- Mondo Senza Guerre e Senza Violenza

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- Mondo Senza Guerre e Senza Violenza
L’OMBRA DELLE BASI
L’ OMBRA DELLE BASI
Installazioni militari statunitensi in Italia e nel mondo
Introduzione
Pag. 3
Le basi USA nel Mondo
La presenza militare degli Stati Uniti nel mondo - ricerca (2003)
Nuove basi militari USA: causa od effetto della guerra? Z. Grossman
Le basi militari USA all’estero e il colonialismo militare. Joseph Gerson
737 basi militari Usa = Impero globale. Chalmer Johnson
Guardando l’impero statunitense. Tom Engelhardt
Più truppe Usa rimarranno in Europa? Gordon Lubold
Asia sudoccidentale e nord-orientale, Zdzislaw Lachowski
America Latina: trilogia di guerra. Sabatino Annecchiarico
Comando Africa, colonialismo in stile Pentagono. Manlio Dinucci
Hotel Corno d'Africa, grande base americana. Emilio Manfredi
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Le basi USA in Italia
Le basi militari straniere in italia
Le basi della guerra globale permanente. Piero Maestri
Gli appalti “rossi” da Vicenza a Sigonella. Angelo Mastrandrea
Isole di segretezza. Falco Accame
Il costo – economico – delle basi
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Basi viste da vicino
introduzione
Aviano
Ghedi
Camp Ederle & Dal Molin
Camp Darby
Napoli
Gaeta
Sigonella
La Maddalena
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Tra USA e NATO
Solbiate Olona
Poggio Renatico
Taranto
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Un altro tipo di base:
Cameri
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Per un uso sociale del territorio. Andrea Licata
Una rete no-basi. Herbert Docena
Contro la militarizzazione (scheda movimenti)
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G&P Dossier
L’ OMBRA DELLE BASI - Installazioni militari statunitensi in Italia e nel mondo (Settembre 2007)
Guerre & Pace, mensile di informazione internazionale alternativa
Redazione, amministrazione, abbonamenti:
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Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
INTRODUZIONE
Il 12 febbraio 2007 a Vicenza decine di migliaia di donne e uomini manifestavano la loro
opposizione alla costruzione di una nuova base militare statunitense in quella città. Una data
molto importante perché mai negli ultimi decenni il movimento contro la guerra era riuscito a
mobilitare così tante persone contro un aspetto fondamentale dell e politiche di guerra del nostro
paese, rappresentato dalla presenza di basi militari sul nostro territorio.
L "avventure" militari degli Stati uniti in Afghanistan e Iraq avevano infatti prodotto un forte
movimento contro la guerra che si è opposto con forza a tali operazioni e alle loro conseguenze
dirette - in particolare l'occupazione dell'Iraq – mentre non aveva saputo affrontare una delle
ragioni principali di quelle guerre: la costruzione di nuove basi militari statunitensi nella
regione che essi stessi chiamano del "grande medioriente".
Come titola l'articolo di Zoltan Grossmann (che trovate in questo dossier), le basi sono "causa o
effetto secondario della guerra?". Da tempo siamo convinti che l'espansionismo militare, la
riqualificazione. della presenza militare come strumento di controllo egemonico sull'intero
pianeta siano tra le cause principali delle operazioni militari degli anni '90 e del nuovo secolo.
Ma la questione della presenza delle basi militari ci riguarda da vicino – come hanno capito le/i
manifestanti di Vicenza, ma anche i comitati che sono sorti in molte parti contro questa
militarizzazione del territorio - perché anche in Italia si pone ormai con evidenza il rinnovato
ruolo di queste basi, sia quando sono direttamente utilizzate per poter fare la guerra - come è
successo nel 1999 quando dalle basi militari in Italia partivano gli aerei che andavano a
bombardare la Repubblica di Jugoslavia e il Kosovo - sia per la riqualificazione che molte di
esse stanno subendo (e ancora una volta la questione del Dal Molin è esemplare).
Siamo sempre stati convinti che il movimento contro la guerra debba mettere in agenda
iniziative comuni contro le basi militari - una campagna che sappia tenere assieme gli aspetti
politici (il ruolo delle basi nella "guerra globale"), così come l'impatto che queste basi hanno
sul territorio e le popolazioni che sono direttamente interessate (pensiamo in particolare a
quanto avviene in Sardegna, ma non solo).
Quella che avete tra le mani è una “seconda edizione” di un Dossier preparato per la prima
volta nel 2004 e aggiornato con nuovi articoli di analisi sul ruolo politico internazionale della
presenza militare globale statunitense (e Nato) e sulla situazione attuale delle basi in Italia.
Troverete anche i riferimenti di comitati e reti che si battono contro queste basi e che hanno
prodotto molte pagine di analisi, informazione, documentazione.
Tutto questo speriamopossa rappresentare uno strumento utile di conoscenza per continuare
estendere l’iniziativa contro le basi militari.
G&P
Guerre & Pace
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L’OMBRA DELLE BASI
LA PRESENZA MILITARE DEGLI STATI UNITI NEL MONDO
Una ricerca (2003)
1.
POSSIBILI
RAGIONI
DELL’ESPANSIONE
MILITARE
DEGLI
STATI UNITI E
DELLA
PROLIFERAZIONE DELLE LORO BASI
AVANZATE IN TUTTO IL MONDO
APPARATO MILITARE AMERICANO:
QUADRO GENERALE
Molti analisti a Washington comparano gli Stati Uniti
di oggi all’Impero Romano. Roma era la superpotenza
dei suoi tempi e si vantava di un esercito con il miglior
addestramento, disponeva dei più grandi finanziamenti
e del miglior equipaggiamento che il mondo avesse
mai visto. Nessun altra potenza era paragonabile alla
loro. Gli Stati Uniti oggi dominano allo stesso modo: il
loro bilancio di difesa supererà presto le spese militari
dei 9 paesi seguenti presi complessivamente,
consentendo loro di spiegare le loro forze quasi
ovunque sul pianeta con velocità considerevole.
Aggiungendo a ciò un innegabile vantaggio
tecnologico, gli Stati Uniti appaiono come una potenza
senza rivali.
Gli Stati Uniti, come ha recentemente fatto notare un
analista francese, soffrono di “gigantisme militaire”.
Oggi, spendono di più in armamento ed altre forme di
“Sicurezza Nazionale” di tutto il resto del mondo
insieme. Secondo The Observer (Feb. 10, 2002), gli
Stati Uniti sono responsabili di circa 40% delle spese
militari mondiali1. Il bilancio del Dipartimento della
Difesa per l’anno finanziario 2004 (pubblicato nel
febbraio 2003) richiede $379,9 miliardi in spese
discrezionali -- $15,3 miliardi in più rispetto al bilancio
del 20032. Il 17 luglio 2003, il Senato ha approvato
uno stanziamento per la difesa [S-1382] di $368,6
miliardi3. Questo non include una legge finanziaria
d’emergenza di $62,4 miliardi adottata all’inizio
dell’anno per coprire i costi della guerra contro l’Iraq.
Il totale adottato è inferiore alla richiesta di bilancio
che Bush ha presentato per l’anno finanziario 2004
(che inizia il 1 ottobre), ma ci si aspetta che il
Congresso colmi la lacuna con provvedimenti separati.
Inoltre la legge finanziaria non comprende i costi delle
operazioni militari in Iraq e in Afganistan nel nuovo
anno finanziario; l’Amministrazione Bush chiederà i
fondi mancanti con una legge separata. Il bilancio del
Pentagono per l’anno finanziario 2009 è stabilito a
$483,6 miliardi (futuri dollari). Anche gli analisti
militari sono sconcertati. La potenza militare è emersa
come il credo principale del nuovo potere
dell’America,
la
caratteristica
principale
dell’amministrazione Bush.
Ø Secondo Michael Parenti, nel 1993 l’apparato
militare globale degli Stati Uniti comprendeva già
quasi 500.000 uomini stanziati in oltre 395 grandi
basi e a centinaia di installazioni minori in 40 paesi
diversi4. Non c’è quasi nessun luogo al di fuori della
portata dell’America: le cifre del Dipartimento della
Difesa [Department of Defense – DoD] indicano che
c’è una presenza militare, grande o piccola, in 132
dei 190 stati membri delle Nazioni Unite. Questa
presenza militare è chiamata ufficialmente
“Dispiegamento Avanzato” [Forward Deployment].
Essa prende diverse forme: basi militari (intese
come
installazioni
permanenti
“utilizzate
regolarmente” dalle forze militari), “Posizioni
Operative Avanzate” [Forward Operating Locations
– FOLs], diritto di utilizzo di basi militari estere e
diritto di accesso a porti e aeroporti (ottenuti tramite
diversi forme di accordi bilaterali, Promemoria di
Intesa [Memoranda of Understanding – MoUs], etc.)
o addestramento militare di forze straniere.
Ø La flotta degli Stati Uniti è più grande in
tonnellaggio totale e potenza di fuoco di tutte le altre
marine del mondo messe insieme. È costituita da
incrociatori lanciamissili, sottomarini nucleari,
portaerei nucleari, caccia-torpediniere e navi spia che
solcano ogni oceano e approdano in ogni
continente5. Un solo gruppo aeronavale a
propulsione nucleare – che, ad esempio, ruota
intorno alla USS Enterprise, con un ponte di volo
lungo quasi un miglio ed un altezza di circa 20 piani
– concentra più potenza militare di quanto riescano a
svilupparne la maggior parte degli altri Stati con
tutte le loro forze armate. Gli Stati Uniti hanno 7 di
questi gruppi aeronavali a propulsione nucleare (su
di un totale di 12 gruppi aeronavali)6. Ma non
contano solo la loro grandezza e la loro potenza;
anche il raggio d’azione della marina degli Stati
Uniti é impressionante: per esempio quando la
portaerei USS Kitty Hawk fu mandata con le sue
navi di scorta da Yokohama al Golfo Persico per la
guerra contro l’Afganistan, percorse 6 000 miglia7 in
4
1
2
Copie dei documenti del Dipartimento della Difesa sono disponibili
all’indirizzo internet seguente:
http://www.dod.mil/comptroller/defbudget/fy2004/
3
Il progetto di legge S-1382 è stato adottato con un voto di 95-0. Per
il testo consultare:
http://thomas.loc.gov/cgi-bin/query/C?c108:./temp/~c108wfMJhe
4
Against Empire, Michael Parenti
5
The Observer, 10 Febbraio 2002
Ad esempio quando gli Stati Uniti attaccarono i Talebani nel 2001,
furono in grado di far venire velocemente le navi da guerra dalle basi
navali del Regno Unito, Giappone, Germania, Spagna Meridionale e
Italia, perché la flotta si trovava già in questi stati.
6
The Observer, 10 Febbraio 2002
7
Conversione:
1foot=0.3048metro
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L’OMBRA DELLE BASI
soli 12 giorni per diventare una vasta base avanzata
di attacco per migliaia di Forze Speciali americane.
Ø Gli Stati Uniti hanno anche stormi di bombardieri e
missili a lungo raggio che possono raggiungere
qualsiasi obbiettivo, con una capacità superiore al
necessario [overkill capacity] di più di 8 000 armi
nucleari strategiche e 22 000 armi tattiche. I
bombardieri possono volare ed essere riforniti in
volo ovunque nel mondo e sono armati di missili di
crociera che possono essere lanciati a centinaia di
miglia di distanza da cieli loro ostili; i missili stessi
vengono diretti sui loro bersagli da satelliti in orbita.
Non c’è un nemico capace di combattere l’ultimo e
modernissimo Jet della Lockheed Martin [Joint
Strike Fighter F35]. Infatti la società fu costretta in
una memorabile presentazione a mostrare
l’Eurofighter come avversario potenziale!
Ø Dalla Seconda Guerra Mondiale, il governo degli
Stati Uniti ha speso più di $200 miliardi in aiuti
militari per addestrare, equipaggiare e finanziare più
di 2,3 milioni di soldati e forze di polizia in più di 80
paesi8. Famosi destinatari di questo tipo di aiuti
militari sono: Zaire, Ciad, Marocco, Turchia,
Pakistan, Indonesia, Honduras, El Salvador, Haiti,
Perù, Colombia, Cuba (sotto Batista), Nicaragua
(sotto Somoza), Iran (sotto lo Shah), Le Filippine
(sotto Marcos) ed il Portogallo (sotto Salazar).
Ø Prima degli attacchi dell’11 settembre 2001 più di 60
000 soldati erano schierati in permanenza in più di
100 paesi. Queste cifre escludono le forze
permanenti basate in Germania, Italia, BosniaHerzegovina, Kossovo, Corea del Sud, Giappone,
Arabia Saudita e molti altri posti. Entro marzo 2002,
gli Stati Uniti avevano assegnato ben oltre 60 000
soldati aggiuntivi in nuove basi - dalla Bulgaria al
Qatar, dalla Turchia al Tajikistan. Più della metà
delle forze dell’esercito americano che possono
essere messe in campo sono attualmente impegnate
in operazioni di “peacekeeping” e stabilizzazione nel
mondo (inclusi Bosnia, Kossovo, Afganistan e
Iraq)9. Dichiarazioni ufficiali affermano che ci sono
più di 150 000 truppe americane stanziati nelle zone
di guerra dell’Afganistan e dell’Iraq. Secondo una
notizia di un agenzia stampa del 23 luglio 2003,
l’esercito americano vede 368 000 dei suoi soldati
impegnati all’estero, in 120 paesi, su di un totale di
485 000 in servizio a cui vanno aggiunti 206 000
riservisti e 353 000 soldati della Guardia Nazionale.
Ø Secondo il Dipartimento della Difesa gli Stati Uniti
hanno Accordi sullo Status delle Forze Armate
[Status of Forces Agreements – SOFAs] che
regolamentano la presenza americana all’estero in 93
paesi.
1US Statute Mile = 1.609347 Km
1acre = 0.4047 ettari
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BASI MILITARI AMERICANE
E LOGICA DELL’IMPERO
Sei mesi dopo l’11 settembre, gli Stati Uniti hanno
iniziato a costruire una rete di basi avanzate [Forward
Bases] che si estende dal Medio Oriente lungo tutta
l’Asia, dal Mar Rosso al Pacifico. Le forze americane
sono ora impegnate in un numero di paesi mai così
grande dai tempi della Seconda Guerra Mondiale.
Soldati, marinai e aviatori sono ora stabiliti in paesi
dove non erano mai stati prima. Lo scopo dichiarato è
di fornire piattaforme da cui lanciare attacchi su
qualsiasi gruppo percepito come un pericolo per gli
Stati Uniti. Funzionari di governo lo definiscono
“Guerra al Terrorismo” – che, come fa notare il
Professor Paul Rogers dell’Università di Bradford,
suona sempre di più come un eufemismo che sta per
estensione del controllo americano sul mondo.
Quando l’Amministrazione Bush si insediò ci si
aspettava una riduzione della presenza americana sul
terreno ed un aumento delle capacità a lungo raggio
[Long Range Capabilities]. Invece, ha continuamente
fatto il contrario – istituendo basi avanzate in varie aree
del globo, che possono essere usate per operazioni
future. Queste basi sono state costituite all’interno o
nelle vicinanze di qualsiasi paese che costituisce un
“chiaro e presente pericolo” [“Clear and Present
Danger”]. Secondo analisti della difesa, c’è
l’intenzione di avere il più grande numero possibile di
tali basi avanzate – mantenute tutto l’anno da poche
migliaia di soldati e di tecnici – che possono fornire
supporto per enormi rinforzi secondo le necessità.
Dopo l’11 settembre si è prodotta un'accelerazione
delle strategie della politica estera americana, facilitata
da questo evento, con radici più profonde di quello che
sembra (come vedremo dopo). La stabilizzazione di
paesi stranieri é ora vista dagli Stati Uniti sempre più
come una questione di sicurezza nazionale.
(A) Storia dell’evoluzione della presenza militare
degli Stati Uniti oltremare
Gli Imperi nel corso della storia umana hanno sempre
fatto affidamento su basi militari oltremare per imporre
il loro dominio. La caduta dell’Impero Britannico fu
accompagnata dall’ascesa di un altro impero, dal
momento che gli Stati Uniti presero il posto della Gran
Bretagna come potenza egemonica dell’economia
capitalista mondiale – appoggiandosi anch’essi su
strutture militari fuori dai loro confini.
LA SITUAZIONE DOPO LA SECONDA
GUERRA MONDIALE
Gli Stati Uniti sono emersi dalla Seconda Guerra
Mondiale con il sistema di basi militari più esteso che
il mondo avesse mai visto. Secondo James R.
Against Empire, Michael Parenti
The Guardian, 18 settembre 2002
Guerre & Pace
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L’OMBRA DELLE BASI
Blaker10, ex alto consigliere al Vice Presidente dei
Capi di Stato Maggiore, il sistema di basi al di fuori
degli Stati Uniti alla fine della guerra consisteva di
3 000 installazioni situate su 2 000 siti, in circa 100
paesi ed aree che si stendevano dal circolo artico fino
all’Antartide.11
La posizione ufficiale degli Stati Uniti riguardo a
queste basi militari dopo la Seconda Guerra Mondiale
era che esse dovessero essere mantenute finché
possibile e che ulteriori basi avrebbero dovuto essere
acquisite. Alla conferenza di Potzdam nel 1945, Harry
Truman dichiarò: ”Sebbene gli Stati Uniti non vogliano
trarre alcun profitto o vantaggio egoista da questa
guerra, noi manterremo le basi militari necessarie per
la completa protezione dei nostri interessi e della pace
mondiale. Ci procureremo le basi che i nostri esperti
militari considereranno essenziali per la nostra
protezione. Ce le procureremo con accordi consistenti
con la Carta delle Nazioni Unite”.
Tuttavia la tendenza dominante dalla fine della
Seconda Guerra Mondiale fino alla Guerra di Corea é
stata la riduzione del numero delle basi estere degli
Stati Uniti: metà del complesso di basi del tempo di
guerra era già stato abbandonato nel 1947, e metà di
quello che era rimasto fino al 1947 era già smantellato
entro il 1949.
Con la Guerra di Corea il numero di basi aumentò di
nuovo, seguito da un ulteriore aumento durante la
Guerra del Vietnam. Dalla fine della Guerra del
Vietnam al 1988, non ci fu una sostanziale
diminuzione del numero di basi americane: nel 1988, il
loro totale era di poco inferiore a quello della fine della
guerra di Corea; rifletteva però uno schema globale
molto diverso da quello dell’immediato dopo guerra con una forte diminuzione nell’Asia Meridionale e nel
Medio Oriente/Africa [Cf. Appendix I: Table 1]
EVOLUZIONE DELLA PRESENZA MILITARE
AMERICANA
Storicamente le basi sono spesso state acquisite durante
le guerre. Per esempio, la base navale americana di
Guantanamo a Cuba fu ottenuta dopo la guerra ispano10
James R. Blaker, United States Overseas Basing, New York:
Praeger, 1990.
La ricerca per lo studio originale di Blaker fu sostenuta dall’ufficio
del Segretario della Difesa.
11
È bene notare che non c’è una definizione concordata su che cosa
sia una base militare, perciò è difficile calcolare il numero di basi.
Blaker definisce una base militare come un’installazione “usata
abitualmente” dalle forze militari. Secondo il “Rapporto sulle
Strutture delle Basi del Dipartimento della Difesa” (un riassunto
annuale del Dipartimento della Difesa sull’inventario dei
possedimenti immobiliari prodotto dall’Ufficio del Vice Sotto
Segretario della Difesa), tutte le installazioni entro un raggio di 25
miglia vengono classificate come facenti parte dell’ubicazione di una
singola base associata alla città più vicina (installazioni che distano
più di 25 miglia tra di loro vengono considerate come ubicazioni
differenti). Le installazioni e le basi sono classificate principalmente
sulla base del loro valore immobiliare delle strutture.
6
americana del 1898. Sebbene questa base risulti
giuridicamente “affittata”, di fatto l’affitto é
permanente. Un altro esempio sono le basi americane
ad Okinawa, formalmente parte del Giappone –
un’eredità dell’occupazione americana del Giappone
dopo la Seconda Guerra Mondiale. Molte basi
americane attuali furono acquisite in guerre successive,
quali la guerra di Corea, la guerra del Vietnam, la
guerra del Golfo, la guerra dei Balcani, la guerra
d’Afganistan etc.
Come tutti gli imperi, gli Stati Uniti sono stati molto
riluttanti a rinunciare a qualsiasi base una volta
acquisita. Le basi ottenute in una guerra vengono viste
come posizioni per dispiegamenti avanzati in guerre
future, spesso contro un nuovo nemico. Un rapporto,
pubblicato nel dicembre 1970 dalla Commissione
Affari Esteri del Senato Americano, afferma che: “Una
volta che una base Americana é stata istituita all’estero,
viene ad avere vita propria. Le missioni originarie
possono diventare obsolete, ma nuove missioni
vengono subito sviluppate, non solo per tenere aperta
la base, ma spesso per ingrandirla. Nei dipartimenti
governativi più interessati - Affari Esteri e Difesa abbiamo riscontrato scarsa volontà di ridurre od
eliminare anche una sola di quelle strutture
d’oltremare.”12
Ø Periodo della Guerra Fredda: Durante la Guerra
Fredda, negli anni ‘50 e ‘60, gli Stati Uniti
enunciarono una specifica dottrina del “diniego
strategico” [“Strategic Denial”] che sosteneva che
non ci si sarebbe dovuti ritirare da nessuna base che
avrebbe potuto in seguito essere potenzialmente
acquisita dall’Unione Sovietica. La maggior parte
delle basi venivano ad essere giustificate in quanto
“accerchiavano” o “contenevano” il comunismo.
Tuttavia quando crollò l’Unione Sovietica (ed ad
onta dei discorsi sui dividendi della pace da parte di
molti politici), gli Stati Uniti cercarono di mantenere
il loro intero sistema di basi, sostenendo che ciò era
necessario per la proiezione globale della potenza
americana e la protezione dei loro interessi
all’estero. Nel rapporto annuale del Segretario di
Stato alla Difesa del 1989, il DoD insisteva che la
“proiezione di potenza” degli Stati Uniti richiedeva
tale “schieramento avanzato”.13
Ø Guerra del Golfo: Il 2 agosto 1990, Il Presidente
George Bush (Senior) dichiarò che, mentre il sistema
di basi estere degli Stati Uniti doveva rimanere
intatto, i bisogni americani in termini di sicurezza
globale potevano essere assicurati entro il 1995 da
attivi inferiori del 25% rispetto al 1990. Tuttavia,
quello stesso giorno l’Iraq invase il Kuwait.
12
Rapporto pubblicato il 21 dicembre 1970 dalla Sottocommissione
sugli Accordi e gli Impegni all’Estero della Commissione Affari
Esteri del Senato degli Stati Uniti [Subcommittee on Security
Agreements and Commitments Abroad of the US Senate Committee
of Foreign Relations], pag. 19-20
13
Rapporto Annuale del Segretario della Difesa, Pag. 41
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
Contrariamente alle promesse originarie degli Stati
Uniti ai suoi alleati arabi, la guerra che ne conseguì
portò alla costituzione di grandi basi militari nel
Medio Oriente – specialmente in Arabia Saudita e
nel Kuwait, dove migliaia di soldati americani sono
stanziati da più di dieci anni – e al “diritto di utilizzo
di basi” [basing rights] in altri Stati del Golfo (come
Bahrain, Qatar, Oman e Emirati Arabi Uniti). Questa
guerra ha anche permesso il potenziamento delle basi
aeree americane in Turchia. La massiccia
introduzione di truppe americane nel Medio Oriente
durante la Prima Guerra del Golfo portò alla
proclamazione di un nuovo ordine mondiale, basato
sull’egemonia americana e la sua potenza militare.
Ø Cambiamento nella natura della presenza
militare statunitense durante il Periodo di
Clinton: Sebbene l’Amministrazione Clinton abbia
spesso affermato la necessità di diminuire gli
impegni militari statunitensi all’estero, in realtà non
fu fatto nessun tentativo per ridurre la “presenza
avanzata” USA all’estero. Tuttavia, durante gli anni
di Clinton, la natura della presenza statunitense
cambiò drasticamente:
q Il cambiamento principale é stato la riduzione
delle truppe stanziate in permanenza oltremare,
mentre sono aumentati gli spiegamenti di truppe
più frequenti, ma per periodi più corti. Uno
studio del 1999 della Scuola di Guerra
dell’Esercito degli Stati Uniti [Army War
College] concluse che “mentre la presenza
permanente
oltremare
[era]
diminuita
drasticamente, i dispiegamenti operativi [erano]
aumentati in maniera esponenziale”14. Mentre
le enormi installazioni europee venivano ridotte,
gli schieramenti di truppe diventavano dunque
più frequenti e duravano più a lungo. Secondo
fonti del Dipartimento di Stato, in qualsiasi
momento già prima degli attacchi dell’11
settembre, più di 60 000 soldati stavano
conducendo
operazioni
temporanee
o
esercitazioni in circa 100 paesi.
q
In aggiunta a questi frequenti e periodici
dispiegamenti, le basi iniziarono ad essere
sempre più spesso utilizzate per pre-posizionare
equipaggiamento, con lo scopo di facilitare il
dispiegamento rapido. Per esempio, gli Stati
Uniti hanno pre-posizionato, sia in Kuwait che
in Qatar, il materiale necessario per due brigate
meccanizzate; in Qatar è stato
materiale per un battaglione carri.15
aggiunto
Ø L’Intervento in Somalia: Negli anni ‘70 e ’80, gli
Stati Uniti hanno sostenuto il dittatore somalo Siad
Barre nella sua guerra contro l’Etiopia appoggiata
dall’Unione Sovietica. In cambio Barre aveva
garantito alla marina USA il diritto di usare i porti
somali
(Situati
strategicamente
all’estremo
meridionale del Mar Rosso che collega il canale di
Suez con l’Oceano Indiano). Dopo che Barre fu
rovesciato, gli Stati Uniti ritornarono nel paese con
la scusa del caos e della carestia, ma fecero l’errore
di sostenere un gruppo di “signori della guerra”
contro il padrone di Mogadiscio Aidid. Quando 18
soldati furono uccisi in battaglia, gli Stati Uniti si
ritirarono, ma finirono per ottenere il diritto di usare
il porto di Aden nello Yemen, dall’altra parte del
Mar Rosso.
Ø Fine del secolo: Gli anni ’90 si conclusero con
l’intervento militare statunitense nei Balcani (Bosnia
e Kossovo)16 ed un sostanziale sostegno alle
operazioni anti-insurrezione in Sud America come
parte del “Piano Colombia” [Plan Columbia].
q L’intervento militare americano in Bosnia
(1995) e nel Kossovo (1999) portò alla
creazione di nuove basi in 5 paesi: Ungheria,
Albania, Bosnia, Macedonia e Kossovo
sud-orientale (dove costruirono il tentacolare
complesso “Camp Bondsteel”).17
q Il
“Piano Colombia” [Plan Columbia],
ufficialmente una guerra per controllare il
traffico di droga, è in verità rivolto contro i
guerriglieri colombiani, ma anche contro il
governo del Venezuela e contro il massiccio
movimento popolare che si oppone al
neo-liberismo in Ecuador. Tramite questo piano,
gli Stati Uniti sono riusciti ad espandere la
presenza delle loro basi in America Latina e nei
Caraibi. Il Porto Rico ha sostituito Panama come
centro delle operazioni nella regione. Inoltre, gli
Stati Uniti hanno stabilito 4 nuove basi militari a
Manta (Ecuador), Aruba e Curaçao (Antille
Olandesi), e Comalapa (El Salvador) – tutte
15
Secondo il Segretario della Difesa, 1996
16
Gli Stati Uniti presentarono i loro interventi in Yugoslavia come
risposta alla “pulizia etnica” dei Serbi. Tuttavia essi non intervennero
in occasione di precedenti simili “pulizie” in Croazia e Albania
(alleati americani).
17
14
In passato, i membri delle forze armate erano abitualmente
“stanziati” oltremare, per turni di diversi anni e spesso accompagnati
dalle loro famiglie. Ora essi vengono “schierati” per periodi di
lunghezza più incerta e le loro famiglie non sono quasi mai
autorizzate a seguirli. I documenti del DoD mostrano che questa
nuova modalità operativa tiene lontano da casa in media 135 giorni
all’anno il personale dell’Esercito, 170 giorni il personale della
Marina e 176 giorni il personale dell’Aeronautica. Ogni soldato
viene mediamente schierato all’estero ogni 14 settimane.
Come nei conflitti del Golfo e dell’Afganistan, gli alleati europei
potrebbero aver partecipato alle guerre americane non tanto per
solidarietà , ma piuttosto per paura di essere completamente esclusi
dalla costruzione dell’ordine della regione nel dopoguerra. In
particolare, l’intervento nel Kossovo fu seguito da tentativi accelerati
dell’Unione Europea di formare una forza militare al di fuori della
NATO (che è diretta dagli Stati Uniti). Gli Stati Uniti hanno posto
delle basi ad Est dell’UE – da dove possono proiettare le loro forze
verso il Medio Oriente – in parte in anticipazione del fatto che, in
futuro, i legami militari con l’Europa Occidentale si sarebbero
allentati.
Guerre & Pace
7
L’OMBRA DELLE BASI
definite come “Posizioni Operative Avanzate”
[FOLs].
Ø Guerra al Terrorismo: Dopo gli attacchi dell’11
settembre, gli Stati Uniti hanno iniziato una guerra in
Afganistan, posto di grande importanza strategica
che confina con l’Iran ed unisce l’Asia Meridionale,
l’Asia Centrale ed il Medio Oriente. Oltre ad
aumentare la dimensione e l’importanza delle basi in
Kuwait, Qatar, Turchia e Bulgaria, hanno anche
stabilito basi militari – che ospitano 60 000 soldati –
in Afganistan, Pakistan, Kirghisistan , Usbechistan e
Tajikistan. La base navale americana di Diego
Garcia nell’Oceano Indiano, cruciale in questa
“guerra”, ha recuperato la sua importanza. La
“Guerra al Terrorismo” ha anche giustificato un
intervento
indiretto
anti-insurrezionale
nelle
Filippine, dove le Forze Speciali USA sono state
mandate ad addestrare truppe filippine a Basilan
contro gruppi di guerriglieri (presumibilmente
affiliati a Bin Laden), e dove gli Stati Uniti stanno
eseguendo dei voli di ricognizione per raccogliere
“intelligence”. Per quanto riguarda il Medio Oriente,
un nuovo fronte della “Guerra al Terrorismo” è stato
aperto nello Yemen ed in Somalia, mentre
l’attenzione militare americana si è recentemente
concentrata su altri stati africani. In una certa misura,
il recente attacco all’Iraq fa anche parte di questa
cosiddetta “guerra”: negli Stati Uniti una grande
maggioranza della popolazione è stata convinta dalla
propaganda che Saddam Hussein era collegato con
Al Qaeda. La risposta a quella minaccia fu la
creazione di un protettorato americano un Iraq.
RIEMPIRE IL VUOTO
Sembra che gli Stati Uniti stiano riempiendo il vuoto di
potere creatosi nell’era del dopo Guerra Fredda. Stanno
stabilendo basi nei Balcani e nelle ex repubbliche
Sovietiche dell’Asia Centrale – precedentemente nella
sfera d’influenza sovietica o parte integrante
dell’Unione Sovietica stessa – e in regioni dove
avevano subito drastiche riduzioni del numero di
basi.18 L’apparizione di nuove basi dal 1990 (nel
Medio Oriente, in Asia Meridionale, in America Latina
ed nei Carabi) in seguito alle guerre summenzionate
può perciò essere visto come una riaffermazione del
potere diretto imperiale e militare americano in aree
dove esso si era in qualche misura eroso. Nuove basi
nella sfera di influenza dell’ex Unione Sovietica o
nelle sue ex repubbliche stanno riempiendo un vuoto
lasciato dall’URSS, costituendo inevitabilmente una
minaccia alla sicurezza della Russia, ma anche una
minaccia alla sicurezza della Cina. La nuova base
americana nel Kirghisistan , per esempio, è situata a
sole 250 miglia (400 km) dalla frontiera occidentale
cinese. Considerando che gli Stati Uniti hanno
sostenuto militarmente Taiwan per anni, hanno avuto
un coinvolgimento militare in Indonesia, e hanno una
presenza militare permanente in Giappone, a Okinawa,
nelle Filippine e in Sud Corea, la Cina ha tutto il diritto
di sentirsi accerchiata [Cf. Appendix III – Map: “US
Military Presence Worldwide”].
NUMERO DELLE BASI
Secondo il “Rapporto sulle strutture delle basi del
Dipartimento della Difesa dell’anno finanziario 2003”
[DoD Base Structure Report – FY 2003], gli Stati Uniti
hanno attualmente installazioni militari in 40 stati
esteri. Se si aggiungono le basi militari nei territori e
possedimenti americani al di fuori dei 50 Stati e del
“District of Columbia” il totale si eleva a 47. [Cf.
Appendix IV : “DoD Base Structure Report – FY
2003” per una lista completa].19
È importate ricordare che questa valutazione è molto
riduttiva, perché non include importanti basi avanzate
strategiche, neanche quelle dove gli Stati Uniti
mantengono un numero sostanziale di soldati – come
in Arabia Saudita, Kossovo o Bosnia. Non include
neanche alcune di quelle acquisite più di recente in
America Latina, in Asia Centrale, in Iraq, etc. Se si
considerano tutte le forme di presenza militare
possibili – basi militari permanenti, “Posizioni
Operative Avanzate” [FOLs], diritto di utilizzo di basi
estere, accesso attraverso i programmi NATO di
Partenariato per la Pace [Partnership for Peace], etc.
– gli Stati Uniti hanno basi militari (o accesso a basi)
al di fuori del loro territorio continentale in circa 60
paesi e territori separati [Cf. Appendix III - Map: “US
Military Presence Worldwide”].
Questa stima non può essere paragonata direttamente
alle cifre fornite dallo studio di Blaker, perché
quest’ultimo comprende solamente le basi riportate
nella lista di installazioni fornita dal DoD (basata sul
loro valore immobiliare). La nostra stima include
anche:
1) Basi non riportate nel “Rapporto sulle strutture
delle basi del DoD” dell’anno finanziario 2003,
ma che ospitano un numero sostanziale di soldati
americani;
2) Basi nei territori e possedimenti al di fuori dei 50
Stati e del “District of Columbia” (considerandoli
come essenzialmente al di fuori degli Stati Uniti);
3) “Posizioni Operative Avanzate” [FOLs] acquisite
di recente in aree strategiche (principalmente nel
Medio Oriente, Asia Centrale e Meridionale,
America Latina e Caraibi).
Le nostro stime – sebbene non rigorosamente
comparabili con quelle di Blaker – sembrano indicare
18
Nel 1990, prima della Guerra del Golfo, gli Stati Uniti non
avevano basi nell’Asia Meridionale e solo più il 10% di quelle che
avevano nel 1947 nel Medio Oriente e in Africa. Nell’America
Latina e nei Caraibi il numero di basi americane era diminuito di
circa due terzi tra il 1947 ed il 1990.
8
19
I territori e possedimenti americani al di fuori dei 50 Stati e del
“District of Columbia” dove si trovano basi americane sono 7:
American Samoa, Guam, Johnston Atoll, Northern Mariana Islands,
Puerto Rico, Virgin Islands, Wake Island.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
che la diffusione geografica delle basi americane non si
è ristretta dalla fine delle Guerre di Corea e del
Vietnam, ed è addirittura in una fase di rinnovata
espansione.
In un certo senso, questo numero (60) potrebbe essere
ingannevolmente basso: tutte le questioni di
giurisdizione ed autorità riguardo alle basi nei paesi
ospiti sono definite negli “Accordi sullo Status delle
Forze” [SOFAs], documenti che erano pubblici durante
gli anni della Guerra Fredda. Tuttavia, questi
documenti sono ora spesso “riservati” [“classified”],
rendendo la ricerca sulle basi americane estremamente
difficile se non impossibile.20 Secondo un articolo
pubblicato nel Los Angeles Times il 6 Gennaio 2002,
gli Stati Uniti avevano allora accordi formali di questo
tipo con 93 stati esteri.21 È molto probabile che questa
cifra sia ancora aumentata nel corso dell’ultimo anno.
Per finanziare questa proiezione di potenza e la
“Guerra al Terrorismo”, il progetto di bilancio
dell’Amministrazione per l’anno finanziario 2003
prevedeva $19 miliardi. Una proposta di stanziamento
supplementare è stata proposta nel marzo 2003. In
questa proposta venivano richiesti $3,5 miliardi per
“assistenza
economica
e
addestramento
ed
equipaggiamento militare per gli stati che stanno in
prima linea”. $121 milioni venivano ulteriormente
stanziati per “assistenza anti-terrorismo ad altri stati”,
insieme a $4 milioni per “assistenza tecnica ai
ministeri delle finanze di governi stranieri per aiutarli a
tagliare i finanziamenti ai terroristi”. Nel bilancio
dell’anno finanziario 2004, il DoD continua ad
acquisire competenze considerate necessarie alla
“Guerra al Terrorismo”.22
(B) Perché gli Stati Uniti soffrono di “gigantisme
militaire”?
Ci sono molte ipotesi per spiegare l’accresciuta
espansione militare degli Stati Uniti negli ultimi anni.
Lo scopo di questo rapporto non è di speculare sulle
20
Per esempio, i SOFAs che riguardano basi in Kuwait, Emirati
Arabi Uniti, Oman e Arabia Saudita sono riservati. Inoltre, non ho
ottenuto nessuna informazione da EUCOM riguardo i SOFAs delle
basi in Europa. Sollecitato dall’ufficio legale di EUCOM il 30 luglio
2003, il Dipartimento di Stato (DoS) ha rifiutato l’autorizzazione a
rilasciare informazione (“clearance”) sugli accordi di accesso di
varie basi americane in Europa. Il Colonello Miller dell’ufficio
legale di Stoccarda sostiene che il DoS ha negato l’autorizzazione
perché “non sono autorizzati a divulgare questo tipo di informazione
a governi stranieri o a terzi”.
21
Durante un’intervista telefonica nel luglio 2003, il Colonello
Miller dell’ufficio legale di EUCOM non ha smentito che gli Stati
Uniti hanno attualmente dei SOFAs con 93 paesi, ma non ha fornito
ulteriore informazione.
22
Le misure richieste dal bilancio del 2004 per proteggere le forze e
combattere il terrorismo comprendono sistemi per scoprire gli
intrusi, misure per mitigare le esplosioni, apparati per rivelare
elementi chimici e biologici, miglioramento della protezione delle
rive, motoscafi per pattugliare i porti, sistemi di comando regionale,
sistemi di notificazione di massa ed iniziative per restringere
l’accesso alle istallazioni del Dipartimento della Difesa.
ragioni dell’audacia militare e del comportamento
imperialista degli Stati Uniti. Tuttavia, vale la pena
tornare brevemente ad un documento ufficiale scritto
nel 1992 da Paul Wolfowitz per George Bush (Senior),
la bozza di “Guida alla Pianificazione della Difesa”
[“Defense Planning Guidance”] del Dipartimento della
Difesa. Questa bozza fu fatta filtrare al New York
Times nel 1992 prima che potesse essere “limata” delle
sue pagine imbarazzanti e del suo vocabolario franco.
Questo documento incitava gli Stati Uniti a continuare
a dominare il sistema internazionale “scoraggiando le
nazioni industrialmente avanzate dallo sfidare [la]
leadership [statunitense]”. Il consiglio contenuto nella
bozza era di mantenere un predominio militare capace
di “dissuadere competitori potenziali perfino
dall’aspirare ad un maggiore ruolo globale o
regionale.” Gli analisti del Pentagono sostenevano che,
mantenendo questo predominio, gli Stati Uniti
avrebbero potuto assicurare “una zona di pace e
prosperità ad economia di mercato, che [comprendeva]
più di due terzi dell’economia mondiale.”
Questi suggerimenti sono stati applicati alla lettera nel
Golfo, per esempio: Gli Stati Uniti ricevono la maggior
parte del loro petrolio dalle Americhe (Canada,
Messico, Venezuela e gli Stati Uniti stessi); soltanto un
quarto proviene dal Golfo Persico. Ciò non dimeno, gli
Stati Uniti non si ritirarono dal Golfo dopo la guerra
del 1991. Il ragionamento dietro a questo
comportamento è semplice: se l’America non
“stabilizzasse” il Medio Oriente, allora l’Europa, il
Giappone e la Cina – che dipendono dal petrolio del
Golfo in modo maggiore – dovrebbero farlo da soli per
proteggere i loro interessi. Anche se il loro intervento
non disturberebbe necessariamente gli Stati Uniti, nel
lungo periodo questi paesi si potrebbero trasformare in
potenze in grado di sfidare l’autorità degli Stati Uniti.
Come sottolinea Walter Russel Mead (analista di
politica estera al “Council on Foreign Relations” a
New York), “una delle ragioni per cui [gli Stati Uniti
si] assumono questo ruolo di poliziotto nel Medio
Oriente è piuttosto per dare l’impressione al Giappone
e ad altri paesi che il loro flusso di petrolio è assicurato
[…] affinché essi non sentano il bisogno di sviluppare
potenza, forze armate e una dottrina sulla sicurezza”.
In altre parole, gli amici degli Stati Uniti sono
potenziali nemici. Essi devono essere mantenuti in uno
stato di dipendenza e devono cercare la soluzione ai
propri problemi a Washington.
Sebbene la bozza di “Guida alla Pianificazione della
Difesa” sia stata disconosciuta dopo la sua
pubblicazione nel New York Times, rimane un
documento di base per i pianificatori del Pentagono. Si
ritrovano molte tracce di questa bozza nella “Strategia
di Sicurezza Nazionale degli Stati Uniti” [National
Security Strategy of the United States] di Settembre
2002. Nel Atlantic Monthly di Gennaio 2002, due
famosi analisti di difesa (Christopher Layne e
Benjamin Schwartz) identificavano la bozza – smentita
solo a parole – e le sue tesi principali come chiave di
lettura per capire perché il Pentagono stia perseguendo
Guerre & Pace
9
L’OMBRA DELLE BASI
un potere militare maggiore di tutte le forze dei suoi
concorrenti messi insieme. Essi aggiungevano che le
soluzioni ai conflitti non erano necessariamente
nell’interesse dell’America.23 Per esempio, se la Corea
del Nord e del Sud fossero riunificate, gli Stati Uniti
dovrebbero ritirarsi ed il Giappone potrebbe sentire il
bisogno di diventare militarmente auto sufficiente. La
situazione migliore, sostenevano, è perciò lo status
quo, che permette alle forze degli Stati Uniti di
rimanervi indefinitamente. Questo vale anche per molti
altri teatri di conflitto, come i Balcani, l’Asia Centrale,
l’Iraq, etc. In questo senso, potremmo sostenere che il
perdurare dell’esistenza di organizzazioni terroristiche
e di instabilità in varie aree del mondo può essere
considerato di qualche utilità per gli Stati Uniti.
American Century (PNAC)], un gruppo fondato nel
1997 che comprende potenti membri – quali Dick
Cheney e Paul Wolfowitz.24 Nel settembre 2000, il
PNAC produsse un rapporto intitolato “Ricostruire le
Difese
dell’America”
[Rebuilding
America’s
Defenses], che incoraggiava un massiccio aumento
delle spese militari ed la conduzione di diverse
importanti guerre regionali (di teatro) per stabilire il
predominio americano nel mondo. Secondo questo
rapporto, il fine ultimo è di stabilire la “Pax
Americana” in tutto il pianeta (proiettando il potere
degli Stati Uniti all’estero, tramite l’istituzione di basi
e l’intervento militare quando necessario). La prima
tappa di questo schema di politica di difesa fu la
rimozione di Saddam Hussein e l’instaurazione di un
protettorato americano in Iraq. Uno dei motivi era la
creazione di una piattaforma militare nell’area per
l’eventuale invasione e deposizione di diversi regimi
Mediorientali.25
Seguendo scrupolosamente il piano di Wolfowitz del
1992 – che sosteneva che l’intervento militare USA
doveva diventare un “elemento costante” del Nuovo
Ordine Mondiale – il Dipartimento della Difesa sta
attualmente ridisponendo le proprie forze per acquisire
tale “capability” (capacità militare). La dottrina del
Pentagono che sta emergendo (codificata nella
“Strategia della Sicurezza Nazionale” e fondata
principalmente sul lavoro dell’Ammiraglio in pensione
Arthur Cebrowski, capo dell’Ufficio per la
Trasformazione delle Forze del Dipartimento della
Difesa, e Thomas Barnett della Scuola di Guerra
Navale) sostiene che i pericoli contro cui le forze degli
Stati Uniti devono essere disposte derivano proprio da
paesi e regioni che sono “scollegati” dalla tendenza
prevalente di globalizzazione economica. Questa
formula ricorda il corollario alla Dottrina Monroe
enunciato nel 1903 da (Theodore) Roosevelt, che
24
Diego Garcia (Oceano Indiano)
Il pensiero che ispirava la bozza del 1992 continua a
figurare negli schemi e nelle proposte del “Progetto per
un Nuovo Secolo Americano” [Project for a New
23
Le priorità geopolitiche potrebbero spiegare la frequente riluttanza
degli Stati Uniti a dichiarare vittoria in molte delle guerre che
iniziano: Hussein fu deliberatamente lasciato al potere dal 1991 al
2003, il Mullah Omar e Bin Laden non furono catturati, etc. In
generale, sembra che ci sia una tendenza a non risolvere i conflitti
interni (o addirittura ad incoraggiare la loro continuazione) nelle
zone strategicamente allettanti per gli Stati Uniti: il miglior esempio
è il Kossovo, dove i militari americani tollerano che il KLA-NLA
continuino indisturbati le loro attività violente intorno a Camp
Bondsteel. Esistono numerose prove del coinvolgimento nel 1998 di
consiglieri militari Britannici e Americani – distaccati da imprese
mercenarie private – in attività di collaborazione con il KLA-NLA
(che tra l’altro è stato equipaggiato e armato dagli Stati Uniti).
Disordini, instabilità e terrorismo incessanti sono giustificazioni
comode per il mantenimento di basi avanzate americane in posti
come il Golfo Persico, l’Asia Centrale, i Balcani e l’Asia
Meridionale.
10
I membri del PNAC comprendono:
IlVice Presidente Dick Cheney (uno dei fondatori del PNAC); I.
Lewis Libby (il principale assistente per la sicurezza nazionale di
Cheney); Donald Rumsfeld (Segretario alla Difesa , anche lui
membro fondatore); Paul Wolfowitz (Vice Segretario alla Difesa,
padre ideologico del gruppo); Eliot Abrams (membro del “National
Security Council”, graziato da Bush Sr. per lo scandalo Iran/Contra);
John Bolton (Sottosegretario per il Controllo dell’Armamento e la
Sicurezza Internazionale); Richard Perle (ex Presidente del “Defense
Policy Board”); Randy Scheunemann (Presidente del Comitato per la
liberazione dell’Iraq, consigliere di Rumsfeld sull’Iraq nel 2001);
Bruce Jackson (Presidente del PNAC, già Vice Presidente della
Lockheed-Martin , capo del “Republican Party platform
subcommittee for National Security and Foreign Policy” durante la
campagna elettorale del 2000); William Kristol (giornalista per il
Weekly Standard, un settimanale di proprietà del magnate
conservatore e Murdoch).
25
L’autore Norman Podhoretz (firmatario del PNAC) scrisse nel
numero di settembre 2002 della sua rivista Commentary: “[I regimi]
che meritano abbondantemente di essere rovesciati e sostituiti non si
limitano ai tre membri identificati dell’ ‘Asse del Male’. L’asse
dovrebbe essere esteso almeno alla Siria, al Libano e alla Libia, ma
anche ad ‘amici’ dell’America quali la famiglia reale Saudita e
l’Egitto di Mubarak, insieme all’Autorità Palestinese sia diretta da
Arafat che da uno dei suoi scagnozzi”. Aggiunse che “alla fine, si
tratta di attuare la riforma e la modernizzazione dell’Islam già molto
in ritardo”.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
rivendicava il “potere di polizia internazionale” di
Washington nell’intervenire contro “le malefatte
croniche, o un impotenza che risulta nell’allentamento
generale dei legami della società civilizzata”. Questa
dottrina dell’inizio del XX secolo fu applicata nel
bacino dei Caraibi e ebbe come conseguenza
l’intervento militare americano da numerosi basi
situate tra Porto Rico e Panama – una caratteristica
costante della politica degli Stati Uniti in quella
regione.
Gli spiegamenti attualmente proposti da Wolfowitz,
Cebrowski e Barnett sono giustificati con
argomentazioni molto simili. I pianificatori militari
parlano sempre più spesso di stabilire basi avanzate
semi-permanenti o permanenti in una gigante fascia di
territorio globale – nominato “Arco di Instabilità” [Arc
of Instability] – che si estende dal bacino dei Caraibi,
attraverso l’Africa e l’Asia Meridionale e Centrale,
fino alla Corea del Nord.26 Lo scopo è semplicemente
di pre-posizionare equipaggiamento e un poco di
personale militare in quelle posizioni avanzate, in
modo da essere in grado di intervenire con forza
schiacciante entro poche ore dall’esplosione di una
crisi.
Il termine che Barnett usa per le aree di maggior
minaccia è il “Gap” [the Gap]27, luoghi dove la
globalizzazione si assottiglia o è addirittura assente.
Barnett scrisse nel 2003 sul periodico Esquire: “Se
facciamo una cartina delle risposte militari degli Stati
Uniti dalla fine della Guerra Fredda, scopriamo una
schiacciante concentrazione di attività in regioni del
mondo che sono escluse dal crescente “Core” [Nucleo]
della globalizzazione – in particolare i Caraibi,
l’Africa, i Balcani, il Caucaso, l’Asia Centrale, il
Medio Oriente e l’Asia Sud Occidentale, e anche la
maggior parte dell’Asia Sud Orientale”. Egli sosteneva
che la sfida nel combattere reti di terroristi consisteva
sia nel “prenderli dove vivono, nell’Arco di Instabilità,
sia nel prevenire la diffusione della loro influenza in
ciò che Barnett chiama gli “Seam States” [Stati Anello
di Congiunzione]28, situati tra il “Gap” ed il “Core”.
Tali stati includono Messico, Brasile, Sud Africa,
Marocco, Algeria, Grecia, Turchia, Pakistan, Tailandia,
Malesia, Filippine e Indonesia. Nella logica di Barnett,
queste nazioni dovrebbero avere un ruolo critico,
compreso quello di provvedere basi avanzate per gli
interventi nel “Gap”. Barnett affermò anche: “Se certi
stati allentano i loro legami economici con l’economia
globale, caos e spargimento di sangue ne seguiranno, e
se siamo fortunati, arriveranno anche le truppe
26
Tale espansione dovrebbe essere controbilanciata da consistenti
riduzioni delle forze stanziate in Germania, Turchia e Arabia
Saudita.
27
Il termine “gap” è difficilmente traducibile in Italiano. Si potrebbe
usare la parola “lacuna”oppure “vuoto”. “The Gap” potrebbe dunque
essere tradotto “Zona di Vuoto”, inteso come fuori dal sistema
giuridico, politico ed economico dominante.
28
Letteralmente, “seam” significa “cucitura”. Questi stati [“Seam
States”] vengono paragonati ad una cucitura tra gli stati del “Core”
[Nucleo] e gli stati del “Gap”[Zona di Vuoto].
americane”. Alla vigilia della guerra in Iraq, Barnett
predisse che la presa Baghdad non sarebbe stata un
regolamento di vecchi conti e non sarebbe neanche
servita ad imporre l’eliminazione di armi illegali.
Piuttosto, egli scrisse, “segnerà un momento storico di
ribaltamento – il momento in cui Washington prende
davvero il possesso della sicurezza strategica nell’era
della globalizzazione.”
Gli osservatori noteranno che l’Arco di Instabilità di
Barnett corrisponde grosso modo con regioni di grande
ricchezza di petrolio, gas e minerali – un’altra
reminiscenza della bozza di “Guida alla Pianificazione
della Difesa” del 1992 di Wolfowitz: asseriva che
l’obiettivo chiave della strategia degli Stati Uniti
doveva tradursi nell’ “impedire ad ogni potere ostile di
dominare una regione le cui risorse, sotto un controllo
consolidato, potrebbero essere sufficienti a generare
potere globale”.
Camp Bondsteel (Kossovo)
Tra le molteplici teorie che spiegano il comportamento
degli Stati Uniti, una merita di essere menzionata: in
uno studio pubblicato nel febbraio 2002, Zoltan
Grossman – nel tentativo di capire le radici e le
motivazioni della politica estera americana attuale –
notava che, dalla fine della Guerra Fredda dieci anni fa,
gli Stati Uniti avevano condotto varie guerre in Iraq,
Somalia, Yugoslavia e Afganistan.29 Egli sosteneva
che la ragione principale per tale ansia di combattere30
29
Zoltan Grossman, “New US Military Bases: Side Effect or Cause
of War?” (Università di Madison, Wisconsin – Dipartimento di
Geografia)
30
Grossman nota che, dalla fine della Guerra Fredda, gli Stati Uniti
hanno fatto la guerra anche se la diplomazia stava funzionando o
avrebbe potuto essere usata per evitare il conflitto. Per esempio: Nel
1991 in Iraq, Hussein si stava disimpegnando dal Kuwait grazie ad
un piano sovietico. In Somalia nel 1992, la carestia stava
diminuendo, ma l’intervento fu fatto comunque.In Serbia nel 1999 la
Yugoslavia aveva già ottemperato ai termini per il ritiro (dal
Kossovo) sanciti alla conferenza di Rambouillet. In Afganistan nel
2001 non fu esercitata molta pressione diplomatica sui Talebani per
la consegna di Bin Laden o dei suoi generali. Potremmo aggiungere
l’esempio dell’Iraq nel 2003: Hussein si stava attenendo ai termini
delle Nazioni Unite e stava distruggendo le poche armi che gli erano
rimaste, ma gli Stati Uniti hanno sabotato apertamente il processo di
ispezione delle Nazioni Unite per poter attaccare. Siamo tentati di
concludere che Washington è andato in guerra non come ultima
risorsa, ma perché vedeva la guerra come una comoda opportunità
per inseguire scopi più ambiziosi.
Guerre & Pace
11
L’OMBRA DELLE BASI
potrebbe semplicemente essere un certo declino
economico degli Stati Uniti rispetto ad altri due blocchi
emergenti: l’Europa (il blocco dell’Euro) e l’Asia
Orientale (Giappone, China e le “quattro tigri”
asiatiche – il blocco dello Yen). Sottoposti a feroce
competizione da parte di questi due blocchi emergenti,
gli Stati Uniti si trovarono di fronte alla prospettiva di
essere messi da parte economicamente nella maggior
parte della massa continentale Eurasiatica. In questo
senso, i grandi interventi militari degli Stati Uniti dal
1990 potrebbero essere visti come un’offensiva per
recuperare influenza sulla massa Eurasiatica, con lo
scopo di evitare di essere marginalizzati e di rimanere
indietro nel gioco economico globale. Dal punto di
vista militare, gli Stati Uniti sono ancora
indubbiamente una superpotenza senza rivali. Essi
continuano a proiettare quella superiorità militare in
nuove regioni strategiche, come futuro contrappeso ai
suoi concorrenti economici, a scopo di creare un
“blocco del Dollaro” sostenuto militarmente , cuneo
situato geograficamente tra i suoi competitori – tra il
“blocco dell’Euro” ed il “blocco dello Yen”.
In conclusione, tutto – dai documenti ufficiali al loro
comportamento effettivo – sembra indicare che gli
Stati Uniti si stiano inserendo aggressivamente in
nuove regioni del mondo, per impedire ai propri
concorrenti di fare la stessa cosa. Zoltan Grossman
identifica due fini dietro l’attuale politica estera degli
Stati Uniti:
Dal 1990, abbiamo visto che ogni intervento in larga
scala degli Stati Uniti ha lasciato una moltitudine di
nuove basi militari americane31 in regioni dove gli
Stati Uniti non avevano mai avuto un punto
d’appoggio. In un momento molto critico della storia,
l’apparato militare americano si sta quindi inserendo in
aree strategiche del mondo, e sta ancorando l’influenza
geopolitica degli Stati Uniti nel cuore continentale
[“middle ground”] tra l’Europa ad Ovest, la Russia a
Nord e la Cina ad Est – trasformando in questo modo
la regione in una “sfera d’influenza” americana. È
importante notare che, non appena questa sfera
d’influenza USA tra Europa e Asia Orientale ha
cominciato a consolidarsi, l’attenzione degli americani
si è spostata immediatamente verso l’Iraq e l’Iran quali
unici poteri regionali rimasti sul loro cammino [Cf.
