Il Cammino di santiago di Compostela
Transcript
Il Cammino di santiago di Compostela
MARCO RISPOLI Il Cammino di santiago di Compostela U U I D : be03 b52 a -51b2 -11e5-a 942 -119a 1b5d 03 61 Q u e s t o l ib r o è s t a t o r e a l iz z a t o c o n S t r e e t L ib W r it e (h t t p : // w r it e . s t r e e t l ib . c o m ) u n p r o d o t t o d i S im p l ic is s im u s B o o k F a r m --> Indice dei contenuti Introduzione Primo Capitolo Secondo capitolo Terzo Capitolo Quarto Capitolo Quinto Capitolo Sesto Capitolo Settimo Capitolo Ottavo Capitolo Nono Capitolo Decimo Capitolo Undicesimo Capitolo Dodicesimo Capitolo Tredicesimo Capitolo Quattordicesimo Capitolo Quindicesimo Capitolo Sedicesimo Capitolo I N TRO DU ZI O N E Era primavera qui nell’emisfero sud. Come tutte le mattine la sveglia suonò alle 7.30 ma stranamente, quella mattina non feci fatica a svegliarmi. Nella notte successe qualcosa di strano. In passato lessi il libro di Paulo Coelho, l’anno prima assistetti The Walk, il film, ma mai pensai seriamente di fare il cammino di Santiago. Certo più volte dissi “un giorno lo farò” ma quella mattina il pensiero si fece così forte e reale, non mi svegliai con la voglia di fare il cammino di Santiago, mi sveglia con la convinzione di farlo, sapevo che le risposte sarebbero arrivate solo camminando fino a Santiago di Compostela, si trattava della mia vita, di quello che restava della mia vita, di vincere l’infelicità che da troppi anni nascondevo a tutti anche a me stesso. Il cammino mi chiamò, quell’energia misteriosa arrivò fino a san Paolo del Brasile e mi convinse. Il cammino di Santiago è vivo, non è un semplice percorso, è un energia alimentata da migliaia di pellegrini che tutti gli anni si cimentano in questa fantastica, incredibile, fortissima e trasformatrice avventura. Erano le 8.30 quando Aglaura, mia moglie, mi diede due pacche sulla spalla invitandomi ad alzarmi dal letto, per percorrere poco più di 5 km dovevamo uscire quaranta minuti prima di casa. Il tempo, non avrebbe aspettato il mio ritorno sulla terra, ero in ritardo, Kronos è implacabile. Gli antichi greci avevano due parole per il tempo, χρονος (chronos) e καιρος (kairos). Mentre la prima si riferisce al tempo logico e sequenziale, la seconda significa "un tempo nel mezzo", un momento di un periodo di tempo indeterminato nel quale "qualcosa" di speciale accade. Quella notte il cammino mi fece conoscere il kairos, quella magia che lontano dalla nostra realtà spazio temporale, avviene, non in un momento preciso ma semplicemente succede e così ti cambia la vita. Fui riportato sulla terra, ben fermo e con i piedi ben saldi attratti dalla forza di gravità. Il mio corpo non riusciva a volare ma i miei pensieri si, passai la giornata a fare ricerche su internet per capire cosa fosse il cammino di Santiago, mappe, blog, siti e pagine di facebook dove i pellegrini si scambiano esperienze e immagini. Il mese di febbraio era sconsigliato da tutti, visto che il freddo e la neve dei Pirenei lo rendono ancora più difficile. Alcuni mi dissero che la montagna avrebbero potuto uccidermi, che ero incosciente, mi dissero che molti pellegrini morirono durante il cammino. La morte non mi spaventò mai, anzi sono convinto che sia una liberazione, un traguardo, un ritorno a casa, per questo i commenti non mi spaventarono, il cammino decise così, mi chiamò per farlo in inverno. Cominciai a pensare all’attrezzatura da comprare. Mi recai nel negozio specializzato in abbigliamento da trekking, il venditore mi domandò forse per gioco, se stessi comprando le scarpe per fare il cammino di Santiago? Quali erano le probabilità che un italiano, in Brasile, si recasse in un negozio per comprare le scarpe per il cammino di Santiago? Coincidenza? Energia? Non so ma mi piacque pensare che fui il cammino a fare la sua prima sorpresa. Nelle settimane successive, mi allenai e lasciai tutto organizzato in modo che la mia assenza non fosse un problema. Comprai il restante dell’attrezzatura, zaino, sacca a pelo, giacca a vento, ero pronto. Aglaura non si oppose al mio viaggio. Per la prima volta dopo dodici anni di matrimonio, avremmo passato tanto tempo lontani, lei respirava un aria di abbandono, io per la prima volta sentivo che stavo decidendo solo per il bene di me stesso. La mia felicità la dovevo procurare altrove, anche se non sapevo dove. P RI MO CAP I TO LO S ai nt Jean Pi ed d e Por t Arrivai a Milano, dove rimasi 3 giorni che trascorsi con famiglia e amici. Come tutte le volte che mi recavo a Milano, organizzavo una cena con gli amici, era sempre una serata piacevole dove riaffioravano i ricordi dei bei momenti passati insieme. Quella sera alcuni erano fieri della mia avventura, altri erano convinti che non l’avrei assolutamente finito che dopo qualche giorno sarei tornato a casa. Capii l’atteggiamento, non sono mai stato un gran sportivo, non mi era mai piaciuto camminare, l’unica volta che feci una gita in montagna mi ruppi un piede, e i mie amici lo sapevano. Quello che non sapevano erano le scelte importanti che stavo mettendo in gioco, le risposte che stavo cercando. Ma come non capirli, dopo alcuni mesi che non avevano miei notizie ed alcuni anni che non mi vedevano, mi presento a Milano con questa novità. Chi mi conosce da anni è abituato alle mie stravaganze, a 22 anni decisi di andare a vivere in Kenya, a 32 di andare a vivere in Brasile ed ora a 44 di fare 800km a piedi. A volte penso come le persone che non si permettono molte stravaganze mi considerino, forse un pazzo, un insoddisfatto, un egocentrico, un avventuriero…probabilmente sono tutto ciò. Arrivai a Biarritz di domenica pomeriggio, chiesi all’ ufficio informazioni come potessi raggiungere Saint Jean Pied de Port, mi dissero che sarebbe partito un treno la sera tardi e che l’unica alternativa era il taxi. Non mi sembrava che un comodo taxi entrasse nella filosofia del pellegrino, ma feci uno sforzo e cosi nel tardo pomeriggio raggiunsi il piccolo e incantevole paesino francese. Entrai nello abergue, una signora mi disse che sarei dovuto andare all’ufficio del cammino dove avrei ricevuto informazioni sulla prima tappa. All’ufficio mi diedero, la conchiglia, il simbolo del pellegrino e i suggerimenti sulla tappa. A causa della neve avrei dovuto percorrere il cammino alternativo, quello che si fa normalmente in inverno, meno pericoloso anche se 10 km più lungo. Entrai in una piccola taverna, era presto poco più che le 19.30, ero l’unico cliente. Dopo cena andai subito in albuergue e per la prima volta nella mia vita dormi in un sacco a pelo. Prima di addormentarmi pensai a quello che stavo iniziando a fare, ma non ne ero ancora completamente cosciente. Erano le 6.30 quando i primi pellegrini si svegliarono e con l aiuto del telefono si facevano luce per prepararsi, mi svegliai anch’io. I primi passi nel freddo e nella nebbia mi accompagnarono fuori dal paese, il cammino finalmente era cominciato. Mi persi subito, avevo forse percorso un km e mi ero già perso! Mi ricordai dei miei amici. Chiesi informazioni e finalmente rientrai nel cammino. Dopo qualche km, le indicazioni del cammino continuavano per un sentiero di montagna, avevo già percorso quasi 20 chilometri, il paesaggio dei prati verdi e il sole del mattino si erano trasformati in montagne innevate, il tempo si era chiuso e la neve cominciava a cadere con forza. Prima di accingermi mi sedetti per riposare e proprio in quel momento una macchina con a bordo le stesse persone che la notte prima mi ricevettero nell’ ufficio dei pellegrini, si fermò. Da lontano facevano segni con la mano, così li salutai anch’io e mi alzai per rimettermi in cammino, ma quando mi girai percepì dalle urla che non salutavano ma stavano dicendo di non andare per quel percorso ma di continuare sulla strada. E’ stato fondamentale averli incontrati, tre ragazzi italiani che non hanno avuto la mia stessa fortuna, hanno dovuto chiedere soccorso e hanno abbandonato il loro cammino il primo giorno, stremati dalla fatica e dal freddo. Ho avuto il primo forte segnale, il Cammino di Santiago mi stava proteggendo. Camminai per 35 chilometri, tutti in salita, fu davvero faticoso, ma l’entusiasmo della prima tappa, dell’inizio, non mi fece percepire quanto in realtà fosse stato difficile. L’entusiasmo è una forza magica che ti fa vincere le battagli più ardue. Tutto ciò che in passato, intrapresi con entusiasmo riuscì molto bene, è un’energia molto forte che spesso contamina anche le persone che ti stanno accanto. L’entusiasmo è l’arma che ti aiuta conquistare le mete più difficili, ti fa scalare le montagne più alte. Quando appresi il significato di entusiasmo rimasi sconcertato. “Letteralmente la parola greca ἐνθουσιασμός (enthousiasmós) deriva dal verbo ἐνϑουσιάζω, essere ispirato, contenente il lemma ἔνϑεος, composto di ἐν, in, e ϑεός, dio, il dio dentro. (wikpedia)” Quando sentivo quella forte eccitazione che l’entusiasmo mi regalava, era perché Dio era vivo dentro di me, mi stava ispirando, era proprio così. La sera ricevetti la benedizione del pellegrino e dopo una breve visita dell’antica chiesa andai a letto, erano le 8.30 e stavo già dormendo. SECO N DO CAP I TO LO Rocens vi lle Zu bi r i Nevicava anche oggi, mi sentivo bene e pronto per arrivare a Zubiri percorrendo l’intero cammino, senza fare nessuna deviazione, seguendo le frecce gialle, le indicazione del cammino che indicano il percorso ai pellegrini. Dopo 3 km, il cammino continuava per una strada innevata in mezzo ai campi. Senti un uomo che mi chiamava mi stava chiedendo dove andavo ed io pieno di entusiasmo risposi “Santiago di Compostela!” Mi disse che seguendo il cammino non sarei arrivato neanche al prossimo paese, che c’era molta neve e che dovevo tornare sulla strada, lo guardai lo ringraziai e gli dissi che ci avrei comunque provato così nonostante l’avviso continuai. C’era abbastanza neve, 50/60 cm ma un trattore che era passato recentemente, l’aveva appiattita così quei primi chilometri non furono molto difficili. La neve rendeva i pochi rumori ovattati, come quando ci si immerge sott’acqua, il silenzio si fa più forte, ed il silenzio ha un potere incredibile. Freud usava il silenzio perché i suoi pazienti iniziassero a parlare, ed è proprio quello che successe con me. Chi cominciava a parlare era il mio io, non riuscivo ancora a capire il significato, ma sentivo una timida voce dentro di me. Proseguendo la neve si fece più alta e la strada si trasformò in un piccolo sentiero di montagna, dove nessuno passava dall’ultima nevicata. Incontrai solo delle orme di stambecchi, e di un cane, o forse erano di un lupo, le perdevo e le ritrovavo, cercavo di camminare sempre nella stessa direzione in salita, non c’era nulla che mi indicasse o che mi potesse far pensare che quello era il percorso giusto, ma fino a dove le frecce gialle si vedevano indicavano sempre un percorso in salita, così pensai di continuare salendo. Le indicazioni erano sparite, la neve le aveva coperte. Dopo