PARTE PRIMA DIRITTO DEL LAVORO SEZIONE I I DIRITTI DELLA

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PARTE PRIMA DIRITTO DEL LAVORO SEZIONE I I DIRITTI DELLA
PARTE PRIMA
DIRITTO DEL LAVORO
SEZIONE I
I DIRITTI DELLA PERSONA AD UN LAVORO STABILE, DIGNITOSO, SICURO
CAPITOLO I
IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
GUIDA 1. Profili generali dell’idealtipo “subordinato a tempo indeterminato”. L’art. 2094 c.c. 1.1.
L’oggetto e lo “spirito” del contratto di lavoro 1.2. I rapporti di lavoro subordinato “speciali” e
atipici 2. Il lavoro autonomo. Il contratto d’opera 3. Il lavoro autonomo parasubordinato 3.1. Il
contratto di agenzia 3.2. Le collaborazioni coordinate e continuative (co. co.co.) 3.3. Il contratto di
lavoro a progetto 3.3.1. La forma del contratto 3.3.2. Le tutele 3.3.3. Il numero chiuso delle
esclusioni 3.4. Il lavoro occasionale 4. Il lavoro in società 4.1. Il socio lavoratore di cooperativa
4.1.1. Il trattamento economico 4.1.2. Lo scioglimento del rapporto 4.1.3. La giurisdizione 5. Il
lavoro dell’associato in partecipazione 5.1. La disciplina antifrodatoria 6. Lavoro familiare, lavoro
gratuito, volontariato 7. La certificazione dei contratti di lavoro 7.1. Gli effetti nei confronti dei
terzi 7.2. Gli aspetti patologici e il giudice competente
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1. Profili generali dell’idealtipo “subordinato a tempo indeterminato”.
L’art. 2094 c.c.
Il legislatore del codice civile conosceva come lavoro nell’impresa solamente
quello svolto dall’imprenditore e dai lavoratori a lui subordinati. Nell’architettura del codice civile, infatti, i lavoratori autonomi sono considerati altro rispetto
al lavoro nell’impresa, tanto che il Titolo II del Libro V si divide nella Sezione I
che tratta dell’imprenditore (art. 2082 e ss.) e nella Sezione II che tratta dei
collaboratori dell’imprenditore.
Il lavoro autonomo è quindi fattispecie di natura diversa, tanto che occupa il
successivo Titolo III, detto appunto del lavoro autonomo.
In altre parole, per il codice civile l’imprenditore riceve forza lavoro principalmente dai propri dipendenti i quali, come viene detto nell’art. 2094, collaborano
nell’impresa, prestando il proprio lavoro intellettuale o manuale alle dipendenze e sotto la direzione dell’imprenditore.
Un terzo genere di rapporti, quelli che prendono il nome di coordinati e
continuativi, non erano concepibili per il legislatore del codice civile, il quale ha
dettato una disciplina specifica soltanto per il contratto di agenzia (artt. 1472 ss.).
L’impostazione data dal legislatore del 1942 era corretta in quanto il rapporto
di lavoro, conosciuto nella realtà produttiva del periodo corporativo, ma anche
per tutti gli anni ’50, ’60 e ’70, era riconducibile quasi esclusivamente negli
schemi della subordinazione.
L’ordinamento giuridico non avrebbe fatto altro che recepire proprio la nozione di subordinazione offerta dalla realtà sociale ed economica: il vincolo della
dipendenza nel perseguimento dei fini del datore di lavoro.
Ecco quindi l’idealtipo o la tipologia contrattuale a cui di regola occorre far
riferimento: il modello di produzione fordista da un lato, e la omogenea comunità di lavoro dall’altro, guardano al rapporto di lavoro come ad una relazione, a
tempo indeterminato, in cui chi gestisce i fattori della produzione è dominus e chi
collabora è subordinato, nel senso che deve mettere a disposizione le sue energie psico-fisiche sotto la direzione altrui.
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PARTE PRIMA – DIRITTO DEL LAVORO
La collaborazione ed il vincolo di dipendenza gerarchica sono dunque le due
caratteristiche peculiari del rapporto di lavoro subordinato previste dall’art.
2094 c.c. La prima consiste nell’inserimento del prestatore di lavoro nell’impresa
in modo continuativo e sistematico, mentre la seconda peculiarità determina
l’esercizio di una costante vigilanza del datore di lavoro sullo svolgimento della
prestazione di lavoro. Su questo tipo di relazione è stata pensata e disegnata (nel
codice civile e nelle leggi speciali) la disciplina per la tutela del lavoratore dalla
quale, dagli anni ’90, alcuni datori di lavoro hanno cercato di “evadere” ricorrendo a contratti di lavoro autonomo o parasubordinato, anche se nella realtà il
rapporto non si discostava dalle modalità del rapporto subordinato.
Tocca quindi, alla giurisprudenza dover decidere ogniqualvolta sorgono contestazioni sulla genuinità del rapporto di lavoro autonomo e stabilire se il tipo
contrattuale prescelto sia corretto o sia un modo per non riconoscere al lavoratore i diritti incardinati in favore dei dipendenti.
Come si vedrà, ogni qual volta si discuta di autonomia o subordinazione la
giurisprudenza fa riferimento ad una serie di indici presuntivi della natura
subordinata del rapporto di lavoro, come la predeterminazione del compenso e
dell’orario di lavoro, lo svolgimento della prestazione nei locali dell’impresa, la
mancanza di rischio d’impresa del prestatore di lavoro, l’esercizio da parte del
datore di lavoro del potere disciplinare e di un persuasivo potere direttivo e di
controllo e ogni qualvolta rileva la sussistenza di questi riqualificherà il rapporto
di lavoro come subordinato (v. infra).