Appendix II & Appendix V]. Simultaneamente, in altre
parti del mondo, gli Stati Uniti hanno rafforzato il loro
controllo sulle loro sfere d’influenza esistenti, quali
l’America Latina e l’Asia Meridionale. Per esempio,
con la scusa della “Guerra al Terrorismo”, essi hanno
tentato (discretamente) di ristabilire i loro diritti di
accesso alle basi delle Filippine. La loro attenzione si è
anche rivolta alla Corea del Nord. Questo potrebbe
essere parte di uno sforzo per affermare l’influenza
degli Stati Uniti in Asia Orientale, mentre la Cina
emerge come potenza globale ed altre economie
asiatiche si riprendono dalle crisi finanziarie.
DAGLI ATTACCHI DELL’11 SETTEMBRE 2001,
LE FORZE DEGLI STATI UNITI HANNO:
q
Lo scopo a breve termine è di accrescere il
controllo delle grandi imprese americane sul petrolio
necessario all’Europa e all’Asia Orientale;
q
Lo scopo a lungo termine è di stabilire nuove
sfere d’influenza americane e di eliminare ogni
ostacolo a questo processo – siano militanti religiosi,
nazionalisti laici, governi nemici o anche alleati
scomodi
2. QUADRO GENERALE DELLE BASI
MILITARI
STATUNITENSI
PER
REGIONE
§
costruito, potenziato o espanso basi militari su
tutto l’ ”Arco di Instabilità”;
§
autorizzato prolungate missioni di addestramento
o dispiegamenti di truppe senza limiti precisi negli
“Stati Anello di Congiunzione” [Seam States]
quali Gibuti, le Filippine e l’ex-repubblica
Sovietica della Georgia;
§
negoziato accesso ad aeroporti e porti nei Balcani,
Asia Centrale e Orientale, Medio Oriente e Africa;
§
intrapreso grandi esercitazioni militari, che
coinvolgono migliaia di soldati americani, in
luoghi quali India, Giordania, Kuwait, Georgia, le
Filippine, e in vari altri stati dell’Europa Centrale
ed Orientale, dell’Africa e dell’America Latina;
§
potenziato e stabilito basi supplementari per la
raccolta di “intelligence” in tutto il mondo (come
nello Yemen, in Asia Centrale e in America
Latina);
§
iniziato a pre-posizionare materiale militare
nell’Asia Centrale e nei Balcani, ed aggiunto
migliaia di tonnellate di equipaggiamento militare
a depositi già preposizionati nel Medio Oriente e
negli stati del Golfo Persico, tra cui Israele,
Giordania, Kuwait e Qatar.
DISPOSIZIONI GIURIDICHE TRA GLI STATI
UNITI E I PAESI OSPITANTI
31
Ogni volta che un intervento viene pianificato, i pianificatori del
Pentagono si concentrano sulla costruzione di nuove installazioni
militari USA o sull’ottenimento di diritti di utilizzo di basi estere, in
modo da sostenere la guerra in preparazione. Ma una volta il
conflitto terminato, le forze USA hanno tendenza a non ritirarsi. Ciò
dimostra che le basi militari americane non sono costruite solo in
appoggio all’intervento (come affermano esponenti ufficiali), ma
l’intervento stesso permette una occasione conveniente per istituire
delle basi. Quindi le basi possono essere viste come la causa della
guerra e non come un effetto collaterale.
12
La maggior parte delle nuove basi avanzate e delle
posizioni operative32 sono state istituite con
32
Esistono diversi tipi di presenza militare USA, secondo il livello di
impegno, che il DoD classifica in: (1) “Forward Operating Base”
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
disposizioni segrete ad hoc espresse in vari tipi di
accordi bilaterali, trattati, promemoria di intesa
[Memoranda of Understanding (MoUs)]. Da queste
disposizioni derivano degli “accordi per basi militari”
più precisi – che comprendono gli “Accordi sullo
Status delle Forze” [SOFAs] e vari tipi di accordi che
garantiscono l’accesso. I precedenti SOFAs (e accordi
ad essi connessi che stabilivano basi o garantivano
l’accesso) firmati durante la Guerra Fredda erano
pubblici. Al contrario, le recenti disposizioni
americane a questo riguardo sono riservate.
Gli “Accordi sullo Status delle Forze” [SOFAs]
definiscono lo status legale del personale e dei
possedimenti americani sul territorio di un’altra
nazione. Lo scopo di tali accordi è di stabilire diritti e
responsabilità sia degli Stati Uniti che dello stato ospite
in materia di giurisdizione civile e penale, e per
questioni riguardanti il porto dell’uniforme, il porto
d’arma, l’esenzione fiscale e doganale, l’ingresso e
uscita del personale e dei possedimenti, e la risoluzione
di domande d’indennizzo per danni.
I SOFAs possono avere tre forme: uno status per il
personale tecnico e amministrativo previsto dalla
Convenzione di Vienna sui Privilegi Diplomatici,
comunemente denominati status A e T; un “mini”
SOFA spesso usato per brevi permanenze (come le
esercitazioni militari); e un SOFA completo e
permanente per il personale stanziato. Le varie
disposizioni dipendono dalla natura e dalla durata
dell’attività militare degli Stati Uniti nel paese ospite,
dallo stato delle relazioni con quel paese, e dalla
situazione politica prevalente all’interno del paese.
Il SOFA è generalmente parte integrante di un accordo
generale per le basi militari (comprendente anche un
“accordo di accesso” [access agreement]), che
autorizza le forze militari degli Stati Uniti ad operare
all’interno del paese ospite. Ogni SOFA è unico e
viene abitualmente negoziato separatamente (sebbene
gli Stati Uniti abbiano un SOFA multilaterale con i
membri della NATO). I SOFAs disciplinano la
giurisdizione civile e penale. Essi sono strumenti vitali
con cui il Dipartimento della Difesa espleta la sua
direttiva politica di “proteggere, nella maggior misura
possibile, i diritti del personale degli Stati Uniti che
può essere soggetto a processi penali da parte di
tribunali stranieri e a detenzione in prigioni straniere”.
La maggior parte dei SOFAs riconoscono il diritto del
governo ospite alla “giurisdizione primaria”, con due
eccezioni (che generalmente si applicano solo in
processi penali che riguardano personale americano):
quando il reato è commesso da americani contro altri
americani, e quando il reato è commesso da militari
americani in servizio. In ambedue i casi gli Stati Uniti
hanno giurisdizione primaria sugli imputati americani.
Come lo fa notare il DoD, gli Stati Uniti devono usare
diversi tipi di accordi in risposta alla crescente
“complessità” della loro presenza oltremare: “Non solo
gli Stati Uniti continuano ad avere forze stanziate su
basi fisse in Europa e nel Pacifico, ma stanno anche
perseguendo iniziative che comprendono vari accordi
di accesso necessari al sostegno della proiezione di
forza o del programma di Partenariato per la Pace.
Altre iniziative già esistenti vengono ora perseguite
con maggior vigore – vendite di materiale militare
all’estero, esercitazioni, scambi di unità e di soldati
individuali, e visite. In aggiunta alle operazioni militari
tradizionali, gli Stati Uniti sono ora impegnati in nuovi
tipi di iniziative, quali il controllo della droga e le
missioni di pace delle Nazioni Unite.” Per ogni tipo di
attività oltremare – che si tratti di disposizioni di
accesso, di “peacekeeping”, di esercitazione militare,
di casi di vendita di materiale militare all’estero, di
scambio di unità o di visita di aerei – il DoD valuta con
cura quale tipo di accordo [basing agreement], di
SOFA e di disposizioni aggiuntive sia necessario.
I SOFAs comprendono una serie di provvedimenti
standard che potrebbero essere discutibili, dal punto di
vista del paese ospite:
§ Accesso militare generalizzato ai porti e allo
spazio aereo del paese ospite;
§ Immunità diplomatica per il personale militare
degli Stati Uniti;
§ Proibizione di accesso o di ispezioni delle
installazioni USA da parte delle autorità locali;
§ Esenzioni fiscali;
§ Missione non specificata o ambigua;
§ Affitto lungo o talvolta illimitato.
In genere, i paesi ospitanti si aspettano e/o ricevono
una contropartita in cambio della firma di tali
disposizioni e dell’autorizzazione della presenza
militare americana sul loro territorio. Esempi di
alcuni provvedimenti solitamente compresi negli
accordi per istituire basi americane sono:
§
(FOB), (2) “Forward Operating Location” (FOL) and (3) “Forward
Support Location” (FSL). Una FOB può ospitare una media di
1 0003 000 soldati per turni brevi, mentre una FOL solo alcune centinaia.
Il personale stanziato in questo tipo di basi è normalmente molto
limitato. Spesso sono di proprietà dell’esercito del paese ospitante.
Una FSL invece serve spesso da deposito per materiale
preposizionato, e non ospita necessariamente soldati USA. Inoltre,
esistono anche delle basi più permanenti.
[Definition of a Forward Operating Base: “A base established within
the operational area to support tactical operations. It will be
resourced to provide minimum services commensurate with
sustaining the required level of air effort”].
§
§
Concessioni commerciali e accesso a prestiti
vantaggiosi;
Equipaggiamento militare e addestramento;
Tolleranza tacita delle violazioni di diritti umani
che il governo ospitante potrebbe commettere
contro gruppi di opposizioni interni.
Guerre & Pace
13
L’OMBRA DELLE BASI
DESCRIZIONE DELLA PRESENZA MILITARE USA PER REGIONE
(A) Asia Centrale
L’interesse strategico degli Stati Uniti nell’Asia
Centrale iniziò prima degli attacchi dell’11 settembre,
ma la “Guerra al Terrorismo” ha fornito
all’amministrazione una scusa per accelerare il
processo. Già nella metà degli anni ‘90 questa regione
fu dichiarata ufficialmente sfera di vitale interesse
americano. Zbigniew Brzezinski, ex Consigliere per la
Sicurezza Nazionale del Presidente J. Carter [National
Security Adviser] e prominente analista politico,
mostrò chiaramente nel suo libro The Grand
Chessboard (La grande scacchiera) come l’attuale
allargamento dell’apparato militare degli Stati Uniti
abbia poco a che fare con lo sradicamento del
terrorismo, ma come sia piuttosto teso a raggiungere
certi obiettivi geopoliticamente strategici in Asia
Centrale. Lo scopo è di accerchiare l’area con basi
militari americane per stabilire, mantenere ed
aumentare l’egemonia degli Stati Uniti nella zona. Ciò
facendo, gli Stati Uniti intendono tenere a bada
l’ambizione Cinese, Russa e Iraniana, mentre allo
stesso tempo incoraggiano lo sfruttamento delle risorse
di petrolio e di gas della regione in modo da favorire
gli interessi strategici di lungo periodo degli Stati
Uniti. Come Thomas Donnelly - vice direttore del
PNAC - scrisse in un e-mail fatto circolare tra i
principali analisti militari, “ il perimetro imperiale si
sta espandendo in Asia Centrale”.33
In sintonia con l’analisi di Brzezinski, il Dipartimento
della Difesa stava discretamente lavorando già prima
dell’11 settembre con le nazioni dell’Asia Centrale per
stabilire legami più stretti, in molti casi attraverso il
programma “Partenariato per la Pace” della NATO.
Discussioni bilaterali furono anche intraprese con paesi
come l’Usbechistan.
La
“Revisione
Quadriennale
della
Difesa”
[Quadriennal Defense Review] del Dipartimento della
Difesa (pubblicata poco prima dell’11 settembre)
identificava l’Asia del Nord Est ed il litorale dell’Asia
Orientale come “aree critiche” per l’interesse degli
Stati Uniti, che non possono essere abbandonate ad una
“dominazione ostile”. Il rapporto prediceva che l’Asia
stava “emergendo come una regione suscettibile di
competizione militare su grande scala”, con una
“mescolanza volatile di potenze sia crescenti che
decadenti”. Affermava che “un competitore con
formidabili risorse sarebbe emerso nella regione”,
aggiungendo che la “bassa densità di basi americane
[in questa] regione critica [...] rende prioritario
assicurarsi accordi supplementari di accesso a basi e
infrastrutture [straniere]”.
In risposta agli attacchi del 11 settembre, le forze degli
Stati Uniti aumentarono la loro presenza nell’Asia
Centrale
per
prepararsi
al
bombardamento
33
Citato dal Washington Post, 9 febbraio 2002
14
dell’Afganistan. Entro dicembre 2001 le truppe
americane avevano formalmente ottenuto l’accesso alle
ex repubbliche sovietiche dell’Asia Centrale (eccetto il
Turkmenistan) e cominciavano ad usare pienamente le
ex basi militari sovietiche della regione. Entro gennaio
2002, (secondo stime di esperti russi e cinesi) da 8 000
a 10 000 soldati americani – con l’esclusione dei
consiglieri militari e delle Forze Speciali – vi si erano
già stabiliti.
Da allora numerosi esponenti del governo americano
hanno ripetutamente dichiarato che la "Guerra al
Terrorismo" sarebbe stata lunga ed indefinita,
insinuando che gli Stati Uniti avrebbero dovuto
mantenere truppe nell’Asia Centrale per molto tempo.
Secondo The Guardian l’amministrazione ha assicurato
in pubblico che gli Stati Uniti avrebbero abbandonato
le basi dell’Asia Centrale una volta finita la "Guerra al
Terrorismo", ma in privato i funzionari ammettono che
“sono lì per rimanerci”. 34
Ciò è stato confermato da molte dichiarazioni
pubbliche da parte di vari esponenti del governo
statunitense:
q
Colin Powell disse alla “Commissione delle
Relazioni Internazionali della Camera dei
Rappresentanti” [House International Relations
Committee] nel Febbraio 2002: “L’America
continuerà ad interessarsi all’Asia Centrale e a
mantenervi una presenza inimmaginabile finora,
neanche nei nostri sogni”.
q
Elizabeth Jones, assistente al Segretario di Stato,
disse al Congresso: “Quando il conflitto afgano
sarà finito non lasceremo l’Asia Centrale.
Abbiamo piani ed interessi a lungo termine in
questa regione e [...] i paesi che vi appartengono
riceveranno assistenza, non solo in cambio di
concreti passi verso l’accelerazione delle
riforme”... “[gli Stati Uniti] vogliono anche
accesso a basi [nella regione] per tutto il tempo
che ci servirà”.
q
Donald Rumsfeld, durante un viaggio in Asia
Centrale dopo la campagna afgana, ha incontrato
i
capi
del
Kirghisistan, Turkmenistan,
Kazachistan e Afganistan. Riassumendo le
intenzioni degli Stati Uniti nella regione, ha
dichiarato: “Il nostro interesse fondamentale è di
avere la capacità di entrare in un paese ed avere
una relazione ed avere un’intesa sulla possibilità
di atterrare o sorvolare o fare cose che siano di
mutuo beneficio per ambedue - ma non abbiamo
piani particolari per basi permanenti”. Si
potrebbe aggiungere che gli Stati Uniti ora
preferiscono la formula più flessibile e più a buon
mercato della “Posizione Operativa Avanzata”
34
The Guardian, MacAskill, Marzo 2002
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
[FOL] o del semplice diritto di accesso alle
strutture dei paesi ospiti.
Secondo varie stime ufficiali americane, l’assistenza a
quei paesi (progettata per durare almeno 10 anni)
supererà $11 miliardi.35 Inoltre, l’Amministrazione
Bush sta facendo abrogare una legge dell’era della
Guerra Fredda che condizionava le relazioni
commerciali con le ex repubbliche sovietiche, tenendo
conto del livello di rispetto dei diritti umani. Nel
Gennaio 2002 Humans Rights Watch pubblicò un
rapporto annuale, rivelando che gli Stati Uniti stavano
prendendo accordi con gli stati dell’Asia Centrale per
istituire delle basi militari senza alcuna considerazione
per i problemi di democrazia o diritti umani.36 Questo
può sembrare un’impresa molto costosa, sia in termini
economici che politici, ma in realtà, i benefici
potenziali per gli Stati Uniti sono enormi:
1) Crescente egemonia militare in una parte del
mondo che non era ancora sotto l’egida degli Stati
Uniti;
2) Influenza strategica ampliata alle spese di Russia e
Cina;
3) Vantaggio politico chiave ed accesso alle
sostanziali riserve di petrolio e gas dell’Asia
Centrale, che sfuggono al controllo dell’OPEC.
Il Dipartimento della Difesa ha recentemente affermato
che sta disegnando i piani per un’ “impronta”
[footprint] militare di lungo periodo in Asia Centrale. Il
Pentagono ha migliaia di soldati nella regione, tra cui
fanteria, truppe per operazioni speciali, polizia militare
e analisti di “intelligence” – insieme ad aerei da caccia,
aerei da trasporto e da rifornimento, e aerei da
ricognizione e sorveglianza. Esso ha iniziato una
regolare sostituzione e rotazione delle truppe, così
istituzionalizzando i
dispiegamenti temporanei di emergenza iniziali.37
(B) Europa Orientale e Balcani
Secondo un articolo pubblicato da The Guardian il 28
giugno 2003, gli Stati Uniti hanno attualmente oltre
6 000 soldati schierati nei Balcani [Cf. Appendix VII –
Military and Dependent Strengths by Country ].
Attraverso l’Europa Orientale ed i Balcani, le nuove
democrazie sanno che l’ospitalità alle forze americane
porterà loro un’influenza accresciuta e risorse
finanziarie. Dal punto di vista americano, il Generale
James Jones, comandante di EUCOM, nella sua
rivalutazione dell’ “impronta” [“footprint” ] degli Stati
Uniti in Europa ed in Africa (che comprende una
riconsiderazione delle basi e degli impegni degli Stati
Uniti), sembra raccomandare un importante
allontanamento dall’Europa Occidentale ed una
crescente attenzione verso l’Est - l’Europa Orientale ed
oltre. La nuova attenzione sarà rivolta verso le aree
intorno alla periferia Europea che hanno particolare
importanza economica e geopolitica. Secondo il
Generale Charles Ward, il sostituto di Jones, il centro
di gravità rimarrà l’Europa Centrale ma il centro di
attività si sposterà.38
Jack Spencer e John C. Hulman della Heritage
Foundation39 sostengono che, dato il crescente bisogno
operativo al di fuori dell’Europa, le basi in Germania
hanno perso il loro interesse strategico. La Germania
non si trova più sulla linea di frattura di futuri conflitti
militari, e la struttura americana delle basi europee
dovrebbe riflettere questa realtà. Poiché è probabile
che i futuri conflitti ruoteranno intorno al Caucaso, il
Medio Oriente e l’Africa del Nord, l’istituzione di
posizioni avanzate più vicine geograficamente a quelle
regioni permetterà agli Stati Uniti di rispondere più
rapidamente a crisi in quella zona. I due analisti
aggiungono che attualmente gli Stati Uniti dipendono
troppo da un numero ridotto di paesi (come mostrato
dal recente rifiuto del parlamento turco di concedere le
proprie basi durante il conflitto con l’Iraq, ed il
tentativo del parlamento tedesco di rifiutare lo spazio
aereo agli aerei americani). Essi sottolineano che
l’esistenza di basi importanti in Romania e in Bulgaria,
per esempio, allevierebbe parte del fardello che devono
sopportare paesi come la Germania e la Turchia.
Secondo i due analisti, gli Stati Uniti dovrebbero
approfittare delle molteplici basi dell’era sovietica che
sono disponibili attraverso tutta l’Europa Orientale, e
ristrutturarle con l’aiuto dei paesi ospiti (molti di loro
sono o aspirano ad essere membri della NATO e sono
desiderosi di piacere agli Stati Uniti). Ciò costerebbe
molto meno che costruire basi totalmente nuove; e la
mancanza di rigorose norme ambientali o di altro
genere in questi paesi permetterebbe una maggiore
libertà operativa ai militari USA.
Secondo EUCOM le nuove basi in Europa saranno
probabilmente più piccole e sosterranno delle truppe
che si alterneranno, allontanandosi dal modello
dell’Europa Occidentale dei complessi permanenti, con
soldati stanziati per anni insieme ai loro numerosi
familiari.40 L’idea generale e lo scopo ultimo dietro il
39
35
CDI Russia Weekly #190, 25 gennaio 2002
36
Questo é stato segnalato dal New York Times nel gennaio 2002. I
paesi che potrebbero presto uscire dalla lista nera Americana sono:
Armenia, Azerbaijan, Kazachistan, Moldavia, Tajikistan,
Turkmenistan, Ucraina, Usbechistan.
37
Il New York Times del 10 gennaio 2002 segnalò che i pianificatori
militari americani stavano considerando di far ruotare le truppe nella
regione ogni sei mesi, eseguendo contemporaneamente esercitazioni
militari con i paesi dell’Asia Centrale, ed aumentando anche il
supporto tecnico per questi paesi.38 Intervista alla BBC, 14 Maggio
2003
“Restructuring America’s European Base Structure For The New
Era”, The Heritage Foundation Backgrounder, April 25, 2003 –
N.1648
40
Le forze degli Stati Uniti si alterneranno su basi più piccole e più
spartane per periodi da sei mesi a un anno, senza le loro famiglie
(invece di essere stanziati per anni con le loro famiglie, su basi
attrezzate con costose infrastrutture, scuole, etc.) Le nuove basi
dovrebbero anche essere meno care da costruire: per esempio, è
previsto che l’Esercito costruisca una base di $ 692 milioni a
Grafenwoehr in Germania, per ospitare 3 500 soldati e 5 000
familiari. In paragone il più grande deposito di equipaggiamento preposizionato dell’Esercito recentemente costruito in Qatar costa solo
$110 milioni.
Guerre & Pace
15
L’OMBRA DELLE BASI
nuovo “footprint” del Dipartimento della Difesa conformemente alle proposte di ristrutturazione delle
forze armate di Bush (Senior) del 1990 - è di
restringere la presenza di militari stanziati in paesi
stranieri, ma di mantenere abbastanza potenza e
flessibilità per difendere gli interessi americani.
Come parte del concetto di “deterrenza avanzata”
sviluppato nel 2001 dalla Revisione Quadriennale di
Difesa [Quadriennal Defense Review] (che prevedeva
la ridistribuzione di basi operative avanzate ed il
miglioramento delle capacità di effettuare spedizioni),
e conformemente alla nuova “footprint” del Generale
Jones, le forze di spedizione saranno posizionate
nell’Europa Sud Orientale, in posti come la Romania e
la Bulgaria, per permettere un transito più facile verso
le aree problematiche. In uno sforzo più ambizioso,
potrebbe essere creato in Polonia un centro di
addestramento congiunto simile al “Centro di
Addestramento Nazionale” [US National Training
Center] degli Stati Uniti.
[Cf. Appendix VII – Military and Dependent Strengths
by Country & Appendix VIII – Major US Installations
in Europe: Current and Possibile Future]
(C) Medio Oriente
Gli Stati Uniti hanno mantenuto una sostanziale
presenza militare in questa regione dalla guerra del
Golfo del 1991, specialmente in Arabia Saudita e in
Kuwait. Dopo gli attacchi dell’11 settembre questa
presenza è aumentata considerevolmente - un processo
che è culminato con l’istituzione di un protettorato
americano in Iraq in seguito all’attacco a questo paese
nel marzo 2003.
militare in Arabia Saudita e diminuire le loro forze in
Turchia, mentre prenderebbero in considerazione una
presenza a lungo termine in una o più basi in Iraq.
[Cf. Appendix XI – MIDDLE EAST ]
(D) Africa
I PIANIFICATORI MILITARI USA
SCOPRONO L’ AFRICA
Nel Luglio 2003 Bush visitò 5 nazioni africane –
Senegal, Sud Africa, Botswana, Uganda e Nigeria –
con ciò indicando che gli Stati Uniti stanno rivolgendo
la loro attenzione verso un continente che è sempre più
spesso visto come fonte sia di minacce che di
opportunità.
Nelle recenti settimane, Bush ha chiaramente invocato
la necessità di un cambio governo in Zimbabwe e in
Liberia, e gli Stati Uniti sono timidamente arrivati
quasi sul punto di mandare truppe americane in Liberia
come “peacekeepers”. Ancora una volta l’interesse
rinnovato nell’Africa da parte degli Stati Uniti trova le
sue radici nella "Guerra al Terrorismo", e nei
conseguenti cambiamenti della dottrina militare e della
strategia. Secondo le dichiarazioni ufficiali, gli Stati
Uniti tengono molto a prevenire che le nazioni povere
nell’ “Arco dell’Instabilità” diventino terreno fertile e
rifugi per i terroristi. Il prossimo passaggio logico può
solo essere un’accresciuta presenza militare in Africa,
il diritto di accesso a nuovi porti, ulteriori
autorizzazioni di aprire basi e un numero maggiore di
soldati impegnati sul territorio africano – siano essi
“peacekeeper”, addestratori militari, o soldati
dispiegati o stanziati.
Ma già nel marzo 2002, durante un viaggio nel Medio
Oriente, Dick Cheney - rivolgendosi a soldati
americani - dichiarò: “Il nostro paese è impegnato nel
Medio Oriente in quanto forza di stabilità e di pace a
lungo termine [...] Questa guerra finirà quando noi ed i
nostri alleati avranno portato la giustizia - in misura
completa - e nessun gruppo terrorista o governo potrà
minacciare la pace nel mondo”.41 Facendo eco alle
parole di Cheney, il Generale Richard Meyers disse al
periodico di difesa degli Emirati Arabi Uniti [UAE
Gulf Defense Magazine] che gli Stati Uniti
intendevano mantenere la loro presenza militare nella
regione per molto tempo.
Economicamente, l’Africa è anche vista come il
mercato mondiale meno sfruttato. Secondo Richard
Stevenson, gli Stati Uniti nutrono la speranza che le
sostanziali riserve di petrolio dell’Africa possano avere
un ruolo di maggior rilievo per l’economia
americana.42 Inoltre il controllo delle compagnie
americane sulle riserve di petrolio africane e una
“protezione” militare americana di questo nuovo flusso
petrolifero impedirebbe ad altre potenze (come
l’Europa) di tentare di spostarsi in Africa e fare la
stessa cosa da sole (conseguentemente aumentando il
loro potere sulla scena mondiale).
Il Pentagono sta ora conducendo un vasto riesame della
presenza militare americana a lungo termine nel Medio
Oriente. Gli Stati Uniti hanno attualmente accesso a
basi essenziali per le forze aeree, navali e terrestri in
Bahrein, Kuwait, Qatar, Arabia Saudita, Turchia e
Emirati Arabi Uniti. Secondo diverse fonti ci sono
circa 15 000 soldati americani stanziati su delle basi
del Medio Oriente - con l’esclusione di quelli
attualmente impegnati in combattimento/peacekeeping
in Iraq. Gli analisti sostengono che gli Stati Uniti
potrebbero presto ridurre o eliminare la loro presenza
Alcuni anni fa gli Stati Uniti iniziarono a negoziare
accordi con Gana, Senegal, Gabon, Namibia, Uganda e
Zambia per autorizzare aerei americani a volare
attraverso la regione e a rifornirsi sulle basi locali. Ma
ora il DoD desidera anche aumentare la cooperazione
militare con i paesi africani. Gli ultimi dettagli del
“piano per l’Africa” degli Stati Uniti sono stati rivelati
dal Wall Street Journal il 10 giugno 2003. Il Pentagono
pianifica di aumentare le forze americane a Gibuti nel
Corno d’Africa, dall’altra parte del Mar Rosso rispetto
allo Yemen. Intende anche istituire Posizioni Operative
41
Comunicato stampa dell’AP, March 13, 2002
16
42
The New York Times, July 6, 2003
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
Avanzate [FOLs] semi-permanenti in Algeria,
Marocco e forse in Tunisia, e stabilire basi minori in
Senegal, Gana e Mali. Secondo il Wall Street Journal
quelle basi avanzate potrebbero essere usate come
piattaforma per intervenire in paesi ricchi di petrolio,
particolarmente la Nigeria. Questo piano concorda
molto bene con la teoria di Barnett. Gli Stati Uniti
devono stabilire una presenza militare negli “Stati
Anello di Congiunzione” [Seam States] (quali Algeria
e Marocco) per poter intervenire nel “Gap” (quegli
stati caotici che resistono l’integrazione nel sistema
economico globale) se fosse necessario.
Ciò è confermato da Eric Schmitt nel New York Times
del 5 Luglio 2003: gli Stati Uniti stanno attivamente
cercando di espandere la loro presenza anche nei paesi
arabi del Nord Africa, oltre che nell’Africa SubSahariana, attraverso nuovi accordi per basi ed
esercitazioni di addestramento rivolte a combattere una
crescente minaccia terroristica nella regione. Questo è
un nuovo esempio di espansione militare statunitense
giustificata dalla "Guerra al Terrorismo". Più
precisamente, gli Stati Uniti vogliono migliorare i loro
legami militari con alleati come il Marocco e la
Tunisia, e stanno anche cercando di ottenere un
accesso di lunga durata in paesi come Mali e Algeria.
Le fonti ufficiali affermano che i militari americani
potrebbero usare queste basi per addestramenti
periodici o per colpire i terroristi. Gli Stati Uniti stanno
anche cercando di migliorare ed allargare accordi
esistenti per il rifornimento di velivoli in posti come
Senegal e Uganda. Infine, secondo una fonte non
confermata, il DoD sta attualmente negoziando con lo
stato della ex- Somalia britannica [Somaliland] – che
ha recentemente dichiarato la sua indipendenza – per il
diritto di usare il suo porto.
Esponenti del DoD affermano che gli Stati Uniti non
hanno l’intenzione di stabilire basi permanenti in
Africa. Invece, la proposta del Comando Europeo degli
Stati Uniti (EUCOM) – che sovrintende anche alle
operazioni militari nella maggior parte dell’Africa – è
la seguente: le truppe americane di stanza in Europa si
avvicenderanno più spesso in campi o aeroporti
rudimentali in Africa. I Marines passeranno anche più
tempo al largo delle coste dell’Africa Occidentale.
Nell’autunno del 2003, EUCOM manderà degli
addestratori a lavorare con soldati di 4 stati nord
africani in missioni di pattugliamento e di raccolta di
intelligence. I Dipartimenti della Difesa e di Stato
inizieranno un programma di $6,25 milioni per fornire
addestramento, ma anche radio e camioncini Toyota, a
piccole unità degli Eserciti della Mauritania, del Mali,
del Niger e del Ciad. Fonti ufficiali notano che alcuni
di quei programmi sarebbero ancora nella fase
progettuale e dovrebbero ancora essere approvati da
Donald Rumsfeld. Ma altre iniziative militari in Africa
sono già avviate o inizieranno presto.
L’impegno ed i costi per il DoD in Africa saranno
bassi in paragone a missioni nel Golfo Persico o la
penisola di Corea, ma i comandanti dicono che le
minacce
emergenti
richiedono
un’accresciuta
attenzione verso questo continente da parte del
Pentagono. Per esempio, il fatto che il Generale Ward
(che comandò le forze americane nella guerra di
Afganistan) ora passi metà del suo tempo ad occuparsi
di argomenti relativi all’Africa è decisamente un segno
della crescente preminenza dell’Africa nella scala delle
priorità americane. Confermando questa nuova
tendenza, il Generale James Jones del Corpo dei
Marines – capo di EUCOM e architetto del nuovo
“footprint” della presenza militare americana all’estero
– affermò in un intervista nel luglio 2003: “L’Africa,
come può essere visto dai recenti avvenimenti,
costituisce certamente un problema crescente.
Proseguendo la guerra globale al terrorismo, saremo
costretti ad andare dove i terroristi si trovano. E
abbiamo prove, almeno in via preliminare, che un
numero crescente di questi grandi aree senza governo e
senza controllo diventeranno potenziali rifugi per quel
tipo di attività”. L’intelligence militare degli Stati Uniti
sostiene che grandi fasce del Sahara, dalla Mauritania
nell’Ovest al Sudan nell’Est, stanno diventando aree
predilette dai gruppi terroristi, compreso Al Qaeda.
Come in America Latina, il traffico di droga viene
anche invocato come scusa per l’intervento. Il
Generale dell’Aeronautica Jeffrey Kohler, Direttore
della Politica e dei Piani [Director of Plans and Policy]
di EUCOM, ha dichiarato durante una recente visita in
Marocco, Tunisia e Algeria: “Quello che non vogliamo
vedere in Africa è un altro Afganistan, un cancro che
cresce nel nulla”. Disse che la sua visita era parte di
una azione preventiva a più ampio respiro.
Fonti del Pentagono hanno svelato che, dalla fine dei
grandi scontri in Iraq, gli Stati Uniti hanno deviato
aerei da ricognizione e satelliti dall’area medioorientale per osservare l’Africa con più attenzione, e
per condividere le informazioni con governi africani
amici. I solleciti del DoD per espandere ed
approfondire i legami con l’Africa stanno ricevendo
risposte ampiamente positive da parte di molti dei
paesi sollecitati. Idriss Jazairy, l’ambasciatore algerino
presso gli Stati Uniti ha dichiarato: “Siamo
estremamente interessati nell’espansione della nostra
cooperazione con gli Stati Uniti nei campi civile e
militare. Saremmo pronti a cooperare [con gli Stati
Uniti] nell’addestramento di squadre anti-terrorismo
africane per affrontare questa sfida comune”.43 È
importante ricordare che l’Algeria (come molti altri
governi in Africa) è pesantemente militarizzata, e che
non è un campione della democrazia e dei diritti
umani.
La rinnovata attenzione del DoD verso l’Africa fa parte
di un tentativo generale da parte di EUCOM di
rivedere l’ubicazione e riconsiderare la quantità delle
truppe impegnate nella zona di responsabilità
americana, composta da 93 paesi che vanno dalla
Russia al Sud Africa. Questa revisione fa dunque parte
dello sforzo globale del DoD di determinare dove
43
New York Times, July 5, 2003.
Guerre & Pace
17
L’OMBRA DELLE BASI
posizionare le forze americane sullo scacchiere
internazionale. Il Generale Jones ha recentemente
dichiarato che prefigurava un sistema che ha
denominato “famiglia di basi”, che in Africa
comprenderebbe:
1) Basi avanzate, forse con un aeroporto vicino, che
potrebbero ospitare fino ad una brigata, cioè da
3 000 a 5 000 soldati;
2) Posizioni Operative Avanzate (FOLs), che
sarebbero basi con scarso equipaggiamento dove
Forze Speciali, Marines, o possibilmente un
plotone o una compagnia di fanteria potrebbero
sbarcare in numero crescente secondo le necessità
della missione.
Il Generale Jones concluse che i militari statunitensi
stavano: “cercando di inventare un’opzione più
flessibile” che permetterebbe un maggiore impegno
attraverso l’area di responsabilità degli Stati Uniti.
(E) India
Durante la Guerra Fredda, Indira Gandhi rifiutò di dare
delle basi ai sovietici, ma protestò anche quando gli
Stati Uniti si stabilirono a Diego Garcia (quando i
Britannici offrirono loro le strutture portuali). I
successivi governi indiani del Partito del Congresso
furono ugualmente riluttanti a stringere un’alleanza
con gli Stati Uniti, per fedeltà alla politica di “Non
Allineamento” di Nehru condotta dai tempi
dell’ottenimento dell’indipendenza da parte dell’India.
Alcuni esponenti indiani ora sembrano voler
riconsiderare la politica estera del loro paese e spingere
la nuova alleanza con gli Stati Uniti alla sua logica
conseguenza – la coordinazione logistica militare.
Durante una vista ufficiale in Australia, il Ministro
della Difesa Indiano Jaswant Singh disse che l’India
era aperta all’idea di offrire l’uso di basi militari
indiane alle forze armate americane. Egli aggiunse che
“la cooperazione militare [era] possibile” tra l’India e
gli Stati Uniti. Il prossimo passo logico sarà
probabilmente l’autorizzazione di basi militari
americane in India, o almeno l’accesso per gli Stati
Uniti a basi indiane. Egli affermò recentemente: “La
cooperazione tra le [nostre] forze armate è anche uno
degli elementi della cooperazioni tra India e Stati Uniti.
Ma è forse un po’ troppo presto per parlare già di
accesso alle basi. Lasciamo queste cose evolvere con il
tempo”.
Secondo una dispensa del “Press Information Bureau
of India” (5 dicembre 2001), il terzo incontro del
Gruppo di Politica della Difesa Indo-Statunitense si
tenne a Nuova Delhi i 3 e 4 dicembre 2001. Il
Sottosegretario per la Politica del DoD Douglas Feith
ed il Segretario della Difesa Indiano Yogendra Narain
parteciparono a quell’incontro. Le due parti si
trovarono d’accordo per mettere nuova enfasi sulla loro
cooperazione in materia di difesa e per iniziative antiterrorismo. Una futura cooperazione tra i due paesi
significherebbe accresciuti scambi tra le forze armate
dei due paesi ed altre attività congiunte.
Nel febbraio 2002 le tre forze armate dei due paesi si
incontrarono per fare il punto sullo stato della
cooperazione tra i due eserciti, per pianificare
cooperazione futura, e per assicurare lo svolgimento
delle visite, esercitazioni e programmi di
addestramento previsti – quali, per esempio,
esercitazioni congiunte di addestramento tra i Marines
degli Stati Uniti e le corrispondenti forze indiane.
Nel giugno 2003 il DoD raccomandò di considerare
l’India come un partner strategico degli Stati Uniti e di
vendere tecnologia ed equipaggiamento americani
modernissimi a questo paese, allo scopo di assicurare
l’inter-operabilità tra le due forze armate per potere
essere affrontare al meglio qualsiasi crisi o minaccia
regionale.44
Il “Chairman” dei Capi di Stato Maggiore degli Stati
Uniti, Generale Richard Myers, visitò l’India il 29
luglio 2003 e dichiarò che il suo incontro con la sua
controparte indiana Ammiraglio Madhvendera Singh
“[era] rivolto a promuovere grandi esercitazioni
militari congiunte tra India e Stati Uniti”.45 Inoltre, un
incontro del Gruppo di Politica di Difesa IndoStatunitense e due altre conferenze militari ebbero
luogo ad agosto 2003.
Un rapporto intitolato “La Relazione Militare IndoStatuntitense, Aspettative e Percezioni” affermava che
le aree di cooperazione più promettenti erano il settore
navale e le esercitazioni congiunte nella giungla fitta. Il
rapporto sottolineava che le esercitazioni dovevano
tenersi sul territorio indiano, perché “per la Marina
americana l’addestramento con la Marina indiana [era]
il modo migliore per acquisire expertise sulla regione
dell’Oceano Indiano”. Aggiungeva anche che i SEALS
(incursori) della Marina americana ed i Commando
della Marina indiana stavano pianificando esercitazioni
congiunte. Inoltre, le prime esercitazioni di
combattimento aereo mai tenute tra squadroni di caccia
americani e indiani sono pianificati per l’inizio del
2004.
(F) Asia Orientale
Alcuni analisti militari hanno sottolineato che, prima
degli attacchi dell’11 settembre, l’Amministrazione
Bush aveva già deciso di fare dell’Asia Orientale una
delle priorità militari americane, perché gli Stati Uniti
erano preoccupati dalla crescita della Cina ed altre
potenziali potenze nella regione (India e Giappone).
Esponenti ufficiali espressero timori non solo di un
possibile attacco della Cina a Taiwan, ma anche
riguardo la crescente instabilità nell’Asia Sud
Orientale. Questa percezione di minaccia potrebbe
spiegare il desiderio di proteggere (anche militarmente)
i vasti interessi commerciali che gli Stati Uniti hanno
nella regione.
44
45
18
Press Trust of India, June 3, 2003.
AFP – “US general says ties with India robust”, July 29, 2003.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
In maniera più generale molti analisti teorizzano che il
21° secolo potrebbe essere il “Secolo Asiatico”, ciò che
rappresenterebbe per gli Stati Uniti un enorme sfida.
Attori determinanti quali Cina, India, Giappone (ed in
misura minore Russia) potrebbero svilupparsi
rapidamente e diventare molto potenti. Il loro bisogno
di petrolio seguirà proporzionalmente il loro sviluppo
economico: la CIA ha stimato che entro il 2015, tre
quarti di tutto il petrolio Mediorientale sarà utilizzato
dall’Asia,
facendo
diventare
quella
regione
strategicamente critica per Cina, Giappone e India.
La Cina – grazie alla crescita dei suoi settori
manifatturieri ad alta e bassa tecnologia e alla sua
impressionante
crescita
economica
–
sarà
inevitabilmente il pilastro centrale dell’Asia di domani.
L’India, una potenza economica che sta germogliando,
con crescenti conoscenze di alta tecnologia, potrebbe
diventare il più importante rivale asiatico della Cina.46
Per quanto riguarda il Giappone, il paese asiatico più
avanzato
tecnologicamente,
esso
potrebbe
conseguentemente sentirsi alle strette tra i due giganti.
La sua vicinanza con la Cina sempre più potente e la
sua dipendenza dalle importazioni di petrolio
potrebbero costringere il Giappone ad allontanarsi
dagli Stati Uniti ed a consolidare le sue relazioni con le
potenze regionali crescenti – dovendo dipendere
sempre di più dalla Cina e dall’India per la protezione
del suo flusso di petrolio. Di fatti India e Cina stanno
già espandendo le loro forze navali e cercando di
dominare l’Oceano Indiano, sempre meno inclini a
lasciare il compito agli Stati Uniti. La Cina potrebbe
anche finire con il dominare nazioni più piccole come
le Filippine, la Corea del Sud e il Vietnam, togliendole
alla sfera d’influenza degli Stati Uniti.
Perciò non è una coincidenza che gli Stati Uniti si
stiano muovendo per accerchiare la Cina (e in un certo
modo per “contenerla” prima che acquisti troppo
potere), ma anche per stabilire forti legami militari con
l’India ed assicurare l’inter-operabilità tra le forze
armate indiane e americane. Gli Stati Uniti stanno
anche mantenendo una solida presa (militare) sul
Giappone, mentre proteggono il suo flusso di petrolio
dal Medio Oriente e cercano attualmente di
coinvolgerlo pesantemente nella stabilizzazione
dell’Iraq (militarmente e economicamente).
Le basi militari americane in Giappone e in Corea
rimangono una componente critica del deterrente e
della “strategia di risposta rapida” americani in Asia.
Perciò lo schema di base della presenza militare degli
Stati Uniti in Giappone e in Corea è probabilmente
destinata a rimanere costante nel futuro. Gli Stati Uniti
dovranno anche elaborare una nuova strategia
marittima in Asia per controbilanciare la crescente
presenza navale di India e Cina. Recentemente il
Pentagono ha cercato di aumentare la cooperazione tra
le forze navali di India e Stati Uniti, ed ha accettato di
46
trasferire equipaggiamento navale ad alta tecnologia
alla Marina indiana.
Alcune fonti hanno stimato il numero di truppe
americane in Asia Orientale a 100 000. Gli analisti del
DoD sostengono che gli Stati Uniti potrebbero non
solo spostare alcune delle proprie forze dalla Germania
verso l’Europa Orientale, ma anche diminuire la loro
presenza in Corea del Sud e in Giappone – come parte
di un maggior riallineamento delle forze statunitensi
oltremare. Verso la metà del 2003, il DoD stava di
fatto pianificando un ampio riallineamento delle sue
truppe in Asia, compreso l’uscita dei Marines dal
Giappone e l’istituzione di una rete di piccole basi in
paesi come Singapore, la Malesia (dove gli Stati Uniti
non hanno ancora una presenza sostanziale) e
l’Australia. Ci sarà anche un aumento degli stock di
materiale di guerra [War Reserve Material (WRM)]
pre-posizionato in Asia, materiale che sarebbe
depositato in vari porti in Giappone ed altrove – pronto
ad essere dispiegato rapidamente in caso di conflitto
nell’area. Questo riallineamento permetterebbe una
riduzione del numero di truppe stanziate nella regione
ed aumenterebbe l’efficienza della presenza militare
statunitense.
(G) America Latina e Caraibi
Ovunque in America Latina gli Stati Uniti stanno
usando pubblicamente la scusa della “Guerra alla
Droga” per ricostruire ed approfondire i loro legami
con le forze armate della regione e per istituire nuove
basi avanzate, allo scopo di incrementare la loro
capacità di controllo degli eventi e di scoprire
velocemente qualsiasi evento o cambiamento che possa
minacciare gli “interessi nazionali” degli Stati Uniti. I
soldati ed il personale a contratto che gli Stati Uniti
dispiegano nelle basi dell’America Latina e dei Caraibi
supera di gran lunga il personale delle agenzie civili
nella regione. L’installazione di quelle basi militari ha
avuto luogo senza la conoscenza, la partecipazione o
l’approvazione da parte dei cittadini di quei paesi.
Un esplosione di interesse militare americano e di
finanziamenti per il “Piano Colombia” ha avuto luogo
alla vigilia del ritiro americano dalle basi militari di
Panama nel dicembre 1999. Ci fu improvvisamente
una proliferazione di nuove basi americane e di accordi
di accesso militare nella regione. Secondo questi
accordi – che portarono all’istituzione di diverse
Posizioni Operative Avanzate (FOLs) – gli aerei USA
in missioni di “detection” e di sorveglianza ottennero
l’accesso a molti aeroporti o basi aeree nella regione.
Un piccolo numero di militari americani, di Doganieri
e di personale della DEA [Drug Enforcement Agency]
e della Guardia Costiera sono stanziati su queste FOLs
per dare assistenza agli aerei USA e coordinare le
comunicazioni e l’intelligence. Tuttavia le strutture
straniere sono gestite dai paesi ospiti e rimangono di
loro proprietà. Tutte queste strutture hanno richiesto
investimenti significativi da parte degli Stati Uniti per
riparazioni e migliorie. Nel 1999 l’Aeronautica stimava
il costo del rinnovamento di tre FOLs a Manta,
Ci si attende che per il 2050 l’India sia il paese più popolato del
mondo
Guerre & Pace
19
L’OMBRA DELLE BASI
Curaçao e Aruba a $122,5 milioni (che furono per lo
più forniti dal pacchetto di aiuti alla Colombia).
L’aumento del numero di questo nuovo tipo di basi
(più piccole, più flessibili e meno impegnative)
costituisce una decentralizzazione della presenza
militare americana nell’area, ed è stata la risposta di
20
Washington alla riluttanza dei leader regionali ad
ospitare grandi basi o complessi militari statunitensi.
L’ “architettura di teatro” [theater architecture] della
regione dell’America Latina e dei Caraibi – come
SOUTHCOM chiama questa complessa ragnatela di
strutture e funzioni – è attualmente in transizione.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
NUOVE BASI MILITARI AMERICANE:
CAUSA OD EFFETTO SECONDARIO DELLA GUERRA?
Zoltan Grossman - 5 Febbraio 2002
Dalla fine della guerra fredda una decina di anni fa, gli
Stati Uniti sono entrati in guerra contro l'Iraq, la
Somalia, la Yugoslavia e l'Afghanistan. Questi
interventi sono stati reclamizzati come spedizioni
"umanitarie" per mettere termine ad aggressioni,
rovesciare dittature, od arrestare il terrorismo. Dopo
ogni intervento, entrambi sostenitori e critici hanno
speculato a che paese toccherebbe la prossima volta.
Ma quello che questi interventi anno lasciato dietro di
sé è stato in gran parte ignorato.
Conclusa la guerra fredda, gli Stati Uniti hanno dovuto
confrontare la concorrenza dei due blocchi emergenti
dell'Europa e dell'Asia orientale. Benchè fossero
considerati l'ultima superpotenza militare, gli Stati
Uniti stavano affrontando un declino del potenziale
economico relativo all'Unione Europea ed il blocco
economico asiatico orientale del Giappone, Cina ed le
"quattro tigri asiatiche." Gli Stati Uniti affrontavano la
prospettiva di essere economicamente esclusi dalla
maggioranza del continente euro-asiatico. I principali
interventi degli Stati Uniti a partire dal 1990 devono
essere interpretati non soltanto come reazioni alla
"pulizia etnica" o alla militanza islamica, ma a questa
nuova realtà geopolitica.
A partire dal 1990, sulla scia di ogni intervento su
grande scala, è rimasta una sfilata di base militari in
una regione nella quale gli USA non avevano mai
avuto un'appiglio. I militari USA si stano inserendo in
zone strategiche mondiali, ed solidificano l'influenza
geopolitica in queste zone in un periodo critico della
storia. Con il sorgere del "blocco dell'euro" e del
"blocco dello yen", il potere economico delgi USA è
forse in declino. Ma su questioni militari, gli USA sono
ancora superpotenza incontestata. Gli USA stanno
proiettando la dominanza militare in regioni stategiche
come futuro contropeso a futuri concorrenti economici,
creando un "blocco del dollaro" sostenuto militarmente
e geograficamente situato a cuneo tra i suoi maggiori
concorrenti.
GUERRE PER BASI
Mentre ogni intervento era in via di progetto, i
pianificatori si concentravano sulla costruzione di
nuove istallazioni militari americane, od assicurare
diritti a basi presso istallazioni straniere, per sostenere
l'imminente guerra. Ma a conclusione della guerra, le
truppe degli Stati Uniti non si sono ritirate, ma sono
rimasto indietro, spesso dando nascita a sospetti e
rancore presso le popolazioni locali, proprio come le
truppe sovietiche hanno affrontato nell'Europa
orientale nella 2a guerra mondiale dopo la liberazione.
Le nuove basi militari degli Stati Uniti non sono
soltanto state costruite per appoggiare gli interventi,
ma
gli
interventi
hanno
egualmente
e
convenientemente offerto l'occasione di disporre tali
basi.
Effettivamente, l'istituzione di nuove basi può a lungo
termine essere più critica ai pianificatori di guerra
americani che le guerre stesse, così come ai nemici
degli Stati Uniti. I massacri dell' 11 settembre non
erano direttamente legati alla guerra del Golfo, Osama
bin
Laden
avendo
sostenuto
la
dittatura
fondamentalista saudita contro la dittatura secolare
irachena in quella guerra. Gli attacchi avevano
principalmente radici nella decisione degli Stati Uniti
di mantenere basi in Arabia Saudita ed altri stati del
Golfo. La disposizione permanente di nuove truppe
armate americane in ed intorno ai Balcani e
l'Afghanistan potrebbe facilmente generare un simile
"blowback" terroristico in futuro.
Ciò non vuol dire che tutte le guerre degli Stati Uniti
degli ultimi dieci anni sono state il risultato di una
congiura coordinata per rendere gli Americani capi
supremi della fascia fra la Bosnia e il Pakistan. Ma
proietta gli interventi in una luce di risposte
opportunistiche ad eventi che hanno permesso a
Washington di guadagnare un appiglio "nella terra
centrale" fra Europa all'ovest, la Russia al nord e la
Cina all'est, ed a trasformare questa regione sempre più
in una "sfera d'influenza" americana. La serie
d'interventi ha di fatto assicurato il controllo, da parte
di società americane, delle forniture di petrolio sia per
l'Europa sia per l'Asia orientale. Non è una congiura; è
solo "commercio come di consueto".
LA GUERRA DEL GOLFO
Al contrario di quello che gli USA originalmente
promessero ai loro alleati arabi, la guerra del Golfo del
1991 ha lasciato indietro grandi basi militari in Arabia
Saudita e nel Kuwait ed il diritto a mantenere basi
negli altri stati del Golfo: Bahrain, Qatar, Oman e gli
Emirati Arabi Uniti. La guerra ha portato egualmente
in risalto le pre-esistenti basi aeree americane in
Turchia. La guerra ha completato l'eredità americana
della regione petrolifica da cui i Britannici si erano
ritirati agli inizi degli anni '70. Tuttavia gli Stati Uniti
importano solamente circa il 5 per cento del loro
petrolio dal Golfo; il resto è esportato principalmente
all'Europa ed al Giappone. Il presidente francese
Jacques Chirac ha osservato correttamente il ruolo
degli Stati Uniti nel Golfo Persico come un modo di
assicurare il controllo delle sorgenti di petrolio delle
potenze economiche europee e dell'est asiatico. Gli
Stati Uniti hanno deciso di disporre basi permanenti
nella regione del Golfo dopo il 1991 non soltanto
contro Saddam Hussein e per sostenere il
bombardamento continuo dell'Iraq, ma per reprimere
potenziale dissenso all'interno delle monarchie
petrolifere.
Guerre & Pace
21
L’OMBRA DELLE BASI
LA GUERRA IN SOMALIA
L'intervento in Somalia nel 1992-93 si è concluso con
la sconfitta degli Stati Uniti, ma è importante capire
perchè il cosiddetto intervento "umanitario" è
avvenuto. Nei '70 e '80, gli Stati Uniti avevano
sostenuto il dittatore somalo Siad Barre nelle sue
guerre contro l'Etiopia, a sua volta sostenuta dai
Sovietici. In cambio, Barre aveva assegnato alla U.S.
Navy i diritti a usare i porti navali somali, che sono
situati strategicamente all'estremità meridionale del
Mare Rosso, collegante il Canale di Suez all'Oceano
Indiano. Il caos e la carestia che hanno seguito il
rovesciamento di Barre sono stati usati dalli USA come
giustificazione per ritornarci, ma hanno fatto l'errore di
allearsi con un gruppo di warlords contro il warlord
Mohamed Aidid di Mogadiscio. Nella battaglia di
Mogadiscio, romanticizzata nel film "Black Hawk
Down," 18 soldati americani e molte centinaia di
somali sono rimasti uccisi. Gli Stati Uniti si sono
ritirati e finalmente hanno guadagnato il diritto ad una
base navale nel porto di Aden, dall'altra parte del Mar
Rosso nello Yemen, dove Osama bin Laden carico ha
lanciato il suo attacco sulla nave da guerra USS Cole
nel 2000.
LA GUERRA NEI BALCANI
Gli interventi degli Stati Uniti nella Bosnia nel 1995 e
nel Kosovo nel 1999, erano apparentemente reazioni
alla "pulizia etnica" serba, tuttavia gli Stati Uniti non
aveva intervenuto per impedire simile "pulizie etniche"
da parte dei loro alleati croati od albanesi nei Balcani.
Gli interventi militari degli Stati Uniti in quella che era
la Yugoslavia hanno risultato in nuove basi militari
americane in cinque paesi: Ungheria, Albania, Bosnia,
Macedonia e l'enorme complesso di Camp Bondsteel
nel sud-est del Kosovo. Gli alleati della NATO hanno
egualmente partecipato agli interventi, comunque non
22
sempre con le stesse priorità politiche. Come nel Golfo
e nei conflitti afgani, gli alleati europei potrebbero
unirsi alle guerre degli Stati Uniti non solo per
solidarietà, ma per timore di essere completamente
esclusi dall'apporzionamento della regione nel
dopoguerra. L'intervento nel Kosovo, in particolare, è
stato seguito da rinnovati sforzi europei nel formare
una forza militare indipendente dalla NATO
commandata dagli USA. La disposizione di basi
enormi lungo il bordo orientale dell' E.U., che possono
essere usate per proiettare forza nel Medio Oriente, è
stata effettuata parzialmente in previsione che i militari
europei un giorno se ne sarebbero andati per conto
loro.
LA GUERRA IN AFGHANISTAN
L'intervento degli USA nell'Afghanistan era
apparentemente una reazione agli attacchi dell'11
settembre, ed in parte era puntato al rovesciamento dei
Taliban. Ma l'Afghanistan è storicamente stato in una
posizione estremamente strategica che cavalca l'Asia
meridionale, l'Asia centrale, ed il Medio Oriente. Il
paese si trova egualmente convenientemente lungo il
proposto percorso dell'oleaodotto della Unocal tra i
campi petroliferi caspici e l'Oceano Indiano. Gli Stati
Uniti stavano già situando truppe nella repubblica
limitrofa ex-sovietica di Uzbekistan prima dell'11
settembre. Durante la guerra, ha usato le sue nuove
basi e i diritti a basi nell'Afghanistan, Uzbekistan,
Pakistan, Kyrgyzstan ed in misura inferiore Tajikistan.
