NON ASPETTARE TEMPI MIGLIORI. PAROLA DI WOLF BIERMANN
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NON ASPETTARE TEMPI MIGLIORI. PAROLA DI WOLF BIERMANN
NON ASPETTARE TEMPI MIGLIORI. PAROLA DI WOLF BIERMANN Quando pensi a Wolf Biermann ti viene subito in mente quella definizione: Liedermacher, ovvero fabbricatore di lieder, di canzoni. È quasi una definizione ad personam, perché è stato lui stesso a coniarla e perché allo stesso tempo è lui il più grande interprete di questa tradizione cantautoriale tedesca. Ma pensare che si tratti solo della traduzione del termine e dell’idea di chansonnier è sbagliato, poiché non si può comprendere il Liedermacher se non nel solco di un’eredità brechtiana: «Rifacendomi alla definizione di drammaturgo come Stückeschreiber (scrittore, autore di pièces) che con il suo tipico understatement ci aveva fornito il grande maestro Brecht, anch’io cercai una definizione “artigianale”, proletaria, per il mio mestiere». Quella componente proletaria, marchiata nel dna della sua famiglia, era ciò che l’aveva portato nel lontano 1953 al primo balletto tra le due Germanie, al trasferimento da Ovest e Est nella speranza che lì, sulle macerie del nazionalsocialismo e della guerra (Auferstanden aus Ruinen [Risorta dalle rovine], recitava l’incipit dell’inno della Rdt) si costruisse la rivoluzione comunista. Il ritorno ad Ovest vent’anni più tardi, nel 1976, non più gesto spontaneo ma vera e propria cacciata dallo stato di cui era diventato nemico pubblico numero uno, è stato ciò che l’ha reso più famoso e viene unanimemente considerato come l’inizio della fine della RDT, uno dei più fatali passi falsi del Politbüro che provocò un clamoroso effetto boomerang: i cittadini solidarizzarono con il cantautore in esilio e in massa, ma in segreto, seguirono sulla tv occidentale il suo grande concerto a Colonia del 1976, un evento epocale. Tra il 1993 e il 1995 Biermann tenne otto entusiasmanti lectiones magistrales alla Heinrich Heine Universität di Düsseldorf, Otto lezioni - per un’estetica della canzone e della poesia, sulla sua complessa parabola umana, artistica e politica, ora tradotte con grande cura e ammirabile impegno da Il Canneto editore. In queste lezioni Biermann, con ironia graffiante e invidiabile sincerità va alla radice della sua arte, mostra la genealogia delle sue opere, risponde ad alcuni eterni dilemmi, come quello del rapporto tra il testo e la musica. Una delle lezioni infatti è intitolata: “La musica è davvero una puttana che va con ogni testo?” In effetti, Biermann sostiene di scrivere prima i testi ma smentisce ciò che qualcuno potrebbe pensare di una canzona scritta da un poeta, ovvero che sia “né più né meno una poesia deboluccia che ha bisogno della musica per potere in qualche modo esistere a livello estetico”, anche perché dopo anni di esperienza la sua constatazione è che sia quasi più difficile comporre un buon testo per una canzone che una poesia, poiché questa in un certo senso “canta” da sola. La canzone ha una marcia in più, permette di spingersi oltre: «Con la sua perfetta imperfezione, un testo perfetto per una canzone può spingersi in un determinato atteggiamento molto più in là che una poesia. Barbaramente lontano dalla misura sublime di pensieri e sentimenti attentamente ponderati. Nel testo di una canzone posso forzare, esagerare, eccedere. Posso addirittura avventurarmi fino al limite del falso o di ciò che è imbarazzante, perché poi c’è la musica che… rimette tutto a posto con il contrappunto». Il valore aggiunto di queste lezioni sono proprio gli esempi pratici che Biermann porta. In questa caso cita una sua canzone in cui la triplice ripetizione di una parola, «dolori, dolori, dolori» non cade nell’autocommiserazione perché c’è la «musica che si oppone e al triplice dolore fornisce prima la rabbia, poi l’indignazione, quindi la ribellione. Essa non scimmiotta il tono piagniculoso, no, lo critica». Così si ottiene che una canzone trascenda «la normale ampiezza emotiva dei moti dell’animo di una buona poesia». Biermann non ama solo parlare di se stesso, le sue lezioni forniscono indicazioni sui suoi grandi maestri (culturali), sui cattivi maestri (politici), su nani (coloro che sono sempre al passo con lo Zeitgeist) e giganti della cultura (gli irriducibili ma anche coloro che sono stati grandi a priori). Sempre nella lezione riguardo