1.1. L’oggetto e lo “spirito” del contratto di lavoro.
L’essenza del diritto del lavoro si basa sulla circostanza che nel rapporto di
lavoro subordinato l’oggetto del contratto ha a che fare con la persona umana,
nel senso che attraverso la sottomissione del lavoratore alle direttive del datore
di lavoro, quest’ultimo riceve una utile, in senso aziendale, prestazione.
Secondo una famosa affermazione, occorre considerare che « se tutti gli altri
contratti riguardano l’avere delle parti, il contratto di lavoro riguarda ancora
l’avere per l’imprenditore, ma per il lavoratore riguarda e garantisce l’essere, il
bene che è condizione dell’avere e di ogni altro bene ».
La persona umana non può essere trattata al pari delle cose, come una qualsiasi merce, e quindi ha bisogno di una rete di protezione a tutela della sua vita,
salute, dignità, formazione, sicurezza economica e previdenziale.
Da questa considerazione, che trova riscontro negli stessi principi fondamentali della Carta costituzionale, discende la necessità di apprestare e riconoscere
una serie di diritti in capo al lavoratore e di limitare i poteri storicamente esercitati dal datore di lavoro.
La disciplina protezionistica è pertanto ritagliata attorno alla figura del lavoratore subordinato, parte debole del rapporto, mentre da questa disciplina sono
esclusi i soggetti che, con riferimento al fenomeno lavoro, vengono tra loro in
relazione su un piede di sostanziale parità.
CAPITOLO I – IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
In questo secondo caso — l’esempio di scuola è quello dell’esercizio di una
attività autonoma intellettuale, come quella di avvocato o ingegnere o medico —
non si rientra in un’area di sottoprotezione sociale, per cui la disciplina è tendenzialmente quella di diritto comune. Tuttalpiù la forza corporativa della categoria di professionisti appresta autonome e diverse forme di protezione dei
propri interessi attraverso, ad esempio, la costituzione di Ordini o Collegi, nonché di Casse o Società di previdenza a tutela dei rischi che si vogliono socializzare.
1.2. I rapporti di lavoro subordinato “speciali” e atipici.
La considerazione che il lavoro nell’impresa non potesse che rientrare nello
schema della subordinazione non ha impedito al legislatore di regolare il rapporto di lavoro per alcuni peculiari settori o rapporti in maniera diversa, introducendo, in tutto o in parte, una disciplina speciale.
Si pensi al lavoro a domicilio, al lavoro domestico, al lavoro sportivo, al lavoro
nautico. In tutti questi rapporti, pur ravvisandosi sicuramente la natura subordinata, il legislatore ha voluto riconoscere una certa diversità di regolamentazione in quanto sono evidenti alcune deviazioni rispetto alla fattispecie indicata
dall’art. 2094 c.c.
Il profilo che giustifica una disciplina “speciale” per il lavoro a domicilio è
quello del luogo di esecuzione della prestazione, considerato che il lavoro non
viene svolto in azienda, ma presso il domicilio dello stesso prestatore.
La legge n. 877 del 1973 stabilisce, nell’art. 1, che è lavoratore a domicilio
« chiunque, con vincolo di subordinazione, esegue nel proprio domicilio o in un
locale di cui abbia la disponibilità, anche con l’aiuto accessorio di membri della
sua famiglia conviventi o a carico, ma con esclusione di manodopera salariata e
di apprendisti, lavoro retribuito, per conto di uno o più imprenditori, utilizzando
materie prime o accessorie e attrezzature proprie o dello stesso imprenditore,
anche se fornite per il tramite di terzi ».
Lo svolgimento dell’attività presso il domicilio del lavoratore, e non nei locali
dell’azienda, non significa che vi sia assenza del potere direttivo, ma che esso è
logicamente attenuato, con ciò permettendo una maggiore autonomia del prestatore a domicilio rispetto agli altri lavoratori subordinati.
La legge n. 877 del 1973 prevede che la retribuzione, proprio per le caratteristiche della prestazione, vada quantificata solamente “a cottimo” (infra, Cap.
VIII, § 1.2.) e predispone una serie di divieti per scongiurare l’utilizzo del lavoro
a domicilio in maniera fraudolenta e pericolosa.
È così vietato il lavoro a domicilio per attività che comportino l’impiego di
sostanze o di materiali nocivi o pericolosi per la salute o per l’incolumità del
lavoratore e dei suoi familiari.
L’utilizzo del tipo contrattuale “lavoro a domicilio” per le fattispecie vietate
comporta, la nullità del contratto di lavoro a domicilio e, in applicazione dei
principi di cui all’art. 2126 c.c. (infra, Cap. II, § 8), l’eliminazione dei tratti di
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PARTE PRIMA – DIRITTO DEL LAVORO
“specialità” con la costituzione di un rapporto di lavoro subordinato “interno” con
il committente.
Da qualche anno si segnala l’impiego da parte delle imprese di tecnologie
informatiche e telematiche che permettono al lavoratore di svolgere la prestazione nella propria residenza e non nei locali aziendali. È il caso del telelavoro
per il quale si discute se debba essere ricondotto nel lavoro subordinato a domicilio o nel lavoro subordinato tout court.
Nella versione di telelavoro più tipica, quella interattiva, che comporta un
collegamento bidirezionale tra il computer centrale e i terminali esterni all’impresa con la possibilità da parte del datore di impartire direttive e di controllare
il lavoro in tempo reale, si sostiene che questa tipologia possa essere qualificata
come subordinata.
Di lavoro a domicilio si può invece parlare con riferimento ad altre ipotesi di
connessione più elementare fra l’azienda ed i lavoratori “esterni”, che consentono soltanto di impartire direttive preventive e di effettuare controlli successivi
sulle lavorazioni effettuate in virtù di un collegamento elettronico operante a
senso unico.