Sta usando la continua instabilità dell'Afghanistan
(come della Somalia, in gran parte causata
dall'impuntare warlords contro warlords) come
giustificazione per disporre una presenza militare
permanente nella regione ed persino il progetto
d'istituire il dollaro come nuova valuta afgana.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
PERCHÈ GUERRA?
Le priorità geopolitiche possono contribuire a spiegare
perchè Washington è andato a guereggiare in tutti
questi paesi, proprio mentre i percorsi della pace
rimanevano aperti. Il presidente George Bush ha
lanciato la guerra del febbraio 1991 contro l'Iraq, anche
se Saddam già stava ritirandosi dal Kuwait nell'ambito
del programma sovietico di disimpegno. Ha
egualmente mandato truppe in Somalia nel 1992, anche
se la carestia che ha usato come giustificazione era già
diminuita. Il presidente Clinton ha lanciato una guerra
contro la Serbia nel 1999 per forzare un ritiro da
Kosovo, anche se la Yugoslavia aveva già realizzato
molti dei termini di ritiro del Congresso di
Rambouillet. Il presidente George W. Bush ha attacato
l'Afghanistan nel 2001 senza mettere molta pressione
diplomatica sul Taliban a cedere Osama bin Laden, o
lasciare che le truppe anti-Taliban (come quelle del
comandante Abdul Haq di Pashtun) vincano da sole
contro le truppe dei Taliban. Washington è andata a
fare la guerra non come ultimo ricorso, ma perchè ha
visto la guerra come una conveniente occasione per
raggiungere ulteriori scopi.
Le priorità geopolitiche possono anche contribuire a
spiegare la riluttanza degli Stati Uniti nel dichiarare
vittoria in queste guerre. Se gli USA fossero riusciti a
spodestare Saddam nel 1991, i suoi alleati nel Golfo
avrebbero richiesto il ritiro delle basi americane, ma
rimanendo in potere provvede agli USA una giustifica
per gli intensi bombardamenti dell'Iraq e una continua
presa sulla regione petroliera del Golfo. Il fatto che
Osama bin Laden e Mullah Omar non sono stati ancora
catturati dopo quattro mesi di guerra fornisce
egualmente una conveniente giustificazione per
disporre basi americane permanenti nell'Asia in
centrale e meridionale. Tutti e tre questi uomini sono
più utili ai progetti degli USA vivi e liberi, almeno per
il momento.
PREPARATIVI DI GUERRA
L'Iraq è certamente l'obiettivo primario per una nuova
guerra degli Stati Uniti. guerra, permettendo al
presidente Bush di "finire il lavoro" che il suo paparino
non ha terminato. Ora che la sfera d'influenza
americana sta solidificandosi nella "terra centrale" fra
Europa e l'Asia orientale, l'attenzione può essere girata
su entrambi l'Iraq ed il suo nemico di una volta l'Iran
essendo le uniche potenzi regionali restanti ancora di
mezzo. Bush può essere sotto l'illusione che le forze
irachene di opposizione possano essere riconstituite in
una la forza filoamericana come l'Alleanza del Nord in
Afghanistan o l'Esercito di Liberazione di Kosovo. Può
anche essere sotto l'illusione che le sue minacce contro
l'Iran aiuteranno i riformatori "moderati" iraniani,
anche se già stia rinforzando pericolosamente la mano
degli islamisti intransigenti. Una guerra degli Stati
Uniti contro l'Iraq o l'Iran distruggerà tutti i ponti
recentemente
costruiti
a
nazioni
islamiche,
particolarmente se Bush egualmente abbandona pure la
pretesa di parzialità fra Israeliani e Palestinesi.
I pianificatori di guerra americani stanno pure facendo
apertamente mira sulla Somalia e lo Yemen, e stanno
pattrugliando le loro coste con navi da guerra, anche se
potrebbero decidere di intervenire indirettamente per
evitare i disastri di Mogadiscio nel 1993 e Aden nel
2000. Bin Laden aveva appoggiato Aidid per prevenire
nuove basi in Somalia, e suo padre è originario di
Hadhramaut, una regione storicamente ribelle del sudest dello Yemen. Eppure Washington non darebbe
precedenza ad eliminare l'influenza di Bin Laden,
lasciando tale compito principalmente a truppe locali.
Piuttosto, la precedenza sarebbe data a riconquistare
accesso navale ai porti strategici somali e yemeni.
L'intervento
più
recente
dopo
l'invasione
dell'Afghanistan è stato nelle Filippine meridionali,
contro la milizia guerillera dei Moro (mussulmani) di
Abu Suyyaf. Gli USA considerano il piccolo gruppo di
Abu Sayyaf ispirato da Bin Laden, anzi che uno
sviluppo teppista di decine d'anni d'insurgenza dei
Moro in Mindanao nell'archipelado del Sulu. Forze
speciali di "addestratori" americani stanno effettuando
"esercitazioni" unite con le truppe filippine nella zona
attiva di combattimento. Il loro obiettivo potrebbe
essere quello di realizzare una vittoria facile stile
Granada contro i 200 ribelli, per un effetto globale di
propaganda contro Bin Laden. Ma una volta sul posto,
la campagna controrivoluzionaria potrebbe essere
riorientata facilmente contro altri gruppi di ribelli Moro
o persino comunisti di Mindanao. Potrebbe anche
contribuire a realizzare l'altro obiettivo principale degli
USA nelle Filippine: di ristabilire completamente
diritti a basi, che finirono quando, alla fine della guerra
fredda, il senato filippino terminò il controllo
americano della base aerea Clark e della base navale di
Subic, e dopo che un'eruzione vulcanica danneggiò
entrambe le basi. Un tal movimento a ristabilirsi nel
paese sarebbe tuttavia resistito fortemente sia dai
nazionalisti filippini di destra, sia da quelli di sinistra.
Il ritorno degli USA nelle Filippine, come le ultime
minacce di Bush contro la Corea del Nord, possono
egualmente esere uno sforzo per asserire l'influenza
degli USA in Asia orientale, dove la Cina cresce come
potenza mondiale ed altre economie asiatiche si
recuperano dalle crisi finanziarie. Un crescente ruolo
militare degli USA in Asia potrebbe neutralizzare
critiche sempre più aspre delle basi USA nel Giappone.
Queste mosse potrebbero anche sollevare timori in
Cina di una sfera d'influenza americana alle sue porte.
La nuova base aerea degli USA nella repubblica exsovietica di Kyrgyzstan è già considerata troppo vicina
dalla Cina. (Timori russi di essere circondati
potrebbero anche essere riaccesi, benchè la Russia
possa invece unirsi agli USA ad usare il loro petrolio
per diminuire la potenza dell'OPEC).
Nel frattempo, altre regioni del mondo sono state prese
sotto mira dalla "guerra contro il terrore" degli Stati
Uniti, notevolmente l'America del sud. Come successe
durante la guerra fredda quando la propaganda
rimaneggiò i ribelli di sinistra del Vietnam del Sud ed
Guerre & Pace
23
L’OMBRA DELLE BASI
El Salvador come burattini del Vietnam del Nord o di
Cuba, la propaganda della "guerra contro il terrore"
americana sta rimaneggiando i ribelli colombiani come
alleati del Venezuela, ricco in petrolio. Il presidente
venezuelano, Hugo Chavez, con il distintivo berretto, è
vagamente descritto come simpatizzante di Bin Laden
e Fidel Castro, e con il potere di mettere l'OPEC contro
gli USA. Chavez sarebbe il nemico ideale se Bin
Laden è eliminato. La crisi nel sud d'America, benchè
non possa essere legata ad una militanza islamica,
potrebbe essere la guerra più pericolosa in
preparazione.
TEMI COMUNI
Se consideriamo le guerre degli USA negli ultimi dieci
anni nel Golfo Persico, Somalia, Balcani, o
Afghanistan, o nuove guerre possibili nello Yemen,
Filippine, o Colombia/Venezuela, o persino la nuova
"asse del male" dell'Iraq, Iran e Corea del Nord di
Bush, gli stessi temi comuni si presentano. Gli
interventi militari degli USA non possono tutti essere
legati alla sete insaziabile degli USA per il petrolio (o
piuttosto per i profitti del petrolio), anche se parecchie
guerre recenti abbiano le loro radici nelle politiche del
petrolio. Possono quasi tutti essere legate al desiderio
degli USA di costruire o ricostruire basi militari. Le
nuove basi militari USA, ed l'aumentare il controllo dei
rifornimenti di petrolio, possono a loro volta essere
legati allo spostamento storico che sta avvennendo
dagli anni '80: l'ascendenza di blocchi europei ed
asiatici orientali che hanno il potenziale di sostituire gli
Stati Uniti e l'Unione Sovietica come superpotenze
economiche mondiali.
Come l'impero romano ha provato ad usare la sua
potenza militare per sostenere una presa economica e
politica in via d'indebolimento sulle sue colonie, così
gli Stati Uniti stano inserendosi aggressivamente in
nuove regioni mondiali per impedire ai loro
competitori di fare lo stesso. Lo scopo non è di por fine
a "terrore" od incoraggiare "democrazia," e Bush non
raggiungerà nessuno di questi pretesi scopi. L'obiettivo
a breve termine è di disporre forze militari USA in
regioni da dove nazionalisti locali le avevano sloggiate.
L'obiettivo a lungo termine è di aumentare il controllo
corporativo degli Stati Uniti sul petrolio di cui l'Europa
e l'Asia orientale hanno bisogno, non importa che il
petrolio sia nel Mar Caspio o Caraibo. L'obiettivo
finale è di stabilire nuove sfere d'influenza americane
ed eliminare qualsiasi ostacolo -- militanti religiosi,
nazionalisti laici, governi nemici, o persino alleati -che ci si trovi di mezzo.
I
cittadini
americani
potrebbero
accogliere
favorevolmente interventi per difendere la "patria"
dall'attacco, o persino per costruire nuovi basi o
oleodotti per mantenere la potenza economica degli
USA. Ma quando i pericoli di questa strategia
diventano più apparenti, gli americani potrebbero
cominciare a realizzare che stanno per essere condotti
per un percorso pericoloso che metterà una più grade
parte del mondo contro di loro, e causerà
inevitabilmente futuri 11 Settembre.
Documento originale New US Military Bases: Side Effects Or Causes Of War? - Traduzione di G. Turek - da Znet
Zoltan Grossman è un candidato al dottorato in geografia all'Università di Wisconsin-Madison ed un membro del Gruppo d'Informazione
dell'Asia del Sud-Ovest. [email protected].
24
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
LE BASI MILITARI USA ALL’ESTERO E IL COLONIALISMO MILITARE
PROSPETTIVE PERSONALI E PROSPETTIVE ANALITICHE
Joseph Gerson
Parecchi di noi passano un sacco di tempo a fare
analisi politiche e geostrategiche, quello che la gente
chiama talvolta analisi “d’insieme”. Non lo facciamo,
perché ci piace in maniera particolare pensare in
astratto o in termini strategici, o fuori di ogni interesse
per l’hardware e la tecnologia militare. La maggior
parte di noi fa quello che fa perché il militarismo
influenza le persone: la distruzione di vite umane, la
repressione e il terrorismo, e i modi in cui spezza –
taglia e limita seriamente- la nostra vita e le nostre
aspirazioni. La coercizione fisica sistematica e una
dominazione violenta sviliscono, umiliano e, troppo
spesso, distruggono persone come noi.
Prima di parlare dei primi passi e degli imponenti piani
dell’amministrazione Bush per la riconfigurazione
dell’infrastruttura globale delle basi e delle
installazioni militari Usa, voglio cominciare con alcune
considerazioni di tipo personale. Io mi ricordo in
maniera chiara pochi momenti di una lezione di un mio
professore all’inizio della primavera del 1968. Si
trattava di un corso di storia politica e diplomatica
degli USA, tenuto dal professor Jules Davids, un
eccellente storico e un meraviglio insegnate, che
all’epoca non sapevamo fosse stato il principale
scrittore fantasma del libro del presidente John
Kennedy “Profiles on Courage”. Bill Clinton forse ha
partecipato a quel corso. Gloria Magapal, il cui padre
era il presidente protetto delle Filippine e che adesso è
essa stessa presidente, era quasi certamente lì(1) e,
negli anni recenti, mi sono trovato a stupirmi di come
abbia sperimentato direttamente quanto il professor
Davids ci ha illustrato.
Introducendo la lezione sulla Guerra ispano-americana
del 1898 e sulla conquista USA delle Filippine, di
Guam Cuba e Porto Rico, il professor Davids è stato
attento a sottolineare che il Mercato cinese era allora
visto come il santo Graal del capitalismo, il mercato
quasi infinito, che avrebbe potuto assorbire la
sovrapproduzione delle fabbriche e delle fattorie USA.
Dalla conquista letterale dei mercati cinesi, non solo le
industrie USA avrebbero raccolto enormi profitti, ma
avrebbe posto fine a una grande depressione
economica, che aveva lasciato disoccupati milioni di
lavoratori americani e che era la causa di un’agitazione
politicamente destabilizzante. Il professor Davids ha
fatto attenzione a spiegarci che negli anni 1890 le navi
da guerra, necessarie per conquistare i mercati, e le
navi mercantili, che ne avrebbero seguito la scia, erano
navi a vapore, alimentate a carbone. Non avrebbero
potuto attraversare l’Oceano Pacifico senza fermarsi di
tanto in tanto a quelle, che erano chiamate “stazioni del
carbone”, per caricare combustibile. Alle potenze
coloniali piaceva avere il controllo esclusivo sulle
proprie stazioni di carbone. Gli USA, in quanto
potenza ancora in ascesa, non avevano basi proprie.
Allora il professor Davids descriveva Subic Bay, nelle
Filippine, come uno dei porti più perfetti del mondo.
Era collocato strategicamente proprio ad est della costa
cinese, un eccellente trampolino di lancio per le navi
da guerra USA. Il suo porto era (ed è) profondo, di
forma arrotondata e meravigliosamente blu. Quando,
anni più tardi, l’ho visto, rimasi colpito per quanto
perfetta fosse stata la descrizione del professor Davids.
Ed è stato proprio per conquistare questo porto,
importante dal punto di vista geostrategico, che gli
USA hanno cacciato la Spagna dalle Filippine e poi
hanno continuato a uccidere centinaia di migliaia di
Filippini al fine di avere il controllo esclusivo su Subic
Bay, le Filippine, nel loro insieme, e la possibilità di
commerciare con la Cina sulla basi di scambio ineguali
e umilianti. Naturalmente, da quando cacciarono via la
Spagna dal governo coloniale di Cuba (dove gli USA
mantengono la ben nota nase di Guantanamo), Puerto
Rico e Guam, gli USA hanno conquistato altre basi
militari, importanti dal punto di vista geostrategico.
Passarono gli anni e mi ritrovai a domandarmi a cosa
deve aver pensato Gloria Macapagal, quando le è stata
esposta per la prima volta la precisa descrizione del
professor Davids, a proposito del motivo per cui il suo
paese era stato colonizzato e del perché gli USA
appoggiavano suo padre. L’abbraccio di Gloria a
George Bush ha una lunga storia.
Più tardi, come giovane attivista pacifista, non potevo
non provare che orrore e vergogna per il fatto che gli
USA sostenevano la dittatura di Marcos, usando il suo
regno di terrore e tortura per rinforzare il possesso
della base navale di Subic, della base aerea Clark e
dell’intera regione. Venni a conoscere dei filippini che
erano stati costretti all’esilio da Marcos. Sono andato a
Manila poco dopo la rivoluzione popolare nonviolenta
parte dell’EDSA ed ebbi il privilegio di essere
presente a crude conferenze stampa, in cui le vittime
della tortura di Marcos raccontavano le loro storie
strazianti, in quell’atmosfera inebriante di quel
“momento di democrazia” che forse non sarebbe
durato. A Olongopo, la città vicina a Subic, rimasi
disgustato per il marciume che faceva da corona alle
basi militari straniere: prostituzione, violenza sessuale,
spacci di droga. Erano dovunque.
La mia consapevolezza a proposito del significato e
dell’impatto delle basi, della loro missione e della loro
funzione per il mantenimento del predominio globale,
come previsto dalla dottrina Full Spectrum
Dominance,ora Predomini a Pieno Spettro, era troppo
recente, quando andai per la prima volta in Giappone
per una conferenza antinucleare. Sebbene ne sapessi di
gran lunga molto di più della maggioranza degli
statunitensi e dei pacifisti USA, ciò nondimeno rimasi
stupito nell’apprendere che gli USA avevano (hanno)
ancora più di 100 basi e installazioni militari in
Guerre & Pace
25
L’OMBRA DELLE BASI
Giappone, ma concentrate a Okinawa. Rimasi
scioccato, quando sentii gente di Okinawa e
Giapponesi descrivere cosa significasse vivere in
comunità ripetutamente terrorizzate dai rumori
spaccatimpani delle esercitazioni a bassa quota e degli
atterraggi notturni, dai crimini commessi dai soldati,
che rimanevano regolarmente impuniti, proprio come è
accaduto qui con gli omicidi di Shin Hyo-soon e di
Shim Misun e in molti altri casi precedenti. Venni a
conoscenza su come la terra era stata confiscata alle
persone per fare spazio alle basi e come queste basi
abbiano bloccato lo sviluppo economico e sociale.
Rimasi sconvolto dalla diffusione della prostituzione
presso le basi Usa e dalla molestia e violenza sessuale
apparentemente senza fine. Le persone raccontavano i
loro penosi ricordi di incidenti militari mortali: aerei ed
elicotteri che cadono dentro le case della gente e nelle
scuole, autisti militari ubriachi che hanno provocato
incidenti talvolta mortali, e la distruzione di case e di
proprietà nel corso di esercitazioni militari. La gente
parlava della propria vergogna per essere complice in
guerre ed aggressioni, come quella selvaggia al
Vietnam, perché le loro comunità ospitavano basi
largamente coinvolte nell’uccisione di persone e nella
distruzione di comunità e di nazioni. Ci informarono
sul contesto politico: l’alleanza ineguale fra USA e
Giappone, che era stata imposta al popolo giapponese
come prezzo dell’occupazione militare nel 1952 e la
conseguente perdita della sovranità nazionale.
Le loro parole e la loro sofferenza mi richiamarono i
ricordi della scuola elementare: il mio maestro di
quarta che ci insegnava che la Dichiarazione di
Indipendenza degli Stati Uniti aveva una sezione che
informava il mondo che era necessario combattere una
guerra d’indipendenza contro la Gran Bretagna, perché
il re Giorgio III aveva “tenuto tra noi in tempo di pace
eserciti permanenti”, che avevano commesso
intollerabili “abusi e usurpazioni”. Mi richiamarono
alla mente le immagini televisive del 1960, quando i
militanti giapponesi - fra i quali c’era Muto Ichiyo manifestavano per Tokyo per esprimere la loro rabbia
contro gli Stati Uniti e il trattato ineguale, che aveva
costretto le loro comunità ad ospitare la basi militari
USA.
A quell’incontro a Tokyo ed Hiroshima, c’erano anche
i rappresentanti dell’associazione dei proprietari terrieri
di Guam. Avevano con sé due cartine geografiche. Una
mostrava la posizione dei migliori campi di pesca
dell’isola, del suo migliore terreno agricolo e delle sue
migliori acque potabili. L’altra cartina mostrava
l’ubicazione delle basi militari, delle installazioni e
delle zone di esercitazione dell’esercito USA. Le due
cartine erano identiche. C’erano dei filippini che ci
facevano pressione perché facessimo tutto quello che
potevamo fare per aiutarli a liberarsi dal colonialismo
militare USA e dalla dittatura mortale di Marcos.
Negli anni seguenti, è stato per me un penoso,
umiliante e, talvolta, stimolante, privilegio incontrare e
imparare da persone, che erano state vittime di basi
26
militari USA in Korea, a Okinawa, in Germania, in
Belgio, in Italia, in Islanda, in Spagna, in Turchia, a
Puerto Rico, in Honduras e in altri paesi. Ogni caso é
differente e, in molte differenti maniere, ogni base
procura disastrosi “abusi e usurpazioni”.
Non dimenticherò mai il volto di una donna di
Okinawa che ha condiviso il ricordo di come quando
era una ragazza, la sua intera generazione di ragazze ora donne di mezza età - fosse terrorizzata dal brutale
stupro e assassinio di una giovane ragazza da parte di
un soldato USA. O lo sguardo dei contadini di
Okinawa –ognuno dei quali indossava una fascia per
capelli con scritto “La vita è sacra”- che facevano un
sit-in al di fuori del tribunale di Naha, chiedendo la
restituzione della loro terra. O la sofferta testimonianza
di un giovane coreano sul poligono di Maehangri e di
come la gente che viveva là avesse sofferto negli ultimi
cinquant’anni a causa dei bombardamenti USA. È
grazie alla passione con cui ha insistito un giovane
attivista coreano contro le basi, che io ho visto un CD,
che la sua organizzazione aveva fatto sull’uccisione di
due ragazze -Shin Hyo-soon e Shim Mi-sun- da parte
di un carro armato poche settimane dopo quell’atrocità
e per la sua insistenza che io ho fatto qualcosa su
questo. E un buon amico islandese mi ha raccontato
come i dimostranti una volta piazzarono la testa di un
cavallo su una pertica per invocare le antiche divinità
vikinghe affinché liberassero l’isola dall’abominevole
presenza della base aerea di Kefkavik. Lo facevano a
mo di burla, ma erano quanto mai seriamente
impegnati.
Le basi portano insicurezza, l’assenza di
autodeterminazione, di diritti umani e di sovranità.
Degradano la cultura, i valori, la salute e l’ambiente
delle nazioni ospiti e degli Stati Uniti. Se permetti di
essere colpito dalla sofferenza d’un altro, questa
diventa tua. L’imperativo diventa por fine alla
sofferenza altrui.
È questo il motivo per cui siamo qui.
Lasciatemi aggiungere un’ultima considerazione a
questi lunghissimi commenti introduttivi. Con
l’eccezione di quelli che hanno servito nell’esercito
USA, gli statunitensi ignorano quasi completamente
l’esistenza di questa infrastruttura di coercizione e di
morte. Se hanno una vaga conoscenza che gli USA
hanno delle basi militari all’estero, hanno una piccola
idea che ci sono per propositi diversi dalla difesa della
popolazione delle nazioni “ospiti”. Con la rara
eccezione della temporanea illuminazione e dell’orrore
provocati dal rapimento e dello stupro della studentessa
di Okinawa del 1995, non c’è nessun cenno ufficiale
della sofferenza, degli “abusi ed usurpazioni” che si
accompagnano alle basi Usa e alle truppe “dislocate
all’estero”. E in pochi hanno fatto attenzione quando,
al ritorno del presidente Bush dall’Asia lo scorso mese,
Condoleeza Rice ha detto: “La chiave di volta della
strategia del presidente è la nostra forte presenza
all’estero”.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
LE MISSIONI DELLE BASI.
Per quelli di voi che sono nuovi dell’argomento delle
basi militari, voglio illustrare brevemente alcune delle
ragioni e delle missioni strategiche, delle 702 basi e
installazioni militari USA calcolate all’estero, che
attualmente sono collocate in almeno 40 nazioni.(2)
Alla
radice,
l’intero
sistema
serve
come
un’infrastruttura integrata globale per la dominazione
imperiale. Neanche Gengis Khan, Alessandro il
Grande, Giulio Cesare o Benjamin Disraeli hanno
avuto a disposizione una così grande quantità di potenti
piazzeforti. Queste basi esistono per:
•
•
•
•
•
•
•
Rafforzare lo status quo. Ne sono un esempio il
ruolo di deterrenza delle basi USA in Sud Corea e il
ruolo intimidatorio di molti basi USA in Medio
Oriente, che sono destinate ad assicurare un
continuo accesso privilegiato e il controllo degli
USA sul petrolio della regione.
Circondare i nemici. Come era il caso dell’Unione
Sovietica e della Cina durante la Guerra Fredda e
della Cina tutt’oggi. Questo è il ruolo giocato dalle
basi USA in Corea, Giappone, Filippine, Australia,
Pakistan Diego Garcia e in molte ex repubbliche
sovietiche dell’Asia Centrale.
Servire
e
rinforzare
le
portaerei,
le
cacciatorpediniere, i sommergibili con armamenti
nucleari e altre navi da guerra della Marina degli
USA. Questo comprende le basi di Okinawa e
Yokuska, vicino a Tokyo, e gli accordi per “forze
temporanee” o “accesso” militare nelle Filippine, a
Singapore, in Thailandia e in molti altri paesi.
Addestrare le forze USA, com’è stato a lungo il
caso per i bombardieri a Vieques e per la guerra
nella jungla e altri tipi di addestramento ad
Okinawa.
Funzionare come trampolini di lancio per
interventi militari USA all’estero: come sono i casi
di Okinawa e della Filippine, ora anche della Corea
con il cambiamento del tipo di missione assegnato
qui alle forze USA; come sono i casi della Spagna,
dell’Italia, dell’Honduras, della Germania e delle
nuove bai in Europa Orientale, in Kwait e,
presumibilmente in Iraq.
Facilitare
il
C3I:
comando,
controllo,
comunicazioni ed intelligence, ivi compresi ruoli
decisivi nel combattimento nucleare e nell’uso
dello spazio per l’intelligence e le operazioni
militari, come abbiamo visto in Afghanistan e in
Iraq. Le basi USA a Okinawa, in Qatar, in Australia
e persino in Cina hanno queste funzioni.
Controllare i governi delle nazioni ospiti.
Giappone, Corea (dove l’esercito Usa è stato
direttamente coinvolto in colpi di stato militari), in
Germania, in Arabia saudita, con l’Iraq di oggi a
occupare il primo posto della lista.
L’ATTUALE CONTESTO.
La campagna senza precedenti di Donald Rumsfeld per
ristrutturare e rivitalizzare i dispiegamenti militari
all’estero e la sua infrastruttura militare globale è
compresa meglio nel contesto delle ambizioni
megalomaniacali
e
semitotalitarie
dell’amministrazione. La campagna è uno dei più
ambiziosi sforzi tattici degli Usa per espandere e
consolidare il loro impero globale nel e attraverso i
vuoti di potere lasciati come conseguenza dal crollo
dell’Unione Sovietica e del suo impero.
Alcuni di voi ricorderanno gli slogans che il vecchio
presidente Bush utilizzava per inquadrare la “Tempesta
nel Deserto” della Guerra del Golfo del 1991, Si
sarebbe combattuto per creare un “Nuovo ordine
mondiale”, in cui “Avviene quel che diciamo”. Sì, era
una riconferma di quello che Noam Chomsky ha
chiamato l’”Assioma Politico 1”: gli USA non
permetteranno mai né ai loro nemici né ai loro alleati,
di avere un accesso indipendente al petrolio
mediorientale, la “vena giugulare” del capitalismo
planetario dai tempi della Prima Guerra Mondiale,
quando Winston Churchill lo chiamò “Il Premio”.
La “Tempesta nel Deserto” è stata combattuta anche
per disciplinare e ristrutturare il disordine mondiale in
quei primi anni di vertigine successivi all’era della
guerra Fredda. Nei mesi che seguirono il crollo del
muro di Berlino, la maggior parte dei bilanci delle
alleanze militari, delle basi militari e delle industrie
militari erano senza un fondamento logico e il loro
futuro era incerto. Con “Desert Storm” (Tempesta nel
Deserto), la NATO fu riconvertita per operazioni
“fuori dell’area”, con le basi in Gran Bretagna e in
Germania utilizzate come aree di addestramento e
punti di partenza. Perfino il tranquillo aeroporto
Shannon di Dublino venne –senza alcuna necessità costretto a ospitare aerei da combattimento USA per
ricordare agli Irlandesi che vivevano in quello, che
Zbigniew Brzezinski chiama uno “stato vassallo”. Gli
Usa fecero il loro meglio per traumatizzare la cultura
politica giapponese, sostenendo con fermezza che 13
miliardi di dollari e l’uso delle basi USA da Okinawa a
Hokkaido non erano sicuramente sufficienti. Bush I ha
preparato la strada a Bush II, per far sapere al governo
Koizumi che ci si aspettava che “spiegasse la bandiera”
per unirsi agli USA nella guerra contro i talebani,
mandano navi da guerra nell’Oceano Indiano. Queste
richieste del 1991 erano parte della campagna a lungo
termine USA per rimilitarizzare il Giappone e la sua
cultura politica. Lo vediamo tuttora nelle richieste
USA al Giappone e alla Corea di contribuire, inviando
loro
truppe,
alla
finzione
di
legittimità
dell’occupazione neocoloniale USA dell’Iraq. Le
vostre società devono pagare, se necessario col sangue,
il prezzo della “condivisione degli oneri”.
Nel 1991, gli abitanti di Vieques hanno subito una
nuove serie di bombardamenti di addestramento nel
poligono locale; la base navale ed aerea di Diego
Garcia si è rivelate di fondamentale importanza per
l’egemonia degli USA in Medio Oriente, così come
delle ambizioni USA nell’Asia centrale e meridionale.
Nell’Africa settentrionale e in Medio Oriente, la guerra
è stata usata per esercitare alleanze formali ed
Guerre & Pace
27
L’OMBRA DELLE BASI
informali, per rilegittimare la presenza e l’uso delle
basi militari USA in Egitto e nel Golfo Persico e per
costruire nuove basi militari in posti strategicamente
importanti come l’Arabia Saudita, Gibuti, Qatar e
Kwait. Con le minacce nucleari, fatte dal presidente
Bush, il vicepresidente Quayle, il segretario alla guerra
Cheney e il premier britannico Major nel corso della
fase “scudo del deserto” della guerra, e con
l’accerchiamento dell’Iraq con qualcosa come 700
bombe nucleari, per sostenere quelle minacce,
l’amministrazione di Bush I° tentò di rilegittimare
l’esistenza del suo arsenale nucleare e la pratica del
ricatto nucleare - quanto meno nei circoli dirigenti
degli USA- per il periodo successivo alla Guerra
Fredda. Potete essere certi che un fondamentale
pilastro di queste minacce erano le basi militari dove
erano immagazzinati gli armamenti nucleari USA,
dove avevano le loro basi o scali le navi da guerra USA
con armamento nucleare e dove c’erano incombenze
del tipo C3I.
Negli ultimi giorni dell’amministrazione Clinton,
quando partecipai a manifestazioni in Giappone e nelle
Filippine, rimasi colpito dalla rabbia espressa dalle
persone, mentre protestavano contro Clinton. Sapevo,
in fondo, che era veramente un piccolo uomo, preso in
quella che Hannah Arendt chiamò una volta “la
banalità del male”. Per godere dei privilegi e del potere
di essere il presidente degli Stati Uniti, doveva pagarne
il prezzo in termini di tolleranza e di affermazione di
politiche, istituzioni e azioni letali.
Se si fa eccezione per il suo incauto comportamento
sessuale, la carriera politica di Clinton è stata segnata
dalla cautela e dal conservatorismo. Non è quello che
la maggior parte di noi pensa sia un uomo coraggioso.
Fin da quando era studente, non è stato il tipo da
sfidare il potere e l’autorità illegittima. Al contrario, si
è sottomesso alle sue domande, integrando il suo
potere col potere di questa e crescendo con essa. Fra i
suoi primi impegni dopo l’assunzione della presidenza
c’è stato quello di promettere di non tagliare il
gigantesco bilancio militare, interrompendo i sogni di
un dividendo di pace dopo la Guerra Fredda. Ho dei
dubbi che si sia personalmente compromesso per le
sanzioni economiche che hanno tolto la vita durante la
sua presidenza - si ritiene- a un milione di Irakeni,
molti dei quali bambini ed anziani. Penso
semplicemente che abbia avuto paura di pagare il
prezzo politico richiesto, per porre termine a uno dei
peggiori massacri dell’ultimo secolo. Come dimostra la
sua storia con l’Iraq di Saddam Hussein, Clinton non è
stato tanto un guerriero, quanto un classico politico,
che sapeva che la sua carriera dipendeva dal mantenere
vitale l’economia, occupate le persone e flussi di
entrata aperti per i profitti dei suoi padroni. Qui in
Asia, dopo aver quasi inciampato nel 1994 in quella,
che sarebbe potuta essere la seconda guerra di Corea,
Clinton ha essenzialmente dato la riformulazione della
politica USA in Asia a Joe Nye al Pentagono.
Così abbiamo il rinnovo de ll’impegno per mantenere
schierati all’estero 100.000 soldati nelle basi dell’Asia
28
orientale,
il
rafforzamento
e
l’allargamento
dell’alleanza USA-Giappone con l’accordo ClintonHashimoto, la campagna tutto fumo e niente arrosto
dello Special Action Committee on Okinawa (SACO)
[Comitato speciale d’azione per Okinawa], per
pacificare la popolazione di Okinawa col fine
apparente “di ridurre la dimensione dell’impronta
USA” su quella terra martoriata, senza fare nessun
cambiamento sostanziale. E Nye ha portato Clinton ad
impegnarsi con la Cina.
In Europa, il vice segretario di stato, Strobe Talbot e
l’esercito USA sono stati impegnati a ridividere e a
contenere il continente. Hanno spinto per l’inclusione
nella NATO di quasi tutti i paesi dell’Europa orientale,
al fine di contenere le ambizioni di Francia e
Germania. Hanno rinnovato il gioco di mettere la
Russia contro l’Europa Occidentale. Dalla guerra
illegale del Kosovo gli USA ne sono usciti con una
nuova enorme base militare, Camp Bondsteel.
Bondsteel è stata la prima di quelle che Washington
spera diventeranno un nuovo sistema di basi militari
che serviranno a circondare l’Europa Occidentale e la
Russia e come abbiamo visto quest’anno, come
trampolino di lancio per le guerre USA in Medio
Oriente.
Così arri viamo alla seconda catastrofica presidenza
Bush. Come ho spiegato diversi giorni fa al seminario
di ARENA, l’amministrazione Bush è giunta al potere
con il mandato di imporre quello, che il vicepresidente
Cheney ha chiamato “l’ordinamento” per assicurare
“che, nel XXI secolo, gli Stati Uniti continuino a essere
la potenza politica, economica e militare dominante nel
mondo”.
Una volta che sono giunti al potere, Cheney, Rumsfeld
e i loro alleati neoconservatori hanno fatto sapere che
avrebbero modellato gli USA sulle orme di uomini
come Teddy Roosevelt, Henry Cabot Lodge e
l’ammiraglio Mahan, gli uomini che negli anni 80 e 90
del XIX secolo previdero la possibilità per gli USA di
rimpiazzare la Gran Bretagna come potenza mondiale
dominante, e che, quindi, costruirono l’esercito
necessario per farlo. Ben prima dell’11 settembre era
chiaro che Bush, Cheney e Rumsfeld erano impegnati
nella cosiddetta “rivoluzione degli affari militari”(la
quasi completa integrazione delle tecnologie
dell’informazione nella dottrine di guerra USA), dei
sistemi d’armi aeree, terrestri, navali e spaziali e
dell’infrastruttura militare (ivi compresa la rete delle
basi militari straniere.
Come hanno suggerito i rapporti preinaugurali
preparati sotto la direzione dell’(attuale) vice segretario
di stato Armitage e dell’(attuale) ambasciatore
Khalilzad, nell’Asia Orientale questo vuol dire
riaffermare l’impegno per le basi militari USA e per lo
spiegamento di truppe avanzate nella regione. Certo,
secondo la riconfigurazione di Rumsfeld alcune basi
saranno chiuse e alcune saranno accorpate, ma questo
sarà fatto nel contesto di un incremento della forza
militare USA attraverso la “diversificazione”:
spostando il centro di gravità delle truppe e delle basi
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
USA dislocate all’estero dall’Asia Nord Orientale un
po’ più a Sud. L’obiettivo è circondare meglio la Cina,
combattere la cosiddetta “guerra al terrorismo” nel sud
Est Asiatico e controllare in maniera più completa le
rotte navali, lungo le quali deve viaggiare il petrolio
del Golfo Persico, la vita delle economie dell’Asia
Orientale. Guam diventerà nuovamente il baricentro
per le forze USA nell’Asia Orientale. Altrettanto sarà
per i suoi abitanti e per le sue risorse naturali! Le basi
USA in Australia aumenteranno. L’agenda di Bush
prevede di costruire accordi per la presenza di forze
temporanee e per l’accesso con le Filippine e
Singapore ed aprire la strada per le truppe USA in
Thailandia. Di fatto, come riferisce la stampa filippina,
ufficiali dell’esercito USA stanno esplorando in via
riservata la possibilità di ristabilire basi nell’ex colonia.
Le invasioni dell’Afghanistan e dell’Iraq sono servite a
dare inizio alla campagna, da tempo pianificata, di
“riconfigurazione” e di “diversificazione”. La strada è
stata aperta con la minaccia della nuova dottrina
intimidatoria di Washington “o con noi o contro di
noi”. Le dittature del Pakistan, dell’Uzbekistan, del
Kirgisistan e del Tajikistan sono state costrette a
rinunciare alla sovranità e a invitare il Pentagono a
stabilire nei loro territori basi militari USA, che sembra
diventeranno permanenti. Un anno dopo, con la
Germania che ha evitato di associarsi all’invasione
dell’Iraq e che ha limitato le funzioni che le basi USA
potevano giocare, Washington ha cominciato a
“diversificare” la sua infrastruttura militare europea.
Sono state fatte minacce di punire la Germania col
ritiro dalla Germania di tutte le basi USA. Molti, sono
sicuro, hanno gioito di fronte a questa prospettiva.
Sono state stabilite nuovi basi in quei bastioni della
democrazia e dei diritti umani che sono la Romania e
la Bulgaria. A Sud, sotto la copertura delle
preparazioni della guerra, Bush e compagnia hanno
rimosso una delle principali cause degli attacchi
dell’11 settembre: la maggior parte delle basi e delle
truppe USA in Arabia Saudita. Molti mussulmani
ritengono che queste basi siano una macchia per la
terra santa. Queste truppe, con le loro basi e le loro
funzioni, sono state trasferite in Qatar e Kuwait, Sono
state ampliate le basi di Gibuti e di Baharain. Ora, oltre
ai piani perché l’Iraq serva agli USA come una fonte di
approvvigionamento di petrolio, che possa essere usato
per influenzare l’Arabia Saudita e l’OPEC, gli strateghi
militari USA mirano a servirsi, per i decenni a venire,
dell’Iraq come di un bastione della potenza militare
USA in Medio Oriente.
Anche l’Africa è destinata ad avere un ruolo crescente
nella rete militare globale USA. All’epoca del viaggio
del presidente Bush nel continente la scorsa primavera,
gli USA stavano negoziando la creazione di una rete di
basi militari lungo il continente. Come ha spiegato il
gen. Jones, del comando europeo, la rete è destinata a
comprendere grosse installazioni per più brigate da
combattimento, “che potrebbero essere usate in
maniera massiccia”. Ci saranno pure, “per le forze
speciali e per i marines, basi con armamento leggero
nei punti di crisi”. Gli “ospiti” di questa nuova rete di
basi comprendono l’Algeria, il Mali e la Guinea (che è
stata anche presa di mira come fornitrice di petrolio),
col Senegal e l’Uganda che provvederebbero a rifornire
di carburante le installazioni per le forze aeree. Inoltre
Washington non ha dimenticato il suo “giardino di
casa”, l’America Latina. Nonostante la lotta
cinquantennale del popolo di Puerto Rico per chiudere
la base di Vieques abbia vinto, nuove basi militari
stanno ora germogliando nelle nazioni andine e gli
USA stanno militarizzando in maniera crescente i
Caraibi.
Questa infrastruttura, “diversificata” e senza
precedenti, della potenza militare globale si basa su
diversi pilastri concettuali.
Il primo è la flessibilità. Cheney, Rumsfeld e i loro
compari vogliono totale libertà d’azione.
Da un lato, se la Germania o un altro stato vassallo
sono riluttanti a permettere che installazioni e basi
militari USA siano usate per un particolare scopo, ivi
compresa la guerra, il Pentagono di Rumsfeld vuole
essere sicuro di poter disporre, al più presto, di altre
basi in altri paesi. Allo stesso modo vogliono che la
loro infrastruttura militare sia flessibile, capace di
servire a molteplici funzioni belliche; ad esempi nel
caso della Corea i compiti delle strutture militari vanno
dallo svolgere un ruolo di deterrenza nei confronti di
Pyongyang allo sostenere una guerra per
“cambiamento di regime” in Corea del Nord;
influenzare la politica estera ed interna coreana e
sostenere gli interventi militari USA dall’Asia
Orientale - stessa funzione questa delle basi Usa in
Giappone - fino al Golfo Persico.
Il secondo è la velocità. Con truppe e armamenti
dislocati all’estero e con le nuove basi “a fior di loto”
che possono essere usate come trampolini di lancio per
gli interventi e l’aggressione militare, il fine è poter
colpire prima che l’obiettivo dell’attacco possa
preparare le sue difese o, come nel caso dell’Iraq,
anche una strategia di resistenza a lungo termine.
Contando sulle attuali e sulle nuove basi e installazioni
militari, le forze USA dislocate all’estero sono
destinate ad essere organizzate secondo una struttura
integrata su tre livelli: 1) basi centrali maggiori, come
quelle in Giappone, Okinawa, Guam, Gran Bretagna,
Qatar e Honduras; 2) centri minori o “Basi operative
all’Estero”, come quelle in Sud Corea, Diego Garcia,
Kuwait, Bulgaria, Uzbekistan e Australia; e 3) i “fiori
di loto” che serviranno come trampolini di lancio in
paesi allineati dalla Lituania al Tajikistan, da Gibuti
alle nazioni andine in Sud America.
Lo scopo di questa “riconfigurazione” della potenza
militare USA non è, naturalmente, lasciare il
Pentagono e la “sicurezza nazionale” occupati o
preoccupati in esercizi concettuali. Come le basi, le
armi e le truppe stesse, la riorganizzazione vien fatta
per terrorizzare, reprimere e, se necessario, uccidere
meglio altri esseri umani. E, come la popolazione della
Guerre & Pace
29
L’OMBRA DELLE BASI
Corea del Sud, del Giappone, di Okinawa e di altre
nazioni, che già “ospitano” basi USA, sanno, queste
basi porteranno con sé intollerabili e terribili “abusi ed
usurpazioni”, che devono trovare opposizione ed essere
vinti.
LA SOLIDARIETÀ.
Non pretendo che ci siano soluzioni semplici per
liberarci dagli abusi, dalle usurpazioni e dai pericoli di
guerra, che sono conseguenti alla presenza delle basi
militari. Le lotte esemplari delle popolazioni filippine e
di Okinawa e le campagne di solidarietà internazionale,
che le hanno sostenute, forniscono modelli, dai quali
possiamo trarre speranza e importanti lezioni.
Ci sono diverse altre nuove dinamiche e iniziative, che
dovremmo tenere a mente. La prima è che negli ultimi
sei mesi c’è stata a livello mondiale un’esplosione di
informazione e di iniziative contro le basi. In Europa lo
scorso giugno si è incontrata a Bruxelles alla
Conferenza della Rete Europea per la Pace e i diritti
Umani una nuova rete di attivisti contro le basi. Si è
già abbastanza avanti nella preparazione di un libro,
scritto da persone di nazioni “ospiti” di tutto il mondo,
che sarebbe un importante strumento per il lavoro
contro le basi. In maniera più drammatica, gli Europei
protestano di nuovo contro le basi USA, compresa la
base nucleare in Belgio. Qui in Asia, come molti di voi
sanno, il “Focus on the Global South” ha dato il via a
una nuova rete contro le basi. La sua rete anti basi sta
preparando un importante forum di persone di tutto il
mondo per scambiare informazioni, condividere storie
e esaminare la possibilità di azioni comuni. Il focus ha
promosso, inoltre, una conferenza contro le basi
all’interno del Forum Sociale Mondiale, cui si spera
che molti di voi parteciperanno o troveranno maniera
di sostenere.
Ora è un mio privilegio ascoltarvi e imparare da voi.
Magari fossi nella condizione di dire che penso che sia
possibile che una campagna per rimpatriare le truppe e
le basi USA dall’Asia e da tutto il mondo diventi
presto il principale obiettivo del movimento pacifista
USA. Purtroppo, nel bel mezzo delle guerre di Bush,
che sono diventate pessimi pantani, la crescente
attenzione per il cambiamento di regime alle elezioni
presidenziali del prossimo anno e la crescente
preoccupazione per i tentativi di Bush-CheneyRumsfeld per fabbricare nuove armi nucleari e
riprendere i test nucleari, i nostri contributi per la
liberazione della Corea, di Okinawa, del Giappone,
delle Filippine e di altre nazioni saranno più limitati, di
quanto tutti noi vorremmo.
Nel passato ci sono state significative aperture: incontri
e pubblicazioni congiunte per aiutare ad educare le
persone e per far crescere il movimento negli USA,
dichiarazioni di pentimento e di solidarietà, firmate da
centinaia di statunitensi dopo il rapimento e lo stupro
da parte dei tre soldati americani nel 1995 ad Okinawa,
e la pubblicità per la raccolta di firme, che mettemmo
sull’Okinawa Times, il giorno dell’apertura del summit
dei G-8, tenuto nella colonia militare ancora occupata.
Per concludere, voglio ringraziarvi nuovamente per
l’opportunità di essere qui con voi e non vedo l’ora di
esplorare con voi i modi con cui il movimento pacifista
USA può dare almeno qualche contributo alle vostre
lotte per la libertà, per la pace e per la sicurezza.
(1) Come studente universitario, ho frequentato presso la Scuola per i servizi Esteri dell’Università di Georgetown. Bill Clinton e Gloria
Macapagal Arroyo, fra il 1964 e il 1968, sono stati due miei compagni di corso. Cosa significasse per un ebreo della middle class frequentare
questa istituzione cattolica internazionale per elite è tutta un’altra storia. (torna al testo)
(2) Calcolare il numero delle basi, delle installazioni e delle nazioni, dove si trovano non è una scienza esatta. Le cifre citate qui sono prudenti e
non tengono conto dei magazzini militari, che talvolta sono calcolati come installazioni. Allo stesso modo, qualcuno calcola 100 nazioni. Ciò
comprende il personale militare assegnato alle ambasciate USA. E, dopo che il presidente Bush ha promesso che gli USA combatteranno una
guerra aperta e segreta contro 40-80 paesi, di questi tempi solo gli alti gradi del Pentagono, della CIA e della Casa Bianca hanno l’accesso alla
lista completa. (torna al testo)
Documento originale_ U.S.Foreign Military Bases & Military Colonialism, 05.12.03 Trad. di Giancarlo Giovine - da Znet
Il dott. Joseph Gerson è il Direttore dei programmi dell’”American Friends Service Committee”(Comitato di servizio degli
amici americani) del New England. È attivamente impegnato nel movimento pacifista USA contro la guerra e ha partecipato alle
conferenze di fondazione di “United for Peace and Justice” (Uniti per la pace e la giustizia), l’”Asia Peace Assembly”
(Assemblea asiatica per la pace) e la “European Network for Peace and Human Rights” (Rete europea per la pace e i diritti
umani). Fra i suoi libri “Il sole non tramonta mai: la rete delle basi militari USA all’estero”, “Con gli occhi di Hiroshima: la
guerra atomica, l’estorsione nucleare e l’immaginazione morale” e “La connessione letale: la guerra nucleare e l’intervento
USA”. Per informazioni contattare: American Friends Service Committee 2161 Massachusetts Ave., Cambridge,
Massachusetts, 02140 USA.
30
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
737 BASI MILITARI USA = IMPERO GLOBALE
di Chalmer Johnson, 2007
Una volta si poteva seguire l’espansione
dell’imperialismo contando le colonie. La versione
statunitense delle vecchie colonie sono le basi militari.
Seguendo su scala globale i cambiamenti che
riguardano le basi possiamo conoscere molto
dell’”impronta” imperiale americana e del militarismo
che l’accompagna.
Non è facile tuttavia valutare le dimensioni o il valore
esatto dell’impero di basi militari degli Stati uniti. I
dati ufficiali disponibili sull’argomento sono
fuorvianti, anche se istruttivi. Secondo il Base structure
report - gli inventari (dal 2002 al 2005) delle proprietà
immobiliari possedute nel mondo dal dipartimento
della difesa - ci sono stati molti cambiamenti nel
numero delle installazioni. Nel 2005 le basi militari
americane all’estero erano 737. E a causa della
presenza militare in Iraq e della strategia della guerra
preventiva del presidente George W. Bush, il numero
continua ad aumentare.
Un particolare interessante: nel 2005 i 38 impianti
americani all’estero di grandi e medie dimensioni,
soprattutto basi navali e aeree, corrispondevano con
una differenza minima alle 36 basi navali e guarnigioni
militari degli inglesi all’apice della loro potenza
coloniale nel 1898. All’epoca del suo massimo
splendore, nel 117 dC, l’impero romano aveva
predisposto 37 grandi basi per pattugliare il suo
immenso territorio, dalla Britannia all’Egitto,
dall’Hispania all’Armenia. Forse il numero ideale di
roccaforti e capisaldi per il paese imperialista deciso a
dominare il mondo si aggira tra 34 e 40. Partendo dai
dati dell’anno fiscale 2005, i burocrati del Pentagono
hanno calcolato che le basi militari all’estero valgono
come minimo 127 miliardi di dollari (una cifra
sicuramente troppo bassa, ma pur sempre superiore al
pil di molti paesi). Prendendo in considerazione le basi
sul territorio nazionale il valore sale a 658,1 miliardi di
dollari. Il dipartimento della difesa giudica il “valore”
di una base calcolando quanto costerebbe sostituirla.
Nel 2005 gli alti comandi militari hanno destinato alle
basi all’estero 196.975 uomini in uniforme,
accompagnati da altrettanti familiari e funzionari civili
del dipartimento della difesa. Inoltre hanno assunto sul
posto 81.425 persone. Nel 2005 il personale militare
americano dislocato in tutto il mondo, compreso quello
in patria, era di 1.840.062 unità, oltre a 473.306
funzionari del dipartimento della difesa e 203.328
dipendenti stranieri. Nelle basi oltreoceano, secondo il
Pentagono, c’erano 32.327 baracche, hangar, ospedali
e altri edifici di proprietà, mentre quelli in affitto erano
più di 16.527.
Le dimensioni di questi impianti sono state registrate
nell’inventario: 2.781 chilometri quadrati all’estero e
120.675 chilometri quadrati in tutto. È evidente che il
Pentagono può considerarsi uno dei più grandi
proprietari terrieri del mondo.
Questi numeri, benché impressionanti, non tengono
conto di tutte le basi effettivamente occupate dagli
Stati uniti. Il Base structure report del 2005, per
esempio, non fa parola delle guarnigioni nella
provincia autonoma del Kosovo, anche se qui si trova
l’immenso Camp Bondsteel, costruito nel 1999 e
gestito dalla Kbr corporation (già conosciuta come
Kellogg Brown & Root), una filiale della Halliburton
corporation di Houston. Il rapporto omette anche le
basi in Afghanistan, in Iraq (106 guarnigioni nel
maggio del 2005), in Israele, in Kirghizistan, in Qatar e
in Uzbekistan, anche se dopo l’11 settembre gli Stati
uniti hanno impiantato basi colossali nel golfo Persico
e nell’Asia centrale.
Come scusa, una nota nella prefazione specifica che
dal rapporto sono stati esclusi “gli impianti forniti da
altre nazioni all’estero”, anche se non è esattamente
così. Il rapporto non comprende le venti installazioni in
Turchia, tutte di proprietà del governo turco e usate
congiuntamente con gli americani. Il Pentagono omette
inoltre dal suo resoconto gran parte delle strutture
militari e di spionaggio situate in Gran Bretagna, del
valore di 5 miliardi di dollari, che sono state camuffate
da basi dell’aeronautica militare del Regno Unito. Se ci
fosse una stima veritiera, l’impero militare statunitense
supererebbe le mille basi all’estero. Ma nessuno, e
forse nemmeno il Pentagono, ne conosce il numero
esatto.
In alcuni casi sono stati i paesi stranieri a tenere segrete
le loro basi Usa, temendo ripercussioni imbarazzanti se
fosse venuta a galla la loro complicità con
l’imperialismo americano. In altri casi il Pentagono ha
sminuito l’importanza della costruzione di impianti
destinati a gestire le fonti energetiche oppure, come in
Iraq, ha conservato una rete di basi per mantenere
l’egemonia sul paese, qualunque sia il futuro governo
iracheno. Washington cerca di non divulgare nessuna
informazione sulle basi che usa per intercettare le
comunicazioni globali né sugli arsenali e sui depositi di
armamenti nucleari. Come sostiene William Arkin,
esperto di questioni militari, “gli Stati uniti hanno
mentito a molti dei loro più stretti alleati, perfino
all’interno della Nato, sui loro progetti nucleari. Decine
di migliaia di testate nucleari, centinaia di basi, decine
di navi e sottomarini vivono in un mondo segreto,
senza nessun ragionevole motivo tattico”.
In Giordania, per limitarci a un solo esempio,
Washington ha dislocato cinquemila soldati in varie
basi lungo il confine con l’Iraq e la Siria. La Giordania
ha anche collaborato agli “interrogatori” dei prigionieri
catturati dalla Cia. E malgrado tutto continua a
sostenere di non avere nessun accordo particolare con
gli Stati uniti, e che sul suo territorio non c’è nessuna
base e nessun tipo di presenza militare americana. Il
paese è formalmente sovrano ma in realtà è un satellite
degli Stati uniti, e lo è da almeno dieci anni. Allo
stesso modo, prima di ritirarsi dall’Arabia Saudita nel
2003, Washington ha sempre negato che a Jeddah ci
fossero i suoi enormi bombardieri B-52, perché così
voleva il governo di Riyadh.
Guerre & Pace
31
L’OMBRA DELLE BASI
Fino a quando i burocrati militari continueranno a
imporre la cultura del segreto per proteggersi, nessuno
conoscerà le vere dimensioni delle basi militari
statunitensi, e meno di tutti i politici democraticamente
eletti.
Nel 2005 ci sono state molte variazioni nello
spiegamento militare in patria e all’estero. La causa è
stata una serie di cambiamenti strategici necessari per
conservare il dominio globale e chiudere le basi in
esubero in patria. In realtà molti di questi cambiamenti
dipendono dall’intenzione dell’amministrazione Bush
di punire i paesi - e gli stati all’interno della
federazione americana - che non hanno appoggiato
l’intervento in Iraq, e di premiare chi lo ha sostenuto.
Così le basi negli Stati uniti sono state spostate nel sud.
Negli stati meridionali, sostiene il quotidiano “The
Christian Science Monitor”, “c’è più sintonia con le
tradizioni marziali” rispetto al nordest, al midwest o
alla costa del Pacifico. Secondo un imprenditore del
North Carolina, soddisfatto dei suoi nuovi clienti, “i
militari vanno dove hanno più sostegno”.
In parte il trasferimento dipende dalla decisione del
Pentagono di far rientrare entro il 2007 o il 2008 due
divisioni - la prima corazzata e la prima di fanteria dalla Germania e una brigata di 3.500 uomini della
seconda divisione di fanteria dalla Corea del Sud.
Oggi per via della guerra in Iraq, gran parte delle forze
militari è stanziata all’estero, gli impianti in patria non
sono pronti per accoglierle e non sono stati destinati
fondi sufficienti a questo scopo. Prima o poi, però, più
di 70mila soldati e centomila loro familiari dovranno
trovare alloggio negli Stati uniti. Il programma di
chiusura delle basi avviato nel 2005 era in realtà un
programma di consolidamento e di allargamento, con
un enorme afflusso di finanziamenti e di fornitori
dirottati verso poche zone chiave.
