La grafia del friulano
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La grafia del friulano
SOCIETÂT FILOLOGJICHE FURLANE Progetto: La Legge 482/89 e la Cultura friulana La grafia del friulano di Gotart Mitri Udine - 2005 Il problema delle grafie ________________________________ Comunemente, già dalle prime parole scritte, si manifesta lo sforzo da parte di chi intende scrivere di rendere i suoni e le parlate ricorrendo ai segni, alle lettere normalmente in uso. Bisogna d’altra parte dire che la problematicità della resa grafica dei suoni non sottintende un fenomeno attestato solamente nel friulano e bisogna anche sottolineare che gli studi di linguistica, di cui l’ortografia rappresenta una branca, costituiscono una scienza moderna che si è sviluppata principalmente a partire dal XX secolo. Dal lato pratico, dando uno sguardo, per esempio, alle proposte lessicali e ortografiche fornite dai dizionari, si nota come vi sia anche un problema di scelte (“the words or senses of words given are meant to be such only as are current: “current” however is an elastic term” e cioè che le parole o i sensi delle parole sono forniti solo nella loro qualifica di corrente, ove il termine “corrente” ha tuttavia una connotazione elastica); queste proposte lessicali evidenziano inoltre la saltuaria presenza di punti critici nella resa fonematica dei lemmi. Certe forme grafiche fissate possono ben stare accanto a delle nuove e “ … are retained at least as alternatives having the right to exist”, cioè si devono considerare come alternative che hanno il diritto di esistere. A queste note introduttive del Oxford English Dictionary, un lavoro monumentale questo di 15.300 pagine, cominciato ad uscire nel 1882 e conclusosi nel 1928, e, a sostegno di una impostazione metodologica propositiva, possiamo aggiungere l’opinione del linguista Daniel Jones, che nel English Pronouncing Dictionary afferma che “no atttempt is made to decide how people ought to pronounce (and write); all that the dictionary aims at doing is to give a faithful record of the manner in which certain people do pronounce”: cioè “nel nostro lavoro non vi è alcun tentativo di decidere come la gente deve pronunciare e scrivere; il nostro obiettivo, nel dizionario, è di dare una registrazione fedele del modo in cui la gente pronuncia.” A queste indicazioni metodologiche per la lingua inglese non si sottrae neppure la lingua tedesca. La normazione ortografica tedesca trovò una prima esplicitazione sulla base di un concordato tra Austria-Ungheria, Svizzera e Impero Germanico nel 1902 che aveva il suo fondamento nelle indicazioni grafiche suggerite dal professor Konrad Duden. Questa codificazione grafica, nel corso di decenni, fu messa in discussione in modo tale da portare ad una nuova riforma ortografica che è divenuta vincolante dall’agosto 1998. Secondo queste indicazioni, la vecchia grafia sarà segnata come tale, ma non potrà essere considerata errore. In aggiunta, per rimarcare come anche in questo caso siano talvolta lontane le forme univoche, sia il Deutsches Universalwörterbuch dell’ editore Duden, sia il Die neue deutsche Rechtschreibung ed anche il Wahrig Deutsches Wörterbuch, offrono tuttora informazioni contrastanti. Queste considerazioni iniziali ci consentono ora di affrontare il problema della grafia con riferimento al friulano. L’alfabeto latino, che è alla base dell’alfabeto italiano, friulano e di tutte le lingue dell’Europa occidentale e, in gran parte, orientale, rappresenta uno dei modi storicamente determinato di rappresentare i suoni di una lingua. Per quanto attiene all’italiano, il rapporto fonema-grafema si mantiene univoco in molti casi. Una relazione univoca - un grafema da un fonema e viceversa – si verifica con la b-d-f-m-p-r-t-v. Negli altri casi le relazioni tra lettere e suoni funzionali sono più complesse: • un grafema può rappresentare un fonema ed entrare in digrammi per dare espressione ad un altro fonema (l e n precedute da g: gl – gn [λ e µ] = famiglia, ragno; o nel caso del friulano (c e g seguite da j: cj –gj [k’ – g’] come in cjan e gjat. Ed ancora con la lettera h aggiunta al grafema c; ch e gh, davanti alle vocali e ed i servono a mutare il suono da affricate palatali a occlusive velari: cheste, ghigne • un singolo grafema rappresenta più fonemi, come nel caso di alcune vocali e, i, o ed u che