Tale distinzione, tra lavoro subordinato tout court e lavoro a domicilio, è dunque tutta interna ad una qualificazione del rapporto come subordinato, mentre
questione diversa si ha quando si deve verificare sulla legittimità dell’inquadramento di un lavoratore che svolge l’attività dalla propria abitazione con contratto
di lavoro autonomo o di collaborazione.
Giurisprudenza
Con sentenza n. 21954/2007, la Cassazione ha affermato che nel lavoro a domicilio il lavoratore è parte integrante del ciclo produttivo pur se opera al di fuori
dell’azienda con mezzi ed attrezzature proprie e l’oggetto della prestazione non è
l’opera in sé ma l’energia lavorativa, mentre nel lavoro autonomo il prestatore deve
possedere una organizzazione distinta, assumere il rischio di impresa e possedere
mezzi produttivi e struttura imprenditoriale.
Anche il lavoro nautico, marittimo ed aereo è stato disciplinato in modo
speciale e l’art. 1 del codice della navigazione (coevo al codice civile) prevede che
ogni rapporto, compresi quelli di lavoro che ricadono nell’area nautica, resta
assoggettato alle norme del codice stesso.
Lo Statuto dei lavoratori non si applica integralmente al personale navigante:
vigono gli artt. 1, 8, 9, 14, 15, 16, 17, mentre le altre disposizioni si applicano
solamente se richiamate dai contratti collettivi di categoria.
Soltanto nel 1981, con la legge n. 91, è stato disciplinato espressamente un altro
rapporto di lavoro speciale, il lavoro sportivo, che intercorre tra atleti professionisti e società sportive. La disciplina, modificata dalla legge n. 586 del 1996,
all’art. 2 dà la definizione di “sportivo professionista”, prevedendo che la prestazione dell’atleta sia a titolo oneroso e di regola oggetto di contratto di lavoro
CAPITOLO I – IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
subordinato, a meno che non ci siano alcuni specifici elementi che invece rendono la prestazione di lavoro autonomo.
Tali requisiti sono: svolgere l’attività nell’ambito di una singola manifestazione sportiva; non essere vincolati contrattualmente a sedute di allenamento e per
prestazioni inferiori alle 8 ore settimanali.
Pertanto, in assenza di questi tre requisiti, l’attività dell’atleta è da annoverarsi
tra le attività di lavoro subordinato.
Il lavoro domestico, e cioè quello reso in favore di una comunità familiare, è
tra i più antichi rapporti di lavoro non inerenti all’esercizio dell’impresa. La
regolamentazione è contenuta negli artt. 2240-2246 c.c. e nella legge n. 339 del
1958, applicabile quest’ultima ai soli prestatori con un impegno orario di almeno
4 ore di lavoro al giorno presso lo stesso datore.
I domestici ancora oggi rientrano nel novero dei lavoratori che possono essere
licenziati ad nutum, anche se sono nulli i licenziamenti determinati da ragioni
discriminatorie (v. infra).
Con il d.lgs. n. 276 del 2003 ha visto la luce un altro rapporto di lavoro subordinato che ha una disciplina speciale. Si tratta del lavoro intermittente e a
chiamata.
La caratteristica principale è l’alternarsi di fasi in cui non vi è effettiva prestazione lavorativa ma semplice attesa del lavoratore alla chiamata e fasi in cui vi è
effettiva prestazione di lavoro.
La legge n. 247 del 2007 aveva abrogato tale tipo contrattuale, fatta eccezione
per i settori del turismo e dello spettacolo, ma la legge n. 133 del 2008 lo ha
reintrodotto ed oggi la disciplina è contenuta negli artt. da 33 a 40 del d.lgs. n. 276
del 2003. In base alla l. n. 183/2014 (c.d. Jobs Act) il Governo ha predisposto un
decreto legislativo che modifica la disciplina di cui si darà atto — una volta
approvato — con gli aggiornamenti on-line.
Esso può essere stipulato, in forma scritta ad probationem, per lo svolgimento di
prestazioni di carattere discontinuo o intermittente, secondo le esigenze individuate dai contratti collettivi stipulati da associazioni dei datori e prestatori di lavoro comparativamente più rappresentative sul piano nazionale o territoriale ovvero per periodi predeterminati nell’arco della settimana, del mese o dell’anno.
Il contratto di lavoro intermittente può in ogni caso essere concluso con soggetti con più di cinquantacinque anni di età e con soggetti con meno di ventiquattro anni di età, fermo restando in tale caso che le prestazioni contrattuali
devono essere svolte entro il venticinquesimo anno di età.
Fermi restando i presupposti di instaurazione del rapporto e con l’eccezione
dei settori del turismo, dei pubblici esercizi e dello spettacolo, il contratto di
lavoro intermittente è ammesso, per ciascun lavoratore con il medesimo datore
di lavoro, per un periodo complessivamente non superiore alle quattrocento
giornate di effettivo lavoro nell’arco di tre anni solari. In caso di superamento del
predetto periodo il relativo rapporto si trasforma in un rapporto di lavoro a
tempo pieno e indeterminato.
È vietato il ricorso al lavoro intermittente: per la sostituzione di lavoratori che
esercitano il diritto di sciopero; salva diversa disposizione degli accordi sinda-
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PARTE PRIMA – DIRITTO DEL LAVORO
cali, presso unità produttive nelle quali si sia proceduto, entro i sei mesi precedenti, a licenziamenti collettivi ai sensi degli articoli 4 e 24 della legge 23 luglio
1991, n. 223 , che abbiano riguardato lavoratori adibiti alle stesse mansioni cui si
riferisce il contratto di lavoro intermittente ovvero presso unità produttive nelle
quali sia operante una sospensione dei rapporti o una riduzione dell’orario, con
diritto al trattamento di integrazione salariale, che interessino lavoratori adibiti
alle mansioni cui si riferisce il contratto di lavoro intermittente; da parte delle
imprese che non abbiano effettuato la valutazione dei rischi ai sensi dell’ articolo
4 del decreto legislativo 19 settembre 1994, n. 626, e successive modificazioni.