Al tempo stesso l’apparente riduzione della presenza
dell’impero all’estero è in realtà una crescita
esponenziale di un nuovo tipo di basi - senza familiari
e senza le strutture a loro destinate - situate nelle aree
più remote, dove finora non c’è mai stata una presenza
militare statunitense. Dopo il crollo dell’Unione
Sovietica, nel 1991, era chiaro che l’alta
concentrazione di forze militari americane in
Germania, Italia, Giappone e Corea del Sud non era più
essenziale per far fronte a eventuali minacce: non ci
sarebbero più state guerre con l’Urss né con altri paesi
di quell’area.
L’amministrazione di George Bush senior avrebbe
dovuto cominciare a disarmare o a trasferire le forze
militari in esubero. Più tardi Bill Clinton chiuse varie
basi in Germania, nella zona di Fulda, che un tempo si
pensava fosse la via più probabile per un’invasione
sovietica dell’Europa. In quegli anni, però, il governo
non ha fatto niente di concreto per pianificare il
riposizionamento strategico dei militari statunitensi
all’estero.
Alla fine degli anni novanta i neocon misero a punto
teorie grandiose per promuovere apertamente
l’imperialismo della “superpotenza unica”: azioni
militari preventive unilaterali, la diffusione della
democrazia all’estero con le armi, l’eventualità di
32
ostacolare l’emergere di qualsiasi paese o blocco di
paesi “quasi alla pari” in grado di sfidare la supremazia
militare americana e un Medio Oriente “democratico”
che avrebbe rifornito gli Usa di tutto il petrolio di cui
avevano bisogno.
Un elemento di questo immenso progetto era il
riposizionamento e l’ottimizzazione delle forze armate.
Era inoltre previsto un programma per trasformare
l’esercito in una forza militare più leggera, agile e ad
alta tecnologia: grazie a questa mossa, secondo le
previsioni, si sarebbero liberati dei fondi consistenti da
investire in operazioni di polizia globale.
Della cosiddetta “trasformazione della difesa” si era
parlato all’inizio durante la campagna elettorale del
2000. Poi ci sono stati gli attentati dell’11 settembre e
le guerre in Iraq e in Afghanistan. Nell’agosto del
2002, quando i disegni neocon sono stati messi in atto,
si puntava a una guerra lampo per incorporare l’Iraq
nell’impero.
In questo periodo i funzionari civili del Pentagono si
mostravano pericolosamente sicuri di sé per gli
eccellenti risultati dell’esercito americano nella
campagna del 2001 contro i taliban e Al Qaeda: era
una strategia finalizzata a riaccendere la guerra civile
afgana finanziando i signori della guerra dell’Alleanza
del nord e usando l’aviazione per appoggiare
l’avanzata verso Kabul. Nell’agosto del 2002 l’allora
ministro della difesa Donald Rumsfeld svelò la
“strategia difensiva 1-4-2-1? che gli avrebbe consentito
di combattere due guerre nello stesso tempo, in Medio
Oriente e nel nordest asiatico.
Gli strateghi si preparavano a difendere gli Stati uniti
schierando forze in grado di scoraggiare le aggressioni
e gli attacchi in quattro regioni critiche: l’Europa, il
nordest asiatico (Corea del Sud e Giappone), l’Asia
orientale (lo stretto di Taiwan) e il Medio Oriente.
Queste forze dovevano essere in grado di resistere in
due di queste regioni contemporaneamente e di
riportare “una vittoria decisiva” (cioè un cambiamento
di regime e l’occupazione) in uno dei conflitti. Come
ha affermato William Arkin, “con le forze militari
statunitensi già mobilitate al limite delle possibilità, la
nuova strategia va al di là della semplice preparazione
per reagire alle aggressioni. Sembra piuttosto un piano
per andare a fare la guerra in altri paesi”.
Nella primavera del 2003 la campagna militare, a
prima vista facile e vittoriosa, contro le forze di
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
Saddam Hussein ha confermato questi timori.
L’esercito sembrava in grado di portare a termine
qualunque compito gli fosse stato affidato. Inoltre il
crollo del regime baathista a Baghdad ha incoraggiato
il ministro della difesa Rumsfeld a penalizzare i paesi
che
si
erano
mostrati
poco
entusiasti
dell’unilateralismo di Washington (Germania, Arabia
Saudita, Corea del Sud e Turchia) e a premiare quelli
che avevano sostenuto l’intervento in Iraq, tra cui
alleati storici come il Giappone e l’Italia, ma anche
paesi ex comunisti come la Polonia, la Romania e la
Bulgaria.
È nato così il programma del ministero della d ifesa per
la presenza globale integrata e la strategia delle basi,
conosciuto ufficiosamente come “Global posture
review”, revisione della posizione globale.
Bush ha accennato al programma per la prima volta il
21 novembre 2003, affermando che si impegnava a
“riallineare la posizione globale” degli Stati uniti. Ha
ripetuto la frase, arricchendola di particolari, al
convegno annuale dei veterani di guerra a Cincinnati il
16 agosto 2004. Poiché il discorso rientrava
nell’ambito della campagna presidenziale del 2004, i
suoi commenti non sono stati presi sul serio.
Mentre affermava di voler ridurre la presenza militare
statunitense in Europa e in Asia di circa 70mila
effettivi, il presidente sosteneva che per farlo ci
sarebbero voluti dieci anni. Poi passava a una serie di
promesse che suonavano più come
un reclutamento che come una
dichiarazione strategica: “Nel
corso dei prossimi dieci anni
metteremo in campo un esercito
più agile e flessibile, in modo che
una percentuale maggiore dei
nostri soldati avrà la sua base in
patria. Sposteremo parte delle
truppe e degli impianti in nuove
aree, in modo da poter reagire
rapidamente
per
affrontare
qualunque
pericolo.
Questo contribuirà a ridurre lo
stress dei nostri soldati e delle loro
famiglie.
Gli
effettivi
trascorreranno più tempo in patria
e dovranno affrontare meno
imprevisti e meno spostamenti
nell’arco della loro carriera. Mogli
e mariti dei nostri soldati non dovranno cambiare
lavoro di continuo, avranno più stabilità e più tempo da
dedicare ai figli e da passare a casa con la famiglia”.
Il 23 settembre 2004 il ministro Rumsfeld rivelava i
primi dettagli del progetto della commissione del
senato per le forze armate. Con la sua solita enfasi
esagerata, descriveva il piano come “la più grande
ristrutturazione globale delle forze armate americane
dal 1945?. E citando l’allora sottosegretario Douglas
Feith, aggiungeva: “Durante la guerra fredda sapevamo
in partenza dove si annidavano i rischi e dove si
sarebbero combattute le battaglie cruciali, e potevamo
posizionare i nostri uomini in quelle aree. Oggi
operiamo in modo completamente diverso. Dobbiamo
essere in grado di svolgere qualunque tipo di
operazione militare, dagli interventi armati a quelli per
il mantenimento della pace, in ogni angolo del mondo
e con estrema rapidità”.
Sembra un ragionamento plausibile, ma si spalanca la
porta a un immenso groviglio diplomatico e
burocratico che gli strateghi di Rumsfeld avevano
certamente sottovalutato. Per potersi espandere in
nuove zone, i ministeri degli esteri e della difesa
devono negoziare con i paesi stranieri un accordo
specifico, il cosiddetto “Status of forces agreement”
(Sofa).
Devono inoltre siglare molti protocolli d’intesa, come
il diritto di accesso per i velivoli e le navi nelle acque
territoriali e nei cieli stranieri. Inoltre devono ottenere
la firma del cosiddetto Artide 98 agreement, basato
sull’articolo 98 dello Statuto di Roma della Corte
penale internazionale. L’accordo consente di sottrarre i
cittadini americani in territorio straniero dalla
giurisdizione della Corte. Questi trattati di immunità
sono stati creati con una legge statunitense del 2002
(l’”American service members’ protection act”) per
proteggere il personale militare all’estero. L’Unione
europea, però, li considera illegali.
Gli altri accordi internazionali bilaterali indispensabili
sono quelli di cooperazione nel settore militare tra Stati
uniti e forze della Nato, che riguardano il rifornimento
e lo stoccaggio di carburante per
gli aerei e le munizioni, i contratti
di affitto per le proprietà
immobiliari, gli accordi bilaterali
di sostegno politico ed economico
agli Stati uniti (il cosiddetto
sostegno della nazione-ospite), le
disposizioni per le esercitazioni e
l’addestramento (sono consentiti
gli atterraggi notturni? E le
esercitazioni di tiro con armi
cariche?) e le responsabilità
ambientali per l’inquinamento.
Quando gli Stati uniti non sono
presenti nei paesi stranieri come
conquistatori o salvatori - come è
accaduto in Germania, Giappone e
Italia dopo la seconda guerra
mondiale e in Corea del Sud dopo
l’armistizio della guerra di Corea
nel 1953 - è molto più difficile che riescano a ottenere
quegli accordi che consentono al Pentagono di fare ciò
che vuole, lasciando al paese ospite l’onere di pagare il
conto. Quando non è basata sulla conquista, la struttura
delle basi dell’impero americano finisce per apparire
estremamente fragile.
*da “Internazionale” - Chalmers Johnson è uno storico statunitense.
È il presidente del “Japan policy research institute”. Questo articolo
è un estratto del suo ultimo libro “Nemesis: the last days of the
american republic” ( Metropolitan Books)
L’articolo originale in inglese si può trovare su
www.alternet.org/story/47998/
Guerre & Pace
33
L’OMBRA DELLE BASI
GUARDANDO L’IMPERO STATUNITENSE
di Tom Engelhardt
In Iraq e non solo, l’impero statunitense di basi permanenti cresce a un ritmo allarmante
Solamente quattro anni dopo l’invasione dell’Iraq la
questione fondamentale sul terreno in quel paese
potrebbe infine essere rintracciata: non il massacro o il
caos; non le auto bombe suicide o i camion bomba al
cloro; non la fuga di massa dei professionisti middleclass, la campagna di omicidi di docenti universitari o
il collasso del miglior servizio sanitario della regione;
non i morti iracheni o statunitensi, la mancanza di
elettricità, la crescita delle milizie sciite, il crollo della
“coalizione dei volenterosi” o lo sradicamento di oltre
il 15% della popolazione irachena; nemmeno
l’improvvisa crescita di fondamentalismo ed
estremismo, la crescita di “Al Qaeda in Mesopotamia”,
l’aumento delle uccisioni settarie o l’incapacità del
governo iracheno di pompare petrolio o una legge sul
petrolio stesso scritta a Washington e diretta a riportare
indietro di decenni l’orologio del Medio Oriente - no,
nulla di tutto questo.
Finalmente si riesce a vedere proprio quanto George
W.Bush, Dick Cheney, gli altri funzionari della loro
amministrazione, la direzione politica del Pentagono e
i loro seguaci neocon avevano in mente quando hanno
invaso l’Iraq nel 2003.
IL MODELLO COREA
Permettetemi di prendere la questione da un altro punto
di vista. Nell’ultima settimana si è molto discusso di
“modello Corea” che, secondo il “New York Times” e
altri giornali, il Presidente improvvisamente considera
come modello per l’Iraq (“Mr. Bush di recente ha
informato dei visitatori della Casa bianca che sta
cercando un modello simile alla presenza americana
nella Corea del Sud”). Che significa: un numero
limitato di basi Usa principali spostato fuori dalle aree
urbane; un numero limitato di soldati (circa 30/40.000)
confinati in tali basi, pronti a intervenire in qualsiasi
momento; un governo amico a Baghdad; e (come nella
Corea del Sud dove le nostre truppe si sono stabilite da
oltre sessant’anni) forse un altro mezzo secolo di
tranquillo presidio del territorio. In altre parole, questo
è l’attuale equivalente di un “ridispiegamento oltre
l’orizzonte” di truppe americane. In questo caso “oltre
l’orizzonte” potrebbe significare verso il 2057 e oltre.
Questo, ci viene detto, è un nuovo stadio nel pensiero
dell’amministrazione. Il portavoce della casa Bianca
Tony Snow appoggia il “modello Corea” (“Gli Stati
uniti si trovano in una situazione descritta come
funzione di supporto ‘oltre l’orizzonte’ - come quello
che svolgiamo in Corea del Sud, dove per molti anni ci
sono state forze americane lì assegnate come strumento
per mantenere la stabilità e la sicurezza del popolo sudcoreano contro il vicino nord-coreano che rappresenta
una minaccia…”). Il segretario alla Difesa Robert
Gates ha messo tutto il suo peso a favore di questa idea
in modo da rassicurare gli iracheni che gli Usa “non si
ritireranno dall’Iraq come hanno fatto dal Vietnam
‘con armi e bagagli’” e lo stesso ha fatto il generale
34
secondo in comando in Iraq, Ray Odierno (“Domanda:
siete d’accordo che probabilmente avremo qui una
forza stile Sud Corea per molti anni a venire? Generale
Oderno: penso sia una decisione strategica e penso
debba essere presa tra noi e il governo iracheno. Penso
sia una grande idea”).
David Sanger sul “New York Times” recentemente ha
riassunto questo “nuovo” pensiero in questo modo: “I
funzionari dell’amministrazione e gli alti ufficiali
militari rifiutano di parlare dei loro piani a lungo
termine per l’Iraq, ma quando si parla in via non
ufficiale descrivono un concetto abbastanza preciso.
Chiedono di mantenere tre o quattro basi principali nel
paese, tutte naturalmente fuori dalle popolate aree
urbane, dove le vittime sono cresciute. Sarebbero
incluse la base di al Asad nella provincia di Anbar, la
base aerea di Balad, 50 miglia a nord di Baghdad, e la
base aerea di Tallil nel sud”.
UN PENSIERO DI BUSH AFFATTO NUOVO
I critici - di destra, sinistra o centro - hanno
prontamente attaccato la pertinenza dell’analogia con il
Sud Corea per tutte le ovvie ragioni storiche. Il “Time”
ha intitolato un suo pezzo: Perché l’Iraq non è la
Corea; Fred Kaplan di “Slade” ha sostenuto con
veemenza: “In altre parole, in nessun senso queste due
guerre, questi due paesi, sono vagamente simili; in
nessun modo un’esperienza può gettare luce sull’altra.
In Iraq nessuna frontiera divide gli amici dai nemici,
nessun concetto chiaro definisce chi siano gli amici e
chi i nemici. Sostenere che l’Iraq potrebbe seguire il
‘modello coreano’ - ammesso che il termine modello
abbia un significato - è un’assurdità”.
Sul suo sito internet “Informed Comment”, Juan Cole
ha scritto: “Quello che mi confonde sono i termini
della comparazione. Chi sta svolgendo il ruolo dei
comunisti e della Corea del Nord?”. Jim Lobe di “Inter
Press” cita il generale in pensione Donald Kerrick, già
consigliere per la sicurezza nazionale che ha prestato
servizio due volte in Corea del Sud: “O l’analogia è
una grande semplificazione che serve a rassicurare
l’opinione pubblica sul fatto che l’amministrazione
Bush abbia un piano a lungo termine, oppure è
solamente una sciocchezza”.
Tutti questi critici hanno colto il problema. Nondimeno
la sua grave imprecisione storica non sarà sufficiente a
far abbandonare il “modello Corea”, essendoci una
ragione molto più importante per seguirlo, confermata
da quattro anni di “fatti compiuti” in Iraq - e da una
piccola storia che nessuno sembra ricordare, nemmeno
il “New York Times” che pure aveva segnalato tale
notizia.
In questo momento il “modello Corea” è presentato
come una novità, come il prossimo passo di
un’amministrazione Bush che disperatamente cambia il
suo pensiero dopo che il suo piano di ritiro si è rivelato
un disastro. In ogni caso la questione fondamentale
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
dell’attuale momento “coreano” è che si tratta della più
vecchia delle notizie. Fin da quando ha lanciato la sua
invasione dell’Iraq nel marzo 2003 l’amministrazione
Bush ha pensato di entrare in un Iraq “sudcoreano”
(anche se tale analogia non è mai stata utilizzata).
Mentre
gli
americani,
inclusi
funzionari
dell’amministrazione, ne parlavano come ci si trovasse
a Tokyo o Berlino nel 1945, in Algeria negli anni
Cinquanta, nel Vietnam degli anni Sessanta e Settanta,
nella guerra civile di Beirut degli anni Ottanta, o molti
altri diversi luoghi storici lontani, la pianificazione
dell’amministrazione rimaneva ostinatamente legata al
“Sud Corea”, quando valutava i fatti sul terreno. Il
problema era che, soprattutto a causa della pessima
copertura mediatica, il popolo statunitense non sapeva
nulla o quasi riguardo a questi “fatti compiuti” e questa
separazione ha fatto la differenza per anni.
UNA PICCOLA
DIMENTICATA
FONDAMENTALE
STORIA
Ricordiamo allora una piccola storia fondamentale.
Certamente ricordate l’agitazione all’audizione davanti
a una commissione del Congresso nel febbraio del
2003 del capo dello staff dell’esercito Eric Shinseki, il
quale sosteneva fossero necessari “700.000 soldati”
per occupare efficacemente un Iraq “liberato”. Per
quella frase i dirigenti civili del Pentagono e i loro
alleati neocon lo hanno deriso. Puntualizzando
saggiamente che non esistevano precedenti di “scontri
etnici” in Iraq, il vice segretario alla difesa Paul
Wolfowitz progettava di andare e occupare l’Iraq in
uno stile che si potrebbe definire “high tech” riducendo i diversi costi. Dato che il pensiero diffuso
nell’amministrazione era che gli iracheni avrebbero
salutato i soldati americani come liberatori o almeno
come fossero a casa loro, si aspettavano che
l’occupazione sarebbe proceduta in maniera soffice sulla base di un “modello Corea”, di fatto.
Riguardo alle aspettative dell’amministrazione in quel
febbraio, il reporter del “Washington Post” Tom Ricks
nel suo best-seller sull’occupazione, intitolato Fiasco,
scrive: “Wolfowitz disse agli alti ufficiali
dell’esercito… che a pochi mesi dall’invasione il
livello di truppe statunitensi in Iraq sarebbe stato di
34.000, ricorda il generale dell’esercito Riggs. Allo
stesso modo un altro generale, ancora in servizio,
ricorda che gli era stato chiesto di pianificare una
riduzione di forze fino a 30.000 soldati per agosto
2003. Un altro incontro dell’esercito un anno più tardi
faceva notare che quel numero rappresentava
l’obiettivo ‘per la fine dell’estate 2003’”.
In questo momento nella Corea del Sud sono dispiegati
circa 37.000 soldati statunitensi. In altre parole, il
piano originale era quello di un’occupazione dell’Iraq
“Corea-style”. Ma dove dovevano stare queste truppe?
Il Pentagono aveva pensato anche a quello - e qui il
“New York Times” ha scordato la sua stessa storia. Il
19 aprile 2003, poco dopo l’ingresso delle truppe
statunitensi a Baghdad, i reporter del “Nyt” Thom
Shaker e Eric Schmitt pubblicavano in prima pagina un
pezzo intitolato Il Pentagono si aspetta un accesso di
lungo periodo a quattro basi chiave in Iraq.
Iniziava così: “Gli Stati uniti stanno prog ettando una
relazione militare di lungo termine con l’emergente
governo dell’Iraq tale da garantire al Pentagono
l’accesso alle basi militari e proiettare l’influenza
americana nel cuore di quella instabile regione - così
hanno riferito alti funzionari dell’amministrazione
Bush. Ufficiali americani, in interviste rilasciate questa
settimana, hanno parlato del probabile mantenimento
in Iraq di quattro basi che potrebbero essere utilizzate
nel futuro: una nell’aeroporto internazionale proprio
fuori Baghdad; un’altra a Tallil, vicino Nassirya, nel
Sud; una terza in un’isolata pista aerea chiamata H-1
nel deserto occidentale, lungo il vecchio oleodotto che
corre verso la Giordania; l’ultima nel campo aereo di
Bashur nel nord kurdo”.
Quindi il Pentagono è arrivato a Baghdad con già
scritta sulla lavagna una strategia di occupazione a
lungo termine attraverso almeno quattro basi militari.
Queste sarebbero state mega-basi, essenzialmente
cittadelle americane fortificate, nelle quali 30-40.000
soldati avrebbero potuto rimanere per un’eternità
secondo lo stile-Sud Corea. Ufficialmente il
Pentagono, come veniva astutamente affermato, non
cercava “basi permanenti” ma “accessi permanenti”. (E
sulla base di questo stratagemma verbale
un’amministrazione che ha costantemente ridefinito la
realtà per aggiustarla alle sue necessità ha piegato i
suoi evidenti desideri, e i suoi progetti, per una
“permanenza” in Iraq. Come ha segnalato pochi giorni
fa Tony Scott “le basi militari statunitensi in Iraq non
sarebbero
necessariamente
permanenti
perché
sarebbero là su invito del governo ospitante e ‘la
persona che fa l’invito ha il diritto di ritirare l’invito
stesso’”).
QUANTO DURANO GLI “ENDURING CAMPS”?
Quando il report di Schmitt e Shaker è piombato in una
conferenza stampa di Rumsfeld, la storia è stata
sostanzialmente negata (“non ho mai, per quanto
ricordi, sentito parlare della questione delle basi
permanenti in Iraq durante alcuna riunione”) e quindi è
scomparsa dal “New York Times” per quattro anni (e
dalla maggior parte degli altri media per la maggior
parte del periodo). Non è però scomparsa dalla
programmazione del Pentagono, che, al contrario, ha
cominciato a distribuire contratti a diverse imprese
private per avviare il lavoro. Alla fine del 2003 una
prestigiosa riviste di ingegneria citava il tenente
colonnello David Holt, ingegnere dell’esercito
impegnato nello “sviluppo di infrastrutture in Iraq”,
che riferiva orgogliosamente di diversi milioni di
dollari già spesi nella costruzione di basi militari (“il
numero è oscillante”). Sono state costruite basi a
profusione - secondo il “Washington Post”, 106 fino al
2005, inclusi ovviamente piccoli avamposti.
Al momento, per evitare tracce della parola
“permanenti”, le principali basi militari Usa in Iraq
sono state chiamate dal Pentagono “enduring camps”
(campi stabili). Cinque o sei di questi sono
Guerre & Pace
35
L’OMBRA DELLE BASI
decisamente imponenti, inclusi Camp Victory (il nostro
quartier generale militare vicino all’aeroporto di
Baghdad, alla periferia della capitale), la base aerea di
Balad, a nord di Baghdad (che sopporta un traffico
aereo da concorrere con l’aeroporto O’Hare di
Chicago) e la base aerea al-Asad nel deserto
occidentale vicino alla frontiera con la Siria. Queste
basi sono abbastanza grandi da contenere strade per
autobus multipli, cine-teatri, famosi ristoranti fast-food
e, in un caso, anche un campo da golf in miniatura.
Nella base di Tallil, nel Sud, è stata costruita una sala
per le messe con 6.000 posti a sedere e che sfiora la
superficie delle strutture dell’amministrazione Bush.
Inoltre, con la crescita dei gruppi insorgenti e la caduta
di Baghdad nel disordine e nella guerra settaria, i
pianificatori statunitensi hanno cominciato a costruire
un’area recintata pesantemente fortificata (con un costo
di 600 milioni di dollari) composta da 20 strani edifici
nel cuore della Green Zone di Baghdad, la più grande
“ambasciata” sul pianeta, così autonoma da non aver
bisogno dell’Iraq per elettricità, acqua e quasi tutto il
resto; con “apertura” programmata per settembre, sarà
sia una cittadella che una casa per migliaia di
diplomatici, spie, guardie, contrattisti privati e
lavoratori stranieri necessari per rispondere ai bisogni
della “comunità”.
I MEDIA CIECHI VERSO LE BASI
Dal 2003 ad oggi i lavori di costruzione, mantenimento
e continuo ampliamento di queste basi (e del loro
equivalente in Afghanistan) non sono mai finiti.
Malgrado i contratti per la costruzione delle grandi basi
siano stati affidati molto tempo fa, proviamo a
guardare a un paio di piccoli contratti più recenti.
Nel marzo 2006 “Dataline Inc.” di Norfolk, Virginia,
ha vinto un appalto di 5 milioni di dollari per il
“controllo tecnico delle innovazioni di infrastrutture e
istallazione di cavi” principalmente per “Camp
Fallujah (25%), Camp al-Asad (25%) e Camp
Taddoum (25%)”. Nel dicembre 2006 la “Watkinson
L.L.C.” di Houston ha vinto un appalto di 13 milioni di
dollari per un contratto di “design e costruzione di un
parcheggio per aerei pesanti e un’area di
immagazzinamento aperta” per la base aerea di al-Asad
“ da completare entro il 17 settembre 2007”. In marzo
2007 la “Lockheed Martin Integrated Systems” ha
ottenuto un contratto da 73 milioni di dollari per “le
necessità periodiche, quali operazioni di mantenimento
e supporto per la rete di basi locali, comunicazioni
satellitari, controlli tecnici, telefoni, radio mobili,
istallazioni via cavo interne ed esterne… per 13 basi in
Iraq, Afghanistan e altre sei nazioni che rientrano
nell’area di responsabilità del Central Command degli
Stati uniti”.
E la costruzione di basi principali può non essere al
termine. Guardiamo al Kurdistan iracheno. Secondo
Julian Cole la stampa irachena continua a riportare
voci secondo le quali le attività di costruzione delle
basi sono passate in quella regione. Non si sa molto,
tranne che a Washington alcuni considerano il
Kurdistan iracheno un posto naturale dove
36
“ricollocare” i soldati statunitensi in caso di futuro
parziale ritiro o riduzione.
Questi, quindi, sono i “fatti sul terreno” iracheno
dell’amministrazione Bush. Qualsiasi cosa chiunque e
in qualsiasi momento possa dire riguardo la fine della
presenza americana in Iraq o la restituzione della
“sovranità” agli iracheni, per i reporter americani a
Baghdad, così come per i media a casa, la natura
“stabile” (“enduring”) di quanto è stato costruito
dovrebbe essere indubbia - e dovrebbe significare
qualcosa. Dopo tutto queste basi americane, come
l’enorme ambasciata nella Green Zone (ironicamente
chiamata dagli abitanti di Baghdad “Palazzo di George
W.”),
sono
mostruose
nelle
dimensioni,
all’avanguardia per comunicazioni e strutture e devono
supportare enormi comunità americane, siano essi
soldati, spie, appaltatori o mercenari, per lungo tempo.
BASI: VIA AMERICANA ALL’IMPERO
Sono imperiali per natura, l’equivalente diplomatico e
militare statunitense delle piramidi. E nessuno,
vedendole, può pensare ad altro che a “permanenti”.
Non significa nulla che ufficialmente queste basi non
siano definite “permanenti”; dopo tutto, come indica il
modello coreano (vecchio almeno di sessant’anni), tali
basi, più che le colonie, sono state da sempre la via
americana all’impero, e, con rare eccezioni, dove sono
arrivate non sono mai andate via. Esse rimangono,
cannoniere immobili puntate per una sorta di eterna
“diplomazia” armata. Raggruppandosi efficacemente in
certe regioni del pianeta, esse rappresentano quello che
il Pentagono chiama la nostra “impronta”.
Come ha segnalato Chalmer Johnson nel suo libro The
sorrows of Empire, gli Usa hanno, soprattutto dalla
seconda guerra mondiale, messo in piedi almeno 737
basi (piccole e grandi) in tutto il mondo probabilmente il numero è più vicino alle 1000. Come
sostiene Tony, dappertutto gli americani sarebbero stati
ufficialmente “invitati” dai governi locali e hanno
negoziato “Status of Force Agreement” [Sofa, accordo
sullo status delle forze], l’equivalente moderno della
garanzia di extraterritorialità di epoca coloniale, in
modo che le truppe statunitensi siano soggette in
misura minima a controlli e tribunali locali. Ci sono
ancora almeno 12 basi in Corea, 37 solamente
sull’isola giapponese di Okinawa e così via intorno a
tutto il globo.
Dalla Guerra del Golfo nel 1990 la costruzione di basi
è stata incessante. Le amministrazioni Bush sr., Clinton
e Bush figlio hanno messo in piedi una catena di basi
che va dai vecchi paesi satelliti dell’Urss dell’Europa
orientale (Romania, Bulgaria) ed ex Jugoslavia,
attraverso il “Grande Medio Oriente” (Kuwait, Qatar,
Oman, Bahrein e Emitati arabi uniti), verso il Corno
d’Africa (Gibuti), nell’Oceano indiano (l’isola
“britannica” di Diego Garcia) e giusto attraverso l’Asia
centrale (Afghanistan, Kyrgyzistan e Pakistan, dove
“condividiamo” basi pakistane).
Le basi hanno seguito le nostre piccole guerre dei
recenti decenni. Sono entrate in Arabia saudita e nei
piccoli Emirati del Golfo (attorno) ai tempi della nostra
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
prima Guerra del Golfo nel 1991, nell’ ex Jugoslavia
dopo la guerra aerea del Kosovo nel 1999, in Pakistan,
Afghanistan e nelle ex repubbliche socialiste sovietiche
dell’Asia centrale dopo la guerra afghana nel 2001 e in
Iraq, naturalmente, dopo l’invasione del 2003, dove
dovevano sostituire le basi dell’Arabia saudita messe in
naftalina come risposta alla denuncia di Osama binLaden secondo il quale gli americani stavano
contaminando i luoghi più sacri dell’Islam.
Di fatto, se ci si ferma alle basi istallate dopo l’11
settembre 2001, l’enfasi era posta da una parte
sull’accerchiamento della Russia attraverso i suoi
passati satelliti est-europei e le vecchie repubbliche
socialiste
dell’Asia
centrale
e,
dall’altra,
sull’assicurarsi una serie di basi lungo il cuore
petrolifero del pianeta, una striscia di territorio definita
nel 2002/2003 dall’amministrazione come “arco
d’instabilità”. L’Iraq era, ovviamente, solamente una
parte, per quanto fondamentale, di tale sogno imperiale
su come dominare il pianeta. E così le “ziggurat”
militari che hanno reso manifesto quel sogno, tutti i
miliardi di dollari dei contribuenti e l’ovvio bisogno di
permanenza che si portava dietro sono stati in gran
parte lasciati fuori da resoconti, discussioni e dibattiti
riguardanti l’occupazione dell’Iraq.
L’IRAQ COME LA COREA…
L’amministrazione è rimasta sorprendentemente
silenziosa riguardo a tutta questa attività di costruzione
e sul suo significato - dietro periodiche negazioni che
questo impegno fosse “permanente” - e con rare
eccezioni anche i giornalisti che trasmettevano da
Camp Victory o dalle altre basi evitavano di inserirle
nel paesaggio dei loro servizi. Queste basi, e il colosso
di “ambasciata” che le accompagna, non sono state
considerate così importanti. Forse per giornalisti e
direttori, abituati a vivere in un universo nel quale gli
Usa semplicemente non possono comportarsi in modo
imperiale, le basi sono un dato imprescindibile - come
lo stile di vita statunitense (“American way of life”).
Evidentemente per la maggior parte dei reporter non
c’è, per certi versi, alcuna notizia. Di conseguenza, ci
sono state infinite discussioni sull’”incompetenza”
dell’amministrazione Bush (delle quali non se ne può
più), ma nulla sulla programmazione piuttosto
competente che lascia pesantemente queste strutture
nel paesaggio iracheno. Se la questione non è stata
totalmente oscurata (blacked-out) negli Stati uniti, si
può dire che abbia subito una specie di rimozione
(whiteout).
Mentre molte cose sull’Iraq sono state discusse, la
questione principale, per quanto assolutamente
concreta, non ha avuto peso, non è stata sottolineata
per nulla. Per i reporter americani, come per il
Segretario di stato statunitense, il presidio su larga
scala del Pianeta Terra semplicemente non è una storia
che faccia notizia. Il risultato è che la maggior parte
degli americani non si è reso conto che stavamo
creando edifici multimiliardari sul territorio iracheno
per durare qualcosa di simile a un’eternità. E
sorprendentemente, quando è stato chiesto alla fine
dello scorso anno dai ricercatori del “Program on
International Policy Attitude” se avremmo dovuto
avere basi “permanenti” in Iraq, un enorme 68% di
americani ha risposto di no! Ma quando la questione
delle basi e della permanenza arriva sulla stampa,
generalmente arriva nel contesto dei “sospetti” iracheni
sulla questione (ah, questi stranieri paranoici!). Per
esempio il “Los Angeles Times” riporta le parole di
Michael O’Hanlon - analista della Brooking University
spesso citato - che parla così dell’appoggio del
presidente al “modello Corea”: “Cercando di mostrare
risolutezza, Bush introduce la congettura che noi
rimarremmo lì per lungo tempo… è inutile per
affrontare la politica della nostra presenza in Iraq”. No,
Michael, le basi sono la nostra politica in Iraq.
…UNA FANTASIA IMPERIALE
In genere i democratici e i loro principali candidati alla
presidenza si schierano con O’Hanlon, e nessuna
significativa proposta di “ritiro” dall’Iraq dei
democratici è davvero una proposta di ritiro completo.
Propongono solamente di ritirare le brigate di
combattimento americane (forse 50-60.000 soldati) dal
paese, mentre la maggior parte di quelli che rimangono
sarebbero ricollocati in quelle grandi basi che è troppo
scomodo nominare.
Improvvisamente, comunque, la discussione del
“modello Corea” è entrata nelle notizie, così come le
basi - e l’idea di una presenza militare permanente in
Iraq - sono entrate nel mirino statunitense
probabilmente per la prima volta.
Bisogna solamente guardare all’Iraq di oggi per capire
quanto (come molto altro immaginato dai nostri
sognatori imperiali) questa fantasia di uno sviluppo
tranquillo dell’Iraq verso una democrazia amica ci ha
condannato a continui fallimenti, mentre la terra del
petrolio del pianeta rischia di implodere. Il “modello
Corea” è solamente una delle più grottesche e
interessate erronee interpretazioni della storia, ma non
è nulla di nuovo. Non è una fantasia nella quale sono
inciampati il presidente e i suoi più alti funzionari nella
disperazione dell’epoca del ritiro: è la fantasia che
hanno borbottato a Baghdad già dal 2003; è la fantasia
imperiale che non ha mai abbandonato i loro pensieri
da quel primo “shock and awe” (“colpisci e
terrorizza”) ad ora.
Bisogna dar loro atto di coerenza. Su questo “modello”
- in qualsiasi modo lo si voglia chiamare l’amministrazione Bush ha puntato tutto e su quello
non hanno mai esitato. La maggior parte degli
americani ha vissuto in questi anni in una sorprendente
ignoranza su quanto stavano realmente costruendo in
Iraq a causa di una tra le peggiori coperture di una
questione importante del recente passato. Ora, forse,
questa grande separatezza americana sta cominciando a
finire, il che potrebbe rappresentare una cattiva notizia
per l’amministrazione Bush.
Da: TomDispatch, www.tomdispatch.com, 14 giugno 2007 . Trad. di Piero Maestri, adatt. red.
Guerre & Pace
37
L’OMBRA DELLE BASI
PIÙ TRUPPE USA RIMARRANNO IN EUROPA?
Gordon Lubold – “The Christian Science Monitor”, 24 aprile 2007
Funzionari della Difesa statunitense in Europa stanno
ripensando al piano che prevede un forte taglio nel
numero di forze statunitensi nel continente – una
modifica potenziale che mostra quanto la Guerra in
Iraq e altre minacce stiano costringendo i militari a
rivedere l’ampia trasformazione che doveva ridefinire
la loro strategia oltremare.
Molti funzionari di alto livello sono preoccupati che il
progetto di ridurre a quasi la metà il numero di forze in
Europa potrebbe rendere difficile sostenere gli interessi
americani in Europa. La riduzione di truppe,
sostengono, va troppo lontano: “Sono molto
preoccupato di quanto stiamo tenendo basse le capacità
dell’esercito statunitense in Europa”, ha detto uno di
questi funzionari, che ha chiesto l’anonimato per la
delicatezza della questione.
Per anni la presenza di più di 110 mila soldati in grandi
basi in paesi come Italia e Germania è stata considerata
un residuo della guerra fredda. Nel 2002 l’allora
Segretario di Stato Donald Rumsfeld coordinò
un’iniziativa per ridurre il peso militare americano
nell’Europa occidentale a favore di più piccole e agili
forze collocate in basi temporanee in posti quali la
Romania e la Bulgaria. In questo modo si sarebbero
collocate le forze Usa in aree molto meno stabili e le si
sarebbero rese più efficaci.
Sulla base di questo piano del 2005, molte delle forze
rimanenti sarebbero rientrate negli Stati uniti; per il
2012 solamente 60.000 soldati sarebbero rimasti in
Europa. Ma questo succedeva 2 anni fa.
Oggi queste ipotesi non possono valere. Le riforme
democratiche in Russia sono tornate indietro, e in Iran
è emersa una minaccia potenzialmente molto seria.
Inoltre le guerre in Iraq e Afghanistan sono durate più
a lungo di quanto ci si aspettava e hanno attinto dalle
forze americane basate in Europa, che altrimenti
avrebbero potuto essere utilizzate in missioni del
“European Command” (degli Usa, ndr), per esempio
per costruire le capacità delle “nazioni partner”. E’
stato invece difficile per l’”European Command”
cercare una nuova e più attiva strategia verso queste
nazioni, v cercando di prevenire i problemi prima che
insorgessero. Inoltre è stato necessario cancellare
esercitazioni e altri impegni militari in Europa e Africa
perché il comando aveva o avrebbe avuto forze scarse.
La nuova strategia richiede “un intera nuova previsione
di mezzi ed equipaggiamenti della quale ci sarà
bisogno in questo teatro” dice il colonnello della Us
Air Force West Anderson, che guida la “Tranformation
Concepts Division” dell’European Command. “Se
questo significherà maggiori forze in questo teatro, è
ancora da decidere”:
38
Il generale dell’esercito Bantz Craddock, da poco capo
dell’European Command e alto ufficiale della Nato, ha
guidato il suo staff a studiare quanto il piano di
ristrutturazione delle basi militari influirebbe sulla
strategia statunitense in Europa, così come quanto il
dimezzamento delle forze possa impedire le missioni.
Un rapporto preliminare per il generale sarà pronto il
mese prossimo, e un report completo per metà
dell’estate.
Il mese scorso, durante un’audizione al Congresso,
Craddock ha ambiguamente segnalato di esprime
riserve verso il piano, senza dire esplicitamente di
essere contrario. Sapendo che le forze statunitensi del
Dipartimento della difesa sono bloccate, Craddock ha
segnalato che la guerra sta rendendo difficile condurre
le altre operazioni.
“Abbiamo scarse capacità residue dopo aver
contribuito alla forza globale, se fosse necessaria per le
prossime operazioni”, ha aggiunto Craddock.
Approssimativamente il 75% delle forze statunitensi in
Europa sono impegnate in Iraq o in Afghanistan,
stanno per partire oppure sono appena rientrate,
secondo i funzionari della difesa. “La nostra capacità di
far fronte a tali necessità è oggi limitata perché non
abbiamo forze disponibili in quanto sono impegnate
nella rotazione per l’Iraq o l’Afghanistan”.
C’è un altro problema di natura più pratica: le forze
che l’esercito sta facendo rientrare negli Stati Uniti non
hanno un posto dove andare. Il Congresso ha finanziato
solo parzialmente il “Base Realignment and Closure
Act”, che governa una serie di chiusure e
consolidamenti di basi. Mentre sono inziate le spese
per sistemare le forze di ritorno dalla Germania,
secondo funzionari della difesa ormai restano pochi
soldi, così che son o stati rinviati i lavori a Fort Bliss,
Texas e Fort Riley, Kansas.
“In questa situazione non siamo in grado di assorbire
più nessuno” dice David Reed, assistente per le
costruzioni per l’ufficio apposito dell’esercito al
Pentagono.
Qualsiasi
raccomandazione
faccia
Craddock
ultimamente risulta indirizzata a mantenere abbastanza
forze americane per mandare un messaggio di forza
agli alleati e ai potenziali nemici, dice Mackubin
Thomas Owens, professore al Collegio navale di
guerra di Newport. “La principale ragione per
mantenere truppe in Europa è quella di rendere
possibile che continuiamo a sederci a capotavola”,
dice.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
ASIA SUDOCCIDENTALE E NORD-ORIENTALE
Tratto da “Foreign Military Bases in Eurasia”, Zdzislaw Lachowski – SIPRI Policy Paper n.18 Stockholm International Peace Research Institute, Giugno 2007
Dal 2001 l’attenzione internazionale si è spostata
dall’Europa verso aree di conflitto e instabilità in Asia
sud-occidentale e nord-orientale.
Le basi militari rispondono a differenti obiettivi, a
seconda di dove sono posizionate. In questo momento,
in Afghanistan e in Iraq, svolgono principalmente il
ruolo di supporto delle truppe in azione contro gli
insorgenti e i terroristi, fornendo le adeguate
infrastrutture – campi di aviazione, magazzini, servizi e
strutture logistiche e così via. Le basi in Medioriente
mirano ad assicurare stabilità politica, proteggere gli
interessi occidentali e salvaguardare il flusso di
petrolio. Recentemente l’amministrazione Bush ha
aggiunto a questa lista la sua “freedom agenda” (1). Gli
Usa sono l’attore principale – sostenuti ora dalla
“coalizione dei volenterosi” ora dalla Nato.
Almeno dal 2002 la Nato ha rinforzato la sua raison
d’être verso missioni interventiste (expeditionary) e
acquisendo accesso a strutture attraverso accordi con i
paesi ospitanti. In Asia nord-orientale sono stati
mantenuti i modelli della guerra fredda: quelle basi
verrebbero utilizzate per la difesa mutua dai partner
strategici locali degli Usa in caso di conflitto o
confronto e per una deterrenza estesa verso gli
avversari degli Usa nella regione.
Asia sud-occidentale
Le guerre prolungate in Afghanistan e Iraq e i crescenti
investimenti sia di risorse finanziarie che di truppe
rendono verosimile l’eventualità che gli Usa e le forze
della coalizione rimangano in entrambi i paesi per
lungo tempo. La posizione ufficiale statunitense è che
“la presenza Usa per lungo tempo in questi paesi è una
scelta sovrana dei loro popoli e governi” (2). Malgrado
le ripetute assicurazioni del Presidente Bush secondo il
quale gli Usa non stanno cercando basi permanenti in
Iraq e Afghanistan, queste dichiarazioni sono
contestate dai sondaggi di opinione e dagli esperti (3):
“Con le istallazioni in Iraq e Afghanistan, le truppe
statunitensi circonderebbero il principale rivale
dell’America per l’influenza nella regione: l’Iran. Le
basi irachene accrescerebbero anche la capacità
statunitense di controllo della Siria e manterrebbero lo
sguardo sui vitali stati petroliferi del Golfo Arabico –
capacità danneggiata dalla necessità di uscire
dall’Arabia Saudita subito dopo l’invasione dell’Iraq”
(4).
Un memorandum del 2005 del “Congressional
Research Service” (Crs)ha segnalato che, oltre al quasi
miliardo di dollari spesi tra il 2001 e il 2004
dall’amministrazione Bush per progetti di edilizia
militare in Afghanistan e nei paesi vicini, il
Dipartimento della Difesa ha chiesto un’ulteriore
miliardo per il 2005. Alla luce di ciò il memorandum
del Crs chiedeva se queste spese fossero l’annuncio di
una presenza statunitense di lungo periodo nella
regione o mirassero a fornire aiuti di breve periodo alle
strutture di servizio per le truppe Usa (5).
La politica di fondo degli Usa nell’area rimane
ambigua, dipendendo da fattori politici sia interni che
esterni alla regione stessa. Con l’escalation delle
ostilità in Afghanistan e Iraq, la strategia Usa si è
diretta verso il consolidamento delle forze statunitensi
in grandi strutture militari (hubs) come mezzo per
ridurre il fabbisogno di truppe nella regione.
Apparentemente questo è stato fatto a spese degli
alleati della Nato e delle tattiche contro-insurrezionali
(per esempio piccoli gruppi di consiglieri sul terreno),
uno sviluppo criticato come controproducente sia negli
Usa che tra i partner della coalizione (6).
Afghanistan
Subito dopo gli attacchi del 11 settembre 2001, la Nato
sostenne l’Operazione “Enduring freedom” in
Afghanistan – guidata dagli Usa – in diversi modi,
inclusa la garanzia di accesso a porti e basi, il diritto di
sorvolo, e simili. Verso la fine del 2001, durante il
primo mese della guerra, 14 stati membri della Nato
schierarono le loro forze nella regione e 9 di essi
presero parte alle operazioni di combattimento. I paesi
della Nato e altri partner hanno fornito il 95% delle
forze dell’Isaf – guidata dalla Nato – che opera in
Afghanistan parallelamente all’Operazione “Enduring
freedom”. Dopo aver fornito con successo assistenza,
peacekeeping e aiuto alla ricostruzione nelle parti
settentrionale e occidentale dell’Afghanistan, dalla
metà del 2006 l’Isaf ha intrapreso una più rischiosa e
pesante missione di sicurezza e contro-insorgenza nelle
province meridionali e, dall’ottobre 2006, orientali del
paese. La missione di sicurezza dell’Isaf si è quindi
estesa fino a includere l’intero paese e nel marzo del
2007 aveva circa 37.000 soldati a sua disposizione (7).
La possibilità di stabilire basi militari permanenti
statunitensi in Afghanistan era stata discussa al
principio del 2005 quando, durante una visita nel
paese, il Sen. John McCain sostenne che le basi Usa in
quel paese sarebbero state nell’interesse della sicurezza
statunitensi e regionali (8). Due mesi più tardi il
presidente afghano Hamid Kharzai si rifiutava di
confermare se un accordo di sicurezza di lungo periodo
con gli Usa avrebbe incluso la costruzione di basi Usa
permanenti in Afghanistan, e il Segretario di Stato
Rumsfeld sottolineava che “noi pensiamo più a quanto
stiamo facendo che non alla questione delle basi
militari o a cose simili” (9).
In un incontro il 23 maggio 2005, Bush e Karzai hanno
poi firmato la “Dichiarazione congiunta di partnership
strategica Stati Uniti-Afghanistan”, nella quale si legge
che “Le forze militari statunitensi operanti in
Afghanistan continueranno ad avere accesso alla base
aerea di Bagram e ai suoi servizi, e strutture nelle altre
località sulla base di possibili decisioni congiunte e che
le forze degli Usa e della Coalizione devono continuare
ad avere la necessaria libertà di azione per condurre le
operazioni militari appropriate sulla base di
Guerre & Pace
39
L’OMBRA DELLE BASI
consultazioni
e
procedure
precedentemente
concordate” (10).
Benché la “Dichiarazione congiunta” non garantisse il
diritto degli Stati uniti a basi permanenti, che sarebbe
stato troppo controverso per l’opinione pubblica
afgana, permetteva una presenza militare Usa stabile
nel paese.
All’inizio del 2007 circa 3500 militari statunitensi (e
diverse migliaia di truppe Isaf) stazionavano nella base
aerea di Bagram, nell’est dell’Afghanistan a nord di
Kabul, così come centinaia di aerei si trovavano in
quella base e in altri 13 campi di aviazione in
Afghanistan. Con la crescita delle responsabilità della
Nato sulla sicurezza in Afghanistan, furono predisposti
piani affinché la Nato stesso condividesse i costi
operativi e il controllo degli campi di aviazione, che
avrebbero dovuto diventare i suoi hub logistici. La
Nato ha acquisito la responsabilità delle operazioni
militari nell’est dell’Afghanistan dalle forze Usa
nell’ottobre 2006, ma la base aerea di Bagram rimane
sotto il controllo statunitense. Bagram e altri basi sono
inoltre utilizzate dagli Usa come prigioni per presunti
terroristi e ribelli.
Altri centri logistici controllati dagli Usa in
Afghanistan comprendono il campo di aviazione di
Kandahar nel sud del paese, dove sono assegnati circa
500 uomini; l’aeroporto di Kabul; la base aerea di
Shindand nella provincia occidentale di Herat. Shindan
si trova a circa 35 chilometri dalla frontiera con l’Iran e
preoccupa in maniera particolare le autorità iraniane
che temono che le sue capacità militari e altre basi
operative avanzate (Forward Operative Base) possano
essere utilizzate per un accerchiamento aggressivo o
operazioni militari contro l’Iran.
Basi fuori dal paese che supportano le operazioni Nato
e statunitensi comprendono la base aerea Ganci a
Bishkek, Kyrgyzistan; diverse basi nel Golfo, tra le
quali la base aerea Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti;
la base aerea Al Udeid in Qatar; e la base aerea di
Incirlik in Turchia (11).
La base in Afghanistan che riceve la maggior parte dei
fondi dal budget del Dipartimento della Difesa
statunitense è quella di Bagram. (Fino al 2005 la base
aerea di Karshi-Khanabad in Uzbekistan, che
supportava le operazioni in Afghanistan, era anch’essa
una delle principali destinazioni dei fondi del
Dipartimento della Difesa). All’inizio del 2005 erano
stati spesi 38 milioni di dollari per la costruzione e i
miglioramenti degli edifici militari della base di
Bagram e del campo aereo di Kandahar. Altre stime
parlano di 120 milioni di dollari spesi dagli Usa a
Bagram e Kandahar per riparare, allargare ed estendere
le vie d’accesso, le piste aeree, i sistemi di controllo e
altre strutture (12). Il Crs ha stimato che nel periodo
2001-2004 sono stati spesi 120 milioni di dollari per
sostenere la costruzione di edifici militari in
Afghanistan, e altri 230 milioni erano richiesti per il
2005. Le “Basi avanzate di supporto” a Kabul e Mazari-Sharif al nord, a Herat a est e Kandahar nel sud
forniscono assistenza di sicurezza e evacuazione
40
sanitaria all’Isaf e ai “Provincial reconstruction team”,
strutture civili-militari della nato.
Iraq
La situazione in Iraq è più complessa che quella in
Afghanistan perché l’Iraq si trova in una posizione
strategica e potenzialmente capace di limitare le azioni
dei principali avversari degli Usa in Medioriente quali
la Siria e l’Iran. Al principio del 2003 sia la Gran
Bretagna che gli Usa progettarono di costruire basi
militari in Iraq e di mantenerle dopo il ritiro della forza
di invasione (la Nato non partecipa ufficialmente a
missioni combattenti in Iraq e il suo ruolo si limita
all’addestramento
dei
militari
iracheni).
Il
Dipartimento della Difesa progettava di costruire
quattro basi aeree di sostegno alle forze che operavano
in Iraq e servissero in alternativa alle basi analoghe in
Turchia e Arabia Saudita, paesi entrambi riluttanti a
sostenere l’invasione dell’Iraq (14). La Gran Bretagna
progettava anche di rendere l’aeroporto di Bassora il
suo principale hub logistico e base di elicotteri.
Gli Stati uniti hanno incontrato seri ostacoli legali alla
realizzazione dei loro piani di schieramento a lungo
termine. Speravano che un governo iracheno
riconosciuto internazionalmente avrebbe potuto
concludere rilevanti accordi in cambio del
trasferimento di sovranità nel giugno 2004. Invece le
due principali organizzazioni politiche irachene erano
quasi unite nella loro richiesta per un rapido ritiro
piuttosto che per una presenza militare indefinita degli
Usa. Malgrado i kurdi iracheni avrebbero visto con
favore una presenza a lungo termine di basi militari
statunitensi nel nord del paese (14), l’esistenza di tali
basi avrebbe potuto incidere negativamente sia
sull’unità interna sia sulle relazioni con i vicini
dell’Iraq. La presenza di basi militari statunitensi è
difficilmente difendibile sul piano politico perché gli
attacchi degli insorgenti rendono l’Iraq non attraente
per gli investimenti; gli interessi nazionali iracheni non
sono definiti a causa dei conflitti tra le varie fazioni; e
gli Stati uniti sono generalmente visti in maniera
negativa come occupanti non graditi (15). Devono
anche essere tenute in considerazioni possibili
ripercussioni nella regione. Un “Accordo sullo status
delle forze” (Sofa) non è stato firmato ma le forze
statunitensi e della coalizione operano in Iraq e
utilizzano le sue strutte sulla base di un temporaneo
“memorandum of understanding”.
Anche precedentemente alla “Joint Declaration of the
United States–Afghanistan Strategic Partnership” gli
Usa avevano preso provvedimenti che suggerivano
stessero pianificando una presenza permanente nelle
aree di conflitto in Asia (16). Gli Usa stimano una
spesa di 300 milioni di dollari per istallazioni militari
in Iraq nel 2004, e la richiesta per il 2005 ammontava a
670 milioni di dollari (17). Le somme principali sono
andate alla base aerea e di supporto logistico Anaconda
di Baghdad; al complesso militare e Al Taji e Camp
Cook; e a camp Speicher a Tikrit. Le spese del
Dipartimento della Difesa per le istallazioni militari
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
hanno provocato preoccupazioni nel Congresso Usa
riguardo alla definizione ambigua di “istallazione
militare” e al limitato controllo del Congresso stesso
sulle prestazioni del Dipartimento della Difesa in
quell’area (18).
Nel maggio 2005 il presidente Bush firmava il decreto
di finanziamento aggiuntivo che destinava risorse alla
costruzione di basi – “in alcuni casi molto limitati, in
altri strutture permanenti” – in Iraq. In quel momento
si stimava una presenza di 110 basi e istallazioni
militari statunitensi in Iraq. A metà del 2006 venne
segnalato che 48 Forward Operating Bases in Iraq
erano state trasferite sotto il controllo iracheno (19).
Per quanto riguarda le altre strutture, 14 dovranno
rimanere quali basi permanenti e saranno consolidate
in quattro grandi basi aeree (mega basi). Queste si
trovano a Tallil nel sud, Al Asad a ovest e Balad nel
centro – dove già esistono strutture principali - e
un’altra a Irbil o Quayyarah nel nord (20).
Operazioni di supporto in Asia sud-occidentale: la
regione del Golfo
Le basi nei paesi del Golfo svolgono un ruolo speciale
e sono fondamentali nella protezione degli interessi
statunitensi nella regione e nelle aree adiacenti. Il
Central Command degli Usa - Centcom (21) – ha
consolidato o stabilito nuove basi in Bahrein, Kuwait,
Oman, Qatar e Emirati Arabi Uniti per compiti
ausiliari, principalmente per le forze combattenti in
Iraq e Afghanistan.
Dalla guerra del Golfo del 1991 gli Usa hanno
mantenuto importanti risorse militari preposizionate in
Kuwait. Truppe dell’aviazione statunitense sono state
dispiegate nella base aerea congiunta saudita-
statunitense di Prince Sultan a sud di Riyad fin dal
1979 e l’Arabia Saudita è stata una base chiave nella
Guerra del Golfo e per il rafforzamento delle “zone di
non volo” fino all’invasione dell’Iraq nel 2003. I voli
per il rafforzamento delle “No fly zone” e il potenziale
utilizzo dell’Arabia saudita per attacchi di rappresaglia
contro altri stati arabi nella “guerra globale al
terrorismo” hanno reso altamente impopolare la
presenza Usa in Arabia Saudita. Gli Usa hanno quindi
ritirato la maggior parte delle loro truppe verso la
grande base aerea Al Udeid in Qatar (che fornisce una
sistemazione per circa 10.000 militari), dove sono
continuati lavori di costruzione fino al 2000 (22). Le
basi statunitensi nella regione sono percepite dai paesi
ospitanti come una garanzia nei confronti di eventuali
attacchi iraniani. Allo stesso tempo temono anche che,
in caso di un conflitto tra Iran e Stati uniti, l’Iran possa
rivolgersi contro di loro.
Secondo il piano di riposizionamento delle basi del
presidente Bush, gli Stati uniti manterranno, e in alcuni
casi accresceranno, “senza essere permanenti”,
infrastrutture in Medioriente per le forze necessarie alla
rotazione e a diverse eventualità (come “Basi operative
avanzate” e “Siti di Cooperazione per la Sicurezza”);
queste saranno sostenute da quartier generali avanzati e
strutture di addestramento (23). Per questo scopo gli
Usa hanno stabilito una rete di siti per il preposizionamento di materiali bellici, come quelli delle
basi aeree di Seeb, Thumrait e Masirah in Oman; la
bese aerea Al Udeid in Qatar; e la base navale Manama
in Bahrein - Quinta Flotta, Comando centrale delle
forza navali Usa (24).