al rapporto musica-testi, egli ripercorre con ironia lo sviluppo nel XVIII secolo di una cosiddetta dottrina musicale delle emozioni di stampo razionalista che si spinse fino ad un grottesco manuale delle emozioni, compilato dal modesto compositore J. Mattheson: Speranza: musica crescente Disperazione: musica che precipita Ira: tempo/ritmo rapido/veloce Lutto: tempo/ritmo pacato Allegria e celebrazioni: modo maggiore Afflizione, cruccio, dolcezza: modo minore Dolore, tormento, mestizia e malinconia: piccoli intervalli Audacia, entusiasmo: grandi intervalli verso l’alto Catastrofi: grandi intervalli verso il basso Un’altra dicotomia, oltre a quella scontata testo-musica, ha condizionato pesantemente la carriera di Biermann, una dicotomia lacerante per chi vive in un regime: canzone politica o canzone privata? Ma per capire quando è stata privilegiata la prima e quando la seconda, e che tipo di canzone politica sia stata affrontata è necessario rivedere insieme a Biermann la triste parabola della RDT, il tradimento della rivoluzione, la disillusione, la paura e la rabbia che hanno scatenato. Biermann mostra come lui e molti suoi illustri colleghi scrissero spassionate odi a Stalin e impiegarono anni prima di disintossicarsi dall’ideologia: «ero ancora immerso nel vecchio modo di pensare o, per meglio dire, di non pensare con il proprio cervello.» Anche nel mondo impegnato della cultura è difficile trovare esempi di autocritica così lucida, ma solo così si può imparare dalla storia perché come ha scritto Biermann in una sua celebre canzone, «solo chi cambia rimane fedele a se stesso». Ma parlare della sorte della canzone politica sotto il regime della RDT non è così scontato, in una prima fase infatti, nell’epoca stalinista e immediatamente post-stalinista la propaganda era talmente forte, onnipresente, asfissiante che «paradossalmente in quella fase, era veramente politico ciò che era impolitico», mentre un accenno a uno stato emotivo puro, «un sonetto su un bacio negato», come dice Biermann, «secondo il metro di giudizio degli idioti ufficiali stalinisti, costituiva una crisi di debolezza piccolo-borghese», una deriva romantica, un’inutile riflessione interiore che si disinteressava della lotta dei contadini e degli operai, un gesto reazionario. Ma così come i nomi delle vie anche l’elenco di ciò che si poteva dire e non dire venne cambiato dalla sera alla mattina. Le certezze del giovane Biermann iniziano a vacillare, la fede a crollare e la paura ad aumentare mentre si avvicina la necessità forzata di venire a compromessi; ma, forse a causa della sua vicenda familiare e della sua educazione comunista, Biermann diventa piano piano uno che è solo parzialmente allineato perché «il bambino che si è bruciato cerca il fuoco. Volevo evitare lo scontro diretto e al tempo stesso lo cercavo.» Così, al passo con una nuova generazione che intendeva superare i dogmi della ricostruzione e dell’immediato dopoguerra e attendeva invano una nuova fase, una primavera di Berlino Est che non arrivò mai, Biermann inizia a scrivere versi come questi: Guardatemi, compagni Con i vostri occhi stanchi Con i vostri occhi diventati duri Un tempo bonari Guardatemi, scontento dei tempi Che mi passate in consegna. Con parole vecchie voi parlate Delle sanguinose vittorie della nostra classe Con mani vecchie indicate l’arsenale Delle sanguinose battaglie. Pieno d’invidia Ascolto i resoconti delle vostre sofferenze Della felicità della lotta dietro il filo spinato Eppure non sono felice: Sono scontento del nuovo ordine. Voi però state lì disillusi Stupiti Feriti Amareggiati per tanta ingratitudine […] La pazienza è per me la sgualdrina della viltà A tu per tu con la pigrizia Al crimine prepara il letto. Voi però siete ornati di pazienza. Concludete bene la vostra opera Lasciando a noi Il nuovo inizio!1 In un'altra canzone, Invettiva senza remore, Biermann va oltre e rompe il dogma della finta collettività e riporta l’Io al centro della poesia: Io Io Io son pieno d’odio son pieno di durezza la testa martoriata la mente sconvolta Non voglio veder nessuno! Non sostate! Non fermatevi a guardare! Il collettivo sta sbagliando Io sono il singolo il collettivo si è isolato da me […] Ma il luccio sono io! Dovrete squartarmi farmi a pezzetti, ridurmi in poltiglia se mi volete sul vostro pane. […] Io vi voglio bene Ecco la conferma nero su