Il contratto deve contenere: a) l’indicazione della durata e delle ipotesi, oggettive o soggettive, previste dall’articolo 34 che consentono la stipulazione del
contratto; b) il luogo e la modalità della disponibilità, eventualmente garantita
dal lavoratore, e del relativo preavviso di chiamata del lavoratore che in ogni
caso non può essere inferiore a un giorno lavorativo; c) il trattamento economico
e normativo spettante al lavoratore per la prestazione eseguita e la relativa
indennità di disponibilità, ove questa sia prevista; d) l’indicazione delle forme e
modalità, con cui il datore di lavoro è legittimato a richiedere l’esecuzione della
prestazione di lavoro, nonché delle modalità di rilevazione della prestazione; e)
i tempi e le modalità di pagamento della retribuzione e della indennità di disponibilità; f) le eventuali misure di sicurezza specifiche necessarie in relazione al
tipo di attività prevista dal contratto (art. 35).
Con il contratto di lavoro intermittente, le parti possono pattuire l’obbligo c.d.
“di disponibilità”, consistente nel vincolo in capo al lavoratore di restare a disposizione del datore di lavoro per effettuare prestazioni lavorative alla sua “chiamata”. A fronte dell’assunzione di tale obbligo, egli ha diritto ad una indennità
“di disponibilità”, il cui importo mensile deve essere indicato nel contratto, ma
non è titolare di alcun diritto riconosciuto ai lavoratori subordinati né matura
alcun trattamento economico e normativo, tranne l’indennità di disponibilità
(art. 38). In caso di malattia o di altro evento che renda temporaneamente
impossibile rispondere alla chiamata, il lavoratore è tenuto a informare tempestivamente il datore di lavoro, specificando la durata dell’impedimento. Nel
periodo di temporanea indisponibilità non matura il diritto alla indennità di
disponibilità; inoltre, se il lavoratore non adempie a tale obbligo di informazione,
perde il diritto alla indennità di disponibilità per un periodo di quindici giorni,
salva diversa previsione del contratto individuale.
Invece, il rifiuto ingiustificato di rispondere alla chiamata può comportare la
risoluzione del contratto, la restituzione della quota di indennità di disponibilità
riferita al periodo successivo all’ingiustificato rifiuto, nonché il diritto al risarcimento del danno nella misura fissata dai contratti collettivi o, in mancanza, dal
contratto di lavoro.
Tali disposizioni non si applicano, invece, nell’ipotesi in cui non sia pattuito
alcun obbligo di rispondere alla chiamata del datore di lavoro: in questo caso, il
lavoratore ha diritto alla sola retribuzione maturata per il lavoro prestato.
CAPITOLO I – IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
Sempre il d.lgs n. 276 del 2003 ha regolamentato un nuovo tipo di contratto di
lavoro subordinato detto contratto di lavoro ripartito. La specialità è data dalla
circostanza che un’unica ed identica obbligazione lavorativa è assunta in solido
da due lavoratori tanto che questa tipologia di lavoro potrebbe anche essere
denominata Lavoro a coppia (Job Sharing).
Fatta salva una diversa intesa tra le parti contraenti, ciascun lavoratore, pur
impegnanddosi per un limitato monte ore, resta personalmente responsabile
dell’adempimento dell’intera prestazione lavorativa per cui ikl rischio dell’impossibilità della prestazione per fatti attinenti ad uno dei coobbligati è posto in
capo all’altro obbligato. Ai coobbbligati è preclusa la possibilità di farsi sostiturie,
in caso di impossibilità di uno o di entrambi, da un terzo estraneo al contratto, a
meno che il datore non vi abbia dato il consenso.
È richiesta la stipula in forma scritta al fine della prova di una serie di elementi
come la misura percentuale di ripartizione dell’orario di lavoro, la collocazione
temporale nella giornata, nella settimana, ecc.
Nell’ipotesi di dimissioni o licenziamento di uno dei lavoratori coobbligati
segue l’estinzione dell’intero rapporto, savo diversa intesa delle parti e salvo
l’accordo tra datore e lavoratore “superstite” di trasformare il rapporto nel contratto di lavoro subordinato standard.
2. Il lavoro autonomo. Il contratto d’opera.
Gli artt. 2222 e ss. del codice civile dettano la disciplina applicabile « quando
una persona si obbliga a compiere verso un corrispettivo un’opera o un servizio
con lavoro prevalentemente proprio e senza vincolo di subordinazione nei
confronti del committente ».
Il legislatore del codice civile prende in considerazione, senza lasciare grandi
margini di incertezza interpretativa, l’esatta esecuzione dell’opera, i mezzi di
reazione all’inadempimento, la ripartizione del rischio in caso di impossibilità
sopravvenuta dell’esecuzione dell’opera per fatto non imputabile ad alcuna
delle parti, il compenso (artt. 2223-2228 c.c.). Queste regole, peraltro, si applicano solo nell’ipotesi in cui la specie non sia inquadrabile in uno schema tipico del
Libro IV (Delle obbligazioni), come quello privisto per il contratto di appalto, per
quello di trasporto, per quello di agenzia, tanto che si dovrebbe parlare di residualità della disciplina sul contratto d’opera.
Ciò che invece è lasciato abbastanza indefinito, e su cui si appuntano le questioni maggiori, è la definizione dei confini del lavoro autonomo in relazione al
lavoro subordinato, in quanto la formulazione dell’art. 2222 è a negativis (il
rapporto di lavoro è qualificabile come autonomo se svolto senza vincolo di
subordinazione) e l’art. 2094 a sua volta non dà strumenti univoci di interpretazione e di disegno della fattispecie subordinazione (v. anche infra § 3).