[…]
NOTE
(1) La “freedom agenda” si riferisce all’obiettivo dell’amministrazione Bush di promozione della democrazia in tutto il mondo. The White
House, ‘President Bush Addresses United Nations General Assembly’, New York, 19 Sep. 2006,
www.whitehouse.gov/news/releases/2006/09/20060919-4.html
(2) US Department of State, International Information Programs, ‘U.S. outlines realignment of military
forces’, 16 Aug. 2004, http://usinfo.state.gov/is/Archive/2004/Aug/17-437847.html
(3) Gramaone, J., ‘No plans for long-term U.S. bases in Iraq, Rumsfeld says’, News transcript,
US Department of Defense, 23 Dec. 2005, www.defenselink.mil/news/Dec2005/20051223_3735.html
Il generale di brigata Mark Kimmitt ha anche dichiarato: “Gli Stati uniti non manterranno alcuna base di lungo periodo in Iraq. La nostra
posizione è che quando ce ne andremo non avremo basi qui”. ‘US general maps
out strategic refit for Iraq, Middle East and Asia’, “The Guardian”, 7 Feb. 2006.
(4) Trowbridge, G., ‘Is U.S. planning permanent bases in war zones?’, Defense News, 9 May 2005.
Esiste anche una rete regionale di basi nei paesi vicini; queste basi che supportano la presenza in Iraq e Afghanistan comprendono la base aerea
Ali Ali Salem in Kuwait, le basi aeree Ali Sayliyah e Al Udeid in Qatar, e Al Dhafra negli Emirati Arabi Uniti.
(5) Belasco, A. and Else, D., ‘Military Construction in Support of Afghanistan and Iraq’, US Library
of Congress, Congressional Research Service (CRS) Report for Congress (CRS: Washington, DC,
11 Apr. 2005), www.fpc.state.gov/c14641.htm. Secondo il CRS le spese totali per il periodo 2001–2005 sono state di 2241.3 milioni di dollari
Usa.
(6) Si veda per es. Rogers, P., ‘The Pentagon overstretch’, openDemocracy, 29 Sep. 2005,
www.opendemocracy.net/conflict/nato_2880.jsp; oppure Moulton, S., ‘Getting the right troops in the
right places’, International Herald Tribune, 15 Sep. 2006.
(7) International Security Assistance Force (ISAF), ‘Key facts’, 20 Apr. 2007,
www.nato.usmission.gov/dossier/Afghanistan/Placemat%2020%20Apr%2007.ppt
Vedi anche O’Bryant, J. e Waterhouse, M., US Forces in Afghanistan, US Library of Congress, Congressional Research Service (CRS) Report
for Congress RS22633 (CRS: Washington, DC, 27 Mar. 2007), www.fpc.state.gov/documents/organization/82599.pdf
Secondo O’Bryant e Waterhouse, gli Usa hanno circa 25 000 soldati stanziati in Afghanistan.
(8) Quando gli è stato chiesto cosa avrebbe significato una “partnership strategica di lungo periodo” tra Afghansitan e Usa, il Sen. McCain
(sottolineando che quello era un suo parere) la identificava in una partnership militare, incluso “basi militari permanenti comuni” (citato in
Synovitz, R., ‘Afghanistan: how would permanent U.S. bases impact regional interests?’, Radio Free Europe/Radio Liberty, 23 Feb. 2005). La
segreteria di McCain più tardi specificava che la sua frase “non implicava che tale impegno richiedesse basi militari Usa permanenti in
Afghanistan”.
Guerre & Pace
41
L’OMBRA DELLE BASI
(9) Citato in Shanker, T., ‘Afghan leader to propose strategic ties with the U.S.’, “New York Times”, 14 Apr. 2004. Il 8 maggio 2005 Karzai
chiese a circa 1000 delegati afghani in una consultazione nazionale a Kabul se Afghanistan avrebbe dovuto ospitare basi Usa permanenti. La
loro risposta fu ambivalente: sostenevano una presenza indefinita delle forze straniere per mantenere la sicurezza, ma chiesero a Karzai di
rinviare la sua decisione.
(10) The White House, Office of the Press Secretary, ‘Joint Declaration of the United States–
Afghanistan Strategic Partnership’, Washington, DC, 23 May 2005,
www.whitehouse.gov/news/releases/2005/05/20050523-2.html
(11) Katzman, K., Afghanistan: Post-War Governance, Security, and U.S. Policy, US Library of
Congress, Congressional Research Service (CRS) Report for Congress RL30588 (CRS: Washington,
DC, 23 Aug. 2006), www.fpc.state.gov/c4763.htm, pp. 21–22. Vedi anche ‘Afghanistan—
airfields’, GlobalSecurity.org, www.globalsecurity.org/military/world/afghanistan/airfield.htm
(12) Rolfsen, B., ‘Afghan base runways challenge U.S. pilots’, Defense News, 22 Aug. 2005.
(13) Le 4 basi avrebbero dovuto essere posizionate: in una fascia aerea isolata definita H-1 nell’Iraq occidentale; a Bashur nel nord kurdo, a
Tallil, vicino a Nassiriya, nel sud; e nell’aeroporto internazionale di Baghdad. Ripley, T., ‘US and UK reveal plans to set up bases in Iraq’,
Defense News, 30 Apr. 2003.
(14) Il Presidente iracheno Jalal Talabani, un kurdo, ha espresso la sua speranza in una presenza militare statunitense di lungo periodo in Iraq –
almeno 10.000 soldati e 2 basi aeree nel Kurdistan iracheno per prevenire “ingerenza straniere”’. ‘Iraq is not in chaos’, Washington Post, 25 Sep.
2006.
Il desiderio di Talabani contrastava con I sondaggi che mostravano il disaccordo della maggior parte degli iracheni con I loro leader. ‘Most
Iraqis favor immediate U.S. pullout, polls show’, Washington Post, 27 Sep. 2006.
(15) Marten, K. and Cooley, A., ‘Permanent bases won’t work’, International Herald Tribune, 3 Feb. 2005.
(16) Trowbridge, G., ‘Is U.S. planning permanent bases in war zones?’, Defense News, 9 May 2005.
(17) Belasco and Else (nota 5), p. 3.
(18) Belasco and Else (nota 5), pp. 10–12. Si veda anche ‘Iraqi airfields’, Globalsecurity.org,
www.globalsecurity.org/military/world/iraq/airfields.htm
(19) US Department of State, International Information Programs, ‘U.S. announces transfer for two
northern Iraqi provinces’, 8 Aug. 2006, http://usinfo.state.gov/usinfo
(20) Spolar, C., ‘14 “enduring bases” set in Iraq: long term military presence planned’, Chicago
Tribune, 23 Mar. 2004; e ‘Iraq facilities’, GlobalSecurity.org,
www.globalsecurity.org/military/facility/iraq-intro.htm
(21) L’area di responsabilità del CENTCOM si estende su 27 stati in Asia Centrale, Africa orientale e Medioriente. Nel il “US African
Command” (AFRICOM) avrà la responsabilità per tutta l’Africa, escluso l’Egitto.
(22) ‘US to move headquarters out of Saudi Arabia’, Jane’s Defence Weekly, 7 May 2003, p. 7.
(23) US Department of State, International Information Programs, ‘U.S. outlines realignment of military
forces’, 16 Aug. 2004, http://usinfo.state.gov/is/Archive/2004/Aug/17-437847.html
(24) Per queste a e alter strutture si veda ‘US Central Command facilities’, GlobalSecurity.org,
www.globalsecurity.org/military/facility/centcom.htm
42
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
LE MANI SULL’AMERICA LATINA
Le basi militari Usa in America latina: la lunga mano armata sul più grande mercato economico al mondo
Sabatino Annecchiarico, Guerre & Pace 142, ottobre 2007
Nelle dichiarazioni di Hugo Chávez rilasciate in una
breve intervista al quotidiano “Clarín” di Buenos Aires
(avvenuta lo scorso 7 agosto), viene da lui enfatizzata
questa frase: “L’imperialismo statunitense ha le mani
sull’America latina”. Dovrebbe essere una semplice
frase, poiché nulla di nuovo aggiunge sui rapporti
coloniali che gli Stati uniti esercitano da anni in
America latina. Ma, se fu davvero una semplice frase,
perché quella sottolineatura?
GLI OBIETTIVI DEGLI USA
In realtà Chávez dice altro con quella frase. Dice, o
meglio avverte, su come si stanno preparando gli Stati
Uniti per combattere, anche militarmente, il socialismo
latinoamericano del XXI secolo. E lo fanno mettendo
pesantemente le mani, armate, su tutto il continente.
Anche su come sono fatte queste mani, si può
aggiungere, non c’è nulla di nuovo nella frase di
Chávez. Sono mani già conosciute da mezzo mondo
per come si sono macchiate di sangue organizzando
complotti, colpi di stato e altre atrocità. Per questa
ragione i latinoamericani sono preoccupati più che mai;
soprattutto se si considerano le basi militari Usa
dislocate strategicamente in tutto il continente, dal
Nord al Sud.
Uno degli obiettivi da conseguire con queste basi
militari, forse il principale nei piani della Casa bianca,
è quello di cancellare militarmente la svolta di unità e
sovranità continentale intraprese dalla stessa Venezuela
di Chávez e dal mezzo secolo di rivoluzione socialista
cubana. Un’azione militare necessaria qualora
fallissero i piani economici di libero mercato proposti
dalle multinazionali statunitensi e fortemente voluta
dalla Casa bianca con cui vanno a braccetto.
La militarizzazione territoriale Usa ha un’altro
compito, non di secondo ordine: quello di far valere
l’egemonia territoriale delle multinazionali statunitensi
in concorrenza (braccio di forza, si direbbe) con quelle
di matrice non Usa, prevalentemente quelle che
appartengono all’altro grande impero planetario:
l’Unione europea.
L’ALTRO CONTENDENTE
Questa Ue, che ha le stesse pretese degli Stati uniti nel
contendere il medesimo territorio latinoamericano (il
bottino), non vorrà rimanere fuori dal banchetto degli
affari commerciali che questa regione offre: 34 paesi
abitati da una popolazione che supera i 530 milioni di
abitanti, con un Pil che sommato a quello degli Usa si
aggira attorno ai 12.000 miliardi di dollari, che
significa quasi un 30% più alto di quello della stessa
Unione europea.
Se si prevede, inoltre, che nei prossimi quarant’anni la
popolazione latinoamericana raggiungerà la cifra di
800 milioni di abitanti, con il dovuto aumento
proporzionale sugli affari commerciali, è facile capire
che nessuna multinazionale vorrà rimanere nell’uscio
della manna latinoamericana. Affari commerciali da
capogiro dunque, che includono ovviamente la
possibilità di avere le “mani libere” (riprendendo la
non banale frase di Chávez), per facilitare alle imprese
multinazionali la spogliazione del territorio.
Ed è proprio su tale egemonia territoriale che si sta
sviluppando la triangolare battaglia tra le grandi
corporazioni capitaliste e colonialiste dell’Unione
statunitense da una parte e dell’Unione europea
dall’altra. Entrambe le potenze si pongono dunque
contro il progetto di Unione degli stati dell’America
latina e dei Carabi, che rivendicano, in questa guerra
d’interessi, la sovranità territoriale. Ed è in questa
trilogia di guerra che il Pentagono si muove in anticipo
piazzando armi in quasi tutti i paesi del continente.
LE BASI MILITARI USA IN AMERICA LATINA
Per farsi un’idea di quante sono le basi militari Usa in
America latina si devono innanzitutto escludere dal
conteggio le micro-basi che operano per conto del
Pentagono sotto forma di spie civili, militari,
paramilitari o semplici mercenari (come i contractor in
Iraq) anche latinoamericani, o ancora eserciti privati
finanziati dalle stesse transnazionali con forte interesse
nella regione. Ebbe risonanza il caso, in quest’ultimo
esempio,
della
bananiera
Chiquita
Brands
internazionale, quando finanziò nei primi anni del
millennio l’esercito privato Autodefensas Unidad de
Colombia, Auc, con 1,7 milioni di dollari e facilitò nel
2001 l’ingresso in Colombia di 3.000 fucili destinati
alla stessa Auc.
Queste basi minori sono, purtroppo, onnipresenti in
tutti i paesi del continente e, come ha accennato
Chávez nell’intervista sopra citata, “si occupano di
mettere zizzania, fanno correre voci, tutto con lo scopo
di frenare l’integrazione latinoamericana”. Queste
presenze di piccola entità, ma molto numerose e
potenti - un centinaio, o forse un migliaio? - sono
facilmente trasferibili da un posto all’altro e sono
inserite nel tessuto della popolazione, anonimamente,
con grande operatività. In particolar modo sono molto
efficaci per il controllo territoriale e, qualora fosse
necessario, contribuiscono alla destabilizzazione dei
governi cosiddetti “canaglia”, stabiliti dal vademecum
delle corporazioni.
Queste micro-basi sono senza
scrupoli quando operano nelle “missioni” loro
assegnate, che includono atti di terrorismo, sabotaggi e
sequestri di persone. Molti di questi gruppi operano,
come è noto, nei centri di addestramento o come
consiglieri nell’ambito della lotta al narcotraffico o a
quel terrorismo sognato da Bush.
Il Pentagono dispone (oltre alle lunghe mani su cui può
contare, ovvero le micro-basi segnalate), anche di una
delle cinque strutture militari più grandi al mondo: il
Comando Sud (Ussouthcom), che opera incisivamente
in 31 paesi del Sud America, del Centro America e dei
Caraibi. Restano fuori dall’influenza di questo
Guerre & Pace
43
L’OMBRA DELLE BASI
comando il Messico e la Guyana francese, che fanno
parte del Comando Nord, e, ovviamente, la Repubblica
di Cuba, che non ha mai autorizzato basi militari
statunitensi nel proprio territorio (gli Stati uniti
usurparono una parte di territorio della provincia
orientale dell’isola per installare la famigerata base
miliare di Guantánamo, uno dei centri di prigionia e di
tortura internazionale statunitensa).
In questo momento il Comando Sud - la centrale
operativa per il “cortile di casa” - si trova a Miami,
Florida, dove è stato trasferito da Panama dopo che gli
Stati uniti hanno dovuto abbandonare la base di
Howard il 31 dicembre 1999 in virtù degli accordi
Carter-Torrijos del 1997.
MANTA, LA PORTAEREI TERRESTRE
La base aerea installata nel porto di Manta,
sull’Oceano Pacifico, nel nord dell’Ecuador, è una
delle basi gestite dall’Ussouthcom ed è una vera e
propria portaerei terrestre, in grado di intervenire in
azioni dirette sia di spionaggio che di attacco bellico su
tutta la zona, che comprende i territori della Colombia,
del Venezuela, il sud di Panama, il nordovest del
Brasile, il Perú, la Bolivia settentrionale, tutto
l’Ecuador, fino a predisporre del controllo dell’Oceano
Pacifico centrale.
Come è facile capire, questa base è parte integrante di
una rete di basi militari con cui il Pentagono tiene sotto
controllo una più vasta zona che va dall’area
settentrionale del Sud America a tutto il Centro
America e i Caraibi.
La base di Manta ha molteplici funzioni. Ha un ruolo
attivo di controllo e direzione nella guerra contro la
resistenza armata colombiana che opera in quel paese
da quasi cinquant’anni, le Farc e l’Eln. È inoltre una
base strategica per eventuali azioni belliche contro la
Repubblica bolivariana del Venezuela, Cuba,
l’Ecuador o altri stati potenzialialmente iscritti nella
lista degli stati canaglia.
Questa base è fondamentale anche per il controllo
energetico e degli idrocarburi della regione, della
biodiversità forestale, dei grandi fiumi e dell’acqua
dolce: risorsa preziosa del futuro immediato.
Inoltre la base diventa indispensabile per controllare i
flussi di collegamento bellico e commerciale tra
l’Atlantico e il Pacifico (incluso il canale di Panama o
eventuali alternative) e i collegamenti via terra, ovvero
la Colombia, porta d’accesso della traiettoria Nord-Sud
del continente.
LA RETE DI SPIONAGGIO CONTINENTALE
Le altri basi maggiori si trovano nelle isole dei Carabi
a nord del Venezuela, in Curaçao, con la base di Hato e
di Aruba e la base di Reina Beatriz. Altre si trovano in
Comalapa, El Salvador, a Vieques, in Puerto Rico, a
Soto di Cano in Honduras, Alcántaras nel Nordovest
del Brasile, Tres Esquinas y Leticia in Colombia,
Iquitos in Perú e infine, la già citata base di
Guantánamo. Proseguendo verso il sud del continente
si trovano altre lunghe “mani” militari Usa. In territorio
della Repubblica del Paraguay esiste una base capace
di controllare il bacino d’acqua dolce più grande del
44
pianeta dopo quello dell’Antartide: la Foresta centrosud amazzonica e l’Iguazú con i suoi affluenti nella
triple frontiera brasiliana-argentina-paraguaiana.
Anche in questa regione la base è strategica per il
controllo della biodiversità forestale (chimicofarmaceutica), degli idrocarburi (petrolchimica),
alimentare (coltivazione intensiva di soia transgenica)
eccetera. Ha un raggio d’azione militare di pronto
intervento che copre tutta la Bolivia, il sud del Brasile,
il Centro-nord argentino, il Cile, l’Uruguay e lo stesso
Paraguay.
Questa base, che è immersa (nascosta?) nella foresta
paraguaiana, ha una pista aerea capace di albergare i
temibili bombardieri B52, oltre che i soliti aerei da
spionaggio e i caccia bombardieri che le popolazioni di
mezzo mondo hanno avuto la sfortuna di conoscere.
Ancora più a sud, nell’estremo sud del continente, là
dove finisce il mondo, nella Tierra del Fuego in
Argentina, una base militare completa la mappa
geopolitica di controllo egemonico del continente (e di
minaccia militare), pronta a intervenire, come le altre,
qualora il governo Usa lo ritenga opportuno.
INTERESSI INTERCONTINENTALI
Il 26 luglio 2001 il governatore di Tierra del Fuego,
Manfredoni, firma il decreto legge 1369/01 che
consente agli Stati uniti di installare una base nella città
di Tolhuin, nel centro dell’Isola australe. Questo
decreto in sostanza autorizza “sperimentazioni nucleari
sotterranee”, grazie alla legge 25.022 siglata nel 1998
sotto il governo neoliberista del Berlusconi argentino,
Carlo Saul Menem. Questa postazione, oltre a essere
una base nucleare, è parte integrante della rete dello
scudo spaziale antimissile creato dagli Stati uniti.
Da quest’ultimo lembo di terra continentale, si
controlla l’altro grande punto di passaggio tra gli
oceani Atlantico e Pacifico: un controllo condiviso con
il Regno unito che ha il possesso delle isole Malvinas e
di tutti gli arcipelaghi dell’Atlantico Sud.
L’egemonia territoriale in quest’area geografica
implica anche il controllo dell’Antartide dove si trova
il bacino d’acqua dolce più importante del pianeta,
nonché una delle riserve petrolifere più grandi al
mondo, che si calcola superiore a quella del Medio
Oriente. Quest’immensa riserva di petrolio si trova
nella piattaforma marittima dei due oceani, nel
sottosuolo antartico e nella Patagonia argentina e
cilena.
Hugo Chávez, sempre nell’intervista rilasciata al
quotidiano “Clarìn”, conferma che “quella in atto è una
lotta d’interessi continentali” e pronostica con
ottimismo che “la vinceremo noi latinoamericani”. Ma,
visto cosa sono capaci di fare militarmente gli Stati
uniti, nulla è così scontato: la posta in gioco è troppo
alta. Se il vaticinio di Chávez non si avverasse, e se gli
Stati Uniti fossero i vincitori di questa guerra non
dichiarata ma implicita contro gli stati sovrani
latinoamericani e contro la concorrenza europea, essi
rimarrebbero al comando del mercato unificato più
grande del pianeta, con la più vasta e assoluta
ricchezza e con un terzo del Pil mondiale a
disposizione.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
Guerre & Pace
45
L’OMBRA DELLE BASI
COMANDO AFRICA, COLONIALISMO IN STILE PENTAGONO
Manlio Dinucci – “il manifesto” 4/3/2007
Al quartier generale del Comando europeo degli Stati
uniti (EuCom), a Stoccarda, è appena arrivato
l'ammiraglio Robert Moeller, con un compito di grande
importanza: creare un nuovo comando di
combattimento unificato, il Comando dell'Africa
(AfriCom). La sua «area di responsabilità» coprirà
quasi l'intero continente che, nella geografia del
Pentagono, è oggi diviso tra Comando europeo,
Comando del Pacifico e Comando centrale (la cui
«area di responsabilità» comprende, oltre al Medio
Oriente, il Corno d'Africa, Sudan ed Egitto).
Solo l'Egitto resterà sotto il Comando centrale. Il
nuovo comando, il cui quartier generale sarà dislocato
direttamente in Africa e diverrà pienamente operativo
entro il settembre 2008, è «ancora nella sua infanzia»,
ma il Pentagono lo sta facendo crescere rapidamente
attraverso una intensa attività militare in Africa. Nel
Nord Africa gli Stati uniti hanno stipulato accordi
militari con Marocco, Algeria e Tunisia. Nel Sahel,
forze speciali Usa addestrano da tempo le truppe di
Mauritania, Mali, Niger e Ciad. In Senegal si è svolta,
lo scorso 8 febbraio, la conferenza della «partnership
trans-sahariana» promossa dall'EuCom con la
partecipazione dei ministri della difesa di nove paesi
africani.
A Gibuti, dove gli Usa hanno installato una base
militare, sta per divenire operativa la Task force
congiunta del Corno d'Africa, che opererà con 2mila
uomini in questa «regione di vitale importanza per la
guerra globale al terrorismo»: in tale quadro, i marines
hanno cominciato in febbraio ad addestrare le truppe di
Gibuti. In Etiopia - secondo una inchiesta del New
York Times (23 febbraio), smentita da Addis Abeba - è
stata dislocata la Task Force 88, unità segreta per le
operazioni speciali che, da qui e dal Kenya, effettua
azioni in Somalia. A Pretoria, l'EuCom ha tenuto nel
luglio 2006 una prima conferenza (Endeavor 2006)
sulla «interoperabilità militare», che sarà replicata
quest'anno: scopo di queste conferenze, cui partecipano
militari di 24 paesi africani, è quello di integrare le loro
forze armate in un unico sistema di comando,
controllo, comunicazioni e informazioni (C3IS), ossia
in quello del Pentagono.
A Luanda ha fatto scalo nell'aprile 2006, per attività di
addestramento della marina angolana, la Uss Emory
Land, la nave appoggio dei sottomarini nucleari finora
di stanza a La Maddalena, che ha visitato anche Congo,
Gabon, Ghana e Senegal. In Angola, lo scorso
febbraio, ha fatto scalo anche la fregata Kauffman,
facente parte di una task force Usa proveniente
anch'essa dall'Italia. Questa e un'altra unità hanno
visitato anche il Congo e la Liberia. In Ghana una
squadra di tecnici, inviata dal comando di Napoli delle
forze navali Usa, ha effettuato una prospezione
idrografica del porto di Tema nel quadro di un
programma mirante a «migliorare la sicurezza
marittima in tutto il golfo di Guinea». Ciò conferma il
piano del Pentagono di stabilire basi militari in Ghana
e altri paesi dell'Africa occidentale. Il perché emerge
da un comunicato della marina Usa: «Il 15% del
petrolio importato dagli Stati uniti proviene dal golfo
di Guinea, regione ricca anche di altre risorse: nostro
scopo è quindi stabilire un ambiente marittimo sicuro
per permettere a tali risorse di raggiungere il mercato».
E' però l'ambiente terrestre sempre meno «sicuro». In
Nigeria, maggiore produttore petrolifero dell'Africa, il
dominio delle multinazionali - che controllano il 95%
della produzione (oltre la metà la sola Shell) - viene
messo in pericolo dalla crescente ribellione delle
popolazioni e dalla concorrenza cinese. Da qui il piano
del Pentagono di costituire basi militari in Africa
occidentale e rafforzare la capacità d'intervento
dall'esterno. Non a caso l'esercitazione Steadfast
Jaguar, con cui la «Forza di risposta della Nato» ha
raggiunto lo scorso giugno la piena capacità operativa,
si è svolta a Capo Verde in Africa occidentale.
Siamo dunque di fronte a una crescente penetrazione
militare statunitense in Africa, mirante al controllo
soprattutto di aree strategiche, come il Corno d'Africa
all'imboccatura del Mar Rosso, e di aree ricche di
petrolio e altre risorse, come l'Africa occidentale.
Questa politica di stampo coloniale sarà tra non molto
attuata direttamente dal Comando dell'Africa che, per
controllare tali aree, farà ancor più leva sulle élite
militari, minando i processi di democratizzazione,
provocando altre guerre e facendo aumentare le spese
militari con disastrose conseguenze per le popolazioni
già impoverite. In tal modo l'AfriCom proseguirà la
«missione» del Comando europeo degli Usa, che si
dichiara impegnato per «un'Africa autosufficiente e
stabile».
HOTEL CORNO D'AFRICA, GRANDE BASE AMERICANA
Emilio Manfredi, Il Manifesto del 10/01/2007
Militari e civili americani vanno e vengono e, in nome della «lotta al terrorismo globale», tutto è sotto
controllo: Etiopia, Somalia, Kenya, Sudan, Eritrea, Yemen, da quel centro strategico che è Gibuti
Tigist ha ventidue anni e lavora come cameriera al Dil
Hotel di Dire Dawa, la seconda città per importanza e
numero di abitanti d'Etiopia. «Da quando ho trovato
questo lavoro, finalmente posso dare una mano ai miei
46
genitori. Siamo in 10 in famiglia, e sino a un anno fa
sopravvivevamo con lo stipendio di mio padre, autista
di camion», racconta, mentre serve del the a due
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
avventori dell'albergo. «Ora con i miei 150 birr (meno
di 15euro, ndr) al mese, viviamo un po' meglio».
Dire Dawa è una città dove la vita scorre lenta al ritmo
del Khat, la foglia stimolante che molti amano
masticare. Soprattutto, un centro di passaggio sulla
rotta dei camion e del treno che da Addis Abeba porta
verso Gibuti, la piccola repubblica somala ex-colonia
francese, oggi principale porto commerciale di cui si
serve l'Etiopia. «Questo è un albergo molto frequentato
da businessmen etiopi e turisti di passaggio in città,
diretti soprattutto ad Harar, la quarta città santa
dell'islam dove ha vissuto a lungo il poeta francese
Rimbaud», racconta un facoltoso imprenditore di
Addis Abeba, ospite dell'albergo. «Io vengo qui
almeno due volte a settimana. Ultimamente, almeno
metà dell'hotel è occupato da militari americani.
Arrivano su vetture civili, targate Gibuti o Dubai
oppure prese a noleggio qui in Etiopia. Scaricano
attrezzatura e si installano per giorni, continuando a
fare avanti e indietro. Io vengo sempre qui, e non mi
posso esporre. In Etiopia ci sono molti argomenti di cui
è meglio non parlare. Uno di questi sono i soldati
americani e le loro attività», continua l'uomo. Per
questo il suo nome non verrà citato.
L'uomo parla e racconta usando un inglese perfetto.
Ogni tanto però si interrompe e continua piano in
amarico. Infatti, anche oggi, al Dil hotel, come in tutta
Dire Dawa, si aggirano soldati americani. Primo
fanteria, Air force, Us Navy. Tutti in divisa, con nomi
e gradi ben in vista. Alcuni di loro sono armati, M-14 a
tracolla, caricatori disinseriti ma a portata di mano.
Stanno scaricando materiale appena arrivato a bordo di
un van e di tre fuoristrada Toyota. Mezzi civili, come
sempre.
Computer, tecnologia di comunicazione satellitare e
attrezzatura per costruire un campo (tende e brande)
vengono lasciati sotto la custodia di 4 palestratissimi
soldati del Primo reggimento fanteria. Intanto, altri
uomini in divisa (ufficiali di aviazione e di marina),
accompagnano tre uomini e una donna in un giro di
perlustrazione dell'hotel. Discutono fitto, a bassa voce.
Controllano le stanze, le entrate dell'albergo, le vie di
fuga, i tetti. Poi alcuni di loro risalgono sui fuoristrada,
e se ne vanno, scortati da ragazzi etiopi che parlano
con un pesante accento americano. «Uno di loro ha
chiesto informazioni sui clienti dell'hotel», racconterà
poi un dipendente, la voce preoccupata.
Che il Corno d'Africa sia diventato per gli Usa uno dei
luoghi strategici nella cosiddetta «guerra al terrorismo»
non è cosa nuova. Come non è nuovo il fatto che il
piccolo Stato di Gibuti sia il centro del comando della
Combined Joint Task Force (Cjtf) americana per il
Corno d'Africa. Una missione militare di pronto
intervento e di intelligence «il cui obiettivo è
individuare, interrompere, e in ultima analisi
sconfiggere i gruppi terroristici transnazionali che
operano nella regione - impedendo paradisi sicuri,
supporti esterni, e assistenza materiale per le attività
terroristiche», come spiega il sito Globalsecurity.org.
Inoltre, il Cjtf «ha lo scopo di combattere il riemergere
del terrorismo internazionale nell'area attraverso
operazioni militari/civili e supportando operazioni di
organizzazioni non-governative, al fine di rinforzare la
stabilità a lungo termine della regione». L'area di
responsabilità della missione, stando al sito ufficiale,
comprende lo spazio aereo e terrestre di Etiopia,
Somalia, Kenya, Sudan, Eritrea, Gibuti e Yemen.
La base principale di questa missione è - sin dai suoi
esordi nel 2002 - Camp Lemonier, ex-caserma della
legione straniera francese poco fuori da Djibouti-ville,
capitale e unica città di un certo rilievo della piccola 7
repubblica. Qui sono basati soldati di fanteria, marines,
ma anche forze della marina, dell'aviazione e di
intelligence. Da qui, ieri, è partito l'aereo AC-130 che
ha bombardato la zona di Ras Kamboni, nel sud della
Somalia, dove secondo i servizi statunitensi si
trovavano miliziani delle Corti e sospetti membri di alQaeda.
Secondo il Comando, la missione nell'area supporta
l'operazione Enduring freedom e unisce attività civili
di supporto alla popolazione (operate da soldati armati
e in divisa) a operazioni di addestramento militare a
eserciti di paesi amici, oltre a vere e proprie operazioni
antiterrorismo. Il tutto, dice l'ufficio stampa del Cjft,
«ha il fine di garantire alle Nazioni ospitanti un
ambiente stabile e sicuro, dove la gente abbia la libertà
di scegliere. Dove l'educazione e la prosperità siano
alla portata di ognuno e dove i terroristi, che con le
loro idee estremiste cercano di ridurre in schiavitù le
Nazioni, non possano calpestare il diritto di
autodeterminazione».
E l'Etiopia? Le attività militari Usa in Etiopia negli
ultimi 4 anni sono andate aumentando. Fuori Dire
Dawa, dagli inizi del 2004, unità americane hanno
iniziato a cooperare e ad addestrare unità speciali etiopi
in una piccola base militare chiamata «Camp United».
Ma da lì partono anche azioni legate alla «guerra al
terrorismo globale», coordinate dalla base di Gibuti. Lo
stesso succedeva mesi fa a Gode, nella regione somala
d'Etiopia, non lontano dal confine con la Somalia. Poi
Addis Abeba ha iniziato i preparativi per l'intervento in
Somalia, e la base Usa è sparita. Dove sia finita, non si
sa. Di certo, le operazioni
antiterrorismo americane che partono dall'Etiopia
continuano. E la gente, che già non capisce il senso
dell'intervento militare in Somalia, è perplessa. Nel
centro di Dire Dawa, nel quartiere di Kezira, ancora
soldati in divisa e armi in vista. «Non capiamo cosa
stia succedendo», spiega Blein seduta ai tavoli del
Mitto cafè, attorniata da una decina di soldati Us che
bevono qualcosa. «L'unica cosa che sappiamo, è che
non bisogna fare domande».
Guerre & Pace
47
L’OMBRA DELLE BASI
LE BASI MILITARI STRANIERE IN ITALIA
“Nessuno ci ha mai chiesto basi militari
e d’altra parte non è nello spirito del patto
di mutua assistenza tra stati liberi e
sovrani, come il Patto atlantico, di
chiederne o concederne”.
Alcide De Gasperi, Presidente del Consiglio,
Discorso alla Camera del 18/03/49
Con la fine della seconda guerra mondiale e,
successivamente, con lo scoppio della guerra fredda
vengono costituite in Italia le prime basi militari
straniere, il cui numero aumenta con il passare degli
anni. La funzione “dichiarata” di queste basi è di
fronteggiare la minaccia sovietica.
Oggi, a 62 anni dalla fine della seconda guerra
mondiale e a 18 anni dalla fine della guerra fredda, non
sono però, curiosamente, scomparse le basi. Anzi. Con
i mutamenti subentrati nelle dottrine operative USA e
NATO - riassumibili in una presenza militare globale
per la “difesa” dei propri interessi economici - le basi
in Italia entrano, già dalla prima guerra contro l’Iraq
del 1991, in una nuova fase di attività e fermento che,
non ancora conclusa, vede oggi il passaggio decisivo,
trasformandole decisamente in strumenti per
supportare gli interventi militari all’estero e comunque
di sostegno alle politiche aggressive statunitensi e della
NATO
Secondo una chiave di lettura, la concessione di basi
militari alle forze USA e, secondariamente, NATO è
stata la carta con cui l’Italia ha dato il proprio
contributo allo schieramento occidentale durante la
guerra fredda, sfruttando la posizione geopolitica di
paese di confine tra i due blocchi.
Certo è che oggi, quando nessuna minaccia militare
incombe sull’Europa, le basi si sono trasformate in
un’ingombrante eredità che finirà col far sentire
direttamente il proprio peso sulla politica nazionale ed
Europea (estera, di difesa ma anche economica)
quando mai in futuro delle forze di governo
decidessero di intraprendere strade diverse e non
gradite all’alleato.
Come d’altronde – è bene ricordarlo – è già successo in
passato, nel caso di Camp Derby della quale, grazie
alle successive inchieste dei giudici Casson e
Mastelloni, è emerso che è stata la principale base della
rete golpista costituita dalla CIA e dal SIFAR nel
quadro dei piani segreti “Stay Behind” e “Gladio”; qui
venivano addestrati i neofascisti pronti a entrare in
azione e conservate le armi per l’eventuale colpo di
stato47 qualora si fosse rivelato necessario per fermare
l’avvicinarsi delle forze progressiste al governo.
Ma in alcuni casi il costo delle basi è una cambiale che
si paga subito. I casi di tumore nei poligoni in
Sardegna, l’inquinamento radioattivo delle coste
47
pugliesi, i casi di tumore infantile accertati in presenza
dei radar NATO vicino a Ferrara, il mercato nero e il
prosperare della mafia all’ombra delle basi in Sicilia,
sono il prezzo che le p
opolazioni devono pagare subito e sulla propria pelle.
Per attenerci solo al costo economico delle basi
straniere occorre ricordare che secondo gli ultimi dati
disponibili del Dipartimento della Difesa USA il
contributo - diretto e indiretto – dell’Italia per le sole
basi straniere che è stato di circa 366 milioni di dollari
all’anno per i primi anni del 2000, mentre negli anni
precedenti è arrivato fino a 1 miliardo di dollari (anni
1998 e 1997)
Nell’agosto del 2004 il presidente Bush ha presentato
un progetto di ristrutturazione delle basi militari
all’estero. La sostanza è semplice: chiudere qualche
base militare eredità della guerra fredda riportando a
casa le truppe con i famigliari al seguito, per poi
ridispiegarle in altre installazioni militari più vicine
alle zone di crisi.
Questa riduzione riguarda principalmente l’Europa, ed
in particolare la Germania, con una riduzione da 236 a
88 delle installazioni militari Usa presenti.
Per l’Italia non sono previste riduzioni, anzi assistiamo
– caso unico in Europa – ad un ulteriore ampliamento
della rete di infrastrutture e basi straniere destinate a
servire soprattutto le politiche militari statunitensi.
Negli anni ’90 gli interventi della Nato nei Balcani, e
in particolare la guerra alla Jugoslavia nel 1999 per la
questione del Kosovo hanno visto un impegno diretto
delle basi in Italia.
“Senza l’accesso alle basi e ai porti italiani
semplicemente la NATO non avrebbe potuto effettuare
questa importante operazione” ha dichiarato in
Conferenza stampa nell’aprile del 1999 l’allora
segretario alla difesa degli USA William S. Cohen in
conferenza stampa con il ministro della difesa italiano
C. Scognamiglio.
Oggi la funzione delle basi statunitensi in Italia è
rimasta sostanzialmente immutata, con funzioni di
prima linea in caso del precipitare della situazione in
Kosovo (e a catena, nei Balcani), con funzione di
retrovia logistica e trampolino di lancio per rendere
possibile il rapido dispiegamento delle armate
statunitensi laddove gli interessi Usa lo richiedono.
M.Dinucci, il manifesto, 26/02/04
48
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
LO STATUS DELLE BASI E GLI ACCORDI
INTERNAZIONALI
Dopo la seconda guerra mondiale nel campo
occidentale i rapporti di alleanza si sviluppano su due
piani differenti anche se strettamente connessi; quello
comune tra i paesi della NATO e quello bilaterale con
gli USA. Da qui l’esistenza di basi italiane concesse
alla NATO e di basi concesse agli USA.
Nel quadro della NATO, le strutture militari
dell’organizzazione coesistono
accanto a quelle
derivanti da accordi bilaterali stipulati dagli Stati Uniti.
Talvolta è difficile distinguere se si tratti di una base
NATO, poiché può darsi che nella base NATO esistano
aree riservati agli USA
Vedi ad esempio la base per sommergibili di La
Maddalena
(oggi,
forse,
in
via
di
chiusura/trasferimento): qui l’area demaniale a levante
di S.Stefano è una base logistica della marina militare
italiana, con un immenso deposito di munizioni
incavernato, costruito con i soldi della NATO, per cui
si chiama comunemente base NATO. In una banchina
di servizio del deposito ha avuto concessione di
approdo la nave appoggio statunitense che dal 1972
assiste i sommergibili a propulsione ed armamento
nucleare statunitensi48.
Occorre inoltre tenere presenti le basi che sono
interamente italiane, ma che possono essere messe a
disposizione dell’Alleanza (come Taranto, base italiana
a cui le Navi dell’alleanza possono rifornirsi e
appoggiarsi); oppure come Ghedi, base italiana ma da
cui operano strutture e reparti statunitensi (qui in
particolare per gestione degli armamenti nucleari che
vi sono immagazzinati). Per non dimenticare i depositi
di combustibili e munizionamento a disposizione dei
membri dell’Alleanza.
La differenza non è solo formale, in quanto «esiste una
profonda diversità tra le “infrastrutture comuni”
NATO, che sono installazioni collettive, utilizzabili
solo per fini connessi all’Alleanza Atlantica, e le basi
militari concesse in uso ad un solo Stato membro, che
possono essere invece utilizzate per i fini specifici
determinati dagli accordi bilaterali ad esse
applicabili»49; anche se nell’accordo del 1954 l’art.2
obbliga gli USA ad “avvalersi (delle basi) nello spirito
e nel quadro della collaborazione atlantica, di
utilizzarle per assolvere gli impegni NATO e in ogni
caso a non servirsi delle dette basi a scopi bellici se
non a seguito di disposizioni NATO o accordi con il
governo italiano”50
48
Intervista a Salvatore Sanna, presidente fino al 2001 del
comitato paritetico sulle servitù militare della Sardegna,
riportata su www.censurati.it il 12/12/03
49
Sergio Marchisio, ordinario di diritto Università di Perugia,
in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi
Senato della Repubblica, 2003, pag. 151
50
A. Desiderio su Limes, 4/99
Questa confusione è dovuta sia all’intrecciarsi delle
funzioni delle singole strutture che a volte ospitano o
servono contemporaneamente sia la NATO che le forze
armate statunitensi, sia in base all’intrecciarsi degli
accordi NATO con quelli bilaterali con gli USA; infatti
«molte basi o facilitazioni sono “nominalmente”
istituite nell’ambito della NATO, per essere in realtà
utilizzate, spesso in regime di uso esclusivo e non
collettivo, secondo accordi bilaterali, dalle sole forze
armate degli Stati Uniti d’America»51
Il regime di segretezza che copre i trattati NATO e
quelli bilaterali con gli USA non aiuta certo a fare
chiarezza. Segretezza mai messa in discussione da
nessun Governo e che continua a permanere ancora
oggi. Una voce differente si è sentita quando nel 1993
il costituzionalista Giovanni Motzo, Ministro per le
Riforme istituzionali, sostenne l’incostituzionalità dei
trattati segreti tra Italia e USA52, arrivando nel 1995, in
un’intervista ad Avvenire, a criticare apertamente la
segretezza posta sugli accordi “tecnici” che
disciplinano la problematica relative alle basi militari
straniere (che in quanto “tecnici” non passano dal
Parlamento e vengono firmati solo dal Governo)
arrivando a parlare di sovranità limitata per ciò che
questo comporta53.
A riguardo è bene ricordare che nell’ordinamento
italiano esistono due procedure per la stipulazione
degli accordi internazionali. Una procedura solenne ed
una procedura semplificata. La prima comporta che
l’accordo venga sottoposto al Parlamento (art. 80 della
Costituzione), al quale spetta autorizzare il presidente
della Repubblica alla ratifica (art. 87 8° comma)
mediante una legge ad hoc.
La procedura semplificata, che non è disciplinata
esplicitamente dalla Costituzione ma che è invalsa
nella prassi, comporta invece che l’accordo entri
immediatamente in vigore non appena sottoscritto dai
rappresentanti dell’esecutivo54.
Le categorie di accordi che debbono essere sottoposti
al Parlamento per l’autorizzazione alla ratifica sono
indicati dall’art. 80 della Costituzione e hanno in
genere contenuti di rilievo politico. Gli accordi in
forma semplificata, invece, dovrebbero avere un
contenuto eminentemente tecnico55.
51
Sergio Marchisio, ordinario di diritto Università di Perugia,
in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi
Senato della Repubblica, 2003, pag. 160 (e 161)
52
Nota 15, pag 30, Limes, 4/99
53
Avvenire, 03/08/95, ripreso in “Gli accordi segreti?
Illegittimi…” di Maria Lina Veca su www.tibereide.it il
20/10/01
54
Le basi americane in Italia-problemi aperti, dossier n. 70
Giugno 2007, servizio studi – servizio affari internazionali,
Senato della Repubblica, XV legislatura
55
Le basi americane in Italia-problemi aperti, dossier
Guerre & Pace
49
L’OMBRA DELLE BASI
Comunque la legge n. 839 del 11/12/1984 prescrive la
pubblicazione di tutti gli accordi internazionali, inclusi
quelli in forma semplificata56.
Longare, Maniaco, Catania, Pisa, Pordenone, Rovereto,
Trinita e Vigonovo; vengono poi indicati altri 40 siti
minori che non vengo però elencati.
In realtà sembra proprio che la gran parte degli accordi
sulle strutture militari NATO e USA sia definito da
note, protocolli e simili, firmati solo dal Governo e non
sottoposti al vaglio del Parlamento; attuati quindi come
semplici atti di natura amministrativa, minimizzandone
la valenza politica. 57
Ciò non sembra essere casuale, ma ha rappresentato
negli anni la strada con cui i governi che si sono
succeduti hanno esercitato un indebito ruolo
direzionale ed esclusivo sugli accordi e i trattati
internazionali, esautorando di fatto il Parlamento e il
Capo dello Stato58.
E’ da ricordare inoltre che già dagli anni ’80 trattati e
accordi bilaterali tra USA e paesi appartenenti alla
NATO, certo non meno “atlantici” dell’Italia, quali
Spagna, Grecia e Turchia, «vengono sostituiti con
accordi soggetti a regimi di pubblicità nei quali sono
esattamente precisate natura ed estensione delle attività
consentite alle forze armate straniere»59 senza che
questo abbia comportato drammatiche evoluzioni
nell’ambito di queste alleanze.
Resta il dubbio, e la preoccupazione, su quali “sacri
misteri” contengano mai gli accordi firmati dai governi
italiani negli anni.
Secondo il meritevole lavoro di ricerca effettuato da
Carta nel 2003 (pur con qualche imprecisione tra
strutture nazionali e statunitensi) che elenca anche
antenne, centri di comunicazione e depositi, i siti
militari statunitensi presenti in Italia sarebbero un
centinaio circa.
LE PRINCIPALI BASI
Le principali basi statunitensi oggi presenti in Italia
sono: Aviano, Camp Ederle (Vicenza), Camp Darby
(Livorno), Napoli, Gaeta e Sigonella.
Sono presenti strutture e soldati USA anche a Ghedi,
base dell’Aeronautica Italiana.
Altra importante base è Santo Stefano (La Maddalena),
la cui chiusura è prevista per il 29 febbraio 2008;
mentre San Vito dei Normanni risulta essere una base
in dismissione.
Queste basi principali comprendono inoltre altre
strutture, come depositi munizioni, poligonio, villaggi
per le famiglie dei militari, stazioni radar, situate nelle
vicinanze.
Nell’ultimo rapporto del Dipartimento della Difesa
USA sulle installazioni militari60 risultano presenti
inoltre strutture nell’aeroporto di Capodichino, nel
porto di Agusta, a Belpasso, Coltano, Fontanafredda,
56
Le basi americane in Italia-problemi aperti, dossier
Giovanni Motzo,Ordinario di diritto costituzionale
comparato, Università di Roma “La Sapienza”, in
“Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi
Senato della Repubblica, 2003, pag. 193
58
Giovanni Motzo,Ordinario di diritto costituzionale
comparato, Università di Roma “La Sapienza”, in
“Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi
Senato della Repubblica, 2003, pag. 195
59
Sergio Marchisio, ordinario di diritto Università di Perugia,
in “Installazioni militari straniere in Italia”, Servizio studi
Senato della Repubblica, 2003, pag. 176
60
Base structure report, Fiscal year 2007, DoD
57
50
Si tratta di una imponente serie di basi, porti, caserme,
aeroporti, poligoni, depositi, comandi, centri radar e
per le telecomunicazioni che formano una rete
complessa e imponente di cui è difficile, e forse inutile,
cercare di individuare quale ne sia l’elemento più
pericoloso (se il depositi di armi nucleari, per
l’olocausto che possono rappresentare, se i poligoni per
i danni concreti e immediati alle popolazioni locali, se i
reparti operativi che poi sono quelli che “fanno
concretamente” la guerra, o i centri di comando che la
gestiscono… oppure ancora le strutture di
comunicazione e controllo che permettono alle altre
componenti di comunicare e coordinarsi tra loro per
“fare la guerra”); si tratta infatti di una rete unitaria.
A questa presenza si affiancano poi, è bene ricordarlo,
le strutture della NATO (come ad esempio l’aeroporto
di Decimomannu, il porto di Taranto o il comando di
reazione rapida di Solbiate Olona) a cui gli USA hanno
libero accesso e le basi dell’aeronautica, della marina e
dell’esercito italiano, anch’esse integrate in questa rete
e che spesso hanno direttamente un ruolo anche nella
struttura NATO. Si tratta di caserme, poligoni, depositi
e altre strutture di servizio, la cui presenza e impatto
spesso non ha nulla da invidiare alle basi straniere.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
LE BASI DELLA GUERRA GLOBALE PERMANENTE
Intervento al convegno di Pordenone sulle basi militari
Piero Maestri, Guerre & Pace - 18 settembre 2004
All’interno di questo convegno – che ha come
obiettivo quello di porre la questione della possibile e
necessaria riconversione della base militare Usa di
Aviano ad usi civili, restituendola in questo modo
alle/ai cittadine/i del territorio – è importante
comunque provare a tracciare un quadro complessivo
del sistema globale delle basi militari e quindi definire
come il movimento contro la guerra debba affrontare
questa militarizzazione del territorio, necessaria a
quella che abbiamo definito “guerra globale
permanente”.
1 – Alla fine degli anni ’80 abbiamo dovuto assistere
alla propaganda sui cosiddetti “dividendi della pace”,
secondo la quale con la fine della guerra fredda e la
caduta del muro di Berlino, finalmente saremmo entrati
in un epoca di pace e di conseguente riduzione delle
spese e della presenza di infrastrutture militari: meno
addetti nelle industrie della difesa, minori spese
militari, meno soldati e basi militari in Europa.
La realtà ci ha mostrato una faccia diversa:
• se per alcuni anni effettivamente le spese militari
mondiali sono diminuite – soprattutto per la pesante
riduzione dei bilanci militari dei paesi dell’ex
Unione sovietica, ma anche in occidente – questa
tendenza durerà per poco e già nel 1995/96 le spese
militari mondiali ricominceranno a crescere, per
raggiungere nel 2003/2004 livelli paragonabili alla
metà degli ani ’80, quando la guerra fredda era
all’apice;
• si sono ridotti i contingenti militari dei vari paesi, in
particolare dei paesi europei della Nato, soprattutto
per effetto di una loro ridefinizione e
ristrutturazione in senso professionale e volontario;
• la riduzione del numero di basi militari in Europa e
nel resto del pianeta è stata poco significativa,
mentre si è consolidata la loro rete, che è andata
sempre più formando un sistema della basi a livello
planetario – diretto dagli Usa – con un ruolo ancor
più definito e ancora più importante.
Non siamo quindi di fronte ad una fase nella quale
potremo aspettarci una progressiva “estinzione” della
basi militari – nemmeno di quelle “straniere” – dal
nostro territorio, mentre avanza a livello globale una
maggiore presenza di basi e infrastrutture militari,
degli Usa e dei loro alleati.
2 – Fin dai documenti governativi statunitensi dei
primi anni ’90 (dalla “Defense Planning Guidance” del
1992, fino alla “Quadriennial Defense Review” del
2000 e alla “National Security Strategy” del 2001)
risulta chiaro che uno degli obiettivi principali di
quella che abbiamo chiamato “strategia dell’impero”
era quello di assicurarsi una presenza militare diretta e
indiretta nelle varie aree strategiche in tutto il pianeta.
Naturalmente le zone geografiche dove avrebbero
dovuto essere posizionate le nuove o rinnovate
infrastrutture della guerra riguardavano in primo luogo
il medioriente, il Golfo Persico e l’Asia Centrale
(quell’area che oggi chiamano “Grande Medioriente”);
ma non era esclusa l’Europa in questo quadro
strategico.
Una strategia di controllo planetario che rende sempre
più vero il detto per cui “il sole non tramonta mai sulle
basi” – e che ha fatto giustamente affermare che le
nuove basi militari non sono un effetto secondari delle
guerre che gli Usa hanno portato avanti dal 1991 ad
oggi: è stato così con l’intervento contr o l’Iraq del
1991, che ha consolidato la presenza in Arabia Saudita
e nei paesi del Golfo; con la guerra jugoslava, al
“termine” della quale Stati uniti e Nato hanno a
disposizione nuove basi in ognuno degli stati createsi
con la dissoluzione della Jugoslavia – di cui Camp
Bondsteel in Kosovo rappresenta la principale e
piùgrande; con l’intervento in Afghanistan gli Usa si
sono assicurati una presenza rinnovata in Pakistan,
Uzbekistan, Kyrgizistan, Tajikistan e, ovviamente, in
Afghanistan; e oggi ancora in Iraq, dove è
programmata e in fase di realizzazione la costruzione
di una quindicina di basi che renderanno permanente
l’occupazione dell’Iraq stesso.
Questo sistema di basi in tutto il pianeta è reso
necessario dalle strategie di intervento rapido e
dall’idea di flessibilità che la dottrina militare ha
cercato di affermare in questi ultimi 15 anni, e rende
complementari e totalmente intrecciati i sistemi di Usa,
Nato e Unione Europea – e per questo risulta difficile
tracciare una netta linea di demarcazione tra le basi
Usa, Nato o italiane sul nostro territorio, perché tutte
partecipano a quel sistema di guerra globale.
3 – Le basi in Italia sono obsolete, allora? Sono
solamente un retaggio della guerra fredda e andranno
poco a poco ad essere abbandonate? Purtroppo non è
così, e se qualche base o infrastrutture sarà
abbandonata, nel loro insieme assumono invece un
rinnovato ruolo dentro il quadro che abbiamo provato a
descrivere sommariamente.
Così assistiamo a progetti di riqualificazione e
potenziamento delle strutture militari in Italia:
-
-
-
ad Aviano, come sanno bene gli organizzatori di
questo convegno, che continua a essere deposito di
armi nucleari e oggetto di progetti di allargamento;
a Solbiate Olona, vicino a Varese e all’aeroporto
milanese della Malpensa, che dal 2002 ospita un
Comando della Forza di Rapido Intervento della
Nato, frutto delle nuove strategie di questa
organizzazione,
anch’essa
purtroppo
non
considerata obsoleta;
a Camp Darby, principale base logistica Usa del
Mediterraneo, situata tra Pisa e Livorno, dove ci
Guerre & Pace
51
L’OMBRA DELLE BASI
-
-
-
sono progetti per l’ampliamento del Canale dei
Navicelli e per avere in esclusiva una banchina per
l’approdo del materiale bellico;
a Taranto, dove è stata inaugurata la seconda base
navale e rischia di essere sede di una terza – e che
rappresenta uno dei principali “trampolini di
lancio” della proiezione di potenza Usa e Nato,
strettamente legato alla riqualificazione di
Sigonella e alla nuova funzione di Napoli, dove
sarà trasferito il Comando generale delle Forze
navali Usa in Europa, così che il Pentagono possa
avere “la massima flessibilità nel proiettare forze
in Medio Oriente, Asia Centrale e altri potenziali
teatri bellici”, come ha comunicato il Pentagono
stesso;
e ancora La Maddalena, per la cui base è già
previsto l’ampliamento, malgrado le lotte dei
cittadini sardi di questi anni.
e via così… (evidentemente Vicenza, progetto nel
2004 non ancora conosciuto, n.d.r.)
5 – Per poter sviluppare una campagna contro le basi
militari in Italia, dobbiamo cominciare a conoscere e
mettere in relazione le esperienze di lotte e iniziative
contro la presenza militare in molte località, che
partono da differenti ma spesso convergenti motivi
specifici:
-
-
-
4 – Questo ruolo rinnovato delle basi militari in Italia
dentro il sistema della guerra globale permanente è e
deve essere il principale motivo dell’opposizione che i
movimenti pacifisti devono sviluppare contro la
presenza militare e la militarizzazione del territorio. E’
questo ruolo che fa sì che dal nostro territorio partano
aerei e navi che provocano i morti nei paesi vittime
degli interventi militari – e questo è per noi sufficiente
per chiedere la chiusura di queste infrastrutture.
Ma dobbiamo sottolineare anche che questa stessa
presenza ha un impatto continuo sulla vita delle
popolazioni che si trovano a subirne la localizzazione:
-
-
52
un impatto economico. E’ idea comune che la
presenza di basi militari sia un’occasione di
“sviluppo” per i territori interessati. In realtà non
c’è alcun sviluppo, ma solamente la crescita di un
economia dipendente da tali basi e spesso negativa
per il territorio stesso: se da una parte possono
favorire la rendita per gli edifici affittati dai
militari, dall’altra si stanno sempre più affermando
le tendenze all’approvvigionamento diretto verso
multinazionali Usa, mentre all’interno delle basi
vengono negati i diritti dei lavoratori civili; e
all’esterno ci sono conseguenze negative sulle
produzioni agricole, mentre risulta bloccata
qualsiasi possibilità di un diverso uso del
territorio, completamente sottratto ad ogni
programmazione delle comunità e degli enti locali;
un pesantissimo impatto ambientale e sulla salute
delle popolazioni, come è stato già ampiamente
sottolineato da altri interventi in questo convegno
e come mostra soprattutto il caso sardo, dal
possibile inquinamento radioattivo dei fondali de
la Maddalena, allo sviluppo di malattie tumorali
nei paesi dove è localizzato il poligono militare di
Salto di Quirra. E questi rischi sono generalmente
nascosti alle stesse autorità locali, che avrebbero
invece il dovere di garantire la tutela della salute
per i propri cittadini.
