamente, l’idea di Spazio è sufficiente considerare il rapporto e le regole del mutamento delle cose, senza bisogno di immaginare alcuna realtà assoluta all’infuori delle cose stesse di cui si considera la situazione. Leibniz mette in evidenza l’aspetto relazionale del concetto di Spazio privandolo di qualsiasi giustificazione ontologica ed orientamento teologico. Egli scrisse: “Ho osservato più d’una volta che considero lo Spazio come qualcosa di puramente relativo, così come il Tempo: è un ordine delle coesistenze, al pari del Tempo che è un ordine delle successioni. Infatti lo Spazio segna in termini di possibilità un ordine di quelle cose che esistono nello stesso Tempo, in quanto esistono insieme senza entrare nei loro modi particolari d’esistenza e quando si vedono più cose insieme, si percepisce questo ordine di cose tra loro” 19 . C’è una percezione di un ordine spaziale che deriva dalla coesistenza delle monadi, punti metafisici chiusi. L’empirismo moderno di Hume e Hobbes difende invece la soggettività assoluta della dimensione psicologica dello Spazio. Per Hobbes lo Spazio è un’immagine soggettiva, “un fantasma di una cosa che esiste in quanto esiste” 20 , come lo definisce nell’VIII capitolo del De corpore, mentre per Locke lo Spazio è “un’idea derivata dall’esperienza sensibile, un’idea semplice dataci dalla percezione della distanza fra due oggetti o tra due punti di uno stesso oggetto” 21 . Il processo de-costruttivo dell’idea Spazio continua con Berkeley e Hume. In particolar modo anche Hume afferma che sono i sensi a produrre l’impressione originaria da cui deriva l’idea di Spazio e di Tempo. Essa deriva “dalla disposizione degli oggetti visibili e tangibili. Per cui le idee di spazio e di Tempo non hanno un’esistenza separata e distinta ma sono semplicemente le idee della maniera e dell’ordine con cui esistono gli oggetti” 22 . Ne consegue che la visione di Hume porta alla dissoluzione della dimensione ontologica e metafisica del concetto di Spazio. I. Kant Il fondamentale contributo che Kant diede alla riflessione sul concetto di Spazio richiede un’analisi più approfondita e perspicua intorno alla cosiddetta rivoluzione copernicana del pensiero. Il criticismo 19 Cfr. G. W. LEIBNIZ, Epistolario Leibniz-CIarke (1715-1716), in Saggi filosofici e lettere. Cfr. T. HOBBES, De corpore, VIII. 21 Cfr. J. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, cap. II, ed. Bari Laterza, 1972, vol. IV, p.98. 22 Cfr. D. HUME, Trattato sulla natura umana, Bari Laterza, 1971, vol. I, pp. 48 e ss. 20 8 kantiano stabilisce la centralità del soggetto conoscente in ogni campo: in quello gnoseologico, in quello morale e in quello estetico. La conoscenza, la morale e la bellezza sono possibili non tanto perché il mondo degli oggetti le ha in sé come proprietà intrinseche, ma perché esse si esprimono solo ed esclusivamente in funzione di un soggetto che ne fa esperienza: se una cosa è conoscibile o morale o bella, lo è solo in funzione del soggetto; questo non vuol dire che sia impossibile l’universalità del giudizio, poiché, come sarà illustrato in seguito, la mente umana è strutturata secondo parametri di sensibilità e di giudizio assolutamente universali. Lo Spazio, per Kant, è uno di questi parametri tali da rendere universalmente comprensibile alla mente umana la complessità del reale. In un certo senso lo Spazio non è più una proprietà del mondo e degli oggetti ma la lente attraverso cui noi leggiamo il mondo. Per soffermarsi meglio sia sulla particolare interpretazione kantiana del concetto di Spazio, sia, più genericamente, sui tratti essenziali della gnoseologia kantiana, come la definizione delle categorie, viene qui riportata un’analisi dei primi due problemi trascendentali dei Prolegomeni ad ogni metafisica futura: accertare la dignità di scienze della matematica e della fisica (problemi più diffusamente affrontati nella Critica della Ragion pura). “La matematica pura è possibile come conoscenza sintetica a priori solo in quanto non si riferisce ad altri oggetti che agli oggetti dei sensi ed in quanto l’intuizione empirica di questi è fondata a priori sopra un’intuizione pura (dello spazio e del tempo) la quale non è altro che la pura forma della sensibilità che preesiste alla reale apparizione degli oggetti anzi che sola la rende possibile” 23 . È possibile constatare da questa affermazione come per Kant la matematica pura deve necessariamente essere fondata su intuizioni pure, ovvero