La considerazione o, meglio, la constatazione che nella realtà delle relazioni di
lavoro non ci siano tipi di lavoro che possano essere solo e necessariamente
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PARTE PRIMA – DIRITTO DEL LAVORO
autonomi oppure subordinati ha comportato la necessità di fondare non su un
criterio tipologico, ma su altri criteri, il discrimine fra le due fattispecie.
Il lavoro dell’avvocato, come quello del medico, ma anche dell’idraulico e via
discorrendo, può essere svolto in maniera indipendente offrendolo nel libero
mercato oppure può essere svolto, con il medesimo contenuto professionale, alle
dipendenze di una Banca o Amministrazione (cosiddetta Avvocatura degli Enti)
così come, per riprendere gli esempi in discorso, alle dipendenze di una Clinica
o Ospedale, o di una Società operante nel campo edile o delle riparazioni a
domicilio.
Sul punto è pertanto sufficiente segnalare il costante insegnamento della Suprema Corte, per cui « qualsiasi attività umana, economicamente rilevante, anche se di semplice manovalanza, può essere oggetto sia di un rapporto di lavoro
subordinato che di un rapporto di lavoro autonomo, a seconda delle concrete
modalità di svolgimento del rapporto » (Cass. 8187/1999).
Di fronte all’utilizzo frodatorio dei contratti di lavoro autonomo, la giurisprudenza ha elaborato una serie di indici presuntivi della natura subordinata del
rapporto di lavoro come:
la predeterminazione del compenso e dell’orario di lavoro;
lo svolgimento della prestazione nei locali dell’impresa;
la mancanza di rischio d’impresa da parte del prestatore di lavoro;
l’esercizio da parte del datore di lavoro del potere disciplinare e di un pervasivo potere direttivo e di controllo.
Qualora il Giudice riscontri la sussistenza di tali indici, rivelatori della natura
subordinata del rapporto, aldilà del nomen iuris dato dalle parti al contratto, lo
riqualificherà come subordinato con ogni discendente conseguenza.
Giurisprudenza
Il “nomen juris” non ha un rilievo assorbente giacché deve tenersi conto, sul piano
della interpretazione, della volontà delle stesse parti, del comportamento complessivo delle medesime, anche posteriore alla conclusione del contratto, ai sensi dell’articolo 1362, comma 2, del codice civile e, in caso di contrasto fra dati formali e
dati fattuali relativi alle caratteristiche e modalità della prestazione, è necessario
dare prevalente rilievo ai secondi (Cass. 20 marzo 2007, n. 6622).
Secondo una condivisivibile prospettazione andrebbe valorizzato, in sede di
qualificazione del rapporto di lavoro, la dipendenza socio-economica, ossia
quella “doppia alienità”, dei mezzi di produzione e del risultato utile della prestazione, entrambi appartenenti al datore di lavoro, che — secondo il noto insegnamento della Corte costituzionale (sent. n. 30/1996) — contraddistingue la
condizione del lavoratore subordinato (Cass. 21646/2006 e 820/2007). Si tratta di
una posizione innovativa rispetto alla giurisprudenza prevalente, la quale fa
ancora coincidere la subordinazione in senso giuridico con la eterodirezione in
CAPITOLO I – IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
senso forte, ossia con la sottoposizione del lavoratore a “capillari direttive ed
assidui controlli” del datore di lavoro e dei suoi funzionari. In particolare la S.C.
(sent. n. 21646/2006) ha affermato l’importante principio in base al quale, ai fini
della qualificazione del rapporto, occorre valutare approfonditamente, nel caso
concreto, le seguenti circostanze:
1. l’inserimento, o meno, del lavoratore all’interno della struttura organizzativa dell’impresa. Occorre cioè verificare se la sua posizione sia, o meno, essenziale per lo svolgimento dell’attività aziendale;
2. che il lavoratore sia in possesso, o meno, di una propria autonoma struttura
organizzativa, oppure invece effettui la propria prestazione all’interno dell’azienda (e non in locali propri);
3. che la prestazione di lavoro assicuri, o meno, un risultato importante per
l’azienda.
Al contrario, per la S.C., non possono considerarsi significativi:
1. il fatto che il lavoratore svolga autonomamente la propria prestazione. E
invero ciò si spiega agevolmente col contenuto tecnico professionale della prestazione stessa per molte figure professionali (ingegnere, avvocato, ecc.);
2. la flessibilità d’orario di lavoro, perché un rapporto può essere part-time, e lo
svolgimento effettivo della prestazione va correlato al suo contenuto tecnico
professionale;
3. la non continuità della presenza fisica in azienda, che è strettamente connessa con la flessibilità dell’orario, e costituisce sostanzialmente un aspetto di
essa;
4. il nomen juris e dunque la denominazione (in ipotesi di comodo) del contratto di lavoro.
Con riferimento alle prestazioni di natura intellettuale e professionale se
particolare rilievo rivestono gli indici relativi alla « assenza di rischio, continuità
della prestazione, osservanza di un orario di lavoro e forma della retribuzione »,
lo svolgimento del rapporto di lavoro in modo non continuativo e con articolazioni orarie differenti non può escludere la sussistenza della subordinazione.
Giurisprudenza
Anche nel caso di prestazioni svolte in call center, una volta accertato, nel concreto atteggiarsi del rapporto, il vincolo di soggezione del lavoratore con inserimento nell’organizzazione aziendale, correttamente il giudice di merito ha ritenuto che
non poteva assumere rilevanza contraria la non continuità della prestazione e
neppure la mancata osservanza di un preciso orario (Cass. 4476/2012).
Sulla rilevanza dell’esercizio del potere direttivo si è molto discusso, ma l’assenza di un costante potere direttivo del datore di lavoro non esclude la sussistenza della subordinazione.