-
le lotte contro i rischi per la salute, come in
Sardegna, che sono spesso lotte per garantirsi un
futuro economico che la presenza militare nega –
come nel caso dei pescatori di Capo Teulada;
l’iniziativa contro il nuovo porto militare di
Taranto, sia per i suoi rischi nucleari che per le
dimensioni che sta assumendo lo stesso porto al
centro del sistema di guerra del mediterraneo;
la lotta a Sigonella perché finalmente quel territorio
abbia nuove prospettive economiche e di sviluppo,
negate da un base “in odore di mafia” e nella quale
le poche occasioni di lavoro sono sottoposte a dure
condizioni e alla negazione dei diritti sindacali;
le iniziative in Toscana per restituire l’area di Camp
Darby a nuove funzioni civili e ambientali;,
la nascita di nuovi comitati e gruppi locali, come in
Romagna, o le iniziative che da tempo ci sono in
altre
zone,
come
a
Brescia/Ghedi
o
Aviano/Pordenone.
Dobbiamo però sapere e riconoscere che queste
iniziative non hanno una forza di attrazione e di
mobilitazione per la gran parte delle popolazioni,
nemmeno nelle aree dove si trovano le basi – se si
esclude, in parte, il caso sardo (e oggi quello di
Vicenza… n.d.r.).
Perché questo “minoritarismo” delle lotte contro le
basi? Le autorità militari e politiche hanno saputo
creare volta per volta consenso e/o indifferenza verso
questa localizzazione, tanto che anche il movimento
contro la guerra che ha saputo mobilitare milioni di
donne e uomini contro l’intervento in Iraq, non ha
realmente saputo collegare questo intervento alla
funzione militare del territorio italiano – se non con la
sporadica intuizione del “Train Stopping”, che ha
avuto una discreta simpatia ma non una partecipazione
di massa e si è comunque fermata “ai cancelli della
basi”.
Come possiamo scalfire questo consenso – nelle zone
dove la presenza di infrastrutture militari è considerata
occasione di sviluppo locale – o l’indifferenza e
incomprensione del coinvolgimento globale dell’Italia
nel sistema della guerra?
Serve mettere insieme e sviluppare tutte le nostre
intelligenze e competenze, per immaginare e
comunicare proposte alternative all’uso militare del
territorio; serve coinvolgere enti locali e comunità in
una politica partecipata che mostri le prospettive
positive della rinuncia alle basi militari; serve una forte
e coordinata iniziativa che renda evidente e quindi
insopportabile la complicità italiana alla guerra
globale; serve una rete del movimento contro la guerra.
6 – Anche attraverso questi appuntamenti dobbiamo
tutte/i impegnarci a tessere questa rete, che sia
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
organizzazione
di
un
movimento
per
la
smilitarizzazione del territorio e contro le basi militari.
Una rete che in Italia ha provato a fare i suoi passi
varie volte – l’ultima nel 1998 con la proposta di
“Gettiamo le basi”, nata qui a Pordenone e motore di
una giornata nazionale il 28 giugno 1998, purtroppo
senza seguito.
Questa rete deve saper agire a differenti livelli, per
poter coinvolgere differenti soggetti sociali e una
maggiore partecipazione politica di donne e uomini:
- prima di tutto a livello politico, contestando e
opponendosi al sistema delle basi e al suo ruolo
strategico nelle politiche di ricolonizzazione e
intervento militare occidentale;
- a livello economico e di una diversa idea dello
-
-
sviluppo territoriale, coinvolgendo sempre più
donne e uomini in progetti di riconversione
possibile e di riappropriazione di territori
militarizzati e quindi sottratti ad un uso sociale;
per la tutela della salute e contro i rischi della
presenza delle basi.
Questa rete deve essere un impegno forte per tutto il
movimento, e deve vedere soprattutto la presenza dei
comitati e dei soggetti locali, che hanno la capacità e
l’opportunità di mettere a disposizione di tutto il
movimento esperienze e competenze.
Mi auguro che anche questo convegno possa
rappresentare una spinta in questa direzione.
GLI APPALTI “ROSSI” DA VICENZA A SIGONELLA
Gli affari con il Pentagono delle coop legate alla sinistra. Tra i pretendenti ai lavori della nuova
base vicentina la Cmc di Ravenna e la Cmr di Ferrara. Spuntano anche Pizzarotti e la Ccc del Mose.
Angelo Mastrandrea, Il Manifesto, 27 gennaio 2007
Nell'ex aeroporto vicentino Dal Molin per il momento
tutto ancora tace, di ruspe non c'è ancora ombra anche
se ieri l'ex generale Luigi Ramponi ha annunciato che
«i lavori cominceranno entro il 2007». E'
probabilmente informato, il deputato di An ieri in visita
a Vicenza con la commissione Difesa del senato, visto
che il presidente del suo partito Gianfranco Fini è
reduce da un incontro con la segretario di Stato Usa
Condoleezza Rice, con la quale ha parlato anche della
base vicentina. E per questo afferma che «appena il
governo avrà detto di sì partiranno gli appalti, anche
perché ci sono tempi stretti per il finanziamento
statunitense». Per ora l'unico elemento tangibile che
mostra l'avvio del progetto per la costruzione della
nuova base è la lista delle imprese che continuano a
iscriversi alla gara d'appalto per la prima tranche dei
lavori. La torta è infatti di quelle appetitose: 680
milioni (230 nella prima fase, il rimanente in una
seconda) di investimenti previsti dal Pentagono per
costruire i 700 mila metri cubi di caserme, impianti
militari e logistici; 40 milioni per la costruzione di 61
villette a schiera, di un albergo (10 milioni) e un campo
da bowling; 52 milioni per tirar su un ospedale che sarà
collegato con quello vicentino. Il progetto prevede
infatti la nascita di una vera e propria cittadella
autosufficiente, con centri commerciali e palestre, case
e una grande mensa per 1.300 persone e 454 posti a
sedere. A spulciare tra le 73 imprese (23 delle quali
venete) che finora hanno risposto alla «presolicitation
notice», una specie di invito a partecipare alla gara
d'appalto lanciato dagli Stati uniti il cui bando si
chiuderà il 6 marzo, troviamo infatti «coop rosse»
come la Cmc (Cooperativa muratori cementisti) di
Ravenna e
la Cmr (Cooperativa muratori riuniti) di Ferrara, ma
anche la contestata Pizzarotti di Parma, la stessa che
nell'83 aveva vinto la gara per l'installazione dei missili
Cruise a Comiso e che da 25 anni costruisce anche a
Sigonella. O ancora la Ccc Spa(Cantieri costruzioni
cemento), che tra i suoi fiori all'occhiello vanta la
partecipazione al Consorzio Venezia Nuova che sta
realizzando il Mose nella città lagunare. Non che sia
una novità assoluta, la partecipazione di cooperative
rosse a lavori per gli americani. Se è vero che nelle
basi Usa in Italia resiste ancora una «pregiudiziale
anticomunista» che impedisce ai lavoratori civili del
nostro paese di iscriversi ad esempio alla Cgil (come
l'altro ieri ha denunciato lo stesso sindacato di Corso
d'Italia), è altrettanto vero che questa appare caduta
ormai da tempo per quel che riguarda il fronte degli
appalti, così come, viceversa, sull'altro versante di
fronte ai dollari non c'è antiamericanismo che tenga. La
Cmr lavora infatti da anni e con successo nelle basi
Usa di Aviano, Camp Darby e nella stessa Vicenza.
Mentre la Cmc, la prima cooperativa di costruzioni, la
quarta impresa in Italia del settore, dopo alcuni appalti
in Cina, il ruolo da general contractor per
l'ammodernamento della Salerno-Reggio Calabria e
l'appalto per il tunnel di Venaus che un anno fa
provocò la rivolta della Val di Susa contro l'alta
velocità, da almeno un decennio partecipa agli appalti
legati alla base Usa di Sigonella, in Sicilia. In
particolare, ha preso parte al cosiddetto piano Mega II,
quello precedente all'attuale progetto che punta a
ridisegnare l'assetto urbanistico dell'insediamento
militare siciliano, che sarà trasformato «nella base più
moderna del teatro Mediterraneo»
Guerre & Pace
53
L’OMBRA DELLE BASI
ISOLE DI SEGRETEZZA
Strutture sorte senza l’autorizzazione del Parlamento
Falco Accame, da "Liberazione", 22 febbraio 1998
Le basi Usa e Nato in Italia sono state costituite sulla
premessa di un presunto "stato di necessità" per
fronteggiare la minaccia sovietica. Oggi che questa
minaccia è scomparsa non sono però scomparse le basi,
anzi, si nota addirittura un deciso incremento nella
loro consistenza in uomini e mezzi (per la base di
Aviano si parla addirittura di un raddoppio!). C'è da
chiedersi qual'è il retroterra giuridico che ha permesso
il sorgere di queste basi.
L'articolo 80 della
Costituzione stabilisce che le Camere autorizzino con
legge la ratifica dei trattati internazionali che sono di
natura politica e prevedono arbitrati o regolamenti
giudiziari o importano variazioni del territorio od
oneri alle finanze o modificazioni di legge, "ma molte
basi sono sorte al di fuori della conoscenza e
dell'autorizzazione del Parlamento".
In effetti, molti accordi internazionali rientranti nelle
categorie dell'articolo 80 non sono stati sottoposti alla
ratifica delle Camere ed alla
ratifica, (in base
all'articolo 87) del presidente della Repubblica. Sono
stati infatti sottoposti a verifica solo quelli per i quali
si prevedeva dovesse esservi uno scambio con un altro
paese contraente e quindi la ratifica da parte di
quest'altro paese. Alcuni trattati sono in realtà noti solo
a livello governativo o addirittura solo a livello dei
servizi segreti. Ed è comunque inconcepibile che né il
Parlamento, né il capo dello Stato siano stati messi a
conoscenza di taluni accordi.
Per trovare una soluzione al problema di escludere
determinate autorità dalla conoscenza, sono stati
concepiti alcuni inghippi. E' stato ad esempio
introdotto
il concetto di "accordi in forma
semplificata", la cui conclusione dovrebbe spettare al
governo per effetto di delega. Nella questione
interviene il problema del segreto: si afferma che tutto
ciò che riguarda le basi è coperto dal segreto e da una
(non meglio precisata) "riservatezza". Di fronte a
questo, anche le Camere devono inginocchiarsi. Ma si
dimentica che esiste l'articolo 64 della Costituzione
che recita: "Ciascuna delle due Camere e il Parlamento
a Camere riunite possono deliberare di adunarsi in
seduta segreta". Il punto è questo: possiamo fidarci del
Parlamento? Certo, pare che possiamo fidarci dei
servizi segreti! Per esempio, attraverso accordi segreti
tra i servizi Usa (la Cia) ed i servizi segreti italiani
(Sifar) è stata resa possibile la costituzione di "Basi
Nazionali Clandestine" (BNC, come quelle operanti
con la Gladio) e di depositi di armi nascosti (i
cosiddetti Nasco) ed anche la costruzione di gruppi di
operatori speciali dei servizi chiamati "Ossi", coperti
con documenti segretissimi, che la seconda Corte di
Assise di Roma con la sentenza del 21 dicembre '96 ha
considerato eversivi dell'ordine costituzionale. Tutto
questo ci rimanda ad uno dei primissimi accordi
segreti che risale al lontano 1952. I servizi americani
ed italiani si accordarono "segretissimamente" per la
costruzione della base di Capo Marargiu di Gladio in
Sardegna, base "ufficialmente" italiana, ma progettata
54
e pagata dagli Usa, che avrebbe ospitato, in caso di
colpo di Stato, i personaggi considerati politicamente
pericolosi (i cosiddetti enucleandi).
Nell'accordo
italo-Usa
del
cosiddetto
piano
Demagnetize (smagnetizzare i comunisti) si legge: "I
governi italiano e francese non devono essere a
conoscenza, essendo evidente che l'accordo può
interferire con la loro rispettiva sovranità nazionale".
In questo caso erano comunque esclusi dalla
conoscenza addirittura i governi italiano e francese,
mentre il tutto si svolgeva a livello dei Servizi.
Come si è detto, le basi sono nate all'insegna della
segretezza e in rapporto ad una esigenza di protezione
rispetto al blocco di Varsavia. Ma ora che la guerra
fredda è finita, c'è da chiedersi se tali esigenze di
sicurezza e segretezza siano ancora esistenti e se si
possa continuare a tenere il Parlamento all'oscuro di
tutto! Vi sono ad esempio dei "protocolli segreti
aggiuntivi della Nato" che a distanza di oltre mezzo
secolo ancora non conosciamo. Si tratta di una materia
che ci fa vedere chiaramente la condizione di
"sovranità limitata" in cui ci troviamo.
In alcune basi sono custodite armi nucleari e vettori
che possono portare distruzione ben oltre i confini
italiani, cioè ben al di là di quei i limiti che la
Costituzione considera come "riferimento" per il
concetto di difesa. Viene così violato l'articolo 11
(primo e secondo comma), l'articolo 78 e l'articolo 87
(nono comma), e ci troviamo di fronte ad una deroga al
principio del ripudio della guerra ed alle prerogative
del Parlamento ed alle procedure costituzionali
previste per lo stato di guerra.
Per venire ad un aspetto che riguarda i nostri giorni,
possiamo menzionare quello delle"mine antiuomo".
Tali armi sono state recentemente bandite nel nostro
paese e ne è stata stabilita la distruzione. Ma nelle basi
Usa continuano a rimanere conservati grandissimi
stock di queste armi che possono essere spedite in
tutto il mondo. E qui si evidenzia un altro aspetto
dell'incompatibilità delle basi con la legislazione
italiana. Nel nostro paese esiste tra l'altro una legge
che limita e condiziona la vendita delle armi, ma
ovviamente questa legge non vale per le basi straniere.
Che fare allora in questa situazione? L'opposizione alle
basi deve portare in tempi brevi ad una revisione
costituzionale. Tutti i trattati debbono essere messi a
conoscenza del Parlamento. Il permanere di eventuali
basi straniere deve però prevedere che esse passino
sotto il controllo delle autorità italiane. Ma come
possiamo far sentire la nostra voce? Come possiamo
manifestare un nostro "diritto di resistenza"? Forse
potremmo richiamarci ad un lontano decreto
luogotenenziale del 14 settembre '44, il n. 288. Allora
era in gioco la questione al diritto alla resistenza
contro l'occupazione tedesca. Oggi ci opponiamo ad
un altro tipo di occupazione, ma è in questione ancora
una volta la sovranità del nostro paese.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
IL COSTO - ECONOMICO - DELLE BASI
Molte agevolazioni fiscali e qualche contributo. Ecco quanto pesano le basi statunitensi sul bilancio italiano.
Altro che occasioni di sviluppo.
Una leggenda circola da anni negli ambienti
Nel 2003 - ultimo anno per il
Contributo
politici e economici: gli americani saranno
quale ci sono le cifre
in milioni di
Alleati NATO
anche ingombranti, però pagano l'affitto delle
ufficiali – l’Italia ha
dollari 2002
basi allo Stato italiano. Falso. Completamente.
contribuito
con
366,55
Belgio
17,78
La verità è contenuta nel "2004 Statistical
milioni di dollari che
Canada
0
Compendium on Allied Contributions to the
rappresentano il 41% del
Repubblica Ceca
0
Common Defense" ultimo rapporto ufficiale
costo totale di mantenimento
Danimarca
0,12
reso noto dal Dipartimento della Difesa degli
delle basi americane in
Francia
0
Stati Uniti. Alla pagina "B-10" c'è la scheda
Italia. Una percentuale che
Germania
1.563,92
che ci riguarda: vi si legge che il contributo
fa di noi i più generosi
Grecia
17,69
annuale alla "difesa comune" (anche se parlare
alleati degli americani in
di “difesa comune” può sembrare inopportuno
Ungheria
3,51
Europa, dopo la Spagna.
visto che le basi statunitensi in Italia non sono
Molto più generosi degli
Islanda
0,12
basi Nato e le missioni che partono da lì sono
inglesi, che sborsano solo il
Italia
366,55
decise a Washington) versato dall'Italia agli
27%
delle
spese
di
Lussemburgo
19,25
Usa per le "spese di stazionamento" delle forze
mantenimento delle basi. Più
Nuova Zelanda
0
armate americane è pari a 366 milioni di
generosi dei tedeschi, che si
Norvegia
10,32
dollari. Tre milioni, spiega il documento
limitano a pagare il 32%, la
Polonia
0
ufficiale, sono versati direttamente, mentre gli
stessa percentuale che paga
Portogallo
2,47
altri 363 milioni arrivano da una serie di
dalla Grecia. Il Belgio paga
Spagnia
127,27
facilitazioni che l'Italia concede all'alleato: si
ancora meno, il 24%, per
Turchia
116,86
tratta (pagina II-5) di «affitti gratuiti, riduzioni
non parlare del quasi
Regno Unito
238,46
fiscali varie e costi dei servizi ridotti». Ciò che
invisibile 3,6% dato dal
le imprese del Nord-Est e del Meridione
Portogallo.
domandano da anni a Roma senza ottenerlo, gli Usa lo
Vale la pena quindi ricordare che la media del contributo
incassano in silenzio già da molti anni. È come se il
degli alleati europei della Nato è del 28%; molto più basso
padrone di casa, oltre a dare alloggio all'inquilino, gli
quindi di quello italiano.
girasse anche dei soldi. Nel caso delle basi americane,il
Italia
41 per cento dei costi totali di stazionamento sono a
Contributo
a
Usa
per la difesa comune
carico del governo italiano: il dato è riportato alla
milioni di dollari a valuta corrente
pagina B-10. Alla tabella di pagina E-4 sono invece
1995
524,16
messi a confronto gli alleati: più dell'Italia pagano solo
1996
528,46
Giappone e Germania, mentre persino la fidata Gran
1997
1.092,79
Bretagna è dopo di noi, si è limitata - nel 2004 - a
contribuire
con
238
milioni
di
dollari.
1998
1.113,83
Una sorpresa la si ha mettendo a confronto i dati del
1999
532,64
1999 e del 2004: si scopre che il Governo Berlusconi
2000
364,20
ha incrementato i pagamenti agli Usa, passando dal 37
2001
324,03
per cento al 41 per cento dei costi totali sostenuti dalle
2002
366,55
forze armate ospiti. Ma non basta.
Ma cosa c´è dentro quel 41%? Molte cose: dalla
E SE CHIUDONO C'E’ ANCHE L’INDENNIZZO
concessione a titolo gratuito di terreni ed edifici, riduzione
delle spese telefoniche, esenzione dalla tassazione di beni e
In base agli accordi bilaterali firmati da Italia e Usa nel
servizi destinati ai militari Usa, manutenzione delle basi
1995, se una base americana chiude, il nostro governo
(che formalmente sono "italiane"). A tutto questo bisogna
deve indennizzare gli alleati per le «migliorie»
aggiungere molte facilitazioni concesse ai militari e alle
apportate al territorio. Gli Usa, per esempio, hanno
loro famiglie come l´acquisto della benzina in esenzione di
deciso di lasciare la base per sommergibili nucleari di
imposte e accise.
La Maddalena, in Sardegna: una commissione mista
dovrà stabilire quanto valgono le «migliorie» e Roma
Fonte:
provvederà a pagare. Con un ulteriore vincolo: se
Allied contribuitons to the common defence, DoD, vari anni
l'Italia intende usare in qualche modo il sito entro i
Marco Mostallino, il giornale di Sardegna, 10 ottobre 2005
primi tre anni dalla partenza degli americani,
Toni De Marchi, l’Unità 18 gennaio 2007
Washington riceverà un ulteriore rimborso.
Guerre & Pace
55
L’OMBRA DELLE BASI
BASI VISTE DA VICINO
PRINCIPALI BASI USA/NATO IN ITALIA
La cartina mostra il
collegamento funzionale
tra le basi.
Molte basi sono composte
da più infrastrutture nella
stessa zona
Principali basi Usa
Base italiana con presenza Usa
Comandi/infrastrutture Nato
Presenza di bombe nucleari
Mezzi a propulsione nucleare
Aeronautica Usa
Marina Usa
Esercito Usa
Tra le centinai di basi e stazioni USA e NATO presenti in Italia andiamo a vedere, base per base, ruoli, strutture e
compiti delle principali basi straniere. Per quanto riguarda e cosiddette basi statunitensi (si tratta comunque di
basi formalmente italiane, con comandante italiano, che ospitano truppe e strutture statunitensi) tra le principali
figura sicuramente la base USAF di Aviano, sede del 31° gruppo da caccia dell’aeronautica USA e fortemente
impegnata nelle guerre balcaniche. A Vicenza c’è la caserma Ederle, che ospita il comando della forza tattica
dell’esercito statunitense – SETAF (è una unità di intervento rapido), la 173^ brigata paracadutisti oggi impegnata
in Afghanista e il 22° gruppo di supporto d’area che gestisce le attività logistiche delle basi di Vicenza e Camp
Darby. Un piccolo ma importante distaccamento USA c’è anche a Ghedi. Importante è la base di Camp Darby, il
più grande arsenale dell’esercito USA all’estero, dove vi sono custodite 20.000 tonnellate di missili, razzi e bombe.
Gaeta è la sede della nave comando della VI Flotta, ma è certamente Sigonella la più grande base aeronavale
statunitense nel mediterraneo, con circa 5/6.000 persone e circa 40 comandi.
Per quando riguarda le basi NATO, la più importante è a Bagnoli, dove si trova il comando alleato per il Sud
Europa, poi c’è il recente comando di Solbiate Olona, sede del comando per le forze di reazione rapida, mentre a
Poggio Renatico c’è il Centro combinato per le operazioni aeree NATO.
56
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
AVIANO
L’aviazione statunitense nel sud Europa (…e per i Balcani)
Per anni la base di Aviano è stata la sede di reparti di
supporto, destinati a compiti di presidio e di appoggio
alle unità di volo di volta in volta qui schierate. Sul
finire degli anni ’70 e nel decennio successivo vengono
compiuti presso la base estesi lavori per la costruzione
di numerosi shelter e depositi corazzati per la
conservazione di armi nucleari.
Nei primi anni ’90 con il trasferimento dei reparti di
volo dell’USAF dalla Spagna (la base di Torrejon è
stata chiusa in seguito a continue proteste popolari) e in
seguito ai conflitti nella vicina area dei Balcani, la base
di Aviano vede crescere il proprio ruolo.
Oggi la base è anche uno dei due depositi “ufficiali”
(l’altro è la base di Ghedi) che ospitano armi nucleari
statunitensi; qui dovrebbero trovarsi cinquanta bombe
termonucleari.
finalizzato al compimento di funzioni di sorveglianza
aerea, controllo e comunicazioni. E’ inoltre presente
una unità medica e una compagnia del 502° Aviation
Regiment che con gli elicotteri Chinook svolge
funzioni di trasporto per la NATO in Sud Europa.
Anche se Aviano ha svolto una funzione importante
già ai tempi della guerra del golfo del 1991 è con le
guerre Jugoslave che la base entra in piena attività;
durante gli anni ’90 nella base sono stati schierati altri
reparti con velivoli di vario tipo (A10 da attacco al
suolo, F/A18D con la doppia capacità di caccia e
attacco al suolo, F15 da caccia, EA6B per l’attacco e la
guerra elettronica, nonché KC135 per il rifornimento in
volo; nei momenti di massimo impegno la base è
arrivata ad ospitare fino a 62 aerei pienamente
operativi)
Attualmente nella base opera il 31° Fighter Wing. Esso
è l’unico reparto da caccia dell’USAF schierato in
permanenza nell’area del Mediterraneo. Sotto il suo
comando si trovano altre unità dislocate in Italia (tra
cui alcune presso le basi di Ghedi, Pisa, Camp Darby,
Comiso), Grecia, Spagna e Turchia. Il suo compito è di
svolgere operazioni aeree nel Sud Europa, garantendo
il munizionamento necessario a svolgere qualsiasi tipo
di azione, su comando NATO e nazionale USA.
Questo reparto ha sotto il suo comando, oltre a due
squadroni da caccia, per un totale di 36 F16, altre unità
specializzate; esse sono il 31° Operation Support
Squadron e il 603° Air Control squadron, quest’ultimo
Secondo i dati USAF la base di Aviano occupa 4.700
acri, con una pista lunga più di 26 km. La base ospita
circa 4.000 militari (più i famigliari), 2000 dipendenti e
circa 6/700 dipendenti civili italiani. Il progetto di
ampliamento di fine anni ’90 ha comportato un
aumento delle truppe di 3/4000 unità.
La base di Aviano è suddivisa in nove aree separate e
collocate tra la città di Aviano e Pordenone.
Le principali sono (vedi fig.1)
1. Main support base, ospita le strutture di supporto
non militari della base (negozi e servizi)
2. Billeting services, servizi, alloggi e i pompieri.
Fig.1 ”l’impronta” della base di Aviano secondo l’ USAF
Guerre & Pace
57
L’OMBRA DELLE BASI
3.
4.
5.
6.
CE complex; contiene le attività non militari di
supporto tecnico
16TH AF, è il quartier generale della 16^ forza
aerea
Flightline, è l’aeroporto volo vero e proprio,
ospita il comando del 31 stormo da caccia, i due
gruppi di volo, la gestione del traffico aere, le
forze di sicurezza, il campo da golf e l’area
ricreativa. (vedi anche Fig.2)
Weapon storage, deposito armi
IL PROGETTO AVIANO 2000
Inoltre la presenza della base di Aviano è uno degli
elementi che hanno reso possibile il progetto di
unificazione della 173^ brigata d’assalto a Vicenza.
Le garanzie sul territorio qui certo non mancano: le
amministrazioni locali, coinvolte sempre più da abili
campagne di public relations, si prodigano nel
migliorare la qualità della vita delle truppe alleate (I 20
miliardi di finanziamento strappati al governo quale
indennizzo per il progetto Aviano 2000 verranno
interamente spesi per la viabilità che conduce alla
Base, della cui pericolosità si lamentava il gen. Leaf
nel documento citato); la qualità della vita delle
popolazioni locali viene un po’ dopo.
Ad aviano è avvenuto quello
che sta avvenendo a oggi a
Vicenza. Il progetto Aviano
2000, siglato nel 1992 e reso
pubblico nel 1995 è stato
reso operativo dal Governo
Prodi nel 1996.
Si è trattato in sostanza di un
ampliamento
per
implementare la funzionalità
della base (sia dal punto di
vista strettamente operativo
che da quello della qualità
della vita dei militari e delle
loro famiglie).
Il progetto ha usufruito di un
finanziamento
di
530
milioni di dollari, di cui 352
fondi NATO e 178 USA. La
parte più rilevante del
progetto è stata realizzata
sull’area dell’ ex Caserma
Zappalà, a cavallo fra i
comuni
di
Aviano
e
Fig.3 Area 1 e 2, attualmente divise dalla strada di Pedemonte
Roveredo concessa agli
americani
con
accordo
tecnico che risale al 1994.
E del tutto evidente che un
E sintomatica, su questo punto, la vicenda della strada
simile investimento, secondo un piano decennale
di Pedemonte. Le aree 1 e 2 della base di Aviano (vedi
conclusosi negli scorsi anni, implica il permanere
Fig.3) sono divise dalla vecchia strada di Pedemonte,
indefinito di questa installazione.
che collega la frazione con il centro di Aviano e poi
In più occasioni preoccupate cronache locali hanno
fatto balenare l’ipotesi di un trasferimento verso
l’Europa Orientale; ma questo sembra difficile in
quanto nelle basi in Romania e Bulgaria sono previste
truppe a rotazione rapida, inoltre ci vorranno anni per
realizzare strutture simili a quelle italiane o tedesche.
Infatti quello che a inizio 2007 sembrava essere una
possibile chiusura si è rivelato invece un piano di
ristrutturazione del personale Usaf a livello globale:
secondo quanto dichiarato nel marzo 2006 dal
portavoce dell’Usaf, maggiore Glen Roberts, la forza
aerea statunitense ha intenzione di tagliare almeno
59.000 dipendenti, tra civili e militari. E gli esuberi per
Aviano dovrebbe aggirarsi intorno ai 1.200/1.500 circa.
58
sbuca nella strada Pedemontana, all’altezza della strada
per il Piancavallo. Alcuni anni fa gli americani hanno
realizzato un sottopasso per collegare le due aree, ma
ancora non basta: il senato americano ha deciso che per
motivi di sicurezza le due aree devono essere unite e la
strada pubblica “spostata”.
RAPPORTO FRA LA BASE E
L’INQUINAMENTO AMBIENTALE.
Numerosissimi studi effettuati in varie parti del mondo
documentano in maniera inoppugnabile la pericolosità
di questo tipo di installazioni. In occasione della loro
chiusura i nodi vengono al pettine: dalla Germania alle
Filippine, dagli Stati Uniti all’ Europa Orientale
allorquando si mette mano alla riconversione o alla
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
semplice chiusura dei siti militari si devono affrontare
problemi enormi di inquinamento.
I perchè sono ovvii: i compiti e le operazioni delle basi
militari richiedono una varietà di processi industriali:
alcuni sono specificamente militari, altri sono del tutto
simili alle routines delle industrie civili. Le tipiche
operazioni che vengono svolte in una base sono le
seguenti:
- caricamento, stoccaggio e distribuzione di carburanti
- manutenzione, pulizia, riparazione e smontaggio di
natanti, veicoli, aerei
- stoccaggio, trasporto, montaggio e distruzione di armi
e munizioni
- produzione di energia
- trasformazione e distribuzione di energia elettrica
- impianti di telecomunicazioni (radio, radar)
- raccolta e trattamento di acque di scarico
- stoccaggio e trattamento di rifiuti pericolosi
- produzione di bitume
- galvanotecnica
- protezioni anticorrosive di superfici metalliche
- lotta agli insetti nocivi ed alle erbe infestanti
Questi processi richiedono l’uso di sostanze chimiche
pericolose che possono rappresentare una minaccia per
la salute dei lavoratori della base e dei cittadini che
abitano nei dintorni, in quanto possono entrare in
contatto con le sostanze nocive sia direttamente che
attraverso l ambiente.
L'impatto della base sull'ambiente fisico e sociale, è
molto elevato anche se il filo spinato che le corre
attorno, così come avviene per tutte le zone militari,
l'ha resa nel corso di questi decenni una zona grigia, un
territorio inesplorabile; ma la natura non riconosce il
filo spinato. Vediamo allora cosa "esce" da quel
territorio, quali sono le interazioni con quello
circostante.
lavasecco,
giustamente,
autorizzazioni!
sono
soggette
ad
A questo si aggiunge il problema dell’inquinamento
dell’aria; infatti gli aerei, atterrando e decollando, certo
non migliorano certo la qualità. In varie occasioni si
sono notati bruciori agli occhi e la caduta di materiale
oleoso. Inoltre l'aria è inquinata anche dalle automobili
e più militari ci sono più automobili circolano.
Ma è il rumore degli aviogetti l'aspetto forse più
macroscopico della presenza militare americana perché
colpisce migliaia di cittadini che abitano anche a una
certa distanza dalla base. E' un problema che i
roveredani conoscono bene.
INQUINAMENTO DI SUOLO, ARIA E ACQUA
Si sa per certo che 4.500 litri di carburante sono
fuoriusciti da una delle cisterne interrate della base. Si
è trattato, ovviamente, di un incidente. Non c’è alcuna
garanzia che questo non si ripeta in futuro, né che
questo si sia verificato altre volte nel corso della storia
della base, come gli stessi americani ammettono.
Esistono altre cisterne interrate e prive di protezione da
sversamenti, come risulta da un verbale dell'USL (e a
distanza di 15 anni dall'incidente l'area non risulta
ancora bonificata nonostante l'ordinanza del Sindaco).
Come è noto la Magistratura italiana non ha potuto
accertare responsabilità fermata da una clausola di un
trattato internazionale.
Impianti del genere, se realizzati "in Italia" comportano
pesanti procedure autorizzative e di controllo.
Le fognature della base sono un po' misteriose. Pare
che sia in progetto la realizzazione di reti fognarie. Ma
è evidente che poi il tutto deve pur uscire dalla base e
finire nel territorio circostante.
All'interno della base poi vi sono varie cabine di
verniciatura. Si tratta di impianti che, sempre in Italia,
devono avere almeno 2 o 3 autorizzazioni. Perfino le
Guerre & Pace
59
L’OMBRA DELLE BASI
RIFIUTI
Un abitante di New York produce da 3 a 4 kg. di rifiuti
ogni giorno. Un cittadino di Pordenone ne produce 1,2
kg. E così capita che dove la concentrazione di
cittadini americani è più alta cresce la media della
produzione pro-capite: gli avieri dell'AIR FORCE,
infatti, non figurano fra i residenti e quindi, considerato
che la tassa sui rifiuti è commisurata non al loro
quantitativo ma alla superficie delle abitazioni, è facile
capire che una parte
delle tasse che, ad
esempio, pagano i
Roveredani
è
dovuta al surplus di
produzione di rifiuti
da
parte
della
popolazione ospite,
dedita a consumi
decisamente
più
avanzati dei nostri.
A questo aspetto si
deve aggiungere la
naturale produzione
di rifiuti, sia urbani
che
speciali
e
tossico-nocivi,
provenienti
dall'interno
della
base. Questi rifiuti
vengono smaltiti da
ditte italiane a spese
degli statunitensi,
però è evidente che
questi
rifiuti
rimangono in carico
al nostro ambiente.
60
Ad esempio, magari non di molto, ma la durata delle
discariche viene ridotta dall'apporto di questi rifiuti che
giudichiamo del tutto inutili. Senza contare che non
abbiamo dati sui rifiuti tossici e nocivi che vengono
prodotti, né di come vengono trattati all'interno della
base. Quello che è certo, per ammissione delle autorità
USAF, è che l'arrivo degli F16 ha fatto aumentare di
molto la produzione di questi rifiuti.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
GHEDI
Una base d’attacco italiana… con l’atomica
La base di Ghedi è un aeroporto dell’aeronautica
militare italiana da cui opera il 6° stormo con velivoli
Tornado PA-200. Il 6° Stormo ha una doppia
dipendenza: Nazionale e NATO.
Per la catena gerarchica italiana dipende dal Comando
Forze Aerotattiche di Attacco e Ricognizione
(COMFATAR), che a sua volta dipende dal Comando
Squadra Aerea, Alto Comando subordinato allo Stato
Maggiore dell’Aeronautica (SMA).
Secondo la catena NATO è alle dirette dipendenze del
CAOC 5 che fa capo al Comando delle Forze Alleate
del Sud Europa (SACEUR).
Caratteristica principiale di Ghedi è di essere uno dei
due depositi “ufficiali” di armi atomiche statunitensi in
Italia; qui sono infatti presenti 40 ordigni B-61 (l’altra
base è Aviano).
La base occupa una superficie di 10 kmq,
ospita circa 1500 militari italiani con circa
30 velivoli Tornado. I velivoli sono in
grado di portare armamento nucleare e i
piloti sono addestrati all’impiego delle armi
nucleari contenute nella base.
A Ghedi sono infatti presenti anche 150
militari statunitensi del 831st MUNSS,
squadra supporto munizioni che, dalla
mensa al campo di basket, vivono in
installazioni autonome e separate. L’831^
squadra risponde ad una doppia catena di
comando, sia USA che NATO; il suo
compito è la gestione dell’armamento
nucleare e il supporto all’aeronautica
italiana.
comando operativo con alloggiamenti e attrezzature
per la sopravvivenza di 200 persone e, naturalmente, il
nuovo deposito per ospitare gli ordigni nucleare: non
più tutti insieme ma ognuno con il suo loculo singolo.
Sembra che ne siano stati costruiti undici anche se però
alcuni dovrebbero essere vuoti.
Gli ordigni ospitati a Ghedi sono del tipo B-61, la
bomba termonucleare americana costruita in più
esemplari. La potenza della testata può essere
compresa tra 0,3 e 300 chilotoni, a seconda dei
modelli. Si ritiene probabile che gli ordigni ospitati a
Ghedi siano del tipo da 200 chilotoni, ossia tredici
volte l’ordigno che ha incenerito Hiroshima. Queste
bombe cancellano tutto nel raggio di un chilometro e
uccidono subito qualunque essere umano nel raggio di
tre chilometri. Per dare un’idea con una di queste
bombe si può distruggere una città come Milano.
Gli aerei della base ricoprono un ruolo
principale di attacco e secondario di
ricognizione. Il 154° gruppo del 6° stormo
è stato impiegato nella prima guerra del
Golfo; ha poi partecipato alle successive
missioni in Bosnia e alla guerra contro la
Jugoslavia. Inoltre è da Ghedi che sono
partite strutture logistiche per la missione
in Afghanistan.
Tra il 1993 e il 1996 la base si rinnova;
vengono costruiti con nuove tecnologie tre
bunker che dovrebbero garantire la capacità
operativa della base in qualsiasi
condizione. Per “qualsiasi condizioni” si
intende anche un attacco nucleare diretto,
batteriologico o chimico.
Tra le nuove strutture troviamo un
Guerre & Pace
61
L’OMBRA DELLE BASI
VICENZA: CAMP EDERLE &… DAL MOLIN (?)
Caserma Ederle – la forza tattica statunitense per il sud europa
La Caserma Ederle di Vicenza ospita la
forza tattica dell’esercito statunitense –
SETAF. Questa forza tattica è presente
in Italia fin dal 1951, prima a Camp
Darby, in seguito presso la caserma
Passalacqua di Verona fino ad
approdare nel 1965 a Vicenza
Dal 1973 la SETAF è un’unità di
intervento rapido dell’esercito USA, le
cui forze sono in grado di essere
dispiegate entro 24 ore nell’area di
combattimento. Nel 2000 le forze
presenti assumono la denominazione di
173^ brigata paracadutisti (unità già
impiegata a suo tempo in Vietnam e
sciolta nel 1972; tristemente conosciuta
per i massacri di contadini nelle risaie di
Katum).
Le maggiori unità stanziate alla caserma
Ederle sono il comando della SETAF, il
comando
della
173^
brigata
paracadutisti, due battaglioni della
173^, una batteria di artiglieria con cannoni
aviotrasportabili da 105mm, il 22° gruppo di Supporto
d’area (il cui compito è la gestione della base), il 509°
battaglione trasmissioni, il 14° battaglione trasporti e la
13^ compagnia di polizia militare. La base ospita circa
2.500 militari e 600 impiegati civili statunitensi (ma la
comunità statunitense a Verona si aggira sulle 12.000
unità, di cui circa 4.000 familiari dei militari).
All’interno della base si trovano negozi, banche,
scuole, strutture per lo svago e tutti i servizi necessari
per la vita dei soldati e dei loro familiari. Circa 1.200
sono i civili italiani trovano impiego presso le strutture
SETAF a Vicenza e a Livorno.
Oltre della Caserma Ederle altre cinque installazioni
completano la struttura del comando Setaf; si tratta del
villaggio per il personale collocato
vicino alla
caserma, del deposito munizioni di Tormento, dei
depositi per veicoli e apparecchiature logistiche siti a
Lerino e Torri di Quartesolo e del Sito Pluto, a Longare
Quest’ultimo è formato da una serie di gallerie e grotte
sotterranee di origine naturale, ampliate e collegate
artificialmente, collocate sotto i Colli Berici.
Dal 1957 al 1992 sono stati ospitati armi nucleari
tattiche . Oggi dopo anni di apparente disuso sono stati
ripresi lavori per l’espansione e il rafforzamento della
struttura.
LA 173^ BRIGATA
La 173^ brigata è una brigata aviotrasportata; ha la
possibilità di poter operare autonomamente,
nell’ambito di un’unità a livello di divisione o come
componente nell’ambito di un comando interforze
(JTF). Il suo impiego principale è quello di forza da
62
attacco (tipo conquistare aeroporti o installazioni
strategiche). Il suo impiego, nella dottrina statunitense,
non e' mai disgiunto da un sollecito rincalzo da parte di
forze corazzate, che subentrano per consolidare le
posizioni.
E’ dalla caserma Ederle che nel marzo 2003 partono
camion e mezzi blindati che viaggiano su ferrovia in
giro per l’Italia, fino a Camp Darby per l’imbarco
verso l’Iraq. Ed è da qui che verso la fine di marzo
partono per imbarcarsi ad Aviano circa 1.000
paracadutisti della 173^ brigata con destinazione
Bashour, nel Kurdistan iracheno. Dopodiché nel 2004
li troviamo impegnati nel massacro di Falluja
Nella primavera del 2005 i paracadutisti della 173^
vengono
inviati
in
Afghanistan,
impegnati
nell'operazione
"Enduring
Freedom"
(dove
collaboreranno con il Nato Rapid Deployable Corps di
Solbiate Olona). Attualmente la 173^ è ancora
impegnata in Afghanistan.
Oggi la 173^ è divisa in tre basi: le basi di Bamberg
(1200 soldati) e Schweinfurt (460 soldati) in Germania
e Camp Ederle (1870 soldati) in Italia.
I piani di ristrutturazione globale delle forze armate
statunitensi prevedono di trasformare la 173^
aviotrasportata in una brigata da combattimento, cioè
una forza d’attacco con la potenza di fuoco di una
divisione. Si tratta quindi di un’unità d’assalto speciale
con caratteristiche esclusivamente offensiva. Questo
vuol dire anche raggruppare i vari reparti in un’unica
base.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
DAL MOLIN
Parlare della 173^ brigata vuol dire affrontare anche la
questione del raddoppio di Camp Ederle attraverso la
costruzione di una nuova base presso l’aeroporto Dal
Molin, dove verrebbero ospitate le truppe e relativo
materiale d’armamento provenienti dalla Germania.
Non si tratterà quindi una semplice espansione
dell’esistente ma di una nuova base pienamente
operativa che nei piani del Pentagono dovrà essere il
fulcro delle politiche militari per il Medio Oriente e
l’Africa.
La nuova base prevede un ampio intervento edilizio
che occuperà 550 mila mq, suddivisa in area logistica,
abitativa e tattica. Inoltre sembra che siano previsti
anche depositi NBC, cioè per materiale nucleare,
biologico e chimico.
Inoltre è prevista anche una dotazione di armi pesanti,
quali 55 tank M1 Abrams, 85 veicoli corazzati da
combattimento, 14 mortai pesanti semoventi, 40 blindo
con sistemi di ricognizione
elettronica, due batterie di
artiglieria
con
obici
semoventi, 2 nuclei di aerei
telecomandati Predator
In quanto a risorse la nuova struttura utilizzerebbe
tanta acqua ed elettricità circa quanto 30.000 cittadini
di Vicenza.
Una delle caratteristiche che hanno favorito la scelta di
Vicenza da parte dei comandi statunitensi è stata
indubbiamente anche la relativa vicinanza di altri due
nodi importanti per la strategia bellica USA, cioè la
base di Aviano (150 km) e la base di Camp Darby, con
il relativo porto di Livorno, (360 km).
Queste due basi sono quelle che permettono la mobilità
e la disponibilità di riserve strategiche, in armi e
munizioni, per la brigata. Non è un caso che Aviano
abbia subito all’inizio degli anni 2000 un ampliamento
delle proprie strutture, mentre Camp Darby ha visto
negli ultimi anni ripetuti tentativi di ampliamento,
anche se per ora senza successo.
E’ certo che se andrà in porto il raddoppio della base
questi tentativi riprenderanno con più forza, visto
l’aumento delle forze che dovrà servire.
Guerre & Pace
VICENZA
Siti militari di Camp Ederle e Dal Molin
63
L’OMBRA DELLE BASI
CAMP DARBY – LIVORNO
Un enorme e pericoloso magazzino di armi e attrezzature belliche
Con l'accordo segreto firmato nel 1951 da Italia e Stati
Uniti si stabilì che questi ultimi potessero attivare delle
linee di comunicazione sul suolo italiano e occupare
dei territori nelle vicinanze di Livorno. Quando viene
divulgata la notizia le autorità italiane sottolineano la
"temporaneità" della concessione, infatti la base è
ancora li e l’accordo continua a rimanere
rigorosamente segreto.
Per quanto riguarda la durate del trattato alcune fonti
parlano di 99 anni, il giornale anarchico Umanità Nova
sostiene che l’accordo prevedesse inizialmente una
durata di 40 anni, poi divenuti 45 e, dopo il 1996,
(governi Dini e Prodi) protratto di non si sa quanto.
DESCRIZIONE GENERALE
Camp Darby è una base USA a tutti gli effetti anche se
ospita un comando NATO.
E’ situata nella pineta della Tenuta di Tombolo, a due
km circa della cittadina balneare toscana di Tirrenia,
nell’area amministrativa del Comune di Pisa. Ha un
perimetro di 14 km circa ed occupa una superficie di
circa mille ettari (10 kmq) oggi parte integrante del
Parco di Migliarino-S. Rossore, in provincia di Pisa
anche se si trova a poche centinaia di metri dall'abitato
di Stagno, cioè dall'estrema periferia di Livorno. Infatti
nei documenti ufficiali americani viene solitamente
definita come la "base di Livorno".
La popolazione permanente di Camp Darby,
considerando le unità e le famiglie, è di circa 2.000
persone. Nella base vi sono all’incirca 350 militari
statunitensi (esercito e aviazione) e circa 580
dipendenti italiani, addetti a servizi interni quali
manutenzione, pulizia e manovalanza, lavori appaltati
ad aziende italiane. In estate sono presenti altri 700
militari della Guardia nazionale.
64
La stragrande maggioranza del personale risiede dentro
la base, i pochi ufficiali che abitano a Livorno (che
comunque sono sempre di meno) sono relegati in
poche
palazzine
appositamente
affittati
dall’Amministrazione militare. La base è inoltre un
riferimento costante per le ferie del personale
statunitense di stanza in Italia ed in Europa, tanto che si
calcola che ogni anno sia capace di calamitare circa
52.000 presenze sul territorio.
All’interno della base vi sono supermercati, negozi di
vario tipo, una scuola (dall’asilo alle superiori), una
clinica generale, una dentistica ed una veterinaria, un
ufficio per la tutela della sicurezza sul lavoro, un canile
e una lavanderia che serve anche altre basi militari.
Per il tempo libero ci sono vari campi sportivi, una
spiaggia in affitto a Tirrenia e convenzioni con i vicini
campi di golf. Hanno sede nella base anche una
televisione ed una radio, ascoltabile solo nelle zone di
Pisa e di Livorno alle frequenze 106,0 e 107,0
megaherz. La televisione invece può essere vista solo
con il sistema Multisystem usato dalle famiglie dei
militari USA. La programmazione quotidiana proviene
dalla California; sono collegate allo stesso circuito le
emittenti di altre due grandi basi americane a Vicenza e
a Francoforte.
GUERRA, PROTEZIONE CIVILE E …
La base è la principale struttura logistica dell'U.S.
Army nel mediterraneo (le altre grandi basi americane
sono della Marina o dell'Aviazione). Vi vengono
stoccate armi convenzionali di tutti i tipi, dai carri
armati ai cannoni e ai corrazzati. Accanto alle armi
convenzionali ci sono armi chimiche e al napalm e,
anche se gli americani non lo hanno mai ammesso,
armi nucleari che sono ospitate nei suoi bunker lunghi
circa 150 metri e larghi
dai 15 ai 20 metri,
bunker superprotetti e
nascosti dalla folta
vegetazione;
la
struttura
per
la
conservazione
di
munizioni è di 2000
acri. Nel 1999 la
capacità
complessiva
dei magazzini è stata
certificata
per
contenere
32.000
tonnellate di ordigni. Si
stima che nella base
siano stoccate oltre un
milione e mezzo di
munizioni. Nei 125
bunker sotterranei che
lo compongono (67 per
l’esercito e 49 per
l’aeronautica
USA)
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
sono contenute le riserve di munizioni strategiche delle
divisioni europee dell'esercito, e dell'aviazione
statunitensi nonché del Comando per il Materiale
dell'Esercito: 20.000 tonnellate di munizioni per
artiglieria, missili, razzi e bombe d’aereo con 8.100
tonnellate di alto esplosivo. Vi sono poi 2.600 tra tank,
blindati, jeep e camion, inclusi 35 carri armati M1
Abrams e 70 veicoli da combattimento Bradley. Infine,
vi è custodito l’equipaggiamento completo per armare
veicoli e soldati. In totale, a Camp Darby ci sono
materiali bellici del valore di due miliardi di dollari,
missili ed ordigni esclusi.
Grazie alla sua posizione al centro del Mediterraneo la
base ha svolto una funzione fondamentale nelle
operazioni belliche statunitensi in Medio Oriente,
specie negli anni '80 e '90. A Camp Darby si
rifornirono le portaerei che colpirono la Libia nei raid
contro Gheddafi, da Camp Darby partirono le
munizioni che bombardarono Beirut, da Camp Darby
partirono buona parte delle munizioni impiegate nella
guerra contro l'Iraq; da qui partirono anche grandi
quantitativi di armi destinate ai gruppi paramilitari
centroamericani impegnati a spegnere nel sangue le
lotte popolari: nel 1988 si scoprì che dal porto di
Livorno erano partite diverse centinaia di tonnellate di
armi dirette ai fascisti honduregni e nicaraguensi.
Inoltre nel 1986 si scoprì anche che la bas e di Livorno
era stata al centro di un traffico segreto di armi verso
l'Iran, ne seguì uno scandalo clamoroso perché fu
dimostrato il coinvolgimento della CIA con la
connivenza dei servizi segreti e del governo italiano.
Naturalmente nel giro di pochi mesi lo scandalo fu
insabbiato.
Nel 1990-91, durante lo schieramento nel Golfo, hanno
transitato per Camp Darby 20.000 tonnellate di
Nel corso dell'estate del 2000, il 31st Munitions
Squadron (MUNS) di Camp Darby ha trasferito, in
un'operazione durata 12 giorni, più di 100.000
articoli per un peso netto di materiale esplosivo
maggiore di 53000 libbre (oltre 28 tonnellate),
spostandoli
da
otto
strutture
per
l'immagazzinamento di munizioni ad un'altra zona
di custodia. Motivo di questo trasferimento sono
stati gli errori nella costruzione del soffitto dei
depositi. I problemi strutturali di questi elementi,
costruiti 22 anni fa, sono andati peggiorando di
anno in anno. Nel maggio del 2000, il peso degli
interventi di sostegno al rivestimento aveva
provocato, in un deposito, il distacco di grandi
porzioni di cemento armato e di parte del soffitto
preesistente. La situazione si è rivelata
preoccupante riguardo alla fatiscenza delle
strutture, quindi si è dovuto interrompere la
corrente degli otto capannoni ed interdirne
temporaneamente
l'accesso
lasciandovi
abbandonate pile di munizioni che arrivano fino al
soffitto. Tutto ciò è avvenuto senza nessun avviso
alle autorità locali.
munizioni. Nel 1991, durante la guerra contro l’Iraq, ne
sono partite dalla base altre 22.000 tonnellate, pari alla
quasi totalità delle munizioni usate durante la
campagna Tempesta nel Deserto. Nei giorni del Natale
1998, alla vigilia del conflitto balcanico, sono arrivate
alla base 3.278 cluster bombs. Nel 1999, in occasione
della guerra contro la Serbia, sono partite dalla base 16
mila tonnellate di munizioni, pari al 60% degli ordigni
schierati dalla NATO.
La base ha svolto anche attività di protezione civile: in
occasione del terremoto in Turchia del 1999 da Camp
Darby sono stati inviati provviste e vestiario. Nel corso
del 2002 sono state effettuate otto missioni umanitarie
nei confronti di comunità colpite da calamità naturali
(terremoti o altro), con l’invio di materiali per la prima
assistenza, tra cui coperte, cucine da campo, kit
igienici, potabilizzatori, contenitori per l’acqua
potabile. I paesi interessati sono stati Iran, Pakistan,
Israele,
Angola,
Algeria,
Congo,
Nigeria,
Turkmenistan.
…TERRORISMO: CAMP DARBY E LA
STRATEGIA DELLA STABILIZZAZIONE
ITALIANA DEGLI ANNI '70
La base di Livorno ha avuto anche un ruolo centrale
nella strategia di destabilizzazione che ha insanguinato
l'Italia negli anni '70 e '80. Fin dal 1974 erano filtrate
voci sull'uso della base per l'addestramento di
neofascisti, voci successivamente confermate dalle
indagini dei giudici Felice Casson e Carlo Mastelloni.
Nel 1990 un’indagine condotta dal giudice Casson
rende noto che Camp Darby è la principale base
strategica, chiamata in codice “Base A”, della rete
paramilitare di Gladio, che se ne serviva per
l’addestramento e come magazzino di armi e
munizioni. L’indagine di Casson ha avuto inizio nel
1974, quando, il 28 dicembre, a casa del neofascista
veneto Marcello Soffiati sono stati rinvenuti documenti
scottanti. Altri importanti documenti sono stati poi
rinvenuti nel 1980 a Nizza, presso il neofascista
toscano Marco Affatigato. Infine, vi sono le
confessioni del generale Fausto Fortunato, responsabile
dell’ufficio R del Sismi tra il novembre 1971 ed il
settembre 1974.
Dall’indagine di Casson emergono varie interessanti
circostanze:
1) All’interno della base veniva svolto un “seminario”
per fascisti e gladiatori su ”uso delle armi e studio delle
tecniche investigative”. L’istruttore era Gianni
Bandoli, neofascista veneto appartenente ad Ordine
Nuovo.
2) Bandoli aveva contatti con Amos Spiazzi,
colonnello protagonista del golpe Borghese e membro
del gruppo neofascista della Rosa dei Venti, il quale a
sua volta aveva contatti con un maresciallo dei servizi
segreti in contatto con la P2 che operava a Tirrenia.
3) A Tirrenia aveva sede la Loggia Massonica
“Franklin” per ufficiali americani.
Guerre & Pace
65
L’OMBRA DELLE BASI
4) A Tirrenia risiedeva Enzo Giunchiglia, reclutatore
P2 per conto di Gelli.
Nel 1997 nell’ambito dell’inchiesta portata avanti dal
giudice istruttore veneziano Carlo Mastelloni sulla
caduta a Marghera il 23 novembre del 1973 dell’aereo
Argo 16 emergono una serie di interessanti circostanze
circa la base di Camp Darby.
1) Risulterebbe, infatti, che negli anni Settanta nei silos
dei depositi sotterranei erano stivati centinaia di missili
dotati di testata nucleare; secondo Mastelloni gli
ordigni nucleari sarebbero ancora nascosti nei depositi
sotterranei della base. Negli stessi anni erano
immagazzinate bombe atomiche tattiche in un deposito
dell’aeroporto di Aviano, in Veneto.
2) Camp Darby sarebbe stata la «Base A», nome in
codice per definire l’uso addestrativo e come
magazzino di armi e munizioni per la struttura segreta
paramilitare e di ispirazione anticomunista Gladio.
Quest’ultima, cioè, avrebbe utilizzato la base al fine di
rifornirsi di armamenti per la costituzione dei propri
depositi sotterranei denominati Nasco, da usare in caso
di necessità contro l’Unione Sovietica.
3) Gli ufficiali del Sid, il servizio segreto militare
italiano dell’epoca, si sarebbero ripetutamente recati a
prelevare armamenti e materiale tattico, da smistare,
poi, attraverso l’uso di aerei come Argo 16, nella base
di Alghero in Sardegna e in altre strutture militari.
4) Alla base avrebbero avuto accesso esponenti
dell’estrema destra grazie a permessi rilasciati dai
comandanti americani.
Ad un miglio dalla base si trova il Leghorn Army
Depot, dove sono stanziati il 314° Support Center
(Reserves) ed il Combat Equipment Battalion-Livorno
(CEB-L). Quest’ultimo si occupa dello stoccaggio e
della manutenzione dei veicoli e dell’equipaggiamento
del 2x2 Brigade Set, che consiste in due unità blindate
e due battaglioni di fanteria meccanizzata. Questa è
l'unica struttura deputata allo svolgimento di tale
compito in tutto il sud dell'Europa e ne costituisce una
delle attività delegate principali. Tutte le attrezzature, i
pezzi di ricambio e il materiale di sostegno, sono
contenuti in enormi depositi; file di carrarmati M1, M2
e M3 Bradleys, carri di recupero M88, jeep blindate
Humvees e camion punteggiano le installazioni
trastullandosi sotto l'italico sole.