qualche chilometro arrivai ad un bivio, sentiero di destra o sentiero di sinistra? Uno portava verso un ruscello in parte congelato, l'altro saliva severamente. Riposai per 5 minuti. Cercai delle impronte, dei segnali, niente. Mi resi conto che se avessi sbagliato percorso avrei potuto perdermi. Presi il telefono per cercare di localizzarmi con il GPS, ma non c’era segnale. Entrai nel sentiero di destra, ma dopo qualche metro il fitto bosco ingoiava tutto quello che potesse sembrare un percorso. Tornai indietro. Provai quello di sinistra, ma il ruscello era inguadabile, si vedeva l’acqua scorrere sotto un sottile strato di ghiaccio, e nessuna pietra d appoggio, solo alcuni cumoli di neve. Rimasi in silenzio, pensai di tornare indietro e fare il percorso seguendo la strada asfaltata ma erano già due ore che camminavo nel bosco. Riprovai quello di destra, poi quello di sinistra, poi ancora a destra poi a sinistra, nulla, niente, nessuna uscita! Non sapevo cosa fare, l’unica via sicura era quella del ritorno. Quando si deve prendere una decisione difficile, spesso si rimane fermi, senza sapere qual’ è cosa più giusta da fare si rimane immobili, con questo atteggiamento alimentiamo l’indecisione fino a che la scelta diventi impossibile da prendere. Siamo animali che non sanno più ascoltare il proprio istinto, ancoriamo i nostri pensieri in una dimensione razionale, dimenticando così la magia dell’istinto e del sesto senso, perdendo, spesso, il sapore della vita. Avevo freddo, rimanendo fermo la temperatura del mio corpo scese e ora sentivo i vestiti bagnati e gelati sulla mia pelle. La decisione razionale suggeriva di tornare indietro, di percorrere la strada, fermarsi in un posto caldo, cambiare gli indumenti bagnati, bere un tè e poi riprendere il cammino seguendo la strada asfaltata. Ma Il cammino di Santiago non è un percorso razionale, io non avevo nessuna voglia di tornare indietro, ero pronto a rischiare, nella vita bisogna avere coraggio, pensai, “vado a sinistra, e guado il ruscello” Nel momento stesso in cui si decide cosa fare, la paura scompare. La paura e l’indecisione vanno a braccetto, quel momento che per molti dura per sempre, in cui si sta fermi e non si ha la forza per decidere, è un momento terribile dove si perde il controllo della nostra vita. E’ triste vedere quante persone rimangono ferme per tutta la vita, senza prendere in mano il timone della propria barca, si fanno portare dalla corrente, così trovandosi alla fine del viaggio senza aver vissuto quello che realmente volevano, generando frustrazioni, infelicità e rabbia. Sentimenti che ci fanno entrare in cammini scuri e ci fanno ammalare di infelicità. Feci i primi passi guadando il ruscello, infilai un bastone nell’acqua, era profonda almeno 60 cm, cercai un appoggio sotto un cumulo di neve e scopri che sotto cada cumulo si nascondeva una pietra, un primo passo sulla pietra poi ne incontrai un'altra poi un'altra ancora. Passato il ruscello continuai a camminare, dopo qualche chilometro la neve si fece più bassa e finalmente vidi la prima freccia gialla, che felicità. Raggiunsi un piccolo paese dove mi fermai a mangiare e bere. La tappa proseguiva in discesa, scendendo di altitudine il fango sostituì la neve, a volte sembrava inghiottisse le mie scarpe, i molti alberi caduti sul sentiero erano un problema da risolvere velocemente, passa sotto, lancia lo zaino dall’altra parte, passa di fianco, attento al precipizio ai rami…arrivai a Zubiri, stanco, ma molto felice. L ‘albergatore era un ragazzo straordinario, svuotò lo zaino, mise tutto davanti alla stufa per far asciugare i vestiti. Ero stremato, esausto ma felice. Scelsi il percorso più difficile e la soddisfazione di esserci riuscito mi riempiva di gioia. Più tardi incontrai Paco, eravamo gli unici due in quell’ albergo. Paco è un uomo di poco più di 60 anni professore di psicologia, un compagno di cammino interessante. Paco stava facendo il cammino per provare a se stesso ed agli altri che poteva farcela nonostante avesse problemi al cuore e soffriva di apnea notturna che lo costringeva a portarsi con se un apparecchio che lo aiutava a respirare mentre dormiva. Una bella persona. TERZO CAP I TO LO Zu bi r i – Zar i qu i eg u i Il giorno successivo, alle 7.45 stavo già camminando. Paco decise di continuare il percorso seguendo la strada, più sicuro anche se decisamente più brutto, perché costeggiava la strada statale, io continuai per il Cammino. Dopo qualche km, in un sentiero di montagna, quando la luce del mattino era ancora debole e gli uccellini cantavano melodie straordinarie, sentii una musica raggy suonare lontana, forse Bob Marley, più tardi incontrai un ragazzo rasta, anche lui Paco. Partì da Porto il 1 gennaio, la meta è Roma! Conta di arrivarci a fine aprile. Ci abbracciamo e ci separammo nello stesso modo che ci incontrammo. Quale sentimento ti fa decidere di intraprendere tale distanza? Perché Paco voleva arrivare a Roma? I pellegrini sono mossi da ragioni diverse e sempre molto intime, sono uomini in cerca di verità, di amore, di felicità. Il cammino di Santiago e gli altri cammini, sono percorsi da persone di età e religioni diverse, ma una cosa unisce i pellegrini, sono persone che hanno scelto il bene e questo lo si legge negli occhi di tutti. Camminai fino a Pamplona dove arrivai nel primo pomeriggio. Passai il centro storico ricordando che in quelle vie avviene la spietata corsa dei tori, nel giorno di san firmino. Feci una rapida sosta in un negozio alcuni minuti prima che chiudesse per la lunga siesta, comprai delle banane e continuai a camminare. Decisi di fermarmi a dormire a Zariquiegui, un piccolo paesino 9 km dopo Pamplona. Gli ultimi km furono tutti in salita, una salita interminabile, tanto difficile che una croce alla fine della stessa ricordava che qualche anno prima, un signore olandese mori proprio in quel punto, forse a causa di un infarto. Dopo pochi km arrivai all’albuergue, ero l’unico ospite. I proprietari erano una coppia di signori che stavano litigando, gridavano come pazzi. Faceva un freddo polare e non accesero il riscaldamento, probabilmente per un solo pellegrino non ne valeva la pena. Cenai emettendo vapore dalla bocca da tanto era freddo. Andai a dormire cercando di non farmi attaccare dalle energie negative. I nostri pensieri creano energie, quando sono pensieri orientati al bene, all’amore, le energie si uniscono alla creazione, mentre quando siamo arrabbiati o irritati creiamo energie negative a volte disruttive, in antitesi con la creazione. Il Big ben è l’inizio, Genesi 1 della Bibbia, è il fenomeno fisico della creazione tutt’ora in atto, che non avvenne in 7 giorni come citato in modo allegorico ma è cominciata 16 miliardi di anni fa e tutt’ora in atto, l’universo è in continua espansione, nuove stelle e nuovi pianeti si stanno formando, nuovi fiori stanno sbocciando, nuove vite stanno nascendo, la creazione è in continua espansione. I nostri pensieri possono aiutare o ostacolare la creazione diventandone amico o nemico, possono aiutarla a generare o possono rallentare la sua crescita. Il bene crea energie positive che alimentano la creazione, ci sono molti esperimenti che dimostrano come i pensieri creino energia e possano modificare l’ambiente. Forse il più importante è dello scienziato giapponese Masaru Emoto, Masaru fotografò molecole d’acqua congelate in condizioni di pensiero diverso, citando parole come amore e bene, le molecole assumo un aspetto perfetto, creando un disegno armonico, al contrario citando parole come odio rabbia le molecole assumono un disegno disordinato, disarmonico. E’ utile ricordare che per la creazione l’acqua è un elemento fondamentale, l’elemento principale della vita, per cui è facile immaginare come le molecole d’acqua di cui il nostro corpo è formato per il 70% possano realmente influenzare la nostra vita, la nostra salute. Lo stesso esperimento di congelamento delle molecole d’acqua, Masaru lo fece con la musica, melodie armoniche come quelle di Mozart o Beethoven creava dei cristalli di ghiaccio perfetti, mentre se sottoposti ad una musica senza armonia, le molecole assumevano una forma distorta, un aspetto brutto. La musica classica è usata da anni in allevamenti di bestiame e in campi coltivati portando dei benefici importanti, ma senza conoscerne davvero il motivo. Se i nostri pensieri sono negativi e creano disordine, non si connettano con la creazione, anzi ne diventano nemici. La creazione è una forza d’amore che dà vita, che ordina il caos. Possiamo connetterci o alienarci, ma la felicità l’incontriamo solo quando, facendo il bene, creiamo energie positive unendoci così con la creazione. Quando il bene si fonde con la creazione, la visione della vita diventa collettiva, moltiplicando le nostre capacità e le nostre forze, divenendo un essere unico in grado capire le esigenze collettive. Mi impegnai per non creare energie negative, scusai la coppia per non aver acceso il riscaldamento che probabilmente fui la scelta, economica, più sensata. Infilai la testa dentro il sacco a pelo e dormii. Q U ARTO CAP I TO LO Zar i qu i eg u i – Stella Arrivai in uno dei passaggi più importanti del cammino che era ancora mattina presto. Alla sierra del Perdon c’era il sole e la famosa scultura che rappresenta pellegrini in movimento era lì che mi aspettava. La nebbia molto bassa nascondeva parte della vista e rendeva l’ambiente ancora più suggestivo. Le montagne erano illuminate dal primo sole del mattino, mentre la vallata era ricoperta dalla nebbia che brillava alla luce del sole. Feci alcune foto poi mi sedetti e pensai al perdono. Il perdono ci rende liberi, mentre il rancore ci corrode dentro, ci intristisce e a volte ci fa ammalare. Il perdono è l’atto compiuto del comandamento di Gesù, ama il tuo prossimo come te stesso. Perdonare il proprio nemico, è il vero atto d’amore che può portarci ad un elevazione di spirito tale da poter vedere il mondo dall’alto. Questa visione ci fa scoprire i semplici misteri della vita. Proprio come la vista che la sierra del Perdon ci regala, 360 gradi dal punto più alto della vallata. Non è facile perdonare sempre e proprio coloro che ti vogliono infelice, ma dobbiamo esercitarci per raggiungere tale leggerezza di spirito. La regola d’oro, così i teologi chiamano il comandamento “ama il tuo prossimo come te stesso” è presente in quasi tutte le religioni, è l’unico comandamento che Gesù ci lasciò, definitivamente è l’unica regola o forse suggerimento che Dio ci ha voluto dare per essere felici. Fare il bene sempre e a chiunque, amare se stesso e così amare tutti. Il perdono è l’atto d’amore più grande e per questo solo chi si ama davvero riesce perdonare, perché solo chi si ama riesce ad amare pienamente. Pensai chi dovessi perdonare, pregai a voce alta, e perdonai. Decisamente più leggero proseguì il mio cammino. La tappa era molto lunga, mi fermai per mangiare, bere e pregare di fronte ad un immagine di Maria che rappresenta, per