Giurisprudenza
Nei casi in cui l’esercizio del potere direttivo da parte del datore di lavoro/
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PARTE PRIMA – DIRITTO DEL LAVORO
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committente risulti attenuato, il carattere della subordinazione si può desumere da
altri indici sussidiari, quali la mancanza in capo al prestatore di una seppur minima organizzazione imprenditoriale e, con essa, del rischio d’impresa, l’osservanza
di un orario di lavoro, la forma della retribuzione, la continuità delle prestazioni,
l’inserimento stabile nel complesso aziendale e nell’organizzazione del datore
(Cass. n. 1536/2009).
Va in ogni caso precisato che anche un lavoro saltuario può avere carattere
subordinato per cui va riconosciuta l’inidoneità del carattere saltuario delle
prestazioni a consentire di per sé la loro qualificazione nel senso dell’autonomia
(Cass., sez. lav., 21031/2008), così come la qualifica di amministratore di una
società commerciale non è di per sé incompatibile con la condizione di lavoratore subordinato alle dipendenze della stessa società, ma perché sia configurabile tale rapporto di lavoro subordinato è necessario che colui che intende farlo
valere non sia amministratore unico della società e provi in modo certo il requisito della subordinazione, elemento tipico qualificante che deve consistere nel
suo effettivo assoggettamento, nonostante egli rivesta la carica di amministratore, al potere direttivo di controllo e disciplinare dell’organo di amministratore
della società nel suo complesso (Trib. Genova sentenza n. 1203/2009).
3. Il lavoro autonomo parasubordinato.
Una forma di lavoro autonomo prossima al lavoro subordinato — in ragione
del suo collegamento funzionale con la organizzazione del committente — è il
cosiddetto “lavoro parasubordinato” e l’art. 409 c.p.c., come novellato nel 1973,
prevede l’applicabilità del rito del lavoro anche ai rapporti che si concretano « in
una prestazione d’opera continuativa e coordinata, prevalentemente personale,
anche se non a carattere subordinato ».
3.1.
Il contratto di agenzia.
Il prototipo del lavoratore autonomo parasubordinato è riconoscibile nel contratto stipulato dagli agenti rappresentanti, che possono certamente essere definiti lavoratori autonomi, ma che godono di un’autonomia per così dire “attenuata”.
Il contratto di agenzia è il contratto con cui una parte (l’agente) assume
stabilmente l’incarico di promuovere per conto dell’altra (preponente) la conclusione di contratti in una determinata zona (artt. 1742 ss. c.c.).
L’obbligazione lavorativa dedotta in contratto comporta un’analisi accurata
della zona assegnata, l’individuazione dei possibili clienti interessati alla stipulazione di contratti con il preponente, la conduzione delle trattative e la trasmissione delle proposte e controproposte al preponente. Non rientra, invece, nell’oggetto del contratto l’obbligo di stipulare direttamente i contratti con il cliente
(tale elemento differenzia l’agente dal rappresentante di commercio, che è inve-
CAPITOLO I – IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
ce incaricato da una o più ditte di concludere contratti in nome delle medesime
in una determinata zona).
Condizione essenziale per l’instaurazione del rapporto di agenzia è il carattere
sistematico e continuativo della attività promozionale esercitata dall’agente nell’interesse del preponente, tanto che il contratto di agenzia è sempre ed in ogni
caso un contratto di durata.
Il compenso, cosiddetta provvigione, consiste normalmente in una percentuale sul valore di ogni affare concluso.
Il contratto di agenzia si differenzia da quello di lavoro subordinato essenzialmente in ragione della circostanza che il lavoro dell’agente si concretizza in una
attività economica organizzata, rivolta a un risultato di lavoro che l’agente
svolge autonomamente nell’interesse e per conto (ed eventualmente anche in
nome) del preponente, al quale compete il limitato potere di impartire all’agente
istruzioni generali e di massima relativamente alla zona in cui operare.
3.2.
Le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.).
Le collaborazioni coordinate e continuative (co.co.co.) hanno assunto
un’importanza quantitativa notevole a partire dagli anni ’90. La diffusione di
questa figura contrattuale è dovuta soprattutto alla circostanza di permettere
rapporti estremamente flessibili ed economici, nonché all’assenza di gran parte
delle tutele tipiche del rapporto di lavoro subordinato.
Considerato che tale strumento negoziale “avvicina” la prestazione del collaboratore a quella tipica del lavoratore dipendente in ragione della sua sostanziale integrazione nell’attività del committente, il legislatore è intervenuto cercando di prevedere alcune tutele, soprattutto previdenziali, in favore del collaboratore. Ad esso sono state estese non solo le regole di cui alla legge n. 533 del
1973 sul processo del lavoro (come sopra accennato), ma anche la disciplina in
tema di rinunce e transazioni (art. 2113 c.c.).
È stata poi creata un’apposita gestione separata presso l’INPS, alimentata dai
contributi posti a carico per due terzi dal committente e per un terzo dallo stesso
collaboratore ed è stata estesa a tali figure la tutela INAIL per i casi di infortunio
e malattia professionale; riconosciute alcune tutele in caso di maternità e di malattia con ricovero ospedaliero, nonché gli assegni per il nucleo familiare.
La propensione ad utilizzare le collaborazioni in funzione elusiva della disciplina sul lavoro subordinato ha indotto il legislatore — con il d.lgs. n. 276 del 2003
(artt. 61-69) — ad introdurre forti limitazioni al loro impiego. Da un lato ha reso
possibile il ricorso alle co.co.co. solo da parte delle Pubbliche Amministrazioni;
dall’altro ha “trasformato” nel settore privato le collaborazioni continuative in
“lavoro e progetto” e ha stabilito precisi criteri per le collaborazioni occasionali
(v. § 3.4., che segue).
In base alla legge delega n. 183/2014 (c.d. Jobs Act) il Governo ha predisposto
un decreto legislativo che modifica la disciplina di cui si darà atto — una volta
approvato — con gli aggiornamenti on-line.
35
PARTE PRIMA – DIRITTO DEL LAVORO
36
3.3.