Presso l’abitato di Stagno, a tre miglia dalla base, si
trova l’839° Transportation Battalion, che è assegnato
al Military Traffic Management Command (MTMC “Comando per la Gestione del Traffico Militare”) ed è
incaricato di gestire tutti i porti marittimi che offrono
appoggio alle operazioni militari degli Stati Uniti nel
Mediterraneo.
LE “ALTRE” STRUTTURE MILITARI
Camp Darby è circondata da altre strutture militari
USA di primaria importanza stanziate tra Pisa e
Livorno. In Totale Camp Darby è la sede di 26
strutture di appoggio dell’Esercito, dell’Aeronautica e
del dipartimento della Difesa degli Stati Uniti.
A poche centinaia di metri, nei pressi dell'abitato di S.
Piero a Grado, sorge il Centro di ricerca interforze (ex
CAMEN ed ex CRESAM) che negli anni 60 ospitava
un mini reattore nucleare che la Marina militare
italiana utilizzava nei suoi studi per realizzare la
bomba atomica nazionale (Il Centro fu diretto per anni
da un ammiraglio e da alti ufficiali aderenti alla P2, la
loggia massonica golpista creata da Licio Gelli).
A pochi chilometri da Camp Darby (5 miglia) sorge
poi il Centro radar di Coltano, sede del 509° Signal
Battalion, SATCOM. E’ un importante terminale del
sistema di telecomunicazioni del Pentagono in Europa
e nel Medio Oriente e comprende, tra le altre cose, il
centro AUTODIN (Automatic Digital Network) del
terminale di comunicazione via satellite.
Fra il personale dell'aviazione presenti in misura
permanente sul posto figurano il 31st Munitions
Squadron (31° squadrone munizioni) e il 31st
Redhorse Flight (corpo speciale dell'aviazione).
Quest'ultima unità gestisce due set completi di
attrezzature preposte per l'ingegneria, circa 500 pezzi
in tutto, che l'aviazione utilizza per la costruzione di
campi di aviazione e per riparare le piste danneggiate.
66
Camp Darby è l'unico sito integrato dell'esercito USA,
cioè è l'unico sito dell'esercito statunitense in cui il
materiale preposto venga custodito insieme alle
munizioni, così da permettere il trasferimento
simultaneo di attrezzature, veicoli e munizioni alle
unità in attesa. Ad esempio, questo è l'unico luogo in
tutta la regione meridionale da cui si possano
trasportare munizioni via mare: queste raggiungono il
porto di Livorno passando per un canale che lo collega
direttamente a Camp Darby, da lì vengono caricate su
piccole imbarcazioni transoceaniche e portate, dopo un
viaggio di due ore verso sud, in un altro porto dove
possono essere caricate su navi da munizioni. Inoltre il
campo è molto vicino all’aeroporto di Pisa, in grado di
permettere le manovre di un aereo da trasporto C-5,
così da rendere possibile il trasferimento aereo di
munizioni
o
attrezzature
da
combattimento
fondamentali.
LEGHORN
L'Attività di Deposito dell'Esercito Leghorn (Livorno),
già conosciuto come Centro Generale di SostegnoLivorno, situato sulle coste nordoccidentali italiane, è
diventato IOC (Comando per le Operazioni Industriali)
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
nel
1994.
La
missione
dell'attività
di
immagazzinamento è quella di ricevere, imbarcare,
provvedere alla custodia e alla manutenzione della
Riserva di Guerra dell'Esercito e delle scorte per i piani
operativi. La responsabilità per le scorte della riserva di
guerra immagazzinate sul posto è stata trasferita al IOC
nel 1993, l'anno successivo sono state fatte traslocare
anche le installazioni. Il IOC è responsabile del
Comando per il Materiale dell'Esercito per la gestione
di tutte le Riserve di Guerra dell'Esercito nel mondo.
Nonostante il deposito sia recente nel IOC, il proprio
servizio per l'esercito ha una lunga storia: costruito nel
1951 nei pressi di Livorno, il magazzino e l'adiacente
area per la custodia di munizioni hanno fornito
sostegno alle forze armate statunitensi in Austria; pochi
anni dopo estesero i propri servizi alle divisioni
presenti in Italia e nel sud della Germania.
La missione di Leghorn è cambiata al cambiare delle
esigenze dell'esercito. In principio la struttura era stata
creata per rifornire esclusivamente una piccola regione
dell'Europa; al giorno d'oggi i suoi 2.400 acri di
deposito ospitano tanto materiale da poter garantire
l'equipaggiamento di un'intera brigata. Fra le scorte,
chiamate AWR-2, sono comprese munizioni, materiale
rotabile, Unit Basic Loads, ed articoli di sopravvivenza
suddivisi in 45 pacchi per le compagnie. A differenza
dei POMCUS (materiale per le operazioni
d'oltreoceano assemblato negli Stati Uniti) che hanno
una destinazione già definita, queste attrezzature sono
pacchetti pronti per essere imbarcati ed utilizzati in
operazioni degli Stati Uniti in tutto il mondo. Ad
ottobre, quando il IOC assumerà il comando ed il
controllo dell'organizzazione Gruppo Attrezzature da
Combattimento per l'Europa, Leghorn ne entrerà a fare
parte.
Attualmente
Leghorn
è
responsabile
dell'immagazzinamento, della distribuzione e della
manutenzione di scorte AWR-2, delle scorte del
Dipartimento di Stato, delle scorte di appoggio
dell'Ufficio degli Stati Uniti per i Disastri Esteri, e
delle scorte di decremento delle divisioni europee
dell'esercito statunitense.
Il Combat Equipment Battallion-South (battaglione per
le attrezzature da combattimento per la zona
meridionale) e la sua 24th Cbt. Equip. Company (24°
compagnia per le attrezzature da combattimento) nel
Deposito dell'Esercito Leghorn di Livorno conservano
un inventario di materiale e munizioni, compreso
l'equipaggiamento sufficiente a rifornire una brigata
pesante composta da due unità blindate e due
battaglioni di fanteria meccanizzata, per un valore
totale di 2miliardi di dollari. Il deposito contiene 2.600
pezzi di materiale rotabile dell'esercito oltre alle
attrezzature e alle forniture, più di 11.000 articoli delle
scorte nazionali, ed offre la maggiore area di
immagazzinamento di munizioni di tutte le divisioni
europee dell'esercito statunitense.
Dieci capannoni ospitano forniture fra cui razioni da
campo, petrolio conservato, materiale da costruzione e
da barriera, camion e carrarmati oltre ai pezzi di
ricambio per le attrezzature. Leghorn ha giocato un
ruolo importante nel supporto di esercitazioni militari
della NATO e delle missioni umanitarie degli Stati
Uniti imbarcando e trasportando materiale per la
Somalia, le Filippine, il Rwanda e la Cecenia. Il
deposito, presieduto da un colonnello luogotenente,
conta su una forza lavoro composta da 330 dipendenti
fra militari, civili statunitensi e civili locali.
RICADUTE ECONOMICHE
Dati precisi è difficile reperirli. Secondo il consigliere
regionale di AN, Luvisotto, la base rappresenta un
indotto di 25 milioni di euro all’anno. In un reportage
di Rosa Mordenti per il settimanale Carta si ricorda
come oggi la base non incide affatto sulla vita di
Livorno, in quanto completamente autosufficiente; e
anche i livornesi che vi lavorano sono sempre meno
(circa 580 ottanta civili italiani impiegati rispetto ai
3500 dei primi tempi).
LAVORI ALLA BASE: MANUTENZIONE E…
Dal 2001 al 2003, solo per le riparazioni alle strutture,
era stata prevista una spesa di 8,5 milioni di dollari.53
Nel 2002 vengono inoltre stanziati altri 15 milioni di
dollari, una cifra molto superiore a quella degli anni
precedenti. Il 23 gennaio 2003 il Sottosegretario per la
Difesa rispondendo ad un’interrogazione informa che
per la base di Camp Darby è in esecuzione un contratto
di circa 2,5 milioni di dollari, con oneri a carico degli
Stati Uniti, per il riattamento dei magazzini nei quali si
sono verificati cedimenti strutturali e per la
manutenzione di tutti gli altri.
…POTENZIAMENTO
All’inizio degli anni Novanta viene concepito in sede
NATO un progetto (Nato CP 340019) da 52 milioni di
dollari (circa 40 milioni di euro) per l’ampliamento
della base di Camp Darby. Il progetto prevede la
costruzione di sette magazzini climatizzati, di una
grande officina, e di varie infrastrutture per
complessivi 450.000 metri cubi e 9 ettari di superfici
coperte o impermeabilizzate.
Nel 1996 il Comipar (Comitato misto paritetico sulle
servitù militari; è un comitato che per legge si occupa
di esaminare i problemi connessi all’armonizzazione
fra piani di sviluppo territoriale ed economico-sociale
della regione ed i programmi delle istallazioni militari;
ha solo funzione consultiva) approva il progetto
(dossier Nato CP 340019), ma all’approvazione non
segue nessun atto che porti all’inizio dei lavori.
Il 2 luglio 2003 il Comipar approva all’unanimità il
dossier recante le sigle Usa PN 58497 e PN 58493, che
contiene il progetto di potenziamento della base per la
costruzione di “sette magazzini e varie infrastrutture
per complessivi 450 mila metri cubi e nove ettari di
superfici coperte o impermeabilizzate”.
Il dossier è praticamente identico a quello già
approvato nel 1996, e tuttavia viene votato una seconda
volta poiché nel frattempo è cambiato il proponente:
non più la NATO ma gli Stati Uniti.
Guerre & Pace
67
L’OMBRA DELLE BASI
Intanto, Il 6 maggio 2002, adducendo motivazioni
legate alla propria sicurezza, il comando italiano della
base richiede all’Università di Pisa di poter recintare
un terreno demaniale prospiciente alla base (superficie
complessiva di 33.000 mq) ed una attualmente in
concessione all’ateneo. La richiesta avanzata dai
militari di Camp Darby è respinta dal Senato
accademico dell’Università di Pisa a larghissima
maggioranza.
Ma già nei primi mesi del 2003 l’associazione
GlobalSecurity informa dell’esistenza di un progetto
per la ristrutturazione e l’ampliamento del canale dei
Navicelli (canale artificiale che collega la base al porto
di Livorno), che sarà finanziato grazie ad un
emendamento al pacchetto NATO per i possibili
progetti militari. Gli interventi previsti, del costo di 1,8
milioni di dollari (dragatura e cementificazione del
fondale esclusi), consentiranno di raddoppiare la
capacità di carico del canale: allargamento della portata
e dell’ampiezza del canale per permettere alle chiatte la
conversione ad U; cementificazione dei fondali;
estensione della lunghezza della banchina per
consentire l’attracco simultaneo di due chiatte per il
carico o lo scarico di munizioni; pavimentazione dello
scalo; illuminazione del molo per consentire appoggio
alle operazioni 24 ore su 24; costruzione di una
struttura di controllo delle munizioni; costruzione di
una struttura per lo svolgimento delle operazioni di
scalo; riparazione di tre ponti che danno accesso alla
struttura; costruzione di 6 piattaforme per la custodia
delle munizioni. La conclusione dei è prevista per il
2010.
Ma il canale ha bisogno anche dei lavori di dragatura e
cementificazione del fondale se si vuole garantire la
possibilità di scaricare agevolmente le munizioni
necessarie ad un'eventuale operazione futura. Le eliche
delle navi-munizioni e i propulsori ad arco continuano
a trascinare il fondale del canale dai punti di minore a
quelli di maggiore profondità provocando una
riduzione dell'effettiva profondità delle acque a tal
punto da dimezzare l'effettiva capacità di trasferimento
marittimo delle munizioni.
Questo problema è stato esasperato dalle operazioni di
trasporto di munizioni in sostegno alle operazioni della
NATO e degli Stati Uniti nei Balcani e verso l’Iraq
realizzati negli ultimi anni.
68
Il Canale dei Navicelli potrebbe essere dragato al
vantaggioso costo di 24.000 dollari, grazie alle
operazioni di dragaggio già in corso; se invece si
dovesse stipulare un nuovo contratto di dragaggio le
spese si raddoppierebbero. L'ulteriore dragaggio, con la
posa di un tappeto di cemento armato (con pannelli di
questo materiale), o pietrame per fondazioni subacquee
lungo tutta l'estensione e l'ampiezza dello Scalo
Tombola costerebbe all'incirca 150.000 dollari; ma
anche questo non garantirebbe una stabilizzazione del
fondale di lunga durata. L'esercito sta portando avanti
delle ricerche sull'integrità delle pareti a pannelli
metallici esistenti per scoprire ogni eventuale falle nei
pannelli; le riparazioni, se necessarie, costerebbero
50/65.000 dollari a seconda della gravità del problema.
Nel febbraio 2004 si apprende che il comando
statunitense si sta muovendo per ottenere nel porto di
Livorno una banchina in uso esclusivo dove far
approdare le navi con il materiale bellico in arrivo e in
partenza. In seguito all’uscita della notizia sulla
stampa, il commissario dell’Autorità Portuale di
Livorno, Bruno Lenzi, dichiara che: “L’Autorità
Portuale non ha mai ricevuto una richiesta del genere.
La base Usa vorrebbe eventualmente un accosto
preferenziale, ma nessuna concessione”.
Nell’agosto 2005 il giornale Il Tirreno da notizia di
movimenti informali e riservati da parte degli
statunitensi per arrivare ad un raddoppio della base. Il
progetto avrebbe previsto un ampliamento della base
nella piana di Guastocce, dove è già attivo un
interporto, complesso di infrastrutture logistiche per lo
smistamento delle merci, che ha a disposizione un
milione di metri quadri ancora da allestire.
Si tratterebbe insomma del potenziamento della
infrastrutture, da quelle stradali a quelle ferroviarie, a
disposizione dei militari, che faciliterebbe l’utilizzo
degli impianti del porto di Livorno e dell’aeroporto di
Pisa. L’operazione potrebbe presentare anche un
aspetto di ambiguità, in quanto anziché i militari
potrebbe presentarsi un’azienda civile (contractors) che
lavori per conto delle forze armate USA.
Il 7 novembre 2005 il comune di Collesalvetti, sul cui
territorio è collocato l’interporto,
approva una
mozione per la riconversione a fini civili di Camp
Derby.
Il 18 gennaio 2007 anche il comune di Pisa vota una
mozione per la dismissione e la riconversione a usi
esclusivamente civili di Camp Darby.
Anche se ad oggi di questo progetto non se ne è saputo
più nulla è purtroppo evidente che se alla fine dovesse
procedere il raddoppio della base di Vicenza, con
l’inglobamento del Dal Molin nella struttura militare
della Ederle per ospitare la 173^ brigata d’assalto al
completo, i progetti di ampliamento di Camp Darby
tornerebbe in primo piano.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
NAPOLI
Il comando della marina per tre continenti
Come conseguenza delle politiche di riposizionamento
delle basi e delle forze armate statunitensi dall’Europa
settentrionale e centrale a quella meridionale e
orientale, nel 2004 la marina USA ha preso la
decisione di unire il Quartier Generale delle Forze
Navali USA in Europa (precedentemente collocato a
Londra), con il comando della VI flotta (allora
collocato a Gaeta) e alcuni altri comandi minori, in un
unico comando collocato a Napoli.
Secondo la marina l’accorpamento dei comandi ha
permesso una forte riduzione del personale impiegato;
oggi infatti il comando della marina a Napoli dovrebbe
impiegare all’incirca 500 persone (erano circa 1500
solo nel comando di Londra)
Il Comando della forze navali USA-Comando della VI
flotta (CNE-C6F) agli ordini del Comandante in capo
delle Forze navali USA in Europa ora di stanza a
Napoli ha un’area di responsabilità che comprendente
89 paesi in tre continenti: Europa, Africa e Asia;
Medio Oriente compreso. In pratica da Capo Nord al
Capo di Buona Speranza e, ad est, fino al Mar Nero. Il
suo compito è quello di comando e controllo operativo
delle forze navali statunitensi nella sua area di
responsabilità; in pratica pianifica dirige e supporta le
operazioni navali Usa. Il comando dispone di sette
Basi, tra cui Rota (in Spagna), Sigonella (stazione a
terra per gli aerei della marina), Gaeta (base della VI
flotta) e La Maddalena (base di supporto per i
sommergibili
nucleari,
in
fase
di
chiusura/trasferimento).
Il comando è situato presso la cittadella militare
statunitense costruita attorno all’aeroporto di
Capodichino (mentre i famigliari dei militari sono
ospitati in un villaggio della marina statunitense a
Gricignano di Aversa); le forze di cui dispone sono
incentrate
principalmente
sulle navi della VI flotta
(oltre 41 unità navali, tra
sommergibili
nucleari,
portaerei
e
navi
per
operazioni di sbarco, 175
aerei e 16.000 marinai e
6000 marines, inquadrati nel
Bataan Expeditionary Strike
Group, che comprende sette
navi
da
guerra
per
operazioni di sbarco).
Un
altro
importante
Comando
della
marina
statunitense a Napoli è il
NCTAMS
EUROCENT.
Questa è una delle tre
stazioni al mondo con il
compito di fornire servizi di
telefonia,
comunicazione,
controllo, elaborazione dati e supporto informatico al
Comando navale USA in Europa, alla VI flotta, alla V
flotta e al Comando Centrale della marina USA (con
sede in Bahrain, l’area di operativa di questo comando
copre 7,5 milioni di miglia quadrate in un’area che
comprende l’Africa orientale, il Medio Oriente e il
sudovest dell’Asia; in quest’area opera la V flotta) e
numerosi altri comandi Nato e congiunti nell’area del
Mediterraneo e dell’Oceano Indiano.
Napoli è divenuta così un centro importante nella
strategia del Pentagono, ma qui si trovano anche una
serie di importanti strutture della NATO, a partire dal
quartier generale NATO delle forze alleate del Sud
Europa, oggi denominato Joint Force Command
Naples (JFC), la cui sede sarà presso la base Nato di
Lago Patria, che già oggi ospita un centro di
comunicazione della NATO. Nella nuova struttura
lavorano circa 2500 persone e sorge su un’area di
183.780 mq a cui si aggiungono tre aree satelliti per un
totale di altri 35.056
Esistono poi, nella provincia di Napoli, altre strutture
di servizio (depositi, centri comunicazione, antenne
radar) a Ischia, Lago Patria, Licola, Camaldoli,
Bagnoli, Nisida, Agnano.
Sebbene l’importanza di Napoli nella rete di basi USA
nel mondo è dovuto principalmente al ruolo di
comando per la marina, occorre ricordare che il suo
porto è inserito nell’elenco degli undici porti italiani
concessi per lo scalo di unità a propulsione nucleare e
vi fanno regolarmente scalo navi e sommergibili delle
flotte USA in transito nel Mediterraneo
Il comandante delle forze navali USA in Europa,
attualmente è l’ammiraglio Harry Ulrich, che ricopre
anche il ruolo di comandante delle forze della NATO
per il sud Europa (JFC-NATO).
Suddivisione del mondo in aree di responsabilità dei comandi Usa; dal 2006 è in fase di
attivazione Africom, con area di competenza l’intera Africa.
Guerre & Pace
69
L’OMBRA DELLE BASI
GAETA
La base della VI flotta
Dopo il trasferimento a Napoli del comando della VI
Flotta e la sua fusione con il comando delle forze
navali statunitensi in Europa (COMUSNAVEUR)
avvenuto nel settembre 2005, il principale compito
della base di Gaeta è quello di supportare il personale e
le attività della nave ammiraglia della VI flotta,
attualmente la USS Mount Whitney, ormeggiata presso
il molo di San Antonio.
Oggi la base di Gaeta risulta essere un distaccamento
del comando di Napoli e le cui strutture sono situate
sul Monte Orlando, dove oltre alla base logistica è
presenta anche un deposito di carburante.
Il personale militare statunitense impegnato a Gaeta è
in costane diminuzione dal 2005 e la marina Usa stima
che alla fine del processo di ristrutturazione si assesterà
su circa 600 unità (rispetto alle 1900 iniziali). Questo
dato non va letto come un processo di smilitarizzazione
ma quanto come effetto della ristrutturazione e
dell’accorpamento dei comandi in Europa, e dello
sviluppo della tecnologia dei sistemi d’arma che
richiedono sempre meno personale; ad esempio
l’attuale nave ammiraglia, la USS Mount Whitney,
opera oggi con metà del personale rispetto alla
precedente nave ammiraglia.
Inoltre una metà dell’attuale equipaggio non risulta
come militare ma come marinai civili impiegati da
Sealift Command.
Altro importante compito del distaccamento di Gaeta è
quello di fornire supporto alla scuola di
telecomunicazione NATO (NCISS) situata in provincia
di Latina.
Gaeta inoltre rientra nell’elenco dei porti nucleari,
infatti nella rada è previsto un punto di fonda, a circa 2
km dalla costa, per accogliere sommergibili o navi di
superficie a propulsione nucleare.
70
Sopra, Gaeta: vista dall’alto dell’attracco della USS Mount
Withney, nave ammiraglia della VI flotta. Sotto, Struttura del
comando sul Monte Orlando. In ultimo, passaggio di
consegne dall’ USS La Salle all’attuale nave ammiraglia
della VI flotta SS Mount Withney.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
SIGONELLA
Base dell’aviazione di marina USA
Non esiste in Italia struttura militare come quella di
Sigonella che assuma in sé tutte le contraddizioni del
modello neoliberista che Washington e i suoi più fedeli
alleati tentano d’imporre nel mondo. Guerre
sanguinarie, il ricatto degli strumenti di sterminio di
massa, militarizzazione del territorio e delle coscienze,
violazione dei principi costituzionali, disprezzo per le
libertà individuali, sperimentazione di strategie
funzionali al nuovo ordine mondiale, sfruttamento
intensivo delle risorse, sperpero di ricchezze e capitali,
lotta armata alle migrazioni, potenziamento del
controllo mafioso e sociale, contribuzione ai processi
di distruzione ambientale, cancellazione dei diritti
sindacali e precarizzazione del lavoro. Succede tutto
questo nella più grande base aeronavale e nucleare
USA del Mediterraneo, baricentro dell’ennesimo
conflitto nord-sud, il più cruento, il più ideologico, il
più imprevedibile per gli sviluppi futuri internazionali.
Ogni operazione bellica degli ultimi trent’anni è stata
sostenuta dalla base che sorge nel cuore della Sicilia:
creata per contenere la presenza sovietica nel
Mediterraneo, l’infrastruttura si è progressivamente
trasformata nel trampolino di lancio delle missioni
USA e NATO nei Balcani, in Africa e in Medio
Oriente. Guerre per il petrolio innanzitutto, mascherate
prima dalla “difesa della democrazia contro il
comunismo”, poi dalla “lotta al terrorismo
fondamentalista”. Una base che sta crescendo
enormemente, che concentra decine di comandi e
reparti tra i più importanti delle forze armate e dei
servizi segreti statunitensi, che rappresenta il centro
strategico di direzione e controllo delle operazioni
nell’intero continente africano, nel Golfo Persico e
nell’Oceano Indiano, che si erge a baluardo della
“resistenza occidentale” contro i flussi di migranti
provenienti proprio da quelle aree del globo lacerate
dalle bombe ospitate nei suoi siti protetti.
sorge invece a circa 10 miglia di distanza dalla prima
stazione aeronavale e comprende le due zone militari
operative degli Stati Uniti e della NATO, altri centri
residenziali, commerciali e ricreativi, un “Air
Terminal”, due piste di atterraggio di 2.500 metri, due
aree di parcheggio in grado di garantire la "prontezza
operativa" ad una ottantina tra aerei da trasporto,
cacciabombardieri, pattugliatori ed elicotteri da
combattimento, numerose infrastrutture per la
A partire della seconda metà degli anni '60 la base di
Sigonella è uno dei principali punti di rifornimento per
le operazioni della VI Flotta nel Mediterraneo.
Attualmente Sigonella è la principale installazione
terrestre della Marina USA nella rotta aeronavale tra
l’oceano Atlantico e l’area mediorientale e sicuramente
quella che ha avuto la più rapida espansione al mondo.
UNA CITTA’ USA
NEL CUORE DELLA SICILIA
Dal punto di vista prettamente logistico la base sorge
nel territorio dei comuni di Lentini (Siracusa) e Motta
Sant’Anastasia (Catania) e comprende due settori
distinti NAS 1 e NAS 2 (Naval Air Station 1 e 2). Il
primo ospita gli uffici amministrativi e di sicurezza, gli
alloggi per gli ufficiali, alcuni servizi per il personale,
differenti strutture di tipo ricreativo e sportivo; NAS 2
Guerre & Pace
71
L’OMBRA DELLE BASI
sistemazione del personale, delle apparecchiature e dei
materiali, i depositi munizioni, i sistemi radar e di
intercettamento. Sempre a NAS 2 risiede il personale
italiano del 41° Stormo antisommergibile e dell’88°
gruppo di volo dell’Aeronautica militare. A circa 3
chilometri da NAS 2, accanto alla Strada Statale che
collega Catania a Caltagirone e Gela, nel territorio del
comune di Belpasso, è presente una terza area militare
in cui sono stati realizzati un Centro trasmissioni ed
una decina di depositi sotterranei atti ad ospitare
periodicamente munizioni e sistemi d'arma.
Oltre ai residence e alle caserme esistenti all’interno di
NAS 1 e NAS 2 i militari USA e le loro famiglie
occupano alloggi e unità abitative in una quindicina di
comuni alle pendici dell’Etna e in una decina di
comuni costieri, per un totale di 1.580 unità.
Dal punto di vista operativo la base di Sigonella ospita
più di una quarantina tra comandi operativi e di
appoggio alla flotta integrati nella rete del Comando
Navale USA in Europa.
REPARTI OPERATIVI
Tra i reparti schierati dagli Stati Uniti assume rilevanza
il "VR-24", uno Squadrone di Supporto Logistico della
Marina a cui sono assegnate le funzioni di trasporto,
rifornimento e munizionamento delle unità della VI
Flotta in transito nel Mediterraneo. Il “VR-24” ha in
forza 20 velivoli, tra aerei ed elicotteri, che
garantiscono il collegamento aereo tra la base di
Sigonella, gli alti comandi USA di Napoli e le
installazioni della Marina USA nello scacchiere
mediterraneo. Il 24° Squadrone assicura infine il
sostegno logistico alle operazioni di collegamento
aereo con il molo e il deposito di combustibile e
munizioni della vicina baia di Augusta, dove è presente
un distaccamento dell’ US Navy, classificata in ambito
militare quale "NATO facility": essa è utilizzata per lo
stoccaggio delle munizioni e quale deposito POL
(petrolio, nafta e lubrificanti) dalle forze navali della
NATO e della VI Flotta USA (dal “terminal
petrolifero” si diramano le condutture di un oleodotto
che giunge alla base di Sigonella per la distribuzione
del carburante ai velivoli aerei ivi schierati).
circa 12 aerei P-3 "Orion" per il pattugliamento
marittimo a lungo raggio. La missione originaria dello
Squadrone è la guerra antisottomarino (ASW) e il
minamento dei fondali. Oggi con la scomparsa
dell’Unione Sovietica e lo smantellamento della sua
flotta, il dispositivo "ASW" predisposto nel
Mediterraneo è divenuto sproporzionato rispetto i
potenziali “rischi” reali, così le operazioni della US
Navy si sono sempre meno orientate al pattugliamento
e sempre di più invece alle attività di IntelligenceSorveglianza-Riconoscimento (ISR) e vigilanza del
traffico aeronavale e all’intervento “anti-terrorismo”.
Le informazioni raccolte dagli “Orion” vengono
trasmesse ai Centri di Controllo di Sigonella e Napoli,
mentre le operazioni di pattugliamento sono dirette dal
“Sigonella’s Tactical Support Center”. Classificato
anche come “Nato Marittime Air Control Authority”,
questo Centro di Supporto Tattico coordina le
operazioni dei velivoli NATO ed in particolare dei
velivoli Atlantic dell’Aeronautica italiana.
Lo
sforzo
operativo
del
25°
Squadrone
Antisommergibile USA si è fatto particolarmente
dirompente con lo scoppio dei conflitti nei Balcani (i
velivoli
sono
costantemente
utilizzati
nel
“monitoraggio” di Bosnia-Herzegovina, Kosovo,
Serbia e Montenegro). Con l’attacco all’Iraq un
distaccamento del “VP-25” è stato insediato presso la
base di Souda Bay (Creta) e il controllo marittimo in
“funzione anti-terrorismo” è stato esteso dallo Stretto
di Gibilterra al Mediterraneo orientale. Il 25°
Squadrone è inoltre preposto al supporto delle
esercitazioni navali USA e NATO e alla raccolta di
informazioni sullo schieramento navale di Paesi “non
amici” e dei mercantili e delle unità navali sospettate di
trasportare migranti e merci “illegali”. Il contrasto dei
flussi migratori è realizzato in accordo con i paesi
rivieraschi dell’Alleanza Atlantica; sempre più
frequentemente i dati d’intelligence dello Squadrone
“antisommergibile” della US Navy sono “trasferiti”
alle autorità militari italiane che poi intervengono per
bloccare, dirottare o sequestrare navi cargo sospettate
di trasportare migranti “clandestini”.
I velivoli "Orion P-3C" in forza al “VP-25” possono
essere armati con bombe nucleari di profondità del tipo
B 57 con una potenza distruttiva sino a 20 kiloton o
con siluri convenzionali antisottomarino MK-46. Per
una missione di ricerca a bassa altitudine, il raggio
operativo del velivolo è di 1.300 miglia marine con
un'autonomia di volo superiore alle 10 ore. Per una
missione ad alto livello, il raggio di azione dell'”Orion”
può superare le 1.600 miglia nautiche con
un'autonomia di circa 14 ore. Il carico standard di armi
è di 4 missili e 4 bombe di profondità. Al 25°
Squadrone sono inoltre assegnati alcuni elicotteri da
combattimento antisottomarino SH-3D/H “Sea King”,
anche questi dotati della doppia capacità di armamento,
nucleare e convenzionale.
Sigonella
ospita
poi
il
25°
Squadrone
Antisommergibile "VP-25" della US Navy, dotato di
72
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
UNA PRESENZA RISOLUTIVA
IN OGNI GUERRA
Dal 1984 Sigonella ospita l’Helicopter Combat
Support Squadron Four HC-4 “Black Stallions”,
l’unico della Marina USA dotato di 9 elicotteri pesanti
MH-53E “Sea Dragon” (i più grandi delle forze
armate) per il trasporto di uomini, mezzi e munizioni.
Lo squadrone assicura il sostegno logistico alle
operazioni delle forze militari USA in Europa, Africa e
Medio Oriente e garantisce il ponte aereo tra la base
siciliana, le portaerei in navigazione nel Mediterraneo
e nel Mar Rosso e la base avanzata del Marine Corp di
Guam (Oceano Indiano).
Oggi, in seguito alle ristrutturazioni della macchina
bellica Usa il comando operativo è stato trasferito negli
Usa (Norfolk, Virginia) e a Sigonella è rimasto un
distaccamento che ospità le unità di volo destinate ad
operare nell’area.
L’HC-4 “Black Stallions” partecipa a tutte le
esercitazioni navali USA e NATO nello scacchiere
mediterraneo e non c’è stata crisi o evento bellico negli
ultimi vent’anni in cui i suoi mezzi e i suoi uomini non
abbiano interpretato un ruolo chiave (tra i principali
1994 Somalia, 1996 Liberia, 1997 Sierra Leone e Rep.
Dem. Del Congo, 1999 Kosovo e Serbia, 2001 e 2002
Afghanista, 2003 Iraq).
Durante la cosiddetta missione “Enduring Freedom”,
nei tre mesi precedenti l’attacco all’Iraq, lo Squadrone
di stanza a Sigonella ha assicurato il trasporto alle unità
navali di oltre 1.500 passeggeri; nel febbraio 2003 una
parte dei velivoli è stata direttamente trasferita nel
teatro di guerra mediorientale.
Inoltre ha operato nel dispositivo di “vigilanza”
impegnato a Genova nel 2001 per il vertice G 8.
ENTI DI COMANDO E CONTROLLO
Sigonella è inoltre sede del Dipartimento per le
Operazioni della Marina USA nel Mediterraneo; esso
supporta le operazioni del Comando navale USA in
Europa e dirige il traffico aereo di tutti i velivoli USA e
le attività della speciale divisione preposta al controllo
delle operazioni aeree e dei sistemi di comunicazione e
di sicurezza elettronica della base; inoltre sovrintende
le attività degli enti (ASCOMED e Command Post)
che forniscono il supporto logistico ai voli di trasporto
passeggeri e merci delle forze armate degli Stati Uniti.
A questo dipartimento è infine subordinato il
trasferimento di uomini e mezzi in tutto il bacino sino
all’Africa meridionale, Israele, Norvegia e Gran
Bretagna.
Qui sorge anche la “Naval Computer and
Telecommunication Station - NCTS Sicily” che
fornisce l’assistenza alle telecomunicazioni e alle
attività informatiche della Marina e dei reparti schierati
nella base, nonché alle operazioni del Dipartimento
della Difesa e delle forze armate USA e multinazionali.
La “NCTS” ha il compito di decodificare e
sistematizzare i dati raccolti dalle unità aeree e navali e
di trasferirli ai differenti Comandi USA. Nella base è
inoltre presente una divisione di telecomunicazione via
satellite
legata
alla
NAVCASMED
(Naval
Communications Area Master Station Mediterranean)
di Napoli che in stretto collegamento con il centro
sorto a Niscemi a fine anni ’80, provvede alle
trasmissioni della Flotta USA e all'appoggio di altre
comunicazioni tattiche nell'area del Mediterraneo e del
Mar Rosso, garantendo tra l'altro il comando e il
controllo delle forze sottomarine di attacco dotate di
missili balistici.
A Sigonella sorgono poi gli impianti di comunicazione
del
Centro
Operativo
di
Controllo
Aerei
Antisommergibili della US Navy, abilitato alla raccolta
ed alla elaborazione di tutte le informazioni fornite
dagli aerei da pattugliamento marittimo delle forze
armate statunitensi ed alleate. L’ASWOC di Sigonella
svolge contemporaneamente il ruolo di Autorità di
Controllo Marittimo Arereo dell’Alleanza Atlantica e
di Centro di Supporto Tattico per il Comando
Sorveglianza e Riconoscimento Marittimo delle Forze
armate statunitensi, per la VI Flotta e per i velivoli
NATO assegnati al Comando delle forze aeree del
Mediterraneo. Da trent’anni a questa parte il Centro di
Supporto Tattico di Sigonella svolge una funzione
centrale in tutte le missioni USA ed alleate; in
particolare va segnalato il suo contributo alle
operazioni di pattugliamento aereo durante il conflitto
in Kosovo quando il velivolo P-3C “Orion” fu
utilizzato per la prima volta nella storia, oltre che alla
“protezione” delle unità navali statunitensi schierate
nel Mare Adriatico, in operazioni di bombardamento
aereo.
Dal gennaio 1991 è stato distaccato a Sigonella un
reparto d’intelligence e data link della Marina USA
che dipende dal Comando di San Diego (California).
Nonostante siano 4 i distaccamenti di questo tipo
esistenti a livello mondiale, quello di Sigonella è
l’unico in assetto operativo. A Sigonella è stato infine
installato il “JMAST”, un sistema automatico C4I
(Comando, Controllo, Comunicazione, Calcolo e
Intelligence) per il controllo video ed elaborazione dati
su tutte le operazioni delle forze navali e dei Comandi
navali USA. Il JMAST della base siciliana è l’unico
terminale operativo in Europa.
INFINE LA LOGISTICA
Esistono altri reparti specializzati che fanno di
Sigonella il “baricentro” di tutte le operazioni
strategiche USA nel Mediterraneo. Presso le
infrastrutture della base sono stati assegnati infatti un
Battaglione Costruzioni; un Battaglione di genieri della
Marina USA a cui è attribuito il compito di preparare
le spiagge rimuovendo gli eventuali ostacoli in caso di
operazioni da sbarco; una unità specializzata nella
manutenzione delle testate nucleari; l’EODMU 8, che
ha lo scopo di identificare la presenza di mine, cariche
di profondità e armi convenzionali e nucleari inesplose
Guerre & Pace
73
L’OMBRA DELLE BASI
e che rappresentano una minaccia alle unità e al
personale della Marina; il MOMAU 5, un’unità mobile
di assemblaggio mine, bombe antisottomarino ed antinave MK-63 per le operazioni di guerra e le
esercitazioni del Comando USA, della VI Flotta e della
NATO; un centro meteorologico ed oceanografico.
A Sigonella è inoltre operativa la NEPMU-7, unità di
supporto sanitario della VI Flotta e del Corpo dei
Marine e di individuazione, prevenzione e cura di
eventuali attacchi con agenti chimici e biologici. Dal
1993 è in funzione a NAS 1 l’ospedale, strutture
veterinarie e dentistiche, a cui viene affidata anche la
cura del personale della Marina in forza sulle unità di
stanza nel Mediterraneo.
Nel 1998 è stata attivata un’unità del centro
addestrativo per il personale superiore predisposto ai
velivoli HC-4 ed EA-6B “Prowler”, utilizzato per la
guerra elettronica. Sigonella ospita inoltre il
Dipartimento per la manutenzione intermedia dei
velivoli aerei in grado di eseguire i complessi lavori di
riparazione dei velivoli imbarcati sulle unità della V e
VI Flotta USA e delle marine alleate della NATO.
L’AIMD di Sigonella è anche utilizzato per la
riparazione delle componenti aeree e dei motori dei
caccia da guerra dipendenti dal Comando centrale
europeo delle forze armate USA.
Il 30 marzo 2004 è stato attivato a Sigonella il
“Defense Distribution Depot”. Esso ha sede presso il
magazzino di rifornimento della base ed è uno dei 23
Centri di Distribuzione della Difesa realizzati tra Stati
Uniti, Europa e Giappone; il deposito è a disposizione
delle unità navali, dei caccia da guerra e degli
squadroni aerei che opereranno nel Mediterraneo.
Come ha spiegato il generale Kathleen M. Gainey,
comandante del DDC (Defense Distribution
Command) da cui dipende il deposito di Sigonella, i
servizi e i beni saranno messi a disposizione anche dei
reparti dell’Aeronautica e dell’Esercito USA che si
troveranno a transitare nell’area. ”La scelta di
realizzare il DDD nella base siciliana – ha spiegato
Kathleen M. Gainey – si deve proprio al fatto che si
prevede a medio termine una ulteriore espansione delle
sue funzioni logistiche”.
un centro religioso, la nuova centrale telefonica; il
centro polifunzionale ricreativo dotato di due sale
teatrali e cinematografiche, biblioteca, piscina, sauna e
bowling; un edificio polivalente con annesso ristorante
e club privato, un ampio asilo nido e scuola materna,
impianti sportivi e parco giochi per i figli del personale
USA). l’ampliamento della pista di volo e la creazione
di 1.100 nuovi alloggi per i reparti dislocati in Sicilia.
Inoltre oggi è attivo il progetto MEGA IV (costo
previsto 59,5 milioni di euro e fine lavori per il 2008),
che prevede la realizzazione di una scuola situata
all’interno della base NAS1 (la zona adibita
principalmente a centro residenziale per i militari
USA) e di altri sette edifici, prevalentemente uffici ed
officine, nella base operativa NAS2 (lo scalo
aeroportuale con i depositi di armi e gli hangar per i
cacciabombardieri e velivoli pattugliatori.).
Inoltre nell’ultimo triennio sono stati costruiti due
residence nei territori dei comuni di Belpasso e Mineo
per un totale di altri 930 alloggi.
I GLOBAL HAWK...
I Global Hawk sono velivoli senza pilota di ultima
generazione il cui compito è sorvegliare e perlustrare
vaste aree geografiche mondiali. Per questo compito
sin dalla fine degli anni ’50 le forze aeree USA hanno
utilizzato gli aerei-spia U-2 operativi da varie basi nel
mondo tra cui Sigonella. Più recentemente gli U-2
hanno assunto un ruolo centrale per coordinare le
operazioni di guerra contro l’Iraq nel 1991 e contro la
Serbia nel 1999. “Gli U-2 – scrivono gli analisti
statunitensi - hanno fornito durante l’Operazione
Desert Storm il 30% di tutti i dati di intelligence, il
50% delle immagini fotografiche ed il 90% delle
informazioni relative agli obiettivi terrestri nemici.
Successivamente in Kosovo gli U-2 hanno fornito più
dell’80% delle immagini necessarie per i
bombardamenti aerei alleati contro la Serbia.
UNA BASE IN ESPANSIONE PERMANENTE
Dalla fine della guerra fredda Sigonella è in
espansione; dopo i piani MEGA e MEGA II alla fine
del 2003 ha preso avvio il progetto MEGA III; che
vede la base è al centro del secondo programma di
investimenti nel mondo da parte della marina
statunitense, con una spesa preventivata di 675 milioni
di dollari.
Il progetto, che dovrebbe concludersi entro la fine del
2007, prevede il potenziamento delle infrastrutture
(edifici amministrativi, uffici, centri comunitari,
ricreativi e sportivi, ristoranti e pub, circoli giovanili,
un ufficio postale, i locali dove ospitare agenzie di
viaggio e la sede della Croce Rossa, una clinica
dentistica ed una veterinaria, una nuova centrale a gas,
74
Nel XXI secolo il Global Hawk (RQ-A4) è destinato a
sostituire gli U-2, accrescendone le capacità
operative”. Quest’ultimo velivolo è infatti dotato di
maggiore autonomia e raggio di azione e di migliorate
capacità d’intelligence; inoltre presenta i vantaggi di
essere teleguidato e di poter operare sfuggendo al
controllo dei radar avversari; le sue caratteristiche
tecniche non sono comparabili con nessuno dei sistemi
ospitati negli arsenali di morte: il Global Hawk può
volare a circa 600 chilometri all’ora a quote di oltre
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
20.000 metri; il velivolo è in grado di monitorare
un'area di 103,600 chilometri quadrati grazie ad un
potentissimo radar e all’utilizzo di telecamere a bande
infrarosse. Le immagini registrate vengono poi
trasmesse per via satellitare ai comandi terrestri.
L’autonomia di volo di questo aereo senza pilota è
invidiabile: 36 ore con un solo pieno di carburante. La
sua rotta è fissata da mappe predeterminate, un po’
come accade con i missili da crociera Cruise, ma gli
operatori da terra possono cambiare le missioni in
qualsiasi momento.
I Global Hawk della marina saranno dislocati in cinque
siti: Kaneohe, Hawaii; Jacksonville, Florida; Diego
Garcia, Oceano Indiano; Kadena, Okinawa e,
naturalmente, Sigonella, Italia.
La previsione di spesa per realizzare le strutture del
centro operativo a Sigonella è di 26 milioni di dollari,
2/3 dei quali necessari per la realizzazione del
complesso vero e proprio; il progetto per il nuovo
megacomplesso per i Global Hawk prevede
l’utilizzazione di una superficie totale di 5,700 metri
quadrati di terreno dove costruire un nuovo hangar con
quattro sezioni indipendenti per i velivoli. Il
completamento dei lavori è previsto entro il marzo
200961.
…E LE ATOMICHE SICILIANE
Sigonella ricopre un ruolo fondamentale nello
stoccaggio e nella manutenzione di testate e munizioni
per le unità della VI flotta ed i reparti dell’aviazione
USA e NATO. Nella base opera infatti il “Weapons
Department” con 101 militari che movimentano
annualmente armi per 80 milioni di libbre (una libbra
corrisponde a 0,45 kg circa).
L’infrastruttura è classificata dai vertici militari
statunitensi quale "Special Ammunitions Depot"
(“deposito di munizioni speciali”), in quanto è a
Sigonella che viene effettuato lo stoccaggio delle
bombe nucleari del tipo B 57 utilizzate per la guerra
antisottomarino. Essa è l'unica base aeronavale degli
USA nel Mediterraneo preposta a questo scopo e le
bombe antisom custodite sono stimate intorno alle 100
61
I dati sono tratti da due documenti statunitensi citati
da www.terrelibere.org (Sigonella base operativa dei
Global Hawk, Antonio Mazzeo, 05.09.07)
unità. Esse vengono messe a disposizione oltre che ai
P-3C “Orion” della US Navy, anche agli aerei
britannici da pattugliamento marittimo "Nimrod MR.2"
che operano nel bacino in ambito NATO. Una ventina
circa di queste testate nucleari sono destinate ai
velivoli "Atlantic" debitamente preposti, in forza al 41°
Stormo dell'Aeronautica Italiana che come abbiamo
visto ha sede presso l’aeroporto di Sigonella.
Il numero delle testate nucleari ospitate a Sigonella
cresce in particolari periodi di esercitazione o di crisi
internazionale, quando la base aeronavale funziona da
centro di manutenzione per le armi nucleari destinate
alle unità navali della VI Flotta e ai velivoli aerei
imbarcati. Periodicamente vengono dislocate a
Sigonella anche le testate nucleari del tipo B 43, B 61 e
B 83 con potenza distruttiva variabile da 1 kiloton a
1,45 megaton, in dotazione ai caccia dell'US Air Force
operativi nelle basi tedesche e britanniche e presso la
base aerea di Aviano (Pordenone) e che vengono
periodicamente trasferiti nel Mediterraneo.
Ciononostante le autorità militari statunitensi ed
italiane continuano a mantenere il più assoluto riserbo
sul numero totale di ordigni atomici ospitati a
Sigonella, giungendo perfino a negarne l’esistenza
davanti ai parlamentari italiani in visita presso le
installazioni della Stazione aeronavale siciliana.
Inoltre verso Sigonella è stato avviato il trasferimento
della componente dei velivoli anti-sommergibile
dall’Aeronautica militare italiana sino ad allora
ospitata presso l’aeroporto di Cagliari-Elmas. È
opportuno rammentare in proposito che i pattugliatori
marittimi “Atlantic”, come i “cugini” P-3C “Orion”,
hanno oramai assunto un ruolo fondamentale nelle
operazioni di identificazione e contenimento di navi e
mercantili sospettate di trasportare migranti “illegali”.
E SIGONELLA VA ALLA GUERRA…
Con sempre maggiore frequenza nella base siciliana la
US Navy rischiera a rotazione per periodi mediolunghi alcuni dei suoi principali squadroni stanziati
negli Stati Uniti, per partecipare a cicli di esercitazione
nell’area mediterranea e mediorientale o direttamente
ad operazioni belliche.
Inoltre sono periodicamente dislocati gli aerei cisterna
KC-130 e KC-135 utilizzati dagli Stati Uniti per il
rifornimento in volo dei velivoli in transito nel
Mediterraneo centrale; in più occasioni è stata
registrata la presenza degli aerei radar AWACS Boeing
E-3A "Sentry" della Forza NATO di “Allarme in volo
a distanza” e degli aerei da ricognizione "U2" delle
forze aeree USA che raggiungono un'altezza in quota
di 21.336 metri ed un'autonomia di volo di 11.265
chilometri. La base fornisce anche il supporto tecnicologistico ai velivoli antisommergibile dei Paesi membri
dell’Alleanza Atlantica durante le loro operazioni
nell’area ed in particolare ai pattugliatori “Nimrod
MR.2” della Royal Air Force (RAF) britannica.
Guerre & Pace
75
L’OMBRA DELLE BASI
Dal punto di vista numerico, gli aerei stabilmente
schierati a Sigonella sono una cinquantina; nei periodi
di crisi i velivoli possono raggiungere però le 85-100
unità. Di norma il solo Comando dell'Aviazione di
Marina USA compie da Sigonella 125 voli la
settimana, tra cui 2 voli commerciali che collegano
direttamente la base siciliana con gli Stati Uniti.
Durante la recente Operazione “Iraqi Freedom” è stato
calcolato che a NAS 2 siano atterrati 12.000 aerei con
oltre 29.000 passeggeri a bordo. Buona parte del
traffico era diretto alle basi statunitensi in Kuwait e
Bahrein e alle basi greche di Souda Bay e di Akrotiri
dove hanno stazionato per lungo tempo le portaerei
“Truman” e “Roosevelt”. Sempre nei giorni dei
bombardamenti aerei, a Sigonella si sono realizzati i
rifornimenti dei velivoli che giungevano dalle basi
statunitensi e che erano diretti contro obiettivi civili e
militari in Iraq. La locale divisione per il rifornimento
carburanti ha fornito oltre 200.000 galloni di
carburante al giorno contro una media in periodi
“normali” di 60-90.000 galloni. Buona parte del
carburante è stato trasferito negli aerei cisterna KC-135
operativi
nel
rifornimento
in
volo
dei
cacciabombardieri.
Secondo fonti ufficiali della Marina USA, nel febbraio
2003 il “Weapons Department” di Sigonella ha
movimentato 1.905.000 tonnellate di munizioni ed
esplosivi fornendo perfino centinaia di missili alle
unità di superficie impegnate nello scacchiere di
guerra. Un suo distaccamento ha anche operato
direttamente nel Golfo Persico per coordinare
l’installazione di 122 missili Tomahawk. Un’escalation
delle operazioni e della presenza militare si è anche
registrata nella vicina baia di Augusta dove in meno di
4 mesi hanno attraccato 98 unità navali USA con oltre
11.000
tonnellate
di
“merci”
movimentate
(annualmente sono 155 circa le unità che attraccano ad
Augusta con una movimentazione di circa 7.600
tonnellate).
Mentre la Sicilia orientale assumeva il ruolo di
trampolino avanzato delle operazioni di morte delle
forze armate USA in Medio Oriente, governo ed
autorità militari italiane si ostinavano a negare
qualsivoglia coinvolgimento del nostro Paese.
Nonostante i dati sul numero di voli e sulle armi
caricate a Sigonella venissero settimanalmente
pubblicati nel bollettino interno della Naval Air Station
76
The Signature, il comandante del 41° Stormo Antisom
dell'aviazione militare italiana, colonnello Giorgio
Russo, non perdeva l’opportunità di dichiarare alla
stampa che “condizioni ed attività nella base” si
mantenevano “normali”.
SICUREZZA E ORDINE PUBBLICO
Dal punto di vista delle attività finalizzate alla
sicurezza e alla protezione delle infrastrutture che
giuridicamente dovrebbero essere riservate al personale
italiano, siamo di fronte invece ad una preoccupante
involuzione.
Nel luglio del 1997 il parlamentare di Rifondazione
Comunista
Russo
Spena
aveva
denunciato
l’implementazione di un programma di osservazione e
perlustrazione in funzione di ordine pubblico dei
"dintorni" della base di Sigonella con l’utilizzo
esclusivo di personale statunitense. Il programma
comprendeva tra l’altro anche la “segnalazione” e
“l’archiviazione di notizie di incidenti, furti e reati in
genere”: concretamente era stato creato un vero e
proprio “osservatorio” con relativa centrale telefonica a
cui indirizzare le segnalazioni. Il programma ha
rappresentato una vera e propria rottura del monopolio
della sicurezza da parte dello Stato italiano sul
territorio
nazionale,
principio
sancito
dalla
Costituzione italiana (e qualcosa di moto simile
avviene in Sardegna presso gli impianti di La
Maddalena). Il processo è ulteriormente degenerato
con gli attentati dell’11 settembre 2001 ed il varo della
strategia USA della cosiddetta “guerra preventiva”.
Nelle strade che si diramano esternamente alla base,
alle vetture di Carabinieri e Polizia di Stato si sono
affiancate le sempre più numerose “Alfa Romeo 166”
di colore bianco della Polizia Militare statunitense, che
come chiarito dallo stesso comando italiano di
Sigonella, “possono fermare individui o mezzi ritenuti
sospetti se in prossimità di sedi USA, anche perciò nei
pressi dei villaggi-residence presenti nei diversi
comuni vicini a Sigonella”. “In questo caso – si
aggiunge – gli agenti
statunitensi devono
immediatamente fare intervenire le forze dell’ordine
italiane che hanno competenza d’azione”.
Dal 2004 al personale di sicurezza della Marina USA è
stato infine delegato l’addestramento sulle “tecniche di
controllo” dei militari italiani in forza presso la base
aerea italiana. A riprova dell’extraterritorialità di cui
gode la base di Sigonella va poi segnalato che
segretamente a fine 2003 è stato predisposto un nuovo
“Accordo Tecnico” tra Italia e Stati Uniti per regolare
“l’utilizzo delle installazioni militari di Sigonella”.
Così ancora una volta il Parlamento è stato espropriato
dei suoi poteri di controllo ed indirizzo della politica
internazionale e di difesa.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
LA MADDALENA
Una base in via di… trasferimento
Stando alle comunicazioni che sono circolate da fine
2005 all’inizio del 2007 sembra che la base USA a La
Maddalena sia avviata verso la chiusura; nonostante
questo ci sembra comunque riportarne qui una
descrizione per ricordare cos’è (stata?) la base, quali
compiti ha assolto in questi anni e qual è, tuttora, la
missione dei sommergibili della VI flotta.
Per prima cosa è importante ricordare che la chiusura
della base, prevista per il 29 febbraio 2008, è il frutto
delle lotte e delle costanti mobilitazioni degli abitanti e
dei movimenti sardi e non di una graziosa concessione
statunitense. E’ quindi altrettanto importante ricordare
che la chiusura della base non significa la scomparsa
dei sottomarini della VI flotta dal Mediterraneo, infatti
ricordiamo come molte comunicazioni delle agenzie,
che a fine 2005 comunicavano la prossima
smobilitazione della base, parlavano di trasferimento
dei sottomarini fuori dal territorio nazionale e non di
ritiro dal Mediterraneo.
Anche a fronte delle notizie sui progetti di
ampliamento della base circolati negli anni 2004 e
2005, sarebbe ingenuo interpretare la chiusura de La
Maddalena come una scelta di diminuzione della
presenza militare statunitense; molto più probabile che
il bisogno di ampliamento della base e, d’altro canto,
l’aumento delle proteste abbia portato il Pentagono,
all’interno dei piani di ristrutturazione della sua
presenza militare in Europa (e nel mondo) in atto dai
primi anni 2000, a studiare una diversa dislocazione
dei suoi sottomarini.
In attesa di scoprire dove verrà ricollocata la nuova
base appoggio per i sommergibili statunitensi,
aspettiamo la prima fase della chiusura della base,
prevista per il 1° ottobre 2007, quando la nave
appoggio USS Emory Land dovrebbe lasciare
definitivamente la Sardegna per tornare a casa.
UN APPRODO PER SOMMERGIBILI
Attualmente sono presenti nella base di Santo Stefano
(La Maddalena) due diverse strutture: gli sterminati
depositi
sotterranei
di
carburanti,
armi
e
munizionamento navale della NATO e la base della US
NAVY per operazioni d’appoggio dei sottomarini a
propulsione nucleare dotati di testate atomiche
La U.S. Navy ha ottenuto la base nell’ambito di una
serie di accordi tuttora segreti, mai conosciuti né
ratificati dal Parlamento. Ai primi protocolli stipulati
alla metà degli anni cinquanta, che già garantivano agli
Stati Uniti nell’uso delle basi in Italia una libertà
valutata "insolita (unusual)" dagli stessi ministri Usa,
fa seguito, l’accordo stipulato nel 1972 dal governo
Andreotti
Tra il luglio e l’agosto del 1972, approdano a La
Maddalena la nave appoggio Fulton e i sommergibili
della 69 Task Force della VI flotta; il 15 settembre il
portavoce del Comando
della Marina Militare degli
Stati Uniti comunica notizia
della
nuova
funzione
strategica dell’isola: base
Usa per sommergibili a
propulsione nucleare.
LA BASE
USS Emory Land mentre “accudisce” alcuni sommergibili
Guerre & Pace
La “base” della U.S. Navy
nell’isola di Santo Stefano
nasce come un punto di
approdo per nave appoggio
sommergibili (attualmente la
US Lemory Land); in
seguito, con operazioni di
volgare abusivismo, gli
statunitensi
ritennero
necessario avere a terra
77
L’OMBRA DELLE BASI
servizi tecnologici e di benessere con la scandalosa
complicità dei governi italiani e, sempre per non potere
o volere chiamarla “base”, si risolse di ricorrere a
prefabbricati, baracche, containers, bettoline ed altri
manufatti precari.