me, l’amore materno di Dio, l’amore Agape per eccellenza. Quell’amore incondizionato e gratuito che le mamme hanno verso i loro figli, che Dio ha per la Creazione. Il cammino mi fece capire quanto sia importante dare e ricevere tutti i tipi di amore, solo così possiamo essere completi e felici. Agape, Philia, ed Eros così gli antichi greci chiamavano i diversi tipi di amore. Per raggiungere la felicità devo dare e ricevere l’amore incondizionato, l’agape, devo amare e ricevere amore dai miei amici, philia, devo amare e ricevere amore della mia compagna in tutte le forme dell’amore di coppia, l’eros. “ho sete, sento la necessità di amare, sono diventato col tempo un terreno arido, Dio illuminami e conducimi dove possa trovare l’amore” Pregai a voce alta. Camminai tutto il giorno, arrivai a Stella che era già buio. Non mangiai nulla, mi spogliai e quando tolsi le calze scoprii che avevo delle vesciche terribili, alcune aperte, misi una pomata antibatterica e dormii. La guida che mi ero portato, suggeriva di fare il cammino in 31 tappe, ma non avevo tempo a sufficienza così avrei dovuto fare delle tappe doppie per riuscire ad arrivare il giorno 14 a Santiago, per questo feci più di 36 km, avrei dovuto raggiungere Santiago di Compostela in 26 tappe. Il cammino mi stava preparando la prima grande lezione. Q U I N TO CAP I TO LO Stella – Los Arcos Clacson, camion accelerando, nuvole di fumo, moto passando rasenti alle auto in fila, stress che viene assorbito dalla nostra anima e poco a poco, appare nel corpo, invecchiandolo, intristendo i nostri occhi. Ai lati delle strade centinaio di persone aspettando i grandi e lunghi autobus, che non sono mai sufficienti, persone in fila per prendere la metropolitana. Ma all’improvviso mi trovo nel silenzio assoluto, disturbato ogni tanto da un canto piacevole di qualche passerino. Lo stato di allerta non si era ancora abbassato, i nervi erano ancora tesi e pronti ad ogni occorrenza. Ci vollero parecchi giorni per abituarmi a quella nuova realtà. Quando finalmente sentii la natura mi abbracciare, capii quale vita assurda si viva nelle grandi città. Gli orizzonti sono bloccati dal cemento, i sogni dai conti da pagare, la felicità ammazzata dalla routine. Molti sono persi in questa palude che pian piano ti ingoia fino a immobilizzarti, perdendo il controllo delle proprie azioni, vivendo un continuo sveglia e dormi senza nessun fine. Io era tra questi. Stavo vivendo di illusioni, cercando stimoli continui per poter trovare la forza ed il coraggio di svegliarmi la mattina. Il mio matrimonio era il picco del monte, perché rimanesse in piedi avevo bisogno di creare strutture illusorie, in questo modo, non costruì mai nulla, vivendo nel futuro, non vivendo mai nel presente. Passavano mesi, anni ed era sempre tutto precario, nulla di definitivo, in continua mutazione a causa della continua necessità di nuove illusioni. I ricordi più vivi erano quelli di 5 anni fa, come se fossi stato ibernato. Gli ultimi anni, furono i peggiori, i più dolorosi. La mia vita in Brasile fu sempre così, passando tra alti e bassi, ma mai nulla era definitivo, come se inconsciamente non fossi mai stato davvero felice e soddisfatto. I piedi facevano male, molto male. Le vesciche era aperte e sentivo dolore, i primi passi erano terribili. Durante il cammino conobbi varie persone, una ragazza tedesca maestra di yoga, un ragazzo Coreano, un altro bulgaro e tanti altri, sempre belle persone, sempre. Il tempo era bello, il paesaggio stupendo, un ottima giornata per conoscere qualcosa di nuovo, per imparare qualcosa dal cammino. Mi fermai e mi sedetti su un grande sasso, e iniziai a pregare. Pregare in mezzo alla natura ed a voce alta è un esperienza che ti riempie il cuore, che ti avvicina a Dio tanto da poterne sentire il calore. Qualche hanno fa durante un viaggio alla terra santa, provai l emozione di partecipare ad una messa sul monte delle beatitudini eravamo in 10 persone, senti la presenza di Dio e le parole di Gesù con tanta forza come non mai, la nostra chiesa era senza sfarzi, ne oro e ne argento, al posto dei marmi e delle fastose decorazioni avevamo l’erba, il sole e l’ombra di un albero. Dio è nella creazione e non nelle chiese, ho sempre pensato fosse così. Mi alzai e continuai a camminare. Camminavo sempre da solo, avevo bisogno di pensare, di capire il motivo della mia infelicità, cercavo delle risposte, ma non arrivava nulla. Erano cinque giorni che camminavo e stavo raggiungendo una forte pace interiore, probabilmente lo stretto contatto con la natura mi stava purificando dallo stress della città, il mio viso stava cambiando, i miei occhi anche, qualcosa dentro di me si stava risvegliando, ma non sapevo cosa fosse. Arrivato a Los Arcos, mi fermai in un ristorante, presi il menu del pellegrino. E’ consuetudine incontrare bar e ristoranti che offrono ai pellegrini, un menu completo a prezzi modici. Mangiai e feci due chiacchere con Jesus, un ragazzo spagnolo che stava facendo il suo quinto cammino,. Decisi di fermarmi a Los Arcos mentre lui prosegui. L’ albuergue era gestito da padre e figlio, due austriaci dal cuore grande. Fui nella mia branda e mi spogliai, quando tirai le calze vidi i piedi sanguinare, la pelle delle vesciche era rimasta attaccata alle calze così lasciando la pelle viva, chiesi aiuto all’albergatore. Vide i miei piedi e si spaventò, mi disse di stare tranquillo che mi avrebbe medicato e fasciato, ma che l’indomani sarei dovuto andare in autobus fino a Logrono. “In autobus??? Giammai! Sono un pellegrino devo camminare, devo arrivare a Santiago il 14, non voglio prendere l autobus, non posso macchiare il mio cammino e renderlo invalido per due stupide vesciche. Domani andrò piano ma vado camminando” Il ragazzo mi lasciò parlare, poi con voce calma mi disse: “Marco i tuoi piedi sono in pessime condizioni, forse i peggiori che ho visto da quando sono qui, se tu domani cammini puoi compromettere tutto il cammino, se le ferite fanno infezione puoi scordarti Santiago”. Erano parole forti, feroci per un pellegrino, una minaccia di morte una sentenza inspiegabile, perché a me? Piansi. Non mi importava che gli altri stessero vedendo che stavo piangendo, piansi, fui la prima volta che senti che avrei potuto abbandonare il cammino. Non mangiai nulla, alle 19 ero già a letto, cercando risposte, invocando le forze del bene perché durante la notte guarissimo i miei piedi, pregai e soffrii. Finalmente riuscì a dormire. SESTO CAP I TO LO U na Lez i one Non era nei programmi iniziali fare una tappa in autobus, ma non riuscivo a camminare in quelle condizioni era impossibile, così a malincuore raggiunsi Logrono in pullman poi raggiunsi in taxi l’ospedale. Dopo un’ora di attesa un medico arrogante mi disse che nel pronto soccorso non si curano le vesciche e mi invitò ad andare in un posto medico, irritato chiesi perché non mi avessero avvisato all’arrivo, ma quest’uomo triste e infelice mi liquidò con una scusa. Sconfortato cercai l’uscita quando una infermiera che mi vide entrare, mi chiese se mi avesse già curato, le racconto l’accaduto così mi portò in una stanza vicino e di nascosto mi medicò le ferite, ero commosso, stava rischiando il suo posto di lavoro solo per aiutarmi, un angelo, una donna che mi ha regalato l’amore più importante, Agape, mi ha amato come ama se stessa così nulla per lei era più importante che curarmi le ferite, scrissi il suo nome e di sua figlia per ricordarle in preghiera, mi spiegò come fare il curativo e mi diede tutto l’occorrente per curarmi nei giorni seguenti. E’ stato il terzo angelo che incontrai durante il cammino, dopo quello che mi salvò il primo giorno e il ragazzo dell’ albuergue che mi fece le prime cure. Quando Agape arriva inaspettatamente da uno sconosciuto, è straordinario. Grazie Maria. Fare il bene è il cammino per la felicità, offrire il bene al prossimo è così semplice e vero. Dio è Amore, Dio è il Bene, se riuscissimo a vivere costantemente nella stessa sintonia del bene riusciremmo a sentire musiche bellissime, l’armonia della natura, l’ordine delle cose. Ci sentiremo parte cosciente della Creazione. Uscito dall’ ospedale fui in uno shopping a compare delle calze di cotone da mettere insieme ai calzettoni per aiutare i piedi rimanere più asciutti. Arrivai all’albuergue, mi sdraiai sul letto e pensai sulla possibilità di arrivare a Santiago il 14. Il giorno dopo non sarei riuscito a fare tanti km, la tappa prevista era di 30km. Se avessi diviso in due la tappa avrei perso il giorno recuperato. Decisi comunque di fare solo 13km e fermarmi a Navarrete per poi fare i restanti il giorno dopo. Stavo pagando la fretta, la voglia di arrivare al traguardo nel tempo previsto, come se il cammino fosse una maratona, una competizione. Il tempo non può essere un limite del Cammino di Santiago, come non deve essere un limite alla vita. Dobbiamo rispettare Kronos, il tempo che passa, ma senza dipendere da lui. Siamo esseri eterni ingabbiati in una dimensione legata al tempo, se ne diveniamo dipendenti, la materia, la dimensione in cui viviamo, sarà il limite della visione della vita. Perdendo così il mistero, perdiamo la possibilità di galleggiare sopra la terra, rimanere sospesi tra il razionale e l’irrazionale, da dove si può intravedere la verità. Il cammino mi stava insegnando i misteri della vita. I 14 km fino a Navarrete furono davvero difficili, le vesciche facevano male, cercavo di non appoggiare i piedi sulle ferite anche se era una impresa persa in partenza. Nell’albuergue dove mi fermai incontrai un gruppo di italiani che stavano facendo il percorso in bicicletta, una delle tre modalità prevista per assicurarsi la compostela, oltre che a piedi e a cavallo. Uno dei ciclisti mi chiese se fossi Marco Rispoli, mi seguiva sulla pagina di facebook, bella coincidenza, scambiai due parole, condividemmo l’esperienza, era un bel gruppo di persone pulite. Cercai di rimanere il più tempo possibile sdraiato per accelerare la guarigione. Il giorno dopo camminai per 16 chilometri, le ferite ai piedi erano migliorate molto, arrivai a Najera, dove rincontri Paco lo psicologo di Valencia, e un signore italiano che camminava con la figlia, oltre che una coppia di coreani in viaggio di nozze che avevo già incontrato per strada. Preparai un piatto di pasta per tutti bevemmo due bottiglie di un buon vino, fui una serata piacevole. Il giorno dopo camminai con loro e fui un esperienza diversa, non sentii la solitudine che già mi accompagnava da 9 giorni, che risvegliò quelle parti di me stesso che nel lungo degli anni avevo chiuso in piccole stanze del cervello. Pezzi di me che sono ancora vivi ma che avevo scordato, parti di me che quando camminai in solitudine, iniziarono ad urlare, picchiando i pugni contro le porte che le tengono rinchiuse, prenderono forza, diventarono furiose tanto da spalancare le porte a calci per poi vomitarmi addosso la verità. Oggi le porte rimasero chiuse, ne sentii la mancanza. SETTI MO CAP I TO LO S er g i o