bianco vi amo tantissimo ma adesso per favore lasciatemi solo sulla cattiva strada separato dal collettivo2 A partire dal 1965 Biermann viene vietato del tutto nella Rdt, ma ormai era troppo famoso per farlo sparire, come accadeva agli impiccioni comuni, il rischio che una volta martire la sua popolarità aumentasse ancora di più era troppo alto. Paradossalmente rischiava di più chi ascoltava le sue canzoni riprodotte clandestinamente grazie al samisdat che Biermann stesso che oggi è il primo a sostenere che il divieto fu la sua fortuna, anche perché l’aiutò a perdere ogni illusione, ad abbandonare i compromessi, a identificare con maggiore chiarezza i suoi nemici. A Biermann fu vietato non solo di suonare ma perse praticamente ogni diritto, non poteva nemmeno lavorare in fabbrica. La domanda sorge spontanea, come fece allora a vivere, pagare l’affitto e mangiare da disoccupato senza sussidio fino al 1976, anno del suo involontario esilio? Era lo Stato a mantenerlo, con i soldi per i diritti d’autore per i dischi venduti a ovest che la SIAE occidentale versava alla sua omologa della Rdt, una situazione perversa: anche la Rdt guadagnava dalle attività di Biermann contro lo Stato (quindi contro se stessa), incassava soldi dal nemico di classe e al tempo stesso silenziosamente sbatteva in carcere la gente comune che diffondeva la sua musica nel Paese. Biermann non tenne la bocca chiusa e smascherò la doppia morale del regime raccontando tutto a Der Spiegel. Gli proposero di lasciare volontariamente la Rdt per non fare più danni ma, come recitano i dossier della Stasi dell’epoca, lui rifiutò: «Biermann vuole la sfida: venir messo in prigione piuttosto che andare all’Ovest». Così, con il pretesto di un concerto, gli diedero il permesso di andare a suonare all’Ovest e non lo fecero più rientrare. Nella terza lezione, intitolata: “Passare il limite, certo!... Ma di quanto?”, viene affrontato il campo minato della valutazione delle opere in tempi di regime, un’altra dicotomia quindi: talento-carattere. Un campo minatissimo soprattutto sotto il regime della RDT che era famoso per avere centinaia di migliaia di persone infiltrate, delatori e spie in ogni parte della società, compresa ovviamente l’intellighenzia. Come valutare allora le opere di chi si è macchiato di collaborazionismo o di chi non se l’è sentita di passare il limite? E che dire di chi a posteriori sostiene che la censura possa perfino essere un elisir per un’estetica più raffinata? Un esempio è il filosofo Slavoj Žižek, grande amante delle provocazioni: «I am a cyinical pessimist. Look at the Soviet Union’s great victim, Andrei Tarkowski. Fuck it! Do you think in the West he would have been given the money to do Stalker? […] The conclusion is that for really great art, too much freedom is not good.»3 Ma Biermann non è tipo da scherzare su questi argomenti, né tollera moralisti e buonisti da strapazzo: «Mai e in nessun luogo la repressione della libertà d’opinione fu un buon concime per i variopinti germogli della poesia. La censura politica non fu mai un elisir di forza per le pappemolli. Se i castrati con toni sublimi inneggiano al bisturi, preferisco ritirarmi nel porcile a godermi un sincero grugnito». La censura nella RDT arrivò fino al punto di censurare il proprio inno, laddove nel 1949, quando venne composto, faceva riferimento alla speranza di una riunificazione tedesca (ovviamente a guida comunista), obiettivo che in seguito venne abbandonato (poiché privo di ogni speranza), con il risultato che il verso Deutschland einig Vaterland (Germania patria unita) non piaceva più ai detentori del potere, così «venne deciso che l’inno venisse suonato soltanto da orchestre con strumenti a fiato… e questo senza quel testo fatale.» Quando cadde il Muro e l’inno della moribonda RDT era ai minimi storici, un unico verso risorse «e non poteva che essere quello precedentemente messo al bando: Deutschland einig Vaterland». Marco Agosta Un estratto dal famoso concerto a Colonia del 1976, dove Biermann interpreta un suo classico diventato ormai un’espressione comune: Warte nicht auf besser Zeiten (Non aspettare tempi migliori). http://www.youtube.com/watch?v=GSw5H4tY29A&feature=related 1 An die alten Genossen, 1961. 2 Rücksichtlose Schimpferei, 1962. 3 Diez Georg e Roth Cristopher, Volume ONE: What happened?, Edition Patrick Frey, Zurigo 2010, pp. 71-72.