Il contratto di lavoro a progetto.
Il lavoro a progetto, introdotto dall’art. 61 del d.lgs. n. 276 del 2003, è stato
riformato dall’art. 1, commi da 23 a 25, della legge n. 92 del 2012 e da ultimo dal
d.l. n. 76 del 2013, conv. in legge n. 99 del 2013. È previsto il suo “superamento”
ed opera del decreto attuativo del Jobs Act (v. aggiornamento on-line).
L’odierna formulazione prevede che, ferma restando la disciplina per gli
agenti e per i rappresentanti di commercio (supra, § 3), i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa di cui all’art. 409, n. 3, c.p.c. devono essere
“riconducibili’” a « uno o più progetti specifici » determinati dal committente e
gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione del risultato finale che
« non può consistere in una mera riproposizione dell’oggetto sociale del committente », nel rispetto del coordinamento, con l’organizzazione del committente
ed indipendentemente dal tempo impiegato per l’esecuzione della attività lavorativa. Lo svolgimento del progetto non può comportare lo svolgimento di compiti « meramente esecutivi e ripetitivi ».
Sicché non dovrebbero più esistere, nel settore privato, collaborazioni coordinate per esigenze produttive permanenti.
Nel corpo dell’art. 61 del d.lgs. n. 276/2003, la legge di conversione del d.l. n.
76/2013 chiarisce che se il contratto ha per oggetto un’attività di ricerca scientifica
e questa viene ampliata per temi connessi o prorogata nel tempo, il progetto prosegue automaticamente. L’intento è quello di chiarire l’intrinseco legame tra la
durata del rapporto di collaborazione e la realizzazione del progetto. Nell’ambito
delle attività di ricerca scientifica la durata “determinata o determinabile, della
prestazione di lavoro”, da indicare nel contratto ai sensi dell’art. 62, comma 1 lett.
a), del d.lgs. n. 276/2003, è dunque intimamente connessa all’oggetto della ricerca. Se tale ricerca “viene ampliata o prorogata nel tempo” il legislatore ha previsto
un automatico “ampliamento” dello stesso progetto, legittimando la prosecuzione dell’attività del collaboratore senza particolari formalità.
Ciò non toglie che, per ragioni di opportunità, di tale circostanza si possa dare
atto nella sottoscrizione dell’iniziale contratto di collaborazione o in successive
comunicazioni effettuate dal committente ai propri collaboratori a progetto.
Ai fini antielusivi, cui è ispirata la riforma, è previsto che la “descrizione” non
sufficientemente specifica del progetto, con individuazione del suo contenuto
caratterizzante e del “risultato finale” che intende perseguire è equiparata, al
fine dell’applicazione della sanzione disposta dall’art. 69 del d.lgs. n. 276 del
2003, all’assenza del progetto stesso.
Il contratto di lavoro senza progetto si presume di lavoro subordinato; infatti,
in difetto di individuazione di uno specifico progetto, il legislatore pretende che
i rapporti di collaborazione coordinata e continuativa vengano ex lege considerati « rapporti di lavoro subordinato a tempo indeterminato » sin dall’origine
(art. 69, comma 1).
Quindi il contratto di lavoro “a progetto” o “a risultato” si distingue dal contratto
di lavoro subordinato (art. 2094 c.c.), perché l’obbligazione è appunto di risultato e non di mezzi; il collaboratore a progetto diversamente dal lavoratore
CAPITOLO I – IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
subordinato non è obbligato a stare a disposizione del committente, ma si impegna a eseguire l’opus o il servizio, a richiesta del committente, secondo modalità
di tempo e di luogo pattuite nel contratto.
La fattispecie contrattuale in esame si distingue anche dal contratto d’opera
(autonomo) di cui all’art. 2222 c.c. per la presenza di un progetto e per la necessità di coordinarsi con la struttura del committente; in altre parole la disciplina
del lavoro a progetto, diversamente da quella del contratto d’opera, attribuisce
rilevanza al collegamento funzionale di questo contratto con la organizzazione
del committente.
Il contratto di lavoro a progetto può definirsi, dunque, come il contratto con il
quale una parte (collaboratore) si impegna mediante un corrispettivo ad eseguire, con lavoro prevalentemente personale, un solo opus o servizio o più opere o
più servizi, riconducibili a un progetto di lavoro determinati da una parte (committente) e gestiti autonomamente dal collaboratore in funzione di un risultato
(definitivo o parziale) atteso dal committente, che comporta il coordinamento e
la collaborazione continuativa del collaboratore con il committente, secondo
modalità prestabilite dalle parti.
3.3.1. La forma del contratto.
La forma del contratto (di collaborazione) a progetto deve essere scritta e
devono essere indicati alcuni elementi. Trattasi:
del progetto;
delle forme di coordinamento (anche temporali) tra il lavoratore a progetto
ed il committente nella esecuzione della prestazione;
della durata, determinata o determinabile, della prestazione: ciò significa
che la prestazione deve avere carattere temporaneo e non può essere a durata
indeterminata;
del corrispettivo e dei criteri per la determinazione del compenso;
delle eventuali misure per la tutela della salute e sicurezza del collaboratore.
3.3.2. Le tutele.
Il d.lgs. n. 276 del 2003 introduce alcune tutele (minime) per i collaboratori a
progetto, ma consente anche alle parti di derogarvi in sede di stipulazione del
contratto.
Intanto vengono confermati espressamente (art. 66, comma 4) i pochi diritti
già da tempo riconosciuti al collaboratore coordinato e continuativo, come l’applicazione:
delle norme sul processo del lavoro;
delle norme sull’indennità di maternità in caso di gravidanza o puerperio
per due mesi prima e tre mesi dopo il parto;
delle norme sulla sicurezza e igiene del lavoro;
delle norme di tutela contro gli infortuni sul lavoro e le malattie professionali
(art. 5, d.lgs. n. 38 del 2000);
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PARTE PRIMA – DIRITTO DEL LAVORO
delle norme sull’indennità economica di malattia in caso di degenza ospedaliera (art. 51, comma 1, legge n. 488 del 1999; d.m. 12 gennaio 2001).