possono indicare suoni aperti (pèrdere, pèrno, òttimo, òttico e pièrdi, corière, còmut, còlp) e suoni chiusi (péro, pérso, mórdere, fórca e in friulano légri, lénti) • un grafema non rappresenta nessun suono, come nel caso del segno H. Questi alcuni casi. In generale, peraltro, si può dire che la lingua friulana gode di una buona stabilità di rapporto tra fonemi e grafemi. Dall’altra parte, altre lingue non possono vantare questa stessa stabilità e piuttosto evidenziano un allentamento di questo legame. Ammettono, per esempio, per uno stesso suono segni grafici differenti e per uno stesso grafema segni fonetici distinti; nel caso dell’inglese così abbiamo cheap, cheese, people, be, relief, ove il suono corrispondente al fonema [i] è reso da grafie diverse. E lo stesso si riscontra con il grafema “i”, ove si ha un esito fonetico diverso: list, bird, time [list-bэ:d-taim]. La grafia del friulano La crescente produzione scritta in lingua friulana apparsa nel secondo dopoguerra e la diversità delle grafie utilizzate aveva reso urgente un intervento per la realizzazione di un sistema grafico unitario. Si deve peraltro aggiungere che la vexata quaestio sulla grafia del friulano rappresenta un argomento datato e risale indietro nel tempo. Il quadro fin qui evidenziato sottolinea, in alcuni casi, la precarietà di una tesi univoca sul problema del rapporto speculare tra grafema e fonema. Già nel 1417 l’estensore della nota ballata Biello dumlo di valor aveva cercato la resa grafica del caratteristico suono postpalatale [k’] e aveva proposto CGI (jo cgiantarai – io canterò, pecgiat – peccato) ma allo stesso modo aveva rappresentato il fonema [g’] con lo stesso grafema (mancgia-mangiare). Si riscontrano però ulteriori tentativi di resa grafica del fonema con CHI (chiampana-campana;chiandelis-candele; bechiar-macellaio: quaderno del cameraro Blâs dal condum Culau Pinte, archivio comunale di Gemona, n. 11, del 1423 ). Quando l’insigne umanista ed asceta Pietro Capretto (Pieri Zocul) nel 1484 intraprese la traduzione delle Constitutiones Patriae ForiiJulii del patriarca Marquardo di Randeck, ossia del corpus delle leggi che avrebbe retto la Patria del Friuli fino alla caduta di Venezia nel 1797, nella prefazione scrisse testualmente: “non me parendo conveniente l’elegantia della lengua toschana per essere troppo oscura a li populi furlani, né anchora la furlana, tra perché non è universale in tutto il Friuli e tra perché mal si può scrivere e pezo, lezendo, prononciare et specialmente da chi non è pratico ne li vocaboli et accenti, furlani, imaginai in tal translazione dovermi accostar più tosto alla lengua trivisana, per essere assai expedita e chiara et intelligibile a tutti.” Ciò evidenzia la difficoltà che il Capretto avrebbe dovuto affrontare nella resa grafica del friulano in questa traduzione che sarebbe stata poi il primo lavoro tipografico comparso a Udine e che fu eseguito su richiesta dello stampatore olandese Gheraert van der Leye. Nel cinquecento il poeta Domenico Biancone aveva fatto una proposta ancora più ardita per la [k’] ricorrendo al grafema chgi (e che plui prest lu cil manchgi e la tierre – E che più presto il cielo manchi e la terra). Aveva suggerito inoltre una alternativa con chiamp (campo), chiaaf (testa), pecchiaaz (peccati). I lessemi citati dimostrano che il Biancone aveva trovato la soluzione per il suono vocalico lungo, raddoppiando la vocale (provaat-provato, pastoor-pastore, freet-freddo). Altre e successive proposte si possono riscontrare nel lavoro del Colloredo e degli estensori di libretti per il catechismo. Pietro Zorutti, dal canto suo, nelle poesie seguì più da vicino la resa grafica dell’italiano e, sempre per il suono postpalatale usò il digramma CH (bochie-bocca, bruchis-chiodini). Palesò nondimeno anche delle incongruenze scrivendo allo stesso modo parochie-parrocchia, piruchis-parrucche. Fu però nella seconda metà del XIX che il friulano, con l’uscita del vocabolario dell’abate Pirona nel 1871, nel quale l’autore affrontò con un certo rigore il problema della grafia, ebbe a suscitare l’interesse dei linguisti. Dieci anni più tardi, la Raetoromanische Grammatik di Theodor Gartner porterà un importantissimo contributo anche nella investigazione delle varianti del friulano e, conseguentemente, alla relativa questione della loro resa grafica. Jacopo Pirona