Il fulcro della base è costituito dalla nave-appoggioofficina, attualmente la USS Emory Land, alla quale si
affiancano gli i sommergibili d’attacco, classe Los
Angeles, a propulsione nucleare della 69 Task Force
della VI flotta USA.
«Le navi-appoggio sono officine mobili e basi di
rifornimento per sommergibili e navi soccorso
sommergibili.(..) Principale funzione è riparare (..),
riparazione sistema propulsione, sistema lancio,
revisione missili(..). Fornisce nafta, olio lubrificante,
composizione d’acqua per reattori nucleari, siluri,
missili anti-sommergibile(..) Possiede una tale facilità
di movimento che, con breve preavviso, è capace di
raggiungere qualsiasi posizione geografica avanzata a
seconda delle situazioni strategiche.» (opuscolo
promozionale della nave-appoggio Orion)
I sottomarini da caccia per la guerra a navi e
sommergibili sono dotati di armamento nucleare, siluri,
mine, missili anti-nave e anti-aereo. Dal 1984, con il
dispiegamento a bordo di Cruise Tomahawk
acquistano la capacità di sferrare l’attacco nucleare in
profondità contro obiettivi a terra nel raggio di tremila
chilometri e, quindi, la funzione di deterrenza nucleare
strategica.
All’inizio degli anni ’90 l’intera flotta di sommergibili
statunitensi comprendeva 22 sottomarini classe
Sturgeon, con capacità di 12 missili da crociera
Tomahawk, e 56 classe Los Angeles armati con 31
Tomahawk. Nella stiva delle navi appoggio che di volta
in volta vengono dislocate a S.Stefano sono stoccati 34
missili Tomahawk.
Il missile da crociera Tomahawk, nella versione
lanciabile dal mare, ha una gittata di tremila chilometri
e può portare una testata nucleare di 150 kilotoni.
Anche nella versione con testata convenzionale il
missile trasporta, come penetratore, 750 libbre di
uranio impoverito.
Il carico nucleare in dotazione ai sottomarini e alla
78
nave-appoggio è stivato a bordo, in condizioni di
massimo rischio, anziché essere custodito a terra, in
condizioni di relativa sicurezza, nell’adiacente deposito
Nato di armi e munizioni. Il motivo è semplice: se
fossero stoccati nel deposito sottoroccia, struttura Nato
in territorio italiano, gli Usa perderebbero la piena
"sovranità" e le armi passerebbero sotto il controllo e la
gestione del Paese ospitante.
Il molo di attracco della nave-officina con la sua muta
di sottomarini, in assurda noncuranza delle più
elementari misure di cautela, è al centro di una
ridottissima fascia costiera di poche centinaia di metri
su cui gravitano due impianti dove si maneggiano e si
custodiscono esplosivi e carburanti. La banchina di
sosta è lo stesso pontile del gigantesco deposito armi e
munizioni Nato, a sua volta paurosamente vicino al
megadeposito
Nato
di
carburanti.
Si determinano le condizioni previste e vietate
dall’Agenzia Internazionale per l’Energia Atomica
(AIEA), l’organismo plurinazionale cui aderiscono
gran parte degli Stati, Italia e USA compresi;
l’Agenzia, infatti, nelle norme che detta per l’uso dei
porti da parte di natanti a propulsione o a carico
nucleare, stabilisce quanto è anche alla portata del
comune buonsenso: l’approdo non deve stare nelle
vicinanze di impianti esplodenti o infiammabili.
NUOVI COMPITI
Con la dotazione ai sommergibili dei missili Tomahawk
essi hanno acquisito una doppia funzione; mantengono
quella tradizionale antisommergibile e acquisiscono la
capacità di proiezione contro terra.
Cioè la originaria guerra subacquea viene integrata con
la guerra contro ciò che sta in superficie, città e
popolazioni. Si registra, così, un significativo salto di
qualità che oggettivamente trascina anche il paese ospite
nella corresponsabilità di scelte belliche operate dal
governo della forza armata ospitata.
La prima funzione venne svolta sino a quando gli
antagonisti
sovietici
non
abbandonarono
il
Mediterraneo nel 1990. Da quel momento l’ 8° gruppo
iniziò a svolgere solo la seconda funzione “contro
Terra” (nel 1986 contro la Libia, nel 1991 contro l’Iraq
e poi in Enduring Freedom)
Questa
nuova
configurazione
operativa esalta la fisionomia più
problematica
della
presenza
statunitense di S. Stefano: la
unilateralità decisionale ed operativa.
L’originaria funzione antisom poteva
avere, comunque, un significato di
cointeresse tra USA e Europa nel
controllo del comune avversario
sovietico; la nuova funzione, per
come è stata sinora svolta e per come
si può prevedere che continuerà ad
essere
svolta,
risulta,
invece,
completamente avulsa da qualsiasi
contesto
di
compartecipazione
d’interesse bilaterale e/o d’interesse
di alleanze più vaste.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
SOLBIATE OLONA – MILANO
Comando forze di reazione rapida della NATO
Secondo il nuovo concetto operativo della NATO, gli
eserciti devono essere in grado di schierarsi
rapidamente in aree di crisi (nei territori delle nazioni
appartenenti alla NATO o fuori di essi) ed essere
capaci di autosostenersi. Uno degli aspetti principali di
questo processo per quanto riguarda la ristrutturazione
delle forze armate è la creazione di comandi che siano
in grado di rischiararsi rapidamente e assumere il
controllo sul campo delle forze assegnate.
Sono nati così i sei comandi di corpo d’armata a
elevata prontezza operativa che le nazioni hanno reso
disponibili alla NATO. Il comando di corpo d’armata
di Solbiate Olona NRDC-IT è uno dei questi sei
comandi (gli altri sono localizzati a Strasburgo,
Francia; Istanbul, Turchia; Valencia, Spagna; Munster
e Rheindalen, Germania).
Esso ha ricevuto la
certificazione della NATO nel dicembre 2002,
dimostrandosi in grado di operare in 50 diverse aree
del mondo.
Secondo gli accordi con la Nato è previsto che il
Comando
possa
essere
impiegato,
previa
autorizzazione, anche in operazioni a guida europea.
A Solbiate non sono presenti carri armati, esplosivi e
missili; nella caserma sono presenti uomini e strutture
logistiche e di comunicazione in grado di prendere il
comando di un corpo di spedizione.
Caratteristica di questo comando è quella di essere
proiettabile in ogni parte del mondo in soli 30 giorni e
di gestire quattro divisioni (60.000 uomini).
Il comando è costituito da circa 410 ufficiali e
sottufficiali dello Stato Maggiore, provenienti da
undici paesi facenti parte della NATO, e da due unità,
una di supporto logistico, con sede a Solbiate Olona e
l’altra, per le trasmissioni, con sede a Milano, per un
totale di circa 2200 uomini.
Il Comando può attingere le “sue” truppe sia da forze
nazionali che internazionali. Per quanto riguarda le
forze nazionali il comando può attingere unità che
possono arrivare a costituire una Divisione, composta
da quattro Brigate operative (due meccanizzate, Sassari
e Aosta; una aerotrasportata, Friuli; e una alpina, Julia),
più eventuali altre due Brigate di supporto logistico.
Le forze internazionali sono messe a disposizione dai
rispettivi paesi, ed il comando può impiegare fino a tre
divisioni.
Il sistema di comando controllo e comunicazione a
disposizione del Comando è suddiviso in due strutture,
una fissa alla base e l’altra mobile, da impiegare sul
teatro operativo.
Il sistema da impiegare sul teatro operativo è dotato di
sistemi satellitari con accesso sia al sistema militare
SICRAL che ai sistemi civili.
Le strutture di NRDC-IT sono situate nella caserma
Ugo Marra e sebbene non vi siano presenti
direttamente grandi sistemi d’arma questo non vuol
dire che non vi siano già problemi di spazio; infatti
sebbene all’inizio del 2004 sia stata completata una
nuova palazzina comando la caserma ha bisogno di
ulteriori spazi soprattutto per soddisfare le esigenze
abitative dei militari presenti. A fine 2005 ha preso
quindi il via il progetto del Villaggio Monterosa, dal
costo preventivato di circa 54,5 milioni di euro e che
dovrebbe concludersi nel marzo 2009. Si tratti di un
villaggio militare, che prevede la realizzazione di 227
villette per 330mila mq, campi da calcio, tennis, basket
e piscina, una scuola, un supermercato e due zone a
verde, in previsione di future espansioni (non si sa
mai).
Il maggiore impegno del Comando di Solbiate Olona è
stato in Afghanistan dove ha assunto il comando della
missione ISAF dall’agosto 2005 al maggio 2006;
mentre attualmente (dal 1° luglio 2007 fino al 15
gennaio 2008) il NRDC-IT sarà impegnato nel
comando della componente terrestre (Land component
command, Lcc) della Forza di risposta della Nato
(Nato response force, Nrf).
TARANTO
Un porto per tre bandiere (Italia, Nato e Usa)
L’ascesa di Taranto a principale base nel Mediterraneo
incomincia nel settembre 1998 con la decisione del
Pentagono di installare a Taranto il sistema USA di
comunicazione satellitare e di spionaggio telematico
C4I.
La decisione di collegare direttamente con il sistema
statunitense C4I la base navale di Taranto al comando
della marina militare negli Stati Uniti è stata presa con
un accordo fra il governo USA e il governo D’Alema.
Allora come oggi non ci furono comunicazioni in
merito, né al Parlamento né alle commissioni difesa
(l’installazione del C4I fu rivelata invece
pubblicamente da Peacelink nel 2000).
Oggi sulle isole Cheradi, di fronte a Taranto, c’è già
un’antenna di 120 metri che collega la base navale con
il Centro della marina USA per la “interoperabilità dei
sistemi tattici” situato a San Diego in California. A
Taranto è stato così installato un centro di comando e
spionaggio del Pentagono (l’unico nell’area
mediterranea) che, collegato a uno analogo nel
Bahrain, viene usato anche per le operazioni militari in
Iraq.
Guerre & Pace
79
L’OMBRA DELLE BASI
Nell’ottobre 2002 la base di Chiapporo (Mar Grande) –
ancora non pienamente operativa – diviene comando
NATO, e in quanto tale è destinata ad ospitare il
Quartier generale USA della forza di pronto intervento
marittimo.
Con l’inaugurazione della nuova base navale di
Chiapporo nel Mar Grande Taranto ha ora non una ma
due basi militari: accanto alla nuova, che si estende su
60 ettari (la nuova base comprende 20 banchine, un
eliporto, chilometri di strade, un parcheggio, una
mensa e una sorta di cittadella in grado di ospitare
4000 persone; quanto alle aree a mare al progetto
originario si aggiungono due darsene, quattro pontili,
due banchine e impianti di depurazione) resta quella
del Mar Piccolo col suo arsenale, la scuola e la stazione
sommergibili, anch’essa già avviata all’ampliamento e
alla modernizzazione, e un deposito sotterraneo di
rifornimento dell’aeronautica.
La costruzione della base, integrata con quella aerea
della marina italiana a Grottaglie (pochi chilometri da
Taranto) è venuta a costare oltre 200 milioni di euro, di
cui un terzo a carico della NATO.
Si tratta quindi di un porto militare che sarà usato, oltre
che dalla marina italiana, da quelle degli altri paesi
NATO, soprattutto dalla US Navy. A Taranto ha sede
anche il COMITMARFOR, il comando italiano delle
forze marittime, che nel 2003 è divenuto pienamente
operativo come quartier generale della Forza marittima
ad alta prontezza operativa, uno dei tre comandi
marittimi della NATO.
Taranto ha quindi tutti i requisiti per essere sede di una
terza base navale, destinata ad ospitare forze della
marina USA. Inoltre, secondo altre fonti, Tarando
dovrebbe essere destinata ad ospitare anche la stazione
Echelon – il sistema globale a controllo statunitense in
grado di intercettare qualunque tipo di comunicazione
– fino a poco tempo fa collocata presso la base
statunitense di San Vito dei Normanni (Brindisi)
Taranto sta diventando così uno dei principali
trampolini della “proiezione di potenza” USA verso
sud ed est.
POGGIO RENATICO - FERRARA
il comando operativo dell’aeronautica per l’Italia e i Balcani
A Poggio Renatico (vicino a Ferrara) ha sede il
comando operativo delle forze aeree nazionali
(COFA) e il 5° centro operativo aereo combinato
della NATO per le operazioni NATO in Italia,
Slovenia, Ungheria e Balcani (CAOC5).
Il COFA è l’Alto Comando che pianifica e
coordina tutte le operazioni aeree, responsabile nei
confronti del governo italiano e della NATO della
difesa e della sicurezza dello spazio aereo
nazionale. Inoltre dal comandante del COFA
dipendono direttamente i Reparti Operativi
Autonomi (ROA) dislocati nei diversi teatri
operativi.
Il comandante del COFA è un ufficiale generale
dell’aeronautica con “doppio berretto”, in quanto è
anche comandante del CAOC5; pertanto
rappresenta l’elemento di congiunzione tra la
struttura nazionale e quella NATO.
COFA e COAC 5 sono il punto di conciliazione
delle catene di comando e controllo nazionale e
NATO e coordinano le Forze Aree in caso di
crisi/guerra; i loro compiti vanno dalla difesa aerea,
alle operazioni di attacco, alla gestione della difesa
missilistica di teatro; inoltre, esercitazioni aeree,
addestramento dei reparti di volo italiani,
operazioni di ricerca e soccorso (SAR).
Il COFA è chiamato a gestire e ad impiegare i
mezzi dell’Aeronautica Militare per ogni specifica
esigenza operativa. Esso svolge un ruolo chiave
80
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
nell’organizzazione della forza armata con la
responsabilità di garantire la difesa e la sicurezza sia
dello spazio aereo italiano che di quello di pertinenza
NATO.
Il trasferimento operativo da Vicenza cominciò con la
stazione NATO nel 2001 e poi nel 2002 con il COFA;
la scelta di Poggio Renatico è stata motivata in quanto
era già presente una importante installazione NATO
(un sistema radar della NATO, inserito nella catena
Nadge dell’Alleanza che proteggeva gli spazi della
Turchia e della Norvegia) e, con finanziamenti della
Alleanza Atlantica, si è potuto aggiungere una sede
protetta da utilizzare e condividere da entità nazionali e
NATO.
Dalla prima metà degli anni ’90, in funzione delle
nuove strategie della NATO volte più a SUD-EST, lo
stato maggiore dell’aeronautica costruisce nella
pianura ferrarese un grande e unico centro di comando
e controllo di tutte le operazioni aeree (incluse quelle
di soccorso). Il bunker (struttura stagna) è a prova di
atomica e posto su tre piani interrati, con una sala
operativa con una trentina di computer.
Nasce così il COFA dove confluiscono tutti i segnali
radar ubicati sul territorio nazionale, ma anche quelli
degli aerei si sorveglianza della NATO (Awacs) cioè
tutto quello che entra ed esce o sorvola lo spazio aereo
nazionale (civile e militare).
La fase di ammodernamento del COFA e COAC 5 (5°
centro operativo aereo combinato della NATO per le
operazioni NATO in Italia, Slovenia e Ungheria) è
continuata sino al giugno 2004 per garantire l’alloggio
delle circa 1600 persone impegnate nella base. Il
bunker ha subito negli scorsi anni lavori di
riconfigurazione degli spazi interni, per l’installazione
di un nuovo sistema di comando e controllo NATO
ACCS (Air Combat and Control System).
CAMERI
Un altro tipo di base, per costruire armi
Alla catena di basi statunitensi si affiancano poi tutta
una serie di altre strutture non meno importanti
(comandi, depositi, centri di comunicazione, poligoni
di addestramento, stazioni radar).
Una di queste, anche se con una funzione molto
diversa da quelle esposte finora, è, o meglio lo sarà nel
caso peggiore, l’aeroporto di Cameri, in Piemonte. Qui
non si tratta di ospitare truppe o depositi di armi bensì
di costruirle, le armi; e se la produzione bellica è
certamente il secondo pilastro delle politiche di guerra,
in questo caso quanto qui si andrebbe a produrre per le
forze armate nazionali andrebbe direttamente a
sostenere anche lo sviluppo del sistema militare Usa.
Certamente nell’aeroporto piemontese non ci sono
statunitensi e non ne sono previsti, ma qui rischia di
vedere la luce il JSF, il nuovo controverso aereo da
guerra statunitense, con capacità nucleari e dai costi
esorbitanti. L’aereo, made in Usa, è costruito
esclusivamente sulla base delle esigenze operative
degli Stati uniti, i quali, per contenerne i costi, hanno
invitato fin da subito i più fidi alleati a farsi finanziare
il prototipo. Attualmente Cameri ospita un reparto
manutenzione velivoli dell’aeronautica militare e una
struttura di Agusta Westland, ma l’aeroporto è già stata
valutato come sito per l’assemblaggio finale e le prove
di volo per quello che potrebbe essere il prossimo
aereo da guerra dell’aeronautica militare; cosa questa
sempre più probabile dopo che il 7 febbraio scorso il
sottosegretario alla Difesa Forcieri ha firmato al
Pentagono il nuovo memorandum d’intesa del
programma JSF.
In realtà la produzione non riguarderebbe solo Cameri.
Secondo quanto dichiarato dal sottosegretario di stato
alla Difesa Forcieri in audizioni alle commissioni
difesa di Camera e Senato già ora il progetto JSF
coinvolge circa quaranta siti industriali in dodici
regioni, con Alenia Aeronautica come capocommessa e
altre quindici ditte che hanno acquisito contratti e
impegni per il futuro. Da qui anche una certa
confusione sul numero dei posti di lavoro: la
previsione di diecimila è riferita all’insieme di tutte le
imprese che sono o “potrebbero” essere coinvolte, ma è
importante sottolineare che non si tratta di nuovi posti
ma di manodopera già oggi occupata su altri
programmi. A questo punto risulta più credibile la cifra
di 200 occupati nella nuova linea a Cameri e qualche
altro centinaio nell’indotto.
Guerre & Pace
81
L’OMBRA DELLE BASI
manodopera, che nel frattempo
avrà finito con la lavorazione del
programma EFA. Il costo poi dei
singoli aerei resta ancora molto
vago: secondo quanto dichiarato
dal sottosegretario Forcieri in
commissione Difesa del Senato la
previsione riguarderebbe circa
100 aerei per un costo che varia
dai 45 ai 55 milioni di euro a
seconda della versione, mentre
nel comunicato stampa emesso
dopo la firma del memorandum si
specifica che per l’acquisto dei
velivoli l’impegno per l’Italia
sarà di 11 miliardi di dollari…
RISORSE BRUCIATE
Linea di montaggio del prototipo dell’ F-35.
I COSTI DEL NUOVO GIOCATTOLO
La firma di questo accordo con gli Usa ha un costo non
da poco: oltre ai 1.028 milioni di dollari per cui l’Italia
si era impegnata nella precedente fase, ulteriori 903
milioni di dollari dovranno essere pagati da qui al
2046. Per quanto riguarda il ritorno alle imprese
nazionali, a fine 2006, a fronte di un preventivato
ritorno di 1.018 miliardi di dollari, solo 191 si sono
trasformati in contratti. È vero che anche questa firma,
come la precedente, non vincola l’Italia all’acquisto dei
velivoli in quanto questo passo è rimandato almeno al
2013, quando si presume sarà pronta la produzione di
serie, ma è altrettanto vero che se non si mettono in
atto per tempo strategie alternative sarà molto più
difficile sottrarsi domani a tale scelta, soprattutto dopo
aver già investito quasi due miliardi di dollari e senza
avere in mano soluzioni concrete per il reimpiego della
82
Ma per cosa bruceremo tanti
soldi? Nei progetti questo nuovo
aereo da guerra dovrebbe
costituire la componente aerotattica di proiezione, cioè
un aereo progettato per l’attacco al suolo con la
caratteristica, per una delle versioni a cui è interessata
sia la marina che l’aeronautica, di poter operare anche
da piste corte e da portaerei o comunque da navi dotate
di ponti di volo di dimensioni ridotte, come la nave
Garibaldi o le tre navi da sbarco della marina militare.
In pratica, è lo strumento ideale per fornire la
necessaria componente aerea alla “forza nazionale di
proiezione dal mare” che abbiamo visto all’opera
durante il dispiegamento delle truppe italiane in
Libano, permettendo così una ancora più forte
integrazione con le forze Usa; non a caso il progetto,
che nasce negli Usa e si integra totalmente nel concetto
del sea basing, è stato voluto fortemente dai Marines,
in quanto strumento ideale per la proiezione della
forza. Cioè per andare a portare la guerra in giro per il
mondo.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
UN USO SOCIALE DEL TERRITORIO
di Andrea Licata , intervento al convegno Disarmare il territorio, Brescia 2007
La conversione di basi militari, benché non sia un
argomento di moda a livello istituzionale in Italia, è già
avvenuta in molte parti nel mondo perché se l’utilizzo
di spazi da parte privata di strutture militari è un costo come vedremo - la loro liberazione invece offre
moltissime opportunità. Insieme al Comitato contro
Aviano 2000 abbiamo curato un (Dal militare al civile,
Ed. Kappa Vu) che rappresenta una delle poche
pubblicazioni sul tema.
I movimenti per la pace devono essere ambiziosi, non
ci interessa la sola testimonianza ma cominciare a
vincere alcune sfide, visto che, come sostiene Luca
Mercalli facendo un paragone tra la situazione dei
cambiamenti climatici e le attività militari energivore,
di tempo non è che ne rimanga molto. Sulla base dei
grafici proposti da Mercalli ci sono due possibilità
rispetto al surriscaldamento e all’esaurimento delle
risorse energetiche: o si va, dopo lo “sviluppo senza
limiti” a una “guerra senza limiti”, cioè a una lotta
senza limiti per le ultime risorse, una lotta non tra
esercito e esercito ma a tutto campo nella quale i civili
sono le prime vittime, una lotta per colpire l’avversario
colpendo la sua economia, il suo sistema sanitario,
destabilizzando per esempio la borsa, ecc.; oppure ci si
dirige in maniera molto urgente verso la
smilitarizzazione, la riconversione, la sostituzione di
queste attività aggressive a livello umano e ambientale
con progetti molto più utili e intelligenti.
PORRE DEI LIMITI
La situazione generale in cui ci collochiamo prevede
progetti militari dichiaratamente rivolti verso i civili:
oltre il 90% delle vittime dei conflitti moderni sono
civili, come si vede con chiarezza nella guerra in atto
in Iraq, dove ci sono già stati oltre 650.000 morti.
Un’altra delle caratteristiche dei nostri tempi che
dovremmo considerare è l’accelerazione delle
decisioni, perché se c’è un’accelerazione della politica
che promuove queste guerre dovrà esserci anche, se
vogliamo vincer, un’accelerazione dei movimenti.
Le strategie militari oggi prevedono il deliberato uso
della forza nei confronti delle economie civili – cioè si
attacca un paese per distruggerne l’economia (lo
abbiamo visto in molti casi, come in Serbia nel 1999 e
recentemente in Libano). Gli eserciti hanno un progetto
separato deliberatamente rivolto contro i civili che
rende importante e urgente un nostro progetto di
risposta.
Altra vittima degli interventi militari oggi è certamente
l’ambiente, aggredito con tecniche di distruzione
ambientale che provocano inquinamento, come
abbiamo visto nel 1999 con l’attacco alle industrie
chimiche.
Siamo quindi di fronte a situazioni molto pericolose,
anche nuove se vogliamo, e da qui, a mio parere, la
nascita di movimenti anche consistenti con una nuova
consapevolezza.
Quello che mi è parso di poter vedere a Vicenza è un
movimento molto concreto che vuole raggiungere
risultati per porre un limite; un movimento del limite,
che si è reso conto che c’è un progetto di sviluppo
senza limiti e di guerra senza limiti.
Per entrare nel concreto, a Vicenza non c’è solo la
caserma Ederle, si vuole fare il Dal Molin, si vogliono
fare due villaggi militari, un ospedale per reduci di
guerra e probabilmente anche un grande luogo per le
esercitazioni, riarmare tutti i siti della provincia in
chiave offensiva: un’operazione militare in grande
stile.
Il discorso del limite ritorna, e dobbiamo porre un
limite e proporre delle alternative alle basi già in
attività, prima di arrivare alla riconversione.
LE RAGIONI DELLA RICOLLOCAZIONE
Prima di entrare nel merito dell’argomento - quello
delle opportunità della riconversione dal militare al
civile -dobbiamo premettere che le basi militari non si
collocano su un certo territorio per aiutare l’ambiente o
l’economia, anzi economia e ambiente sono le loro
controparti.
Oggi è in corso in tutto il mondo, e in Europa in
particolare, una ricollocazione delle basi militari, per
ragioni non solo geopolitiche - anche se queste sono
importanti, come nel caso dell’Italia e della Bulgaria,
luoghi più vicini al fronte di guerra: l’Italia, se questo
processo continuasse, diventerebbe la principale
piattaforma per i prossimi conflitti, con conseguenze
politiche notevoli, tra l’altro quella di annullare la
politica estera italiana, perché non ci saranno più
margini per essa in quanto, se si creano basi di guerra
per il fronte africano e il fronte mediorientale, com’è
dichiarato in maniera chiara nei documenti, non ci sarà
in futuro la possibilità di discutere se concedere le basi,
diventerà una scelta definitiva.
Ci sono altre quattro ragioni per le quali le basi
vengono ricollocate, sulla base di decisioni prese in
forma non democratica e nascosta, fuori dagli stessi
trattati militari come conferma il caso del Dal Molin:
non si sa chi abbia deciso, come, quando, non c’è un
documento ufficiale - anche questo è un superamento
del limite.
La prima condizione per la scelta del luogo dove
collocare una base militare è quella dei costi. Le basi
Usa, che sono quelle di cui stiamo parlando, vengono
previste nelle situazioni più vantaggiose. È ormai noto
che i cittadini italiani contribuiscono per circa il 41%
alle spese di stazionamento delle truppe statunitensi:
condizione favorevole che induce gli Stati uniti a
posizionare le loro strutture in Italia, così come è
altrettanto conveniente mantenerle in Giappone (ci
sarebbero naturalmente discorsi più ampi da fare: è
chiaro che posizionarsi militarmente in un paese
significa anche condizionarne la politica in generale e
quella economica in particolare).
Guerre & Pace
83
L’OMBRA DELLE BASI
La seconda condizione ritenuta favorevole è quella
della deroga ambientale, per cui si cercano paesi e zone
in cui la legislazione ambientale sia debole e/o ci siano
scarsi controlli. Questo perché le attività militari quelle ordinarie, quindi anche le esercitazioni e il
mantenimento della struttura - prevedono l’utilizzo di
una serie di sostanze inquinanti (solventi, metalli
pesanti, sostanze tossiche) che colpiscono il terreno,
rendendo inevitabile la bonifica, che sarà molto costosa
e difficoltosa (ed era negli anni Novanta una delle
principali preoccupazioni del Pentagono perché con la
dismissione di molti siti si trovò di fronte a enormi
spese da affrontare).
Come viene risolta questa condizione nel caso italiano?
Al momento della chiusura della base il governo Usa
vanta delle migliorie, cioè sostiene di aver portato a
miglioramenti del territorio, principalmente attraverso
la costruzione di prefabbricati, e quindi “si astiene
dalle spese di pulizia del sito”.
È di qualche giorno fa la notizia dell’inquinamento
della Ederle: non sarebbe una novità, infatti nel 1995
su 9.000 siti il dipartimento di stato Usa individuò
27.000 aree inquinate, quindi almeno tre per ogni sito,
facendo la media. L’inquinamento c’è sempre: tutte le
basi inquinano e sono inquinate. Tra le forme più gravi
c’è quello delle falde acquifere. Nel caso di Vicenza le
basi sarebbero proprio sopra le falde acquifere a
distanza di un metro. Ad Aviano - nel libro l’abbiamo
scritto - nelle falde c’è inquinamento da bromacile che
ci porteremo avanti per parecchio tempo.
Le falde acquifere sono una delle risorse più colpite,
ma in realtà l’inquinamento riguarda anche il terreno e
altre varie forme, tra le quali l’inquinamento acustico,
di cui abbiamo già parlato parecchie volte.
TOGLIERE L’”OSPITALITÀ”
La terza caratteristica congeniale è quella
dell’ospitalità: ospitalità politica, cioè giornali
favorevoli, governi più o meno accondiscendenti, ma
anche corruzione, in alcuni casi (e in Italia sicuramente
c’è un legame tra la costruzione delle basi Usa e la
mafia).
Spesso nascono invece critiche rispetto alla questione
dell’impatto economico benefico di una base. È stato
scritto che “le argomentazioni economiche in favore
della base, sebbene false, sembrano essere state il
fattore più importante nel frenare l’opposizione locale.
Una volta che la costruzione della base cominciava il
divario tra le premesse e la realtà diventava chiaro: la
realtà includeva la corruzione del comune, impiego
temporaneo minimo, qualche contratto a livello di
servizi, spesa trascurabile, carenza di affitti, tensione
sociale, criminalità”. Già da questo si vede come la
base porti in realtà molti svantaggi economici.
Una quarta variabile riguarda i giorni nostri: le truppe
Usa vivono una grande difficoltà, sia sul fronte, come
abbiamo visto, sia in generale. L’Italia in questa fase è
un buon biglietto da visita da presentare al momento
del reclutamento, perché hanno grande difficoltà a
reclutare truppe per il fronte, c’è un dissenso ormai
pubblico, con i soldati che firmano a migliaia ed
84
esprimono il dissenso in vari modi, dalla protesta per
avere più diritti alla diserzione, che riguarda migliaia di
persone. Tutte cose che dobbiamo tenere presente noi
che vogliamo opporci alle basi militari. Se vogliamo
arrivare alla loro chiusura dobbiamo anche creare delle
condizioni di non ospitalità sociale. Appunto questo è
il tentativo che si sta facendo a Vicenza: modificare le
condizioni favorevoli alla base.
LA RICONVERSIONE È POSSIBILE
In teoria se non ci fosse questo flusso economico,
questo finanziamento, le basi non potrebbero esistere;
se esistesse un controllo ambientale rigido, sarebbe
impossibile operare; se non ci fosse ospitalità ma
appunto ogni mattina ci fossero i picchetti, prima o poi
la situazione diventerebbe ingestibile.
Esistono quindi molte maniere concrete e tecniche che,
combinate, i movimenti possono utilizzare per mettere
in crisi queste strutture. Certo serve tempo, servono i
numeri però è possibile: oggi i movimenti sociali
utilizzando delle tecniche combinate in maniera non
soltanto spettacolare, non riducendosi dunque soltanto
alla manifestazione, hanno notevoli possibilità di
successo. Possiamo citare i casi di Scanzano, della Val
di Susa, della Sardegna, dove il clima di crescente
inospitalità è probabilmente una delle ragioni che
hanno portato alla chiusura della Maddalena, e ora le
difficoltà di costruire una nuova base a Vicenza.
È possibile in termini pratici recuperare un sito militare
e riconvertirlo a scopi civili magari aumentando i posti
di lavoro? In Germania l’ex base aerea Nato di Werl è
divenuta una combinazione di attività commerciali e
logistiche con un sistema energetico a fonti rinnovabili
e una zona residenziale: ci lavorano circa mille
persone, con un aumento occupazionale.
Ad Achim, una piccola città vicino a Brema, il
processo di recupero ha mantenuto inalterata un’area
verde a disposizione dei cittadini e nel contempo sono
nate attività commerciali e un’area residenziale. La
base militare con deposito di munizioni di BrugenBrache è stata rimboschita e inserita con successo in
percorsi turistici e culturali, sono stati avviati corsi di
riqualificazione nei settori del giardinaggio,
dell’architettura
del
paesaggio,
dell’economia
forestale, della lavorazione del legno e dell’edilizia e
sono nate attività nuove come la cooperativa di ex
lavoratori della base che opera nel settore della
ristorazione e del turismo. L’ex base aerea di WegbenWidenrath è stata trasformata in un centro collaudi per
le ferrovie e in un distretto commerciale; la struttura
impiegava un numero di civili compreso tra i 500 e i
700, prevalentemente tedeschi. Spesso questi impieghi
sono stati riqualificati e maggiormente retribuiti.
Nel mondo sono 8.000 le stazioni militari che sono
state riconvertite dopo il 1989. In Renania Palatinato
(Germania) 132.000 lavoratori hanno vissuto il
passaggio di riqualificazione da militare a civile; dei
500 siti militari in una sola regione, in pochi anni circa
due terzi avevano già ottenuto forme di riuso. I casi di
riconversione riguardano anche l’Irlanda del Nord, le
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
Filippine, Hong Kong, Panama, il Sudafrica. Ci sono
pubblicazioni che riguardano gli stessi Stati uniti, così
come la Scandinavia e i Paesi baltici.
La conversione è sicuramente possibile. L’ingegnere
vicentino Vivian (www.altravivenza.it) ha confermato
gli studi fatti ad Aviano: ha calcolato il numero di posti
di lavoro che si otterrebbero recuperando la caserma
Ederle attraverso attività basate sulle energie
rinnovabili. Questo è molto interessante perché
all’inizio della caserma Ederle non si parlava, a
Vicenza, mentre ormai si fanno ragionamenti
complessivi, a tutto campo. Le tre curve individuate
dall’ingegnere mostrano come la costruzione del Dal
Molin porterebbe a una fase speculativa iniziale e poi a
una fase discendente, mentre invece la riconversione
massima porterebbe ad aumenti occupazionali.
PASSARE A PROPOSTE CONCRETE
Quello delle energie rinnovabili - l’abbiamo visto
anche con Marcalli - è un tema di grande attualità con
il quale mostriamo il nostro realismo e l’opposizione a
guerre per il petrolio sempre più disastrose e
improponibili. Grazie alle energie rinnovabili, adatte
agli ampi spazi delle aree militari, si prevedono
100.000 posti di lavoro in Italia e 2 milioni in Europa e questo prima che l’Ue, pochi giorni fa, richiedesse
che queste diventino il 20% della produzione
complessiva di energia. Ci si può allora riappropriare
di siti e luoghi militari per progetti veramente utili,
sostenibili, nel senso vero della parola, con progetti
coerenti.
Questi studi, condotti nel tempo libero da associazioni
e da studiosi, arrivano alle stesse conclusioni, cioè che
il recupero di queste aree sarebbe sicuramente
vantaggioso anche economicamente.
Voglio sottolineare questo aspetto economico,
elemento che i movimenti per la pace hanno
sottovalutato. Siamo oggi di fronte non solo alla delega
politica ma anche alla delega economica.
Soltanto con il prelievo di enormi flussi di denaro si
possono mantenere le basi militari: senza questi soldi
non potrebbero essere costruite e non potrebbero
operare. Questa è quindi una grande sfida che i
movimenti prima o poi dovranno affrontare.
Nel 2003 la manifestazione contro la guerra in Iraq - 3
milioni di persone, una delle più grandi del mondo, con
una popolazione al 90% contraria alla guerra in Iraq
ma, e qui vediamo ancora il progetto separato, con un
governo che gestiva l’opzione militare attraverso la
delega - si è sciolta senza nessuna proposta concreta,
non ha prodotto successivamente iniziative pratiche, ad
esempio mettendo in discussione il finanziamento alla
guerra in Iraq. Dobbiamo uscire dalla dimensione
spettacolare della politica in cui a volte siamo relegati e
andare verso progettualità come questa della
riconversione. Questi movimenti crescono anche
velocemente: si tratta di mantenere la consapevolezza
del legame tra gli aspetti sociali e quelli complessivi
della politica di guerra e mi pare che in alcuni casi ci
stiamo riuscendo.
VICENZA: UN PROGETTO ALTERNATIVO
Per tornare sull’aspetto specifico della riconversione,
ad Aviano come a Vicenza abbiamo cercato di vedere
quali aree possiamo coinvolgere e quali attività
possiamo fare. Quindi abbiamo provato a definire
progetti specifici immaginando un recupero dell’area
diversificato, attraverso la creazione di diverse
iniziative e immaginando usi sociali e tecnologici.
Quella che proponiamo è una riconversione di tipo
preventivo, che serva a prevenire nuovi conflitti ma
anche ad accelerare i tempi del passaggio al civile; ci
interessa diminuire l’ospitalità nei confronti delle basi
militari, ma anche fare da subito iniziative di facile
attuazione. Ne abbiamo proposte tre.
In primo luogo la creazione di un fondo regionale per
la riconversione da militare a civile - proposta fino a
questo momento inascoltata ma che sarebbe molto utile
perché in Friuli-Venezia Giulia ci sono caserme
abbandonate, poligoni di tiro non bonificati ecc. (tra
l’altro i fondi Konver per la conversione c’erano, ma
adesso non ci sono più).
La seconda proposta è quella di un monitoraggio
indipendente, perché queste aree sono inquinate ma
non si capisce mai che tipo di inquinamento c’è. Dato
che oggi l’acqua è sempre più importante, conoscere il
tipo di inquinamento ci permetterebbe anche di fare
valutazioni sul tipo di attività da proporre nel territorio:
per esempio, se il terreno è totalmente inquinato
l’opzione agricola risulta compromessa, e questo
dobbiamo saperlo prima altrimenti si perdono degli
anni. Preventiva anche in questo senso, non solo in
polemica con la guerra preventiva, ma per il senso di
urgenza che avvertiamo.
La terza sfida che proponiamo è quella di creare da
subito attività economiche alternative, possibilmente
nei pressi della base: questo potrebbe diminuire
l’ospitalità nei confronti del sito, spegnere il ricatto
occupazionale. A Vicenza stiamo progettando di
mettere in piedi corsi di formazione per lavoratori,
preventivi appunto, in modo che al momento in cui la
base chiuderà una parte del personale si possa
reimpiegare. Iniziative da fare subito, e se all’estero
sono stati ottenuti degli ottimi risultati in condizioni
normali, con una chiusura calata dall’alto, noi
immaginiamo di poter fare meglio e di più, cioè di
avere attività non speculative, non inquinanti.
Ecco, in tutto questo ci sentiamo molto realisti:
abbiamo veramente la possibilità di respingere al
mittente l’accusa di estremismo, che in realtà
appartiene ai sostenitori della guerra preventiva, perché
noi proponiamo un’economia non di guerra, progetti
politici complessivi.
In conclusione, il movimento “No Dal Molin” ha un
progetto alternativo, un progetto non autoritario nei
confronti del territorio, che prevede la discussione; un
progetto alternativo che prevede non le guerre per il
petrolio ma il recupero di queste strutture per le energie
rinnovabili; un progetto alternativo nei confronti degli
altri popoli, verso i quali propone relazioni pacifiche.
La sfida è aperta e dipenderà dai numeri e dalla qualità
delle proposte.
Guerre & Pace
85
L’OMBRA DELLE BASI
UNA RETE NO-BASI
di Herbert Docena, Guerre & Pace aprile 2007
Il consolidarsi di una rete internazionale che lotta per l'abolizione delle basi militari straniere
segna un importante passo avanti per il movimento globale di pace e giustizia
Dal 1999 la base aerea di Eloy Alfaro a Manta, in
Ecuador, è stata utilizzata come “avamposto operativo”
dall'esercito statunitense e questa è soltanto una delle
oltre 730 installazioni militari attualmente disseminate
in circa cento nazioni del mondo.
Il 9 marzo cinquecento visitatori si sono presentati al
cancello principale. Uno di loro ha raggiunto la
recinzione e ha attaccato un adesivo blu e rosso sul
quale era scritto “No Bases”, con una X sulla lettera
“o” formata dalle due parti di un fucile spezzato. Un
piccolo gesto simbolico per un nuovo movimento
internazionale formatosi di recente con un grande
obiettivo: la chiusura di tutte le basi militari sparse nel
mondo. Con la riuscita conferenza che ha lanciato la
Rete internazionale per l’abolizione delle basi (NoBasi), dal 5 al 9 marzo a Quito e a Manta, in Ecuador,
questo obiettivo è diventato un po’ più vicino.
L’OPPOSIZIONE CRESCE
La conferenza ha riunito oltre quattrocento attivisti di
base che rappresentano l'avanguardia dei gruppi
regionali, da Okinawa alla Sardegna, a Vieques,
Pyongtaek, le Hawaii e dozzine di altre località sparse
in almeno quaranta nazioni: probabilmente il più ampio
raduno della storia contro le basi militari. Erano
presenti ambientalisti, femministe, pacifisti, oppositori
alla guerra, contadini, parlamentari, lavoratori,
studenti, organizzazioni religiose, gruppi per i diritti
umani e vari network locali e globali. Ma qualunque
conteggio finale delle presenze è comunque inferiore
all’estensione dell’adesione: alla vigilia dell’incontro
nelle mailing list di partecipazione un attivista
islandese anti-basi ha voluto chiarire che essere assenti
dall'evento non vuole dire essere assenti dal
movimento. La varietà, sia geografica che politica, dei
gruppi che hanno partecipato dimostra facilmente
quanto sia diventato ampio il movimento contro le
basi.
Le conferenze internazionali sono spesso etichettate
come occasioni per parlare e niente più. Ma trovarsi
assieme e parlare è il primo importante passo per
costruire una comunità. Attraverso numerosi seminari
autorganizzati, rassegne di video e forum i partecipanti
hanno approfondito la comprensione del ruolo che
hanno le basi nell'assetto geopolitico globale, le varie
forme che assume la presenza militare e l'impatto che
questa realtà viene ad avere sull'ambiente e sulle
comunità locali. Vi sono stati anche scambi di
esperienze rispetto alle strategie e agli approcci da
adottare contro le basi una volta tornati nella propria
realtà.
Anche il Pentagono si è reso conto delle crescenti
opposizioni locali: sono proprio queste campagne
popolari ad aver rovinato i loro piani.
Ma non è tutto. Ciò che è stato veramente significativo
è che i partecipanti sono andati oltre le discussioni
86
sull'impatto nocivo delle basi e sul come combatterle.
Si sono impegnati a fondo e, un incontro dopo l'altro,
sono riusciti a mettere in piedi una rete organizzata,
definendo delle linee guida, concordando su un più
efficace livello di coordinamento e decidendo di
attuare piani più concreti per un'azione comune. Il
compito è stato difficile ma illuminante.
LE QUESTIONI PIÙ IMPORTANTI
Mentre i partecipanti tentavano di chiarire cosa
esattamente li legasse gli uni agli altri, sono emerse
questioni potenzialmente spinose ma fondamentali: la
rete si dovrebbe occupare solo di basi militari all'estero
o anche di quelle interne al paese di appartenenza?
Dato che hanno tutte scopi militari, non dovrebbero
essere abolite tutte, indipendentemente dal fatto che
siano statunitensi o cubane? Cosa si dovrebbe fare per
le basi “domestiche” alle Hawaii, Guam o a Porto
Rico? O quelle nei paesi occupati come l'Iraq e
l'Afghanistan? Come comportarsi rispetto alle basi
militari della Nato che sono presumibilmente tanto
“nazionali” quanto “internazionali”? Se la rete si
occupa solo delle basi in terra straniera, cosa la
distingue da tutti quei gruppi di destra, in Europa o nel
Medio Oriente, che si oppongono alle basi solo perché
sono “straniere”? E mentre tutti hanno concordato sul
fatto che nessun paese può avvicinarsi agli Stati uniti
per numero di avamposti, resta comunque da
comprendere quanto sforzo debba essere messo in
campo dalla rete contro le basi di altre nazioni come la
Russia o la Francia.
Tutte questioni che si sono rivelate importanti, perché
le risposte modificano i valori e l'identità stessa della
rete. Sottolineare tali aspetti è stato necessario per
definire i punti di dissonanza e concordanza delle varie
correnti interne al network e forse anche interne a un
più ampio movimento contro la guerra.
LE DIFFERENZE
In linea di massima, e forse troppo categoricamente,
possiamo dire che all'interno di questa rete ci sono
coloro che si oppongo a queste basi da una prospettiva
“antimperialista”. Considerano le basi sia come
strumento, sia come manifestazione visibile
dell'imperialismo. Sono contro le basi statunitensi su
suolo straniero, ma allo stesso tempo difendono il
diritto di Cuba o dell'Iran di avere basi militari
nazionali per autodifesa. All'interno di questa corrente
ci sono ulteriori differenze: mentre tutti sono concordi
nello stabilire che gli Usa sono la principale minaccia,
diversi ritengono che anche l'Europa segua delle
politiche di stampo imperialista e sia ugualmente
pericolosa.
Poi ci sono altri gruppi che si oppongono alle basi in
un'ottica “antimilitarista”: sono contrari a tutte la basi
militari, indipendentemente da chi le controlla.
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
Questo dibattito ha fatto emergere una seconda
questione, legata alle idee di “nazionalismo” e di
“sovranità”. In molti contesti, principalmente nei paesi
del Sud ma non solo, l'opposizione alle basi militari
nasce da principi fortemente nazionalisti, che vedono
nelle basi militari una minaccia “esterna” contro la
“sovranità”. In questo senso il “nazionalismo” viene
percepito come un necessario baluardo contro il
colonialismo.
In altri contesti queste stesse parole, “nazionalismo” e
“sovranità”, hanno assunto un significato negativo.
Sono state utilizzate per ottenere consensi per muovere
guerre contro “l'altro” e per giustificare misure
repressive contro gli “stranieri”. Prudentemente, la rete
ha assunto una linea di condotta posta tra
autodeterminazione e sciovinismo.
NO IN NESSUN CORTILE
Dopo dieci ore di animato ma cordiale dibattito la
bozza di dichiarazione presentata alla riunione plenaria
è stata lodata come chiara ma leggermente sfumata,
cosa che ha permesso di ottenere l'approvazione tanto
degli antimilitaristi quanto degli antimperialisti (oppure
si potrebbe dire che nessuno dei due gruppi l'ha
rifiutata).
Ciò che ha qualificato la giornata è stata la scelta di
estendere gli obiettivi della rete non solo alle basi
militari all'estero ma a “tutte le infrastrutture utilizzate
per guerre di aggressione”, ciò che richiede una più
sofisticata
comprensione
della
complessa
configurazione delle basi militari situate negli Stati
Uniti, nei paesi Nato e ovunque. Una decisione gradita
a coloro che volevano una forte focalizzazione sulle
basi militari straniere poste all'estero - molte delle quali
Usa e probabilmente usate per guerre di aggressione ma allo stesso tempo non ha contraddetto coloro che
desideravano ampliare l'obiettivo del proprio lavoro.
A differenza della sciovinista posizione di destra, la
dichiarazione chiarisce che la critica della rete alle basi
non è basata sulla logica del Nimby (not-in-mybackyard, non nel mio cortile, cioè le basi militari
straniere vanno bene fintanto che sono gli altri a
doverne subire le conseguenze: frastuono, spazzatura,
criminalità) ma sulla logica del Nyaby (not in any one's
backyard, no in nessun cortile: le basi militari straniere
sono negative perché rafforzano la militarizzazione, il
colonialismo, la politica imperialista e il razzismo).
Alla luce dell'influenza delle obiezioni dei gruppi di
destra alle basi, l’opposizione della rete a tutte le basi e
non solo a quelle in alcune località offre un diverso
punto di riferimento basato sull'internazionalismo e
sulla solidarietà.
DEMOCRAZIA E ORGANIZZAZIONE
Non deve essere sottovalutata, per un gruppo appena
nato che ancora deve definire i propri obiettivi,
l'importanza di discutere e raggiungere accordi sulle
premesse dalle quali partire.
Helga Serrano, una delle organizzatrici della
conferenza, ha concluso: “Le basi politiche e
ideologiche di unità della rete sono più solide di quanto
ci attendessimo”.
Vero è che la pianificazione successiva di azioni e
strategie concrete da mettere in atto non è stata
altrettanto chiara: è emersa infatti una generica lista di
idee e non l’indicazione di vere e proprie priorità. Ma
senza il raggiungimento di un accordo per una visione
comune la rete sarebbe potuta rimanere paralizzata
dalla confusione e da contraddizioni irrisolte. La
stesura di principi collettivi ha gettato le fondamenta
per le azioni future. Mettere in atto queste azioni
richiede un certo grado di organizzazione: attenzione
contro le minacce alla propria autonomia, cautela
rispetto alle tendenze accentratrici.
Molti delegati desiderosi di raggiungere i propri
obiettivi hanno espresso la necessità di unire l'apertura
e l’orizzontalità a un'azione strategica e organizzata. La
sfida, come espresso da una commissione, era quella di
rafforzare la cooperazione all'interno della rete senza
centralizzare e burocratizzare il tutto.
Accettando la necessità di una più intensa interazione
ma senza affrettare troppo il processo, i partecipanti
alla fine hanno raggiunto un punto di accordo
decidendo di rimanere comunque gruppi separati ma
con un elevato livello di organizzazione. È stato deciso
di creare un comitato internazionale aperto per il
coordinamento, che avrà un chiaro e circoscritto
mandato politico e una serie precisa di responsabilità
nella conduzione di progetti collettivi.
NO BASI, NO GUERRA, NO GLOBALIZZAZIONE
Permangono significativi ostacoli da superare: la rete
deve riuscire a raggiungere ancora molti attivisti locali,
in particolare in Asia centrale e occidentale; la
questione delle basi non è ancora in cima alla lista
delle priorità dei movimenti contro la guerra; la rete è
priva di risorse perché il tema delle basi viene
percepito come troppo radicale per i semplici
simpatizzanti e all'interno del network stesso l'accesso
alle risorse risulta non uniforme; i testi devono essere
tradotti meglio... e così via.
Nonostante questi limiti la rete è riuscita ad andare
molto avanti e la conferenza rappresenta una pietra
miliare che segna il suo consolidarsi, tanto come spazio
di incontro per organizzazioni, coalizioni e movimenti,
quanto come strumento organizzativo che può
coordinare e sostenere globalmente campagne di lotta
messe in atto a livello locale. Ma c'è di più. Lo
sviluppo di questa rete potrebbe essere considerato
come la prova di un ulteriore rafforzamento dei
movimenti antiglobalizzazione/antiguerra che sono nati
nell'ultimo decennio.
Se l'idea era precedente, la vera nascita della rete può
essere rintracciata nella riunione dei movimenti contro
la globalizzazione e quelli contro la guerra appena
dopo l'invasione dell'Iraq, a Jakarta, in Indonesia, nel
maggio del 2003, dove era stata proposta la creazione
di una rete internazionale contro le basi da considerarsi
come prioritaria per i movimenti. Alcune
organizzazioni presenti in questo incontro avevano
Guerre & Pace
87
L’OMBRA DELLE BASI
coordinato il 15 febbraio 2003 la giornata globale di
azione contro la guerra in Iraq e in seguito portato
avanti questo tema durante i vari Social forum, a
livello mondiale, locale e regionale. Come ha
affermato Wilbert ven der Zeijden, un attivista che ha
avuto modo di seguire il network nel corso degli anni:
“Tutto questo non sarebbe stato possibile senza il
World Social Forum”, che ha concesso diverse
opportunità
per
superare
ostacoli
altrimenti
insormontabili o troppo onerosi per essere gestiti.
Il consolidarsi della rete dimostra che il movimento è
capace non solo di unificarsi attorno a una proposta ma
anche di farla evolvere ulteriormente.
UNA RISPOSTA GLOBALE
Spesso viene sottostimato e non menzionato
abbastanza il grado di efficienza e organizzazione
raggiunto dal movimento.
Quello che va apprezzato, ma non deve essere dato per
scontato, è che gli attivisti, che non sono addestrati o
pagati come organizzatori professionisti di simili
eventi, sono riusciti a realizzare ambiziosi progetti con
costi notevolmente più bassi rispetto a quelli spesi
dalle imprese o dai governi per analoghe
manifestazioni. I movimenti stanno imparando e stanno
diventando più efficienti e questo preannuncia una
crescente capacità di azioni organizzate.
Questo rafforzamento mostra che i movimenti stanno
volontariamente divenendo più strategici.
La rete è una campagna con un “singolo obiettivo”,
focalizzata sulla questione delle basi e, come avverte
Lindsey Collen, un'attivista delle Mauritius, “la
frammentazione sulle singole questioni può portare a
successi a breve termine ma conduce a un fallimento
sul lungo periodo”. Ma il focalizzarsi sulle basi non
confonde e non divide, anzi permette una
comprensione più ampia della questione all'interno
della strategia globale di dominio. Piuttosto che
dividere, l'enfasi sulle basi permette una più olistica
comprensione di come l'aspetto aziendale e quello
coercitivo della globalizzazione militarizzata si siano
fusi assieme per perpetuare la spogliazione e
l’ingiustizia. Per dirla come Joseph Gerson, un esperto
attivista antibasi: “Le basi mantengono lo status quo”.
La decisione di focalizzarsi sulla questione delle basi
in modo coerente e sostanziale nasce da una semplice
deduzione logica: senza basi militari in terra straniera
la guerra sarebbe molto più costosa da sostenere; senza
guerre il perseguimento di interessi geostrategici ed
economici
a
danno
delle
democrazie
e
dell'autodeterminazione risulterebbe molto più
difficoltoso da mettere in atto.
Corazon Fabros, attivista filippino di lungo corso,
afferma:”La strategia dell'impero è globale. La nostra
risposta deve esserlo altrettanto”
Da: “Focus on Global South”, 14-3dos-2007, www.no-bases.org. Trad. di Fabio Sallustro, rid. e adatt. redazionale.
88
Guerre & Pace
L’OMBRA DELLE BASI
CONTRO LA MILITARIZZAZIONE
DAI TERRITORI IN ITALIA
Contro la presenza di basi militari o i progetti di allargamento, potenziamento, riqualificazione - si
sono costituiti negli ultimi anni comitati o iniziative in tutt’Italia. Non pretendiamo di dare conto di
tutto quello che si muove, ma proviamo a fare un breve elenco fornendo riferimenti di siti dove si
possono trovare le piattaforme e le proposte di iniziativa di questi comitati.
Vicenza
Presidio permanente “No Dal Molin” e “Giornale No Dal Molin” www.nodalmolin.it
AltraVicenza (sito informativo con ricco materiale sulla lotta contro il Dal Molin)
www.altravicenza.it
Blog di approfondimento e confronto:
http://www.bloggers.it/osservatoriosulleservitumilitari/
Aviano
Comitato Unitario contro Aviano 2000 http://cuca2000.noblogs.org/
http://www.fvg.peacelink.it/aviano2000
Comitato “Via le bombe” http://www.vialebombe.org/
Ghedi
Comitato “Via le atomiche” Ghedi (sito in preparazione; per info [email protected])
Camp Darby
Comitato unitario per lo smantellamento e la riconversione a scopi esclusivamente
civili della base di Camp Darby” http://www.viacampdarby.org/
Cameri
Coordinamento contro gli F 35 http://www.nof35.org/
Tavolo di lavoro NO F35
http://www.disarmolombardia.org/CAMERI_JSF/tavolo_NOF35.pdf
Sigonella
Terre Libere (sito di informazione con molti riferimenti e approfondimenti sulla lotta contro la
presenza militare in Sicilia) http://www.terrelibere.it/
Napoli
Comitato pace, disarmo e smilitarizzazione del territorio (NA)
http://www.pacedisarmo.org/pacedisarmo/
Sardegna
Comitato sardo Gettiamo le basi
http://gettiamolebasi.wordpress.com/
Taranto/Puglia
Coordinamento salentino contro la guerra http://www.salentonowar.org/
Peacelink (sul sito ci sono molte informazioni sulla militarizzazione della Puglia e sui porti
nucleari) http://italy.peacelink.org/mappa/topic_2.html
Altre informazioni si possono chiedere a: [email protected]
Solbiate Olona
DiramAmo la pace (rete di associazioni della provincia di Varese e di altre province
lombarde)
http://disarmiamolapace.altervista.org/html/
ALTRI RIFERIMENTI
Rete regionale contro la guerra – Lombardia www.disarmolombardia.org
Rete Via le Basi www.vialebasi.net
Guerre & Pace
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L’OMBRA DELLE BASI
Campagna per una proposta di legge di iniziativa popolare che dichiari l'Italia "Zona
Libera da Armi Nucleari” http://www.unfuturosenzatomiche.org/
ControllArmi – Rete italiana per il disarmo www.disarmo.org
90
Guerre & Pace

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