Ai sensi dell’art. 66, il rapporto di collaborazione rimane sospeso, senza erogazione del corrispettivo, in caso di gravidanza, malattia e infortunio. La malattia
e l’infortunio non comportano, salva diversa previsione del contratto individuale, una proroga della durata del contratto, che si estingue alla scadenza pattuita
originariamente, se il committente non recede prima, come può se la sospensione si protrae per un periodo superiore a un sesto della durata stabilita nel
contratto, quando essa sia esplicitata, ovvero superiore a trenta giorni per i
contratti di durata determinabile. In caso, invece, di gravidanza, il rapporto è
prorogato a prescindere dalla sua durata per 180 giorni, salva più favorevole
disposizione del contratto individuale.
Se il progetto cessa o diventa impossibile prima della proroga di 180 giorni, alla
collaboratrice madre Caia rimane comunque il diritto al compenso per il periodo
residuo, considerando che nel contratto di lavoro a progetto il recesso ante
tempus è ammesso per giusta causa (art. 67, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003).
La lettera e) del comma 23 dell’art. 1 della legge n. 92 del 2012 ha inoltre
previsto che il committente può recedere prima della scadenza del termine
anche nel caso in cui siano emersi “profili di inidoneità professionale del collaboratore tali da rendere impossibile la realizzazione del progetto”. Il recesso del
collaboratore è possibile prima della scadenza del termine solo nel caso in cui
tale facoltà sia prevista nel contratto individuale di lavoro, previo preavviso.
Salvo diverso accordo tra le parti, il collaboratore può svolgere la sua attività a
favore di più committenti (art. 64), e non può svolgere attività in concorrenza con
il committente (c.d. esclusiva).
Con riferimento alla “retribuzione” già la finanziaria 2007, e specificamente il
co. 772 dell’art. 1 della l. n. 296 del 2006, prevedeva che « i compensi corrisposti
ai lavoratori a progetto devono essere proporzionati alla quantità e qualità del
lavoro eseguito e devono tener conto dei compensi normalmente corrisposti per
prestazioni di analoga professionalità, anche sulla base dei contratti collettivi
nazionali di riferimento ».
Il comma 23 lettera c) art. 1 legge n. 92 del 2012 ha individuato un parametro
minimo per la determinazione della retribuzione sufficiente dovuta con riferimento ad un rapporto di lavoro a progetto.
In particolare, la norma stabilisce che questo non può essere inferiore ai
minimi stabiliti in modo specifico per ciascun settore di attività dai contratti
collettivi nazionali per mansioni equiparabili svolte dai lavoratori subordinati.
In altre parole, dunque, il compenso minimo del collaboratore a progetto deve
essere individuato sulla base di quanto previsto dalla contrattazione collettiva
per i rapporti di lavoro subordinato. Nel caso in cui il progetto oggetto dal
contratto non possa essere associato ad una specifico contratto collettivo nazionale, il committente dovrà garantire un compenso non inferiore alle retribuzioni minime previste dai contratti collettivi del settore di riferimento per le figure
CAPITOLO I – IL LAVORO SUBORDINATO E GLI ALTRI RAPPORTI DI LAVORO
professionali con competenza ed esperienza analoghe a quelle del collaboratore a progetto.
3.3.3. Il numero chiuso delle esclusioni.
Il legislatore ha previsto un numero chiuso di esclusioni dall’ambito di applicazione della disciplina del lavoro a progetto (art. 61, comma 3): oltre alle prestazioni occasionali di cui parleremo nel paragrafo successivo, i già citati rapporti di lavoro di agenti e rappresentanti di commercio, i rapporti con professionisti iscritti in albi, quelli con i componenti degli organi di amministrazione e
controllo delle società, con i partecipanti a collegi e commissioni e per i percettori di pensione di vecchiaia. Sono, inoltre, escluse dall’ambito di applicazione
della disciplina del lavoro a progetto le co.co.co. nella pubblica amministrazione
(art. 1, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003), che dunque può continuare a stipulare
contratti di collaborazione senza tener conto dei limiti introdotti dalla novella del
2003.
3.4.
Il lavoro occasionale.
L’art. 61, comma 2, d.lgs. n. 276 del 2003 rende possibile ricorrere al “lavoro
occasionale” che può essere qualificato come una obbligazione di lavoro autonomo, senza vincoli di orario, che non può superare la durata di un mese (30
giorni) e sul presupposto che il lavoratore non percepisca un compenso annuo
che vada oltre i 5.000 euro.
Rispetto al lavoro a progetto il lavoro autonomo occasionale si distingue quindi
per:
la completa autonomia del lavoratore circa i tempi e le modalità di esecuzione del lavoro, dato il mancato potere di coordinamento del committente;
la mancanza del requisito della continuità, dato il carattere del tutto episodico dell’attività lavorativa;
il mancato inserimento funzionale del lavoratore nell’organizzazione aziendale.
4. Il lavoro in società.
Il lavoro umano può essere regolato all’interno di più contesti: non solo lavoro
subordinato (nell’impresa) o autonomo (nel libero mercato), ma anche lavoro in
società, nelle imprese familiari e nell’associazione in partecipazione.
L’art. 2247 c.c. con riguardo al contratto di società prevede che il conferimento
dei soci possa essere rappresentato da beni o servizi; in tale seconda ipotesi
rientra certamente l’attività lavorativa (manuale o intellettiva) del socio a favore
della società.
Il socio d’opera non è un lavoratore subordinato e non ha diritto ad un
trattamento salariale e previdenziale: il suo compenso è rappresentato dalla
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