introdusse l’uso della cediglia per la C e per il digramma CH; fu un artifizio che gli permise di rendere con precisione grafica l’affricata palatale sorda (davanti ad a, o ed u) e l’occlusiva postpalatale sorda: çate-zampa, al çhate-egli trova, çocc-ceppo, çhocc-ubriaco. Eliminò inoltre la Q sostituendola con la C (quadri-quadro; cuader-quaderno). Accadde, tuttavia, che gli scrittori non parvero del tutto convinti delle proposte avanzate dal Pirona e molti di loro mantennero il sistema grafico che si rifaceva allo Zorutti. Negli anni immediatamente successivi alla Grande Guerra, la grafia proposta dalla Società Filologica Friulana, seguendo i suggerimenti del Pellis, benché gravemente insufficiente, in quanto inadatta a rappresentare le varietà discordi da quella centrale ed orientale sulla koinè, ottenne grande diffusione e fu quella più usata, anche per la sua relativa facilità, poiché si rifaceva alla tradizione grafica italiana. Il Pellis, nel suo opuscolo Norme per la grafia friulana, uscito a Gorizia nel 1921, affermava: “Ognun al scrivarà come si fevele tal so paîs cence tignî cont de tradizion leterarie e de etimologje”. Tale orientamento italianeggiante raggiunse il suo apice nell’adozione di un sistema grafico che, per essere italiano, era in disaccordo con certe caratteristiche tipiche delle varietà friulane parlate, in modo particolare quelle conservative. E lo stacco fra la lingua parlata e la lingua scritta, approfondendosi, lasciò quest’ultima più che mai esposta agli attacchi di coloro che preferivano avvalersi, anche ai fini letterari, delle varianti locali, mettendo in crisi la koinè. Giova qui ricordare la querelle PasoliniMarchetti, sul rifiuto, da parte del primo, nei confronti di un friulano archetipo basato su una poesia e su una lingua legata allo “zoruttismo”. Peraltro, le discussioni sulla grafia continuarono anche dopo che i suggerimenti di Marchetti, contenute nel suo fondamentale “Lineamenti di grammatica friulana” del 1952, furono accolti dalla Società Filologica Friulana. In particolare va segnalata la soluzione dei casi, più volte analizzati sopra, delle postpalatali sorda [k’] e sonora [g’] : Marchetti allungò la I in J: cjan-cane, gjat-gatto. Nei trent’anni successivi, si assistette alla nascita di altre grafie, in particolare quella scelta dalla Scuele Libare Furlane, il cui intento didattico, suggerì l’introduzione della hàček o pipa: čorecornacchia, peteč-pettegolezzo ed utilizzata anche da Glesie Furlane. La stesura di un vocabolario friulano-italiano portò, agli inizi degli anni ottanta, Giorgio Faggin a formulare altre ipotesi di resa grafica del friulano. Lo studio di un sistema coerente che andasse pari passo con le esigenze fonetiche, morfologiche, etimologiche e pratiche si prefiggeva lo scopo di agevolare il processo di alfabetizzazione dei friulani. Fra l’altro, egli suggerì così di tornare all’uso della pipa per il suono fricato sordo [t∫] davanti ad a-o-u: (čoc- ceppo; čavate-ciabatta); propose una soluzione (ğ) per il suono fricato sonoro [dз]davanti ad a-o-u-: (ğûc-gioco; ğontâ-aggiungere); offrì per i suoni postpalatali sordo [k’] una soluzione (čh) e per il sonoro [g’] una soluzione (ğh): čhamese-camicia; čhanton-angolo; ğhaline-gallina; ğhambe-gamba. Il suono fricato sordo [s] lo rese con (š): šivîl-fischio; bušâ-baciare; al partìš-egli parte. Ripropose la grafia etimologica del Pirona (plomp-piombo; vertverde; fong-fungo; clâv-chiave); tornò ad eliminare la Q per la C (cuiet-quieto; scuadre-squadra); tornò alla declinazione del plurale in S, come faceva il Pirona che però accettava anche i plurali in Z (puarton-puartons; libri-libris). Ma come arrivare ad una omogeneizzazione di proposte grafiche oggettivamente così diverse? I dati ci dicono che le pubblicazioni in lingua friulana e la loro diffusione furono, fino agli anni sessanta, appannaggio di una quota poco significativa della società friulana, da considerarsi quasi del tutto analfabeta. Conseguentemente il problema della grafia non poteva scuotere se non una frangia limitata del nostro mondo culturale. Mutarono gli atteggiamenti nei successivi anni, quando le pubblicazioni e la loro fruizione aumentarono e si sentì impellente l’esigenza di porre di nuovo mani sulla grafia. Partendo dal presupposto che la diffusione di giornali, riviste, libri sarebbe stata più accessibile con