Durante la 10° tappa, incontrai un uomo diverso, un pellegrino con barba e capelli lunghi stilo clochard, nella mano destra teneva una lunga pinza con la quale raccoglieva i rifiuti e con la sinistra un sacco nero dove metteva l’immondizia. Non pensai fosse un pellegrino, pensai fosse un barbone, una persona strana diversa dai soliti pellegrini, ci chiedemmo cosa stesse facendo, perché raccogliesse i rifiuti, ma nessuno ebbe il coraggio di conversare con lui. Alla fine della tappa sentii un dolore al tallone del piede sinistro, era la prima tendinite. Mi preoccupai, dopo 10 giorni di cammino mi stava venendo anche la tendinite. All’albuergue dopo la doccia per meraviglia di tutti in camerata c’era l’uomo incontrato sul percorso. Ci trovammo nella sala da pranzo, seduti su un divano parlando con il proprietario dell’ostello Paco, Stefano e la figlia Ilaria. Il clochard era seduto accanto a me e stava leggendo la bibbia. Incuriosito mi avvicinai, gli chiesi di dove era e cosa stesse facendo. Si chiama Sergio è francese di Bordeaux. Sono 12 anni che Sergio cammina, la sua missione è pulire il cammino, non solo quello di Santiago ma anche quello di Roma, di Assisi e gli altri cammini. Negli alberghi cura i pellegrini che hanno bisogno. Sergio vive con una pensione di 500 euro al mese, dice che alcuni mesi gli avanzano. Mi chiede se vuole che mi curi la tendinite con le sue mani. Dissi di sì, forse lo dissi più per non contraddirlo, perché sentii che aveva il bisogno di farsi capire, di parlare con qualcuno, aveva bisogno di dimostrare il suo amore, quando feci cenno con la testa vidi nei suoi occhi una luce di felicità, l’amore Agape in quel momento si presentò ancora più forte perché venne da entrambi. Sfregò le sue mani grandi e callose, e le avvicinò al mio piede senza toccarmi, chiuse gli occhi e cominciò a pregare, il resto della stanza sparì, rimanemmo solo io lui e il divano dove ero disteso. Mi concentrai anch’io e iniziai a credere che potesse davvero curarmi, tanto che provai ad aiutarlo con la mia energia e iniziai a pregare anch’io. Il divano sparì, sentivo la sua mano caldissima e un energia che entrava e usciva pulendo la mia anima dai preconcetti che mi fecero dubitare di Sergio. Mi sentivo leggero come se stessi fluttuando. Passata forse un’ora, mi chiese in francese se il dolore fosse migliorato, aprii gli occhi e mi accorsi di aver dormito per qualche minuto, non avevo più dolore e si era sgonfiato. Sergio un altro angelo incontrato nel cammino. Cenammo in albuergue, Invitai Sergio ad unirsi a noi, ma aveva già fatto la spesa, lo rincontrai prima di dormire, stava pregando. Il due giorni successivi camminai senza zaino, e a Burgo comprai un paio di scarpe nuove più leggere, alleggerì lo zaino di 3 chili, mandai a casa, via posta un libro, maglie di lana tolsi tutto quello che non mi serviva, la mia casa si ridusse del 30%. Il cammino ti insegna a vivere con l’essenziale. Nel nostro zaino possiamo mettere tutto ciò che ci serve ma anche tutto quello che non serve, possiamo mettere una casa più grande, un’auto più lussuosa, un lavoro che ci fa guadagnare di più ma che non ci piace, una casa al mare, le vacanze alle Maldive, i vestiti firmati, amici falsi, amori d’interesse, nel nostro zaino ci sta tutto quello che volgiamo, ma più cose ci mettiamo, più diventa pesante e ci fa muovere con difficoltà diventando noi lo strumento dello zaino, il suo carrello, Ci trasformiamo da condottieri a schiavi, del nostro proprio zaino, delle nostre cose. Più cose vogliamo e più ne diventiamo schiavi. Il cammino ci insegna a essere liberi, liberi da tutto e tutti, ci insegna a mettere nello zaino solo le cose necessarie, gli amici veri, gli amori veri, solo i vestiti che ci servono, solo le cose indispensabili, è un esercizio soggettivo, ognuno deve scoprire quello che è veramente importante per se stesso. Dopo aver tolto 3 kg, il mio zaino si fece più leggero, insieme alle scarpe nuove riacquistai la fiducia di poter arrivare a Santiago. L’entusiasmo durò ben poco, dopo la messa delle 7 nella bellissima cattedrale di Burgo, incontrai un ragazzo di Madrid zoppicando anche lui a causa di una tendinite, l indomani sarebbe tornato a casa, non riusciva più a camminare. L’incubo di dover rinunciare a Santiago divenne tanto reale da farmi male, sentivo il dolore della sconfitta, il dolore di non poter più vivere quello che il cammino mi stava regalando. Questa paura mi accompagnò per molti chilometri. Non arrivare a Santiago di Compostela, significava non raggiungere le risposte che stavo cercando, significava perdermi nella frustrazione di sempre. O TTAV O CAP I TO LO Il d olore e la p reg hi era Era nuvoloso, ma non faceva freddo. Come sempre iniziammo a camminare in gruppo, e commentammo il comportamento dei coniugi coreani, che rincontrammo la sera prima, avevano litigato tra loro, era qualche giorno che si ignoravano, ci rattristammo un po’ tutti. Loro come sempre facevano erano i primi a lasciare l’ albuergue. Dopo qualche km, ero davanti agli altri, pensai di fermarmi e aspettare gli amici per pregare insieme. Non l’avevamo ancora fatto e senti la necessità di proporlo. Proprio quando decisi di fermarmi vidi la coppia dei giovani coreani un poco più avanti seduti su una panca, in uno dei soliti paesi deserti che si incontrano durante il cammino in questa stagione. Erano visibilmente di mal umore, ognuno guardava in un punto diverso. Scambiai due parole e gli altri era già tutti lì, proposi di pregare insieme un Padre Nostro, ognuno nella propria lingua tenendoci per mano. Così con l’imbarazzo di qualcuno ci riunimmo in preghiera dove emettevamo solo un suono in tre lingue, Italiano, Coreano e spagnolo. Alla fine della nostra preghiera uscì un raggio di sole, Dio accarezzò i nostri visi e poi tornò dietro le nuvole. Ci guardammo commossi, ci abbracciammo e ci congedammo dai ragazzi coreani, loro decisero di farlo in più tappe, difficilmente ci saremmo rincontrati. E’ sempre difficile dirsi addio anche con persone con le quali si condividono pochi istanti. Riprendemmo il cammino, dopo qualche decina di metri, mi girai a guardare per l’ultima volta la coppia dei giovani amici, si stavano baciando. I chilometri rimanenti furono davvero difficili, camminai da solo, ero l’ultimo del gruppo. Si aggiunse alla compagnia una coppia di ragazzi di Santiago di Compostela che iniziarono il loro cammino a Burgos. Una coppia di ragazzi belli dentro e fuori, gli occhi azzurri dei due faceva trasparire la purezza delle loro anime. Camminando da solo sentivo le porte che si aprivano con forza dentro la mia mente. Sentivo diversi sentimenti affiorare, pensai a mia moglie, era già qualche anno che sentivo la mancanza di un amore, che sentivo la mancanza di mia moglie. Eravamo in crisi da quattro anni, una crisi soffocata dagli ultimi difficili anni di lavoro, dove la corsa perché l’impresa rimanesse in piedi era così estenuante che ci fece dimenticare dei problemi tra noi. Pensai anche ad una persona che lasciai entrare nella mia vita negli ultimi mesi, sentivo anche la sua mancanza, come era possibile? Quando ero ragazzino, mi innamorai molte volte, ricordo mia mamma che mi diceva che non ero innamorato della ragazzino di turno, ma ero innamorato dell’amore. Aveva assolutamente ragione, ero e sono innamorato dell’amore, innamorato dei sentimenti intensi figli dell‘amore, che esso sia per una donna, per un amico, per un figlio o per un animale, amo tutte le forme dell’amore e non ne posso fare a meno. Sentivo la mancanza dell’amore, era questo che uscii dalle porte chiuse, ero bisognoso di amore, di amare in tutte le sue forme. I pensieri e le porte si richiusero a causa del dolore sempre più forte che nasceva dai mie piedi e raggiungeva con forza il cervello dove strani pensieri prendevano forme “non arriverai mai a Santiago”, “se continui i tendini si romperanno e non potrai più camminare per mesi”, “Dio ti sta punendo per tutti i peccati commessi”, “non meriti di arrivare a Santiago” pensieri assurdi si formavamo nella mia mente, pensieri di castigo di Dio ai quali non ho mai creduto, pensieri infantili che mi facevano davvero paura. La tendinite si era spostata dal piede destro al sinistro prima al tallone ed ora al collo del piede. Il gruppo mi aspettò in un ristorante dove rimanemmo abbastanza tempo, per riposarci. Fui difficile continuare a camminare, i primi passi erano i peggiori, non riuscivo neanche ad appoggiare i piedi dal dolore, ma stringevo i denti e per darmi forza pensavo che mancavano solo 10km all’ arrivo, solo 2h e 30 minuti. Arrivammo all’albuergue alle 17,30. Fui il primo ad entrare, mentre gli altri si stavano sfilando gli scarponi. Come da prassi diedi il passaporto del pellegrino al ragazzo incaricato a registrare gli ospiti, quando apparse un signore che disse “sono le 17.30” aggiunse “a quest’ora arrivano i turisti non i pellegrini!” Ci misi qualche secondo a reagire, non ero pronto ad essere trattato in quel modo, dopo aver camminato per 8 ore con un dolore lancinante ai piedi questo soggetto mi critica perché arrivai a tardo pomeriggio? “Ma come si permette” urlai, urlai di rabbia, era la prima volta da quando stavo camminando che sentii tanta rabbia “Come si permette, ho camminato per 8 ore con la tendinite, con fatica ma chi è lei per giudicare, ma chi è lei” L’uomo non si aspettava la mia reazione, e come un gallo si avvicino facendomi capire che era pronto per battersi, era un uomo di 55/60 anni basso e grassottello, non mi intimorì, anzi mi fece infuriare ancor di più, gli dissi che il suo comportamento era ridicolo e offensivo, che doveva rispettarmi per essere un pellegrino e un ospite del suo albuergue. Entrarono gli altri e così smessi di gridare, erano tutti pronti a difendermi, ma dissi che non era il caso e che quel povero uomo meschino e mal amato era un cretino. Sali al piano superiore dove c’era la stanzona con il letti a castello, mi sdraiai sul primo letto, tremavo dalla rabbia, entrai in un circolo di energia molto bassa, erano settimane che non sentivo rabbia, che non provavo sentimenti negativi. Mi sdraiai e tentai pregare per calmarmi, in quel momento la conchiglia che era fissata saldamente al mio zaino, cadde e un pezzettino si ruppe. Un segnale, un forte segnale che arrivava direttamente dal Cammino. Pensai immediatamente al perdono, mi concentrai e recitai una preghiera scritta da me: Per tutti quelli che mi odiano io prego Per tutti quelli che vogliono distruggermi io prego Per tutti quelli che invocano energie senza luce per farmi del male io prego Per tutti quelli che si sentono perturbati dalla mia presenza io prego Per tutti quelli che non mi accettano io prego Per tutti quelli che desiderano la mia morte io prego Prego e chiedo a Dio che scenda la Sua benedizione su di me e su tutti gli esseri senza luce Che tutti i malefici fatti contro di me si trasformino in benedizioni per me e per tutti quelli che li hanno pensati ed esecutati. Amen