su rappresentazioni dell’oggetto quali si avrebbero dalla sua immediata presenza, ma che anticipano la reale impressione dell’oggetto stesso e che quindi si dicono a priori. Questo è dimostrato dal fatto che la matematica pura si fonda su verità universali, assolute e necessarie, non su verità affidate esclusivamente alla mutevolezza delle impressioni empiriche. D’altra parte, la matematica pura non avrebbe senso se non avesse come oggetto le cose del mondo. Di queste cose, però, essa non conosce l’essenza, ovvero come sono le cose in sé, ma solo la loro rappresentazione, ovvero il fenomeno, in rapporto alla sensibilità dei nostri sensi. Si è detto che la matematica pura è fondata, per Kant, su intuizioni pure; tali intuizioni pure a priori consistono nella forma delle intuizioni sensibili, ovvero nello spazio e nel tempo. Quando Kant parla di “forma” intende le regole universali e necessarie che ordinano la materia sensibile, intende “la determinazione del determinabile”, laddove il determinabile in generale consiste nella materia. Dunque lo spazio e il tempo si presentano come condizioni, come principi fondamentali della nostra percezione e della nostra comprensione del mondo e delle cose; essi precedono le cose in quanto esse possono essere intuite solo in un dato tempo e in un dato spazio, non altrimenti; quindi, senza queste universali costruzioni formali dello spirito conoscente, che sono lo spazio e il tempo, è oltremodo impensabile l’intuizione empirica dei corpi. Con ciò, non si deve cadere nell’equivoco che lo spazio e il tempo siano proprietà reali inerenti alle cose in sé, dal momento che delle cose in sé nulla può essere intuito tramite i sensi (la rappresentazione delle cose come sono in se stesse è di pertinenza dell’intelletto puro). Gli oggetti, di cui spazio e tempo sono intuizioni pure a priori, sono intuizioni sensibili, ovvero semplici fenomeni delle cose, laddove per fenomeni Kant intende le rappresentazioni delle cose che colpiscono i nostri sensi e non le loro proprietà intrinseche. A questo proposito, Kant propone l’efficace esempio della mano osservata allo specchio: la nostra mano e quella riflessa sono identiche in ogni loro parte, eppure l’una non può essere sostituita all’altra, 23 Cfr. I. KANT, Prolegomeni ad ogni metafisica futura. Parte prima del problema trascendentale. Come è possibile la matematica pura?, a cura di P.Martinetti e M.Roncoroni, Rusconi Libri, Milano, 1995, p.85. “ Reine Mathematik ist, als, synthetische Erkenntnis a priori, nur dadurch möglich, daß sie auf keine andere als bloße Gegenstände der Sinne geht, deren empirischer Anschauung eine reine Anschauung (des Raums und der Zeit) und zwar a priori zum Grunde liegt, und darum zum Grunde liegen kann, weil diese nichts anders als die bloße Form der Sinnlichkeit ist, welche vor der wirklichen Erscheining der Gegenstände vorhergeht, indem sie dieselbe in der Tat allererst möglich macht.” (§11). 9 il guanto dell’una non può essere indossato dall’altra, in quanto i loro rispettivi confini spaziali sono diversi. La nostra mano e quella che vediamo riflessa allo specchio non sono intuizioni pure quali potrebbe avere l’intelletto puro ma solo rappresentazioni delle cose, ovvero intuizioni sensibili. È dunque lecito dire che, nello specifico, lo spazio è la forma dell’intuizione esterna in quanto determina il disporsi delle cose le une accanto alle altre, mentre il tempo è la forma dell’intuizione interna, in quanto determina l’ordine intrinseco di successione degli oggetti. Kant conclude il capitolo con una tirata polemica contro l’idealismo, o meglio, contro quanti accusano la sua dottrina filosofica di idealismo. Mentre gli idealisti negano la realtà di ogni cosa al di fuori del soggetto pensante e conoscente e riducono a mere rappresentazioni nel soggetto le cose, di cui non esisterebbe nessun oggetto concreto corrispondente, Kant sostiene che le cose fuori di noi soggetti pensanti esistono realmente. Il problema da lui sollevato non si fonda tanto sulla dignità ontologica delle cose del mondo, ma sull’aspetto gnoseologico, ovvero sulla conoscenza intorno agli oggetti. Egli sostiene che, attraverso i nostri sensi, non possiamo percepire altro che i fenomeni delle cose e “nulla di ciò che possano essere in se stesse” 24 ; ne consegue che tutte le proprietà che siamo soliti riconoscere in un corpo, come il colore o l’odore, non sono altro che proprietà del fenomeno, mentre lunghezza, altezza e profondità del corpo restano, cartesianamente, le tre dimensioni su cui si fonda lo spazio e dunque non sono né proprietà del fenomeno, né, tanto meno, proprietà intrinseche alle cose stesse, ma i parametri dell’intuizione pura a priori dello spazio. Parimenti, Kant deve difendersi anche dall’obiezione che la sua filosofia riduce il mondo a pura apparenza; egli afferma che “l’apparenza non va messa sul conto dei sensi, bensì dell’intelletto, al quale soltanto spetta ricavare dalla parvenza un giudizio obiettivo” 25 , ovvero sostiene che l’operazione da lui eseguita, nel parlare di rappresentazioni delle cose come intuizioni sensibili, non porta affatto all’ammissione di un’apparenza universale delle cose ma soltanto a constatarne il valore di parvenza, giacchè stabilire ciò che è realtà e ciò che è apparenza spetta soltanto a una successiva operazione dell’intelletto che riconosce a tutti gli effetti l’esistenza degli oggetti in sé e per sé. Chiedersi come sia possibile la fisica pura significa domandarsi se esistano e, di conseguenza, se siano conoscibili e come siano conoscibili, le leggi universali della natura. Kant premette che per natura “si intende l’esistenza delle cose in quanto determinate da leggi generali” 26 e non tanto l’esistenza delle cose in sé e per sé che è del tutto indipendente dall’intelletto e che pertanto non può essere conosciuta né analiticamente, né sinteticamente, né a priori, né a posteriori. Lo dimostra il fatto che “l’esperienza mi apprende bene che una cosa esiste e come essa esiste, ma non mai che ciò debba essere necessariamente così e non altrimenti. Quindi essa non può mai apprendermi la natura delle cose in sé” 27 . Tuttavia la fisica pura non si fonda su una semplice conoscenza di leggi generali, ma su una conoscenza di principi universalmente e soprattutto necessariamente validi, come la proposizione che la sostanza permane e non si distrugge; per quanto alcuni concetti fisici, come quello del movimento, necessitino di una verifica empirica. Quindi la domanda iniziale può benissimo essere sostituita con la seguente: “come è possibile conoscere a priori la necessaria regolarità delle cose come oggetti dell’esperienza? Oppure: come è possibile conoscere a priori la necessaria regolarità dell’esperienza in riguardo a tutti i suoi oggetti in genere?” 28 . Nel rispondere a questa domanda Kant stabilisce una radicale distinzione tra giudizio percettivo e giudizio empirico vero e proprio e quindi tra giudizio soggettivo e giudizio oggettivo. 24 Cfr. Ibi, p.95. “indem sie unsere Sinne affizieren” (Osserv.II). Cfr. Ibi, p.101. “allein der Schein kommt nicht auf Rechnung der Sinne, sondern des Verstandes, dem es allein zukommt, aus der Erscheinung ein objectives Urteil zu fällen.“ (Osserv.III). 26 Cfr. Ibi, Parte seconda del problema trascendentale. Come è possibile la fisica pura?, p.107. “Natur ist das Dasein der Dinge, so fern es nach allgemeinen Gesetzen bestimmt ist.“ (§14). 27 Cfr. Ibidem. “Nun lehrt mich die Erfahrung zwar, was dasei, und wie es sei, niemals aber, daß notwendiger Weise so und nicht anders sein müsse. Also kann sie die Natur der Dinge an sich selbst niemals lehren.“ (§14) 28 Cfr. Ibi, p.111. “wie ist die notwendige Gesetzmäßigkeit der Dinge als Gegenstände der Erfahrung, oder: wie ist die notwendige Gesetzmäßigkeit der Erfahrung selbst in Ansehung aller ihrer Gegenstände überhaupt a priori zu erkennen möglich?“ (§17). 25 10 In generale, per giudizio, Kant intende un collegamento delle rappresentazioni in una coscienza; quindi l’atto del giudicare è equiparabile all’attività del pensiero in quanto, sul piano logico, si estrinseca nell’attribuzione di un predicato ad un soggetto. Laddove i giudizi percettivi, che derivano dalla perceptio, ovvero dall’intuizione sensibile, si limitano ad essere il frutto di un collegamento logico in una coscienza soggettiva individuale, i giudizi empirici assumono un valore universale, obbiettivo e necessario. Essi infatti, pur attingendo sempre alle intuizioni dei sensi, che sono delle affezioni (e quindi implicano passività), tuttavia le subordinano all’attività ordinatrice e unificatrice di “certi particolari concetti, i quali hanno la loro origine del tutto a priori nell’intelletto puro ai quali deve prima venire subordinata ogni percezione per essere trasformata in esperienza” 29 . È a questi concetti intellettivi puri intellettivi in quanto sono funzioni dell’intelletto, puri in quanto sono presenti in noi a priori (ovvero non derivano da altre regole)- che si deve attribuire il valore obbiettivo e necessario dei giudizi empirici, anzi sono questi concetti che determinano il giudizio sintetico, ovvero attribuiscono una certa forma di giudizio piuttosto che un’altra all’intuizione. Tali concetti puri vengono classificati da Kant nel sistema delle categorie, quei concetti basilari della mente che rappresentano le supreme funzioni unificatrici dell’intelletto e che, logicamente, corrispondono ai predicati primi. Se il termine è direttamente ripreso dalla metafisica aristotelica, tuttavia Kant intende le categorie in modo diverso rispetto ad Aristotele: mentre per lo Stagirita esse corrispondevano ad una classificazione ontologico- gnoseologica, per Kant si limitano ad essere principi gnoseologico- trascendentali (mentre per Aristotele erano leges mentis atque entis, per Kant sono soltanto leges mentis). Dunque, per ricapitolare, il giudizio empirico, che si pone come obbiettivo e necessario, deriva dalla subordinazione dell’attività dei sensi, che è appunto intuire, a quella dell’intelletto, che è pensare, e in questo caso pensare genericamente o assolutamente, ovvero non in riferimento ad un'unica coscienza individuale. A tutti gli effetti l’esperienza è resa possibile solo ed esclusivamente nel suo rapporto con l’intelletto in quanto essa è determinata dai concetti intellettivi puri. Resta sempre valido quanto affermato in precedenza, ovvero che l’esperienza non ci dice assolutamente nulla delle cose in sé, di come, ad esempio, le cose esistano in quanto sostanze o agiscano come cause, ma si riferisce esclusivamente ai fenomeni. Questa impossibilità di conoscere le cose in sé e per sé deriva dalla facoltà stessa del nostro intelletto che non è quella di intuire ma di collegare intuizioni in una coscienza. Siccome la nostra conoscenza del mondo è fondata sull’esperienza e cioè su giudizi empirici, ecco che a Kant non resta altro che affermare che “i principi dell’esperienza possibile sono ad un tempo leggi universali della natura conoscibili a priori” 30 dal momento che l’intelletto, nella formulazione del giudizio, attinge dall’esperienza esclusivamente l’intuizione e non i concetti, i quali si trovano a priori nell’intelletto. Quindi la realtà e la natura vengono lette e giudicate secondo quei parametri a priori che sono appunto le categorie, che da una parte rappresentano i principi del giudizio, dall’altra le leggi universali della natura. Scrive Kant: “l’intelletto è la sorgente dell’ordine universale della natura in quanto abbraccia tutti i fenomeni sotto le sue proprie leggi e per questo mezzo primieramente costituisce a priori (secondo la forma) l’esperienza, per effetto di che tutto quanto viene conosciuto per via di esperienza è necessariamente soggetto alle leggi dell’intelletto” 31 . 29 Cfr. Ibi, p.115. “noch besondere Begriffe Hinzukommen müssen, die ihren Ursprung gänzlich a priori im reinen Verstande haben, unter die jede Wahrnehmung allererst subsumiert, und dann vermittelst derselben in Erfahrung kann verwandelt werden.“ (§18). 30 Cfr. Ibi, p.129. “Die Grundsätze möglicher Erfahrung sind nun zugleich allgemeine Gesetze der Natur, welche a priori erkannt werden können.” (§23). 31 Cfr. Ibi, p.161. “ud so ist der Verstand Ursprung der allgerneinen Ordnung der Natur, indem er alle Erscheinungen unter seine eigene Gesetze faßt, und dadurch allererst Erfahrung (ihrer Form nach) a priori zu Stande bringt, vermöge deren alles, was nur durch Erfahrung erkannt werden soll, seinen Gesetzen notwendig unterworfen wird.“ (§38). 11 Nota bibliografica N. ABBAGNANO, Dizionario di filosofia. Terza edizione aggiornata e ampliata da G.Fornero, Utet, Torino. J. GREY, Ideas of Space, Oxford 1989. M. JAMMER, Concepts of Space, 1954. PLATONE, Timeo, 28a; tr. di G. Lozza, Oscar Mondadori, Milano 1994. ARISTOTELE, Fisica, libro IV, 208 a; a cura di M. Zanatta, Utet, Torino 1999. R.DESCARTES, Meditazioni metafisiche II, in Opere a cura di E. Garin, Laterza, Bari 1967. G. W. LEIBNIZ, Epistolario Leibniz-CIarke (1715-1716), in Saggi filosofici e lettere. T. HOBBES, De corpore, Bari Laterza.. J. LOCKE, Saggio sull’intelletto umano, cap. II, Bari Laterza, 1972. D. HUME, Trattato sulla natura umana, Bari Laterza, 1971. I. KANT, Prolegomeni ad ogni metafisica futura. Parte prima del problema trascendentale. Come è possibile la matematica pura?, a cura di P.Martinetti e M.Roncoroni, Rusconi Libri, Milano, 1995.