l’appoggio di una grafia unificata, pensando poi ad un probabile riconoscimento giuridico della lingua friulana ed alla sua entrata nelle scuole, a metà degli anni ottanta fu istituita una commissione che avrebbe dovuto portare ad una formulazione di una grafia normalizzata. Nelle discussioni della commissione, voluta dalla provincia di Udine e rappresentativa del mondo accademico e del mondo culturale, emersero diverse esigenze. Si proponeva da un lato il rispetto della grafia tradizionale degli scrittori della Società Filologica Friulana nel modo in cui l’aveva ritoccata Giuseppe Marchetti, dall’altro si proponeva la normalizzazione della sola grafia senza intaccare la lingua così da permettere ad ogni friulano di scrivere in maniera differente gli stessi segni, e dall’altro ancora, si proponeva la modifica del modello di lingua utilizzato dagli scrittori del Friuli centrale per assumere una lingua comune (koinè) uguale per tutti. Il radicale mutamento dei costumi e della occupazione dei friulani ha, negli ultimi trent’anni creato il problema dei neologismi. La criticità della declinazione di un sistema ancorato ad uno strato storico della lingua e quello delle proposte “azzardate” del nuovo ha in qualche modo riacceso le pretese dei puristi della lingua. Va da sé che, comunque, i depositari della “parlata” rimangono i locutori, la gente che utilizza quel codice comunicativo. Quanto mai dannosa sarebbe, per eccessivo rigore o cieco purismo, la presunzione di calare una lingua dal “laboratorio”, dall’alto sui parlanti, i quali non riconoscerebbero, non si riconoscerebbero “nella lingua nuova”. Accrescerebbe ancor di più quello Sprachabstand, cioè la distanza tra la lingua scritta e la lingua parlata che rappresenterebbe un pericolo per la sua sopravvivenza stessa come è stato più volte rimarcato dal Kloss. Non ci pare che, nei secoli di formazione delle lingue occidentali in particolare (secoli VI-IX), vi siano stati degli interventi dall’alto, dalle accademie, per correggere un cittadino di Burgos, il quale invece di magister, diceva maestro, così un cittadino di Reims che diceva maître, o un cittadino di Stratford che diceva master, o uno di Siena che diceva maestro, o uno di Tricesimo che diceva mestri, o uno di Heidelberg che diceva Meister! E, similmente, sarebbe esiziale la volontà di imporre, ope legis, un modello di lingua. Ed ancora: “una lingua nazionale altro non può e non deve essere, se non l’idioma vivo di un dato municipio; deve cioè per ogni parte coincidere con l’idioma spontaneamente parlato dagli abitatori contemporanei di quel dato municipio”, dal Proemio dell’Archivio Glottologico Italiano di G.I. Ascoli (1872). E per dirla con Tullio De Mauro (2000): ”L’uso precede la norma e la fa vivere. Quando il senso di questo rapporto si perde e la norma prescrive ciecamente senza percepire il dinamismo dell’uso e le modificazioni imposte dalla massa parlante, nasce la contrapposizione.” Un ulteriore problematico capitolo si aprirebbe sulla resa grafica delle varianti, anche alla luce delle veementi proteste derivate dalla errata interpretazione del concetto di standardizzazione e di omologazione della lingua che cancellerebbero di fatto le peculiarità comunicative locali. Gli elementi caratterizzanti della grafia approvata dalla commissione nominata nel 1985 dalla Provincia di Udine sotto l’arbitrio del romanista catalano Lamuela, sono contenuti nell’ultimo e rivisto opuscolo divulgativo del 2002, pubblicato dal OLF, l’organismo che fino al 2004 era preposto alla realizzazione della politica linguistica. Fra l’altro, si torna, per esempio, per la grafia dei suoni postpalatali sordo e sonoro al Marchetti (cjaval-cavallo; cjoli-prendere; gjavâ-togliere; gjat-gatto), ma in più, li si considera digrammi consonantici (cjicare-chicchera; filologjie-filologia; liturgie-liturgia); il digramma CJ, scoperto, permane in fine di parola (parincjparenti; dincj-denti); il suono palatale sordo C, seguito da a-o-u, non adopera più la pipa, ma la cedilia (çoc-ceppo; straçâ-sciupare). Ed ancora: la africana palatale sonora e la affricata dentale sonora sono rese con “z” (zenâr-gennaio; zovin-giovane; zoo-zoo; zenit-zenit. Invece, la sibilante sonora [s], in interno di parola viene resa con (s), ma in principio di parola con (‘s): muse-faccia; pesâ-pesare; ‘seminariseminario; ’save-rospo.