Mi calmai, e mi venne un forte senso di rimorso per aver trattato male quell’uomo, anche se lo meritasse. All’ora di cena scesi salutai l’uomo serenamente, e lui mi chiese se avessi bisogno del ghiaccio da mettere ai piedi, accettai. Il clima tornò sereno. N O N O CAP I TO LO Leon e i l S es s o La tappa per arrivare a Leon era di 39km, la più lunga del cammino. La sera prima, io e Paco, decidemmo di dividere una stanza in un piccolo hotel, avevamo bisogno di una notte ben dormita. Quel giorno salutammo Stefano ed Ilaria, che fecero qualche chilometro in autobus per arrivare due giorni prima a Santiago. La coppia spagnola, Alvaro e Jennifer, decisero di andare a Leon in autubus, così avremmo fatto la tappa solo io e Paco. Ci svegliammo molto presto e alle 7,15 stavamo già camminando. I piedi mi facevano molto male, ma sapevo che i primi chilometri sarebbero stati difficili. Paco mi guardavo preoccupato, si chiedeva come sarei riuscito a fare tanti chilometri zoppicando in quel modo. Avevamo davanti tante ore di cammino, Avevo bisogno di stare da solo, di sentire la voce di quell’ io che diventando adulto soffocai. Ci incontrammo alcune volte per mangiare e riposarci ma camminammo soli. Mancavano 15km a Leon, quando si spalancarono le porte e si liberarono ricordi che non mi sarei aspettato di dover affrontare durante il cammino. Immagini di donne che avevo avuto prima di sposarmi iniziarono ad apparire. Fino ai miei 32 anni non ebbi nessuna esperienza d’amore duratura, amai in modo diverso le donne che conobbi, ma le amai tutte. Le immagini dei loro visi mi apparivano uno alla volta, i loro corpi erano nudi e molto belli. Mi baciavano e accarezzavano in un’orgia di ricordi e avventure sessuali. Le scene erano sempre più reali, la respirazione cominciò ad accelerare e il corpo a scaldarsi. C’era il sole, ero in una strada di campagna, camminavo immerso nella fantasia così che il panorama bucolico scomparse, la dimensione in cui fui proiettato era di desiderio carnale, di scene di sesso intenso, di momenti di puro piacere, quella sensazione di goduria che si prova solo dando e ricevendo piacere coinvolgendo tutti i sensi, il tatto, la visione, il sapore, l’odore e sentire i gemiti della persona amata. Le immagini si confondevano facendo apparire una poi l’altra, poi insieme, stavo vivendo quella fantasia con forte realtà. Le mie gambe camminavano, ma il mio corpo e la mia mente stavano facendo l’amore. Quell’amore Eros di cui abbiamo tutti bisogno, quell‘amore di attrazioni fisiche ed energetiche che si sprigionano con tale forza che spesso ci fanno perdere il controllo, quell’amore spinto dalla creazione, dalla forza della sopravvivenza della specie. Quell’amore così forte che coinvolge l’intero genere animale. Quell’amore istintivo che fa procreare. Quell’amore animale che si stava liberando aveva preso il controllo di me, se avessi fatto solo qualche passo in più avrei raggiunto l’orgasmo. Mi fermai, ero su un monte, nella periferia di Leon, mi girai e vidi Paco che doveva essere a circa un km da me, mi avrebbe raggiunto in 15 minuti. Tentai pensare ad altro, ma non riuscivo. Le forti immagini di sesso avevano risvegliato un desiderio primitivo molto forte. Pensai al cammino, a santiago, così mi calmai. Camminai con Paco gli ultimi chilometri, le immagini scomparvero e le porte si richiusero. Entrammo in città pochi chilometri ci separavano dall’arrivo di questa lunga e estenuante tappa. Arrivammo all’albuergue, stanchi ed io zoppicando sempre più. Incontrai alcune persone che conobbi qualche tappa prima, erano stupiti di vedermi camminare, una ragazza spagnola mi chiese come riuscissi, le risposi che il dolore è nella nostra mente e con un po’ di esercizio e con molta forza di volontà ci si abituava. Quello che per me ormai era normale, visto dagli altri era un’impresa eroica, camminai fin dall’inizio con male ai piedi, prima a causa delle vesciche poi delle tendiniti e dalle microfratture alla caviglie, stavo prendendo degli antiinfiammatori molto forti che mi aiutavano ad alleviare il male, ma il dolore era continuo e a volte insopportabile, se mi fossi trovato in qualsiasi altra situazione dove la meta non fosse così importante avrei rinunciato già da qualche giorno. Era in gioco il mio futuro, ero conscio che solo se fossi riuscito ad arrivare a Santiago avrei avuto la chiara visione di quello che mi rendeva felice, di quello che avrei dovuto fare della mia vita. Se avessi abbandonato a metà sarei tornato a casa senza la risposta che stavo cercando. Come dicevo agli amici del cammino, io a Santiago ci arrivo con o senza piedi. Andai a dormire con il ricordo di quello strano pomeriggio, dove Eros si era fatto vedere con forza, dove quell’aspetto dell’amore che soffocavo da alcuni anni spalancò le porte e con tutta la forza di un animale selvaggio si fece presente ricordandomi quanto bello fosse amare carnalmente. Il giorno dopo riprendemmo il cammino, in compagnia della coppia di santiago, esistevano due percorsi diversi l’ uno per le montagne e l’ altro costeggiando la strada asfaltata, dopo due tappe i cammini si sarebbero nuovamente incontrati. Ci trovammo per caso in quello di montagna, il paesaggio era stupendo, la giornata calda e piacevole. Da lontano si vedevano i picchi innevati delle montagne, il largo sentiero di terra e sassi ci conduceva per piccoli paesi deserti. Quel giorno conobbi un signore del Kentucky, camminava lentamente, mi adattai al suo passo per scambiare due chiacchere, era solo ed era partito da Leon. Mi raccontò che l’anno prima scalò il Kilimangiaro, un uomo calmo che faceva il cammino pole pole, che i swauli significa piano piano. Ricordai del periodo passato in Kenya e delle poche parole i swuali che conoscevo. Dopo aver camminato per 20 km, ci fermammo in un bar a mangiare un panino, ero esausto, i quasi 40 chilometri del giorno prima avevano peggiorato molto la tendinite ora su tutti e due i piedi. Non riuscivo più a camminare, chiamai l’abuergue che era a 5km di distanza e chiesi se avessero un telefono di un taxista mi dissero che l’avrebbero mandato loro. Passato un quarto d’ora entrò nel bar una bella ragazza con gli occhi azzurri e cappelli nerissimi, era la proprietaria dell albuergue che venne a prendermi. I pensieri del giorno prima si risvegliarono con l’incontro di questa bella ragazza, probabilmente il mio volto non lo nascose. Paco lo capii e mi disse con sguardo severo di fare il bravo. Come l’avesse capito non lo so. In auto parlammo del cammino, di cosa facessi, l’animale che si risvegliò in me aveva voglia di vivere un avventura in quell’esatto istante. Arrivammo all’albuergue, mi registrai, salutai a malincuore la ragazza seguendo il consiglio di Paco e chiesi del ghiaccio. Rimasi sdraiato ad aspettare gli altri. I piedi erano molto gonfi, l’incubo di non riuscir ad arrivare a Santiago ricomparse. Mi consigliarono e mi forzarono a non fare la tappa successiva fino ad Astorga. Lasciai la decisione al giorno dopo. Dormii male, mi svegliai almeno 4 volte nel cuore della notte per mettere la pomata antiinfiammatoria con la speranza di riuscire a camminare. Tra un massaggio ed un altro pensai alla mia vita. Gli ultimi 5 anni non li avevo vissuti, ricordavo solo lo stress del lavoro, il peso che tutti i mesi dovevo affrontare per pagare gli impiegati, gli affitti e i fornitori, era stata una corsa per non affondare, una nuotata in oceano aperto, il cammino mi stava mostrando che nuotavo senza meta, nuotavo e battevo le gambe solo per non affogare. Pensai al mio matrimonio, erano 12 anni che ero sposato, e 4 che non c’era più nulla con mia moglie. Quello che ci teneva uniti era l amore Philia, l‘amore bellissimo che esiste tra gli amici veri, ma non sufficiente in una coppia. Pensai che un terzo della mia vita matrimoniale era stato incompleto. Non era giusto privarmi dell’amore Eros, del sentimento che unisce una coppia in modo completo. Quando 13 anni prima decisi di vivere in Brasile lo decisi per amore, conobbi mia moglie, ci innamorammo e così abbandonai la famiglia, gli amici e la sicurezza che solo la propria terra ti dà. Lo feci per vivere l’amore, per essere felice come solo l’amore ti può rendere. Amai molto mia moglie in modo completo, ma perché quell’amore che per 8 anni rimase vivo oggi non c’era più? Prima di partire affrontammo il problema, ma secondo lei era solo a causa dello stress, per me invece i problemi del lavoro avevano solo ritardato il coraggio di affrontare il problema. Pensai che potesse essere normale che dopo anni di matrimonio la passione svanisca e che l’amore maturi e si trasformi in qualcosa di più nobile e che eros era ormai da dimenticare perché appartiene solo ad una fase iniziale del matrimonio. Avevo quasi 45 anni e avrei dovuto dimenticare l’eros? L’amore Eros è l’amore che ci fa camminare in coppia, è il desiderio di sì unire carnalmente, è il desiderio di raggiungere l’anima del nostro compagno per poterla accarezzare. E’ dare e ricevere. E’ il desiderio di passare il tempo insieme, di donare il proprio tempo e di riceverlo donato. Eros è tutto questo e molto di più. Mi accorsi che la risposta più importante che speravo arrivasse dal cammino era se rinunciare all’amore completo a favore del mio matrimonio, risvegliare quest’amore o dover cominciare una nuova vita, dover affrontare la separazione. Ci sposammo in chiesa, promettemmo che sarebbe stato per sempre, ci credetti profondamente, ma era giusto? Era giusto che la chiesa ci facesse citare quelle parole definitive? Era giusto vivere a metà per la promessa fatta? Non essere felice perché pronunciammo una promessa definitiva? Dio ci vuole felici o sposati indipendentemente dalla propria felicità? Si dovrebbero cambiare le parole citate durante la celebrazione del matrimonio cattolico, con “prometto di starti vicino nel bene e nel male ma solo fino a quando ci potremmo regalare momenti di felicità. Abbiamo il dovere di essere felici, solo se lo siamo in modo completo possiamo regalare felicità agli altri, ama il tuo prossimo come te stesso, il primo passo è amare noi stessi percorrere cammini che ci rendono felici, solo così possiamo davvero donarci al nostro prossimo in modo completo. DECI MO CAP I TO LO As tor g a Avevo molto male ai piedi, tentai camminare ma non riuscivo, decisi di prendere l’autobus. Arrivai ad Astorga, chiesi informazioni per arrivare all’albuergue della parrocchia, l’unico che la guida indicava come aperto. Entrando nella città vecchia, passai per la maestosa cattedrale e la bellissima dimora creata per il vescovo, disegnata da Gaudi. Poi la piazza Major, dove si innalzava l’ Ayuntamiento, una costruzione de 1600. Erano poco più delle undici del mattino, e quando arrivai all’abuergue parrocchiale mi informarono che avrebbero aperto solo alle due del pomeriggio. Deluso perché non vedevo l’ora di sdraiarmi, decisi di cercare un centro massaggi. Il massaggio mi fece molto bene, i piedi si erano sgonfiati, ma la fisioterapista mi disse che dovevo assolutamente riposare, che sarebbe stato meglio fermarmi anche l’indomani. Andai nella piazza major, presi un cappuccino in uno dei bar che aveva i tavoli fuori. Pensai che sarebbe stato meglio cercare un albergo per fermarmi due notti. Le ultime tappe le feci sempre in compagnia, avevo bisogno di slegare questa dipendenza che si era creata tra noi quattro, Paco, Alvaro, Jessica ed io. Era una settimana che eravamo sempre insieme, era bello perché mi sentii in qualche modo protetto più sicuro, ma sentivo la necessità di trovare nuovamente quello spirito di solitudine che mi aiutava ad ottenere le risposte che tanto volevo. Decisi di rimanere ad Astorga due giorni, presi una camera in un hotel nella piazza major. Quando arrivarono Paco e gli altri, li avvisai, fummo a cenare insieme e la sera stessa ci salutammo, sicuri che ci saremmo rivisti durante il percorso o al massimo a Santiago dove Alvaro e consorte vivevano e Paco sarebbe rimasto qualche giorno dopo l’arrivo. Salii in camera e finalmente quella sensazione di solitudine che cercavo tornò. Dormi fino alle 11. Una volta sveglio pensai come trascorrere il tempo, visitai la cattedrale e il palacio episcopal de Gaudi. A mezzogiorno mi sedetti in un tavolino all’aperto in un bar della piazza. Era una giornata di sole molto bella, si sentiva arrivare l’aria frizzante della primavera. Come in tutti i paesi, di domenica, ci si veste di tutto punto e si va in piazza. Famiglie intere finita la messa cominciarono a riempire i tavoli all’aperto dei vari bar che circondavano la piazza. Mi piaceva rimanere ad osservare ed entrare nel clima domenicale di quella bellissima giornata. Stavo bevendo una spremuta di arancia, mi stavo lasciando accarezzare dal sole ancora tiepido di marzo, quando una scena che difficilmente dimenticherò riempi il vuoto della mia mente. Due uomini, uno in una letto con le ruote, totalmente paralizzato, l’altro su una carrozzina elettrica che si curava di spingeva il letto. Stavano passeggiando. Stavano passeggiando. Davanti ad una scena come questa è inevitabile pensare alla forza dell’amore, alla forza di Philia che unisce gli amici in un amore vero. Il signore sulla carrozzina elettrica stava superando non solo i propri limiti motori ma anche quelli dell’amico, danzavano tra le via in silenzio, e regalavamo amore a tuti quelli che li osservavano. Dopo la spremuta d arancia andai a mangiare un tipico piatto locale, e poi in hotel a riposare. Dormi un paio d’ore. Quando mi svegliai mi affacciai dalla finestra e la piazza era deserta, erano le 4 del pomeriggio,erano tutti a fare la siesta. Studiai la tappa del giorno dopo, erano 26 km, fino a Foncebadon. Ero solo, essere soli nel cammino di Santiago, significa essere libero di fare e andare dove si vuole, libero di fermarsi quando vuoi senza essere condizionato dagli altri. E’ una sensazione che mi faceva sentire vivo. Sono un uomo che si è sempre preoccupato più degli altri che di se stesso, non lo faccio per decisione ma per istinto, sono nato così. Quando cammino con altre persone, mi fermo quando ne hanno bisogno, bevo quando gli altri hanno sete, mangio quando hanno fame. In tutta la mia vita ho sempre avuto qualcuno al mio fianco, negli ultimi anni mia moglie, prima gli amici o la compagna del momento, sempre ero con qualcuno e sempre questo qualcuno era più importante delle mie esigenze. Essere da solo, era una esperienza nuova che mi fece capire quanto fosse bello dedicare attenzioni a se stessi. Quanto è bello essere liberi di fare e andare dove si vuole. Camminai per molti chilometri, fermandomi spesso a mettere le varie pomate ai piedi. Conobbi una ragazza polacca, due americani rincontrai l amico del Kentucky, incontri rapidi giusto per scambiare quattro parole. Foncebadon era un paesino di alta montagna assolutamente deserto, un solo albuergue era aperto, nessun ristorante o bar, solo un piccolo supermercato. Eravamo in tre nell’ostello, io e due ragazzi americani. U N DI CESI MO CAP I TO LO La C r oce d i Fer r o Chiesi alla moglie dell’albergatore se potesse farmi qualcosa da mangiare, preparò un ottimo e abbondante piatto di spaghetti, li preparò con amore, le piaceva cucinare e aggradare gli ospiti. Andai a dormire molto presto, l’indomani avevo un appuntamento importante, la croce di ferro. Un rituale che si ripeteva da secoli era a pochi chilometri per essere celebrato anche da me. Un palo di legno reggeva una croce di ferro a qualche metro di altezza. Era un punto sacro da molti secoli, prima ancora della croce di ferro in quello stesso punto sorgeva un tempio pagano dedicato a Mercurio che era considerato a quei tempi il protettore dei cammini. Ero in un posto magico. Per tradizione i pellegrini lasciavano un pietra portata da casa simboleggiando i propri peccati, quindi una sorta di purificazione, una liberazione. Io non portai una pietra, ma avevo vari bigliettini dove amici e parenti scrissero messaggio a Dio. Erano le nove di una bellissima mattina d’inverno. Dietro alla croce di ferro si poteva vedere la luna, che rendeva il paesaggio ancor più suggestivo, tolsi lo zaino, presi i bigliettini e mi avvicinai alla croce. Pregai, anche questa volta a voce alta, pregai per tutte le persone che mi chiesero di farlo, poi in silenzio infilai i bigliettini nelle piccole fessure che si trovavano nel legno. Piansi, un pianto all’inizio timido che si trasformò in singhiozzante, non riuscivo a fermarlo, era bellissimo, liberatorio, le lacrime stavano portando via i cattivi pensieri, l’angoscia, le insicurezze, le malattie, i dolori, i dubbi, le lacrime stavano lavando la mia anima. Mi sedetti sulle pietre, non so quanto tempo passò, ma quando aprì gli occhi il sole era già alto. Rimisi lo zaino e continuai a camminare. Arrivai a Ponferrada, l’albergue era bruttino le camere piccole e piene, così dormi in una pensione. Erano 22 giorni che camminavo e molte cose erano cambiate in me. Nacque una forza capace di farmi capire quello che era davvero importante, una forza che stava facendo rinascere un entusiasmo esplosivo. I piedi ormai facevano sempre male, il dolore era continuo e divenne un compagno silenzioso della mia avventura. Più volte mi chiesi come fosse fare il cammino senza dolore. Le persone che conobbi mi facevano capire che brillavo di una luce insolita. Non ero l’unico, tutti i pellegrini che sono chiamati dal Cammino, hanno una luce diversa, più forte. Non tutti i pellegrino sono chiamati da questa energia, molti fanno il cammino per avventura, per esperienza o per trascorrere una vacanza poco costosa, come mi disse un a ragazza tedesca. L’entusiasmo nacque insieme alla nuova capacità di vedere la verità, di osservare la mia vita con assoluta coerenza e sincerità. Così con facilità capii che avevo bisogno di amore, di dare e di riceverlo, non solo Eros, ma anche l’ amore Philia, e soprattutto Agape. Sentivo la mancanza di tutti e tre gli amori, vedevo la mia vita grigia, triste e sterile. La mia indole non è così, ho sempre amato, amici, compagne, famiglia, ho sempre amato tutti e molto, ma negli ultimi anni ero cambiato, ero diventato un albero secco. Non mi importava molto trovare il motivo, ma volevo tornare ad essere un albero verde che potesse dar frutti, che potesse distribuire amore, che potesse dedicarsi al Bene. Il cammino stava aprendo le porte delle piccole stanze nel mio cervello dove il mio essere, la mia sostanza, era stata chiusa, negli anni, da me stesso. Avevo trascurate le mie necessità, per risolvere i problemi quotidiani di lavoro, le avevo trascurate per favorire il matrimonio, stava diventando tutto più nitido, la mia essenza stava tornando in vita. Arrivai a Villafranca del Bierzo. Era una giornata straordinariamente calda, il termometro sulla strada marcava 28 gradi, almeno 15 gradi in più del normale per quella stagione. In albergo, incontrai vari amici conosciuti in tappe precedenti, era un bel gruppo. Il coreano decise di cucinare per tutti una chicken soup. Chiamai una massaggiatrice, anche lei mi disse di fermarmi, i miei piedi erano veramente messi male. A questo punto del cammino, la paura di non farcela era ormai passata. Sapevo che avrei dovuto fermarmi un altro giorno o forse due per riposare, ma non avevo fretta, ormai l’aereo lo avevo già spostato e nulla mi avrebbe impedito di arrivare a Santiago. A cena c’erano varie persone che non conoscevo. Quella sera conobbi Carmen, una ragazza svizzera carina e simpatica. Fui una serata veramente piacevole. Il giorno dopo camminai verso il Cebreiro, come sempre da solo. Pensai alcune volte alla ragazza della sera prima, avevo notato nei suoi piccoli gesti che era molto dolce piena d‘amore, mi colpii, era la prima donna che incontrai durante il cammino che mi fece pensare, aveva una luce molto forte. Perché l’amore finisce? Cosa succede? Ci si promette l’eternità, credi che sia per sempre ma poi ad un tratto ti accorgi che è finito. Rimane un affetto forte, come si ha per la propria sorella, per il miglior amico, è molto difficile ammettere che una storia d’amore di 12 anni finisca. Negli ultimi mesi chiesi più volte la separazione ma sempre ed inevitabilmente si cadeva in discussioni sterili e poco costruttive. Quando il cammino mi chiamò, pensai fosse un’ottima opportunità per capire cosa stesse succedendo tra noi, la lontananza fa nascere la voglia di rivedere la persona amata, di toccarla di sentire la sua voce, di sentirne nostalgia o ancora più forte sentirne saudade come dicono in Brasile. Non mi sentivo solo, non mi sentivo a metà, non sentivo saudade. Il mio cuore soffriva, ma finalmente capii cosa fosse giusto fare. Se il mio cuore vibrava davanti ad un sorriso di una sconosciuta, era perché era vuoto, era perché era libero e pronto per amare un’altra persona. Mi sentivo libero, non mi sentivo più un uomo sposato, lo ero ufficialmente, ma non lo ero più davvero. Sposarsi, per me, non è mai stato un contratto, ma un legame profondo d’amore. Non un impegno formale davanti a Dio, né un vincolo con mia moglie, né un obbligo, ma fui sempre una scelta d’amore, una scelta che mi portò molta felicità, una scelta così vera che mi impedii sempre di tradire. Tradire anche solo fisicamente, sarebbe stato incoerente con la scelta che feci. La mia vita era completamente nelle mani dell’amore che provavo per Aglaura. Quando parlavo con amici che mi raccontavano le loro avventure extraconiugali, ero a disagio perché non le condividevo, anche se per la maggior parte delle persone è normale, se non essenziale perché il matrimonio continui. Per me era imbarazzante, l’amore che conoscevo e stavo vivendo non mi permetteva di tradire, tradire la fiducia di mia moglie, tradire l’amore vero, tradire me stesso, non era comprensibile e tollerabile. Arrivai al Cebreiro, un antico paese di montagna, sempre accompagnato dal dolore ma ci arrivai. La sera cenai con alcuni amici, la ragazza della sera prima insieme ad altri crearono un altro gruppo. La cercai, nella stanza per vedere dove stesse dormendo, ma niente di più. Non stavo facendo il cammino per vivere avventure d’amore, forse ne avevo bisogno, ma non lo cercavo. Mi svegliai presto cominciai a camminare nella nebbia, faceva molto freddo, dai 28 gradi di qualche giorno prima, passammo ai meno cinque di quella fredda mattina. L’arrivo di oggi era a tricastella, così decidemmo la sera prima. Qualche chilometro prima di arrivare, chiesi ad un contadino quanti chilometri mancassero all’arrivo, molto gentilmente mi rispose che mancavano solo due chilometri. Mi chiese da dove arrivavo, poi mi disse “ tu esta bueno”, non capii cosa volesse dire, forse se stavo bene, probabilmente mi vide zoppicare, pensai, chiesi di ripetere, e ancora “tu esta bueno” “no entende?” “no” risposi, in quel momento afferro i propri genitali con la sua mano e aggiunse ”non te gusta?” mi girai imbarazzato, forse risposi no grazie e cominciai a camminare. Feci qualche metro mi girai e lo guardai con disprezzo! Arrivato all abuergue lo raccontai a tutti e iniziarono le barzellette e tutto si trasformò in una bella risata. La sera andai a cena con un fotografo belga, una ragazza spagnola che viveva in germania, e con Carmen la ragazza che conobbi due sere prima. Il menu del pellegrino e alcune bottiglie di vino resero la serata molto divertente. Mancavano solo 133km a Santiago di Compostela! DO DI CESI MO CAP I TO LO C hi è Di o Durante il cammino, chiesi a più di una persona chi fosse Dio. La domanda la facevo non tanto per avere una risposta, ma riflettere insieme a loro su una questione tanto difficile, la maggior parte non si pone questa domanda e comunque la risposta non è frutto di un pensiero personale. Questa domanda mi accompagna da 30 anni. Quando ero adolescente mi chiedevo chi fossimo, qual era lo scopo della nostra vita. La domanda mi faceva male, riuscivo a sentire la paura del nulla, riuscivo a immergermi nel profondo sconosciuto e gelare di paura. Era una sensazione molto forte, che mi piaceva ma mi terrorizzava. Ricevetti fin da piccolo una educazione cattolica, anche se i miei genitori non erano molto religiosi. Frequentai scuole dove si insegnava la dottrina rigida del cattolicismo, i mercoledì mattina la confessione, poi la messa alle 9,00. Quando iniziai a crescere, mi accompagnarono i dubbi sulla religione e su Dio, che fino a quel momento erano inseparabili. La dottrina, le regole della chiesa cattolica non rispondevano alle mie domande con un senso vero. La verità non era trattata come assoluta, ma la verità era solo quella indicata dalle sacre scritture. Già a 15 anni non riuscivo a credere ad Adamo ed Eva, alla creazione del mondo in sette giorni. Perché Dio parlò a Mosè tante volte ma oggi tace? Perché Dio uccise i suoi propri figli, gli Egiziani? Perché il papà di Gesù era amore assoluto mentre il Dio degli Ebrei era anche tanto malvagio? La mia orientazione naturale verso l’amore ed il bene era in continua contraddizione con quello che ascoltavo in chiesa. I dubbi crescevano, la chiesa non mi stava dicendo la verità assoluta, ne avevo al certezza… smisi di pensare. Gli anni passarono, cominciai a leggere libri di teologia e filosofia, così molte finestre chiuse si aprirono e tornai a riflettere su chi fosse Dio e su chi fossi io. Dio, una parola inventata dall’uomo per rappresentare quello che non capiamo. Salto un po’ più in alto, mi fermo galleggiando nell’aria, entro nelle chiese, ognuna con le proprie regole, osservo le altre religioni e ovunque guardi incontro regole, leggi. Con il libero arbitrio, Dio ci ha fatto il dono più grande, ma le religioni vogliono controllarci, prendersi cura di noi e trattarci come pecore ed essere loro i nostri pastori, sostituendosi a Dio. Avete già visto un gregge di pecore? Dove va la prima, vanno le altre, non si domandano dove ma seguono chi gli sta davanti, se Dio ci avesse voluto creare e tenere al guinzaglio, sarebbe stato semplice per Lui. Gesù venne per liberare le pecore dal recinto e lasciarle libere, non venne per creare un nuova religione e così imprigionare gli uomini in un nuovo recinto, in nuove regole, in nuovi comandamenti. Sono un uomo libero, un figlio alla ricerca della felicità, accettando come unico comandamento divino, ama il tuo prossimo come te stesso. Un comandamento positivo, che ci invita ad amare, ad attivare il bene come unica verità e cammino per unirci alla creazione, per unirci a Dio. Come posso credere in un Dio che mi dice: «Ti comando di amare il Signore tuo Dio, di camminare per le sue vie, di osservare i suoi comandi, le sue leggi e le sue norme, perché tu viva e ti moltiplichi» (Dt 30,16). Come posso credere ai dieci comandamenti che l la chiesa Cattolica ha riassunto in: 1-Non avrai altro Dio fuori di me 2-Non nominare il nome di Dio invano 3-Ricordati di santificare le feste 4-Onora il Padre e la Madre 5-Non uccidere 6-Non commettere atti impuri 7-Non rubare 8-Non dire falsa testimonianza 9-Non desiderare la donna d'altri 10-Non desiderare la roba d'altri Su dieci comandamenti solo due non iniziano con un divieto, con l’ordine di non fare. Non credo che il babbo di Gesù sia lo stesso che scrisse i dieci comandamenti, Gesù chiamava il proprio padre con la parola ebrea Abbà, che significa Babbo, il termine con il quale teneramente i figli si rivolgono al proprio padre. Come posso credere in un Dio che mi dà la libertà assoluta di fare ed agire come meglio credo, ma poi mi costruisce un recinto intorno e si esprime quasi sempre in modo negativo e non propositivo come invece fa l’unico comandamento che Gesù ci lasciò. E’ difficile per me credere in tutto quello che leggo nell’antico testamento, non credo che per testare la fede il Creatore debba comandare un padre di sacrificare il proprio figlio. Il proprio figlio!!! Non credo che Abbà abbia sterminato milioni di suoi figli perché credevano in altri dei, non credo in un dio capace di distruggere la propria creazione, questo dio per me è l’invenzione di un leader che controllava (probabilmente con un buon proposito) il gregge con l’aiuto della paura che un Dio spietato incute sulla massa. In molti paesi e religioni, il terrore viene usato anche oggi, con l’intuito di controllare il popolo. Credo nel Bene, credo in tutte le espressioni del bene, credo che Gesù sia sì il figlio di Dio e credo in tutti gli uomini che seguono il bene, anche se hanno altre religioni e culture. Credo che tutti siamo figli di Dio, Ra, Allah, o come meglio si voglia chiamarlo. Per rispondere alla domanda iniziale, rispondo con le stesse parole che usai quando Paco durante il cammino mi rinvertì la domanda, Indicai un sasso e dissi: “Questo sasso da solo è solo un sasso, ma tutti questi sassi insieme fanno il cammino di Santiago” Questa piccola e spicciola riflessione sulla religione, è il frutto di anni di letture di vari libri che trattano il tema. Tutto iniziò con la mia prima lettura dove un Teologo italiano mi aiutò, attraverso le sue riflessioni e ricerche ad aprire una ad una quelle finestre che oggi mi fanno intravedere la verità, grazie Vito Mancuso. Questo non significa che quello che ho scritto sia da lui condiviso. TREDI CESI MO CAP I TO LO Qu alcos a cambi a Camminai verso Sarria, la tappa era abbastanza facile, ma senza gli antidolorifici era impossibile fare più che qualche passo, stavo prendendo i più forti e in dose doppia rispetto a quanto indicato nel foglietto illustrativo. Gli ultimi chilometri li feci in compagnia di Carmen aveva male ad un ginocchio, così andavamo alla stessa velocità. La comunicazione non era facile, lei svizzera tedesca, il suo inglese non era perfetto, il mio inglese era pessimo, il suo italiano come il mio inglese. Voleva fermarsi a dormire in hotel. Dopo molte notti negli ostelli, pensai che per una donna sia indispensabile fermarsi una notte in hotel. Non avevo intenzione di pernottare anch’io, comunque l’accompagnai fino alla reception ma poi un po’ per pigrizia e un po’ per la compagnia, chiesi due stanze. Restai tutto il pomeriggio in camera a riposare. Rimasi un’ora dentro la vasca da bagno, un vero lusso per chi è abituato a fare la doccia nei bagni comunitari degli ostelli. La chiamai chiedendole se volesse cenare con me al ristorante dello hotel, ci trovammo al bar per un aperitivo. Conversammo in compagnia di un buon vino, ridemmo tutta la notte. Aprimmo le nostre vite uno per l’altro con molta naturalità. Era separata da un anno, due figli piccoli, bellissimi e tutte le responsabilità sulle sue spalle. Penso che stesse cercando la forza per svincolarsi definitivamente dall’ex marito che la teneva vicina con i soliti e meschini ricatti di denaro. Ci piacevamo, era chiaro agli occhi di tutti in quel ristorante. Non era una semplice attrazione fisica, eravamo due anime con un gran desiderio di amare e forse ancor di più, di essere amati, con il desiderio di sentire il calore del cuore e l’abbraccio soffice dell’anima. Quella sera sentii il calore del suo cuore. Ci salutammo e andai a dormire. Il giorno dopo decisi di restare fermo, anche lei rimase. Passammo la giornata intera insieme, la sua compagnia mi faceva bene. Aver conosciuto Carmen, mi fece capire definitivamente che quello di cui avevo bisogno era semplicemente amore. Carmen entrò con facilità nel mio cuore, un cuore bisognoso di amore come le terre aride e secche hanno bisogno di acqua, decidemmo di camminare fino a Santiago insieme e questo mi rese felice, la tappa la facevo solo ma poi ci si incontrava per mangiare e riposare, le soste si facevano sempre più piacevoli. Arrivammo a Bonte dove ci fermammo per dormire, eravamo solo noi due nell’albuergue, e nel paese forse 50 persone. Di fronte c’era una piccola chiesa, entrammo per pregare, era una costruzione stretta e lunga, con un altare molto decorato, una interessante immagine di un occhio nella parte alta e centrale dell’altare, ricordava l’immagine egiziana dell’occhio di Ra, probabilmente voleva rappresentare la onnipresenza di Dio. Pregammo in silenzio, finita la preghiera ci guardammo ed in quel momento una lampadina che illuminava la statua di un Santo, forse San Giuseppe, si ruppe, esplose. Ridemmo, prendendolo come un buon segnale. Mangiammo nel bar dell’albuergue, poi nella camerata, parlammo per molte ore, più ci conoscevamo e più il desiderio di avere al mio fianco una donna come lei cresceva. Ricordo di averle detto più volte “i want a woman like you” “ voglio una donna come te”. Lei viveva in svizzera, io a 10000km di distanza, ero ancora sposato, lei con tutti i suoi problemi e mamma di due figli, una storia impossibile, per questo mi limitai a pensare che sarei stato felice con una donna come lei. Secondo i nostri programmi l’arrivo a Santiago era previsto per il 20, avevamo abbastanza tempo, entrambi avevamo l’aereo per il ritorno a casa, il 21. Rimanevano ormai solo poco più di 100km, e sentivo che la missione era compiuta, ma una malinconia nasceva con la stessa velocità che la gioia dell’arrivo stava proporzionando. Il cammino di Santiago, ti mette di fronte a te stesso, ti denuda di tutte le maschere che noi stessi abbiamo indossato nell’arco della nostra vita. Le esperienze, i traumi, le decisione prese, cambiano la nostra essenza. Quando si è giovani si è pronti a cambiare il mondo, gli ideali sono ancora puri, crediamo ai sogni come mete raggiungibili. Quando si è giovani si ha la forza per cambiare le cose, ma poi ci sono i genitori, i parenti, i professori, le battaglie perse, tutti cercano di demotivarti, cercando di farti desistere dal sogno. Ti fanno un vero e proprio lavaggio del cervello dicendo che tutto quello che i giovani credono sono utopie, sogni irrealizzabili. Ti invitano a diventare adulti. Adulti, ovvero uomini privi di sogni, uomini intimamente frustrati a causa dalla realtà che è ben lontana dai loro sogni di adolescente. Una canzone di Lorenzo Cherubini, dice: “non c’è montagna più alta di quella che non scalerò non c’è scommessa più persa di quella che non giocherò…. Dicono che è vero che ogni sognatore diventerà cinico invecchiando” (ora jovannotti) I sogni sono degli obiettivi difficili, e diventano irraggiungibili solo quando decidiamo che sono utopici, in quel momento iniziamo a far invecchiare la nostra anima, perdendo l’entusiasmo e chiudiamo dentro piccole stanze del nostro cervello i nostri sogni, iniziamo a credere che la vita non ha nulla di magico, che la vita è qualcosa di terribilmente razionale e che la lotta quotidiana per la sopravvivenza e l’unico vero motivo della nostra esistenza. I nostri obiettivi si trasformano in quelli che la società ci indica come i migliori, l’abito più bello, le ferie migliori, l’auto di moda. A questo punto siamo diventati adulti e quando avremmo l’opportunità di parlare con un giovane, saremmo pronti a distruggere il suo sogno, forse con la paura che lui lo insegua e lo raggiunga. Possiamo invecchiare senza diventare adulti, dobbiamo lottare per i nostri sogni sempre. Quando ci riusciamo qualcosa di magico succede. Se il nostro sogno è in sintonia con il bene e se crediamo in esso, l’universo sarà con noi e ci aiuterà nel raggiungerlo. Il cammino mi stava ricordando come possiamo rendere la nostra vita magica se solo ci lasciamo trasportare dall’entusiasmo alla conquista dei nostri sogni. Tutte le porte dove tenevo nascosti i sogni, si aprirono e fui invaso da un fortissimo entusiasmo, ero tornato giovane. Q U ATTO RDI CESI MO CAP I TO LO C hi s ono Ormai ero veramente molto vicino alla meta, la sensazione di dover compiuto, di essere riuscito a terminare questa incredibile avventura, mi aveva riempito di gioia. Certo anche Carmen, con i suoi 32 anni, mi aveva fatto riscoprire le vibrazioni dell’amore, del desiderio. Le ultime tappe le feci al settimo celo, l’entusiasmo era così forte che stava stravolgeva tutti i miei piani per il mio futuro, nuovi sogni stavano prendendo forma. Non volevo che finisse, non volevo tornare, avevo paura di perdere queste fantastiche emozioni, paura che finito il cammino non avrei trovato più la forza per vivere i miei sogni, la vita, le emozioni. La notte prima, dissi all’albergatore che alle 8 saremmo stati pronti per la colazione, alle otto e mezza non era ancora arrivato, e scoprimmo che la porta d’ingresso era chiusa a chiave. Cercai varie vie d’uscita fino a quando trovai una finestra che dava sulla strada, a piano terra. L’apri e uscimmo da li. Non volevo più mentire a me stesso, ormai avevo il coraggio per vedere la verità. Non voglio più vivere nei vortici di illusioni ma nella ferma realtà. Ma qual è? La lotta quotidiana nella città o la pace incontrata nel cammino? Vivere inseguendo un nuovo sogno? Cosa mi rende felice? Quando la risposta arrivò, come una vigna secca mi purificò e innaffiò perché nuovi e abbondanti frutti potessero arrivare. Capii che per fare frutti ho bisogno di Amare, che solo l’amore mi rende davvero felice, l’amore nel senso più ampio. Ho bisogno di dedicare il mio tempo ai più deboli, ho bisogno di andare in africa e aiutar i bambini che non hanno accesso all’acqua potabile, al cibo. Di offrire le mie mani ai necessitati, ho bisogno di sedermi e pregare in un tempio buddista, ho bisogno di lavarmi i piedi e le mani ed inginocchiarmi in una moschea, di camminare a Gerusalemme di notte, di abbracciare uno sconosciuto. Ho bisogno di passeggiare tra le risaie di bali con lo zaino in spalla. Ho bisogno di vedere gli occhi di una donna che mi amano. Ho bisogno di aiutare un amico, ho bisogno dell’abbraccio di un amico. Ho bisogno di raccontare al mondo che la vita può essere diversa, ho bisogno di urlare al mondo che l’amore è l’unica cosa che conta. Voglio avere un figlio, voglio averne due. Ho bisogno di amore e vivere questo fantastico viaggio che chiamiamo vita come una continua ed incredibile avventura, in terre sconosciute senza più perdere il controllo della mia barca. La risposta che stavo cercando arrivò forte sicura e indelebile. Q U I N DI CESI MO CAP I TO LO Pap à Carmen mi disse cha voleva arrivare il 19 marzo a Santiago, per poter salutare una amica conosciuta durante il cammino. La data cambiò molte volte, per un motivo o per l’altro. Per non separarmi da lei decisi di anticipare l’arrivo facendo una tappa lunga, per arrivare a Pedouzo così lasciando gli ultimi 20 km per arrivare a Santiago come ultima tappa. Dopo aver camminato 21 km ci fermammo a Salceda. Prendemmo qualcosa da bere e chiamammo un taxi, mancavano solo 5chilometri, ma i miei piedi non riuscivano più a fare un passo. Era pomeriggio, una bella giornata di sole. Il taxi sarebbe arrivato solo dopo un’ora, ci sedemmo all’aperto. Conobbi un signore africano della Tanzania, mussulmano. Vive a Londra, e decise di fare il cammino di Santiago. Parlava anche Italiano, cosi trascorremmo un’ora piacevole, ricordando i miei viaggi in Kenya e i suoi in Italia. Ricordo che mi disse che avevo una buona energia, sentii la stessa buona energia che veniva da lui. Sono sicuro che era stato chiamato dal cammino. Il cammino di Santiago è più forte delle religioni, è una energia pura. Le religioni sono una invenzione dell’uomo necessarie a controllare le masse e a giustificare tutto quello che non si conosce, spesso sono un freno all’evoluzione. È stato molto significativo aver conosciuto un mussulmano che anche lui percorreva il cammino. Arrivammo a Pedrouzo. cenammo con gli amici, le ultime sere si trasformarono in feste commemorative, irrigate da vino, buon cibo e molte molte risate. Quella sera eravamo più di 15 e di origini diverse, coreani, svizzeri, venezuelani, colombiani, italiani, spagnoli. Un’altra bella serata. Il giorno dopo alle 6 stavamo già camminando per arrivare in tempo alla messa di mezzogiorno nella cattedrale di Santiago di Compostela. Era strano camminare di notte in mezzo ad un bosco, si deve superare la paura del buio, la paura dei versi di animali sconosciuti. E’ una sensazione strana. Ci aiutammo con la luce del cellulare, quando la luce illuminò il buio, ci separammo. Negli ultimi chilometri del cammino, si incontrano molte persone, gli ultimi 100 chilometri sono sufficienti per garantirsi il certificato del cammino, la “Compostela” così si incontrano pellegrini puliti, profumati e vigorosi. Io che avevano sulle gambe più di 750 chilometri, camminavo zoppicando, i miei vestiti non erano puliti ed ero tutt’altro che vigoroso. Ricordo una coppia di americani, due signori sui 50 anni. Mi guardarono male, mi sentii disprezzato, fui una brutta sensazione, la stessa che le persone diverse, sentono quotidianamente. Gli omosessuali, i clochard, le persone fuori dagli schemi, hanno su di loro un continuo sguardo di disprezzo. Mi sentii così, ma non provai nessun sentimento. Camminavo lentamente sapendo che sarei arrivato in tempo per la messa. Erano forse le otto quando pensai alla data in cui eravamo. Era il 19 di marzo, la festa del Papà. Mio padre morì nel 1999 pochi mesi dopo aver saputo che aveva un cancro. Furono 4 mesi molto difficili, lasciai il lavoro per stare insieme a lui ed accompagnarlo tutti i giorni a fare la chemioterapia o la radioterapia. Il cancro è una malattia infernale capace di portarti via anche le ultime speranze. Fu così quando a settembre scoprimmo che esistevano varie metastasi ed alcune severe avevano già compromesso il fegato. Quella notte non dormii, erano le tre quando mi alzai e mi accorsi che anche mio padre non stava dormendo. Parlammo della sua malattia, e dell’inevitabile fine che sapevamo stava arrivando. Fui una conversazione molto amara ma allo stesso tempo molto confortante. Mio padre non era religioso, e in quel periodo non lo era neanch’io. Mi disse la verità con molta serenità mi confessò che non era triste di morire e non aveva paura, mi confessò che visse i suoi 54 anni come sempre voleva: “non ho rimpianti, non mi sono mai fatto mancare nulla, ho sempre fatto ciò che volevo anche se so che questo possa aver fatto soffrire alcune persone” si riferiva alla separazione quindi a mia mamma e ai figli, io e mia sorella che inevitabilmente soffrimmo. Continuò: “ certo se potessi scegliere vorrei vivere ancora e a lungo, ma se è scritto che debba morire ora, stai tranquillo, non ho paura, non ho rimpianti.” Erano parole molto vere quelle che mio papà mi disse 40 giorni prima di morire, probabilmente mi voleva confortare e preparare perché soffrissi meno, ma era sentivo che non stava soffrendo. La sua morte fui un trauma per me, vivi la malattia quotidianamente, la lotta e la fine della speranza. Se ne andò il 7 novembre stringendomi la mano. Che coincidenza, arrivare a Santiago il 19 marzo, dopo tutti gli imprevisti avuti durante il cammino. Cominciai a piangere, un pianto profondo fatto di ricordi tristi e malinconici, capii che mio padre probabilmente fece arrivare l’energia del cammino fino a me e che non ero mais stato solo, ma che l’uccellino che cantava per farmi alzare gli occhi e vedere che il percorso stava cambiando direzione, che le campane che suonavano un rintocco quando passavo solo nei paesini dispersi, erano un segnale di mio papà per confortarmi ed aiutarmi. Piansi. Ormai mancavano solo 10 chilometri alla fine di questa incredibile avventura. Raggiungemmo gli altri e insieme entrammo in città. Tra l’entrata a Santiago di Compostela e l’arrivo alla cattedrale, mancavano ancora quatto chilometri. Furono i più forti e incredibile. SEDI CESI MO CAP I TO LO S anti ag o d i C omp os tela L’entrata nella città di Santiago di Compostela, dopo aver percorso 800km, nel freddo, nella neve, con vesciche, tendinite e microfratture, fu un evento che scatenò emozioni vertiginose. Ottocento chilometri! Tanti, tantissimi, ero arrivato, nonostante tutti i problemi ero arrivato. Scoprii che i limiti sono muri di carta, che ti impediscono di vedere oltre, che si possono abbattere, vidi i nuovi orizzonti che la vita mi può regalare sentii il soffio di Dio sulla mia anima. Si squarciano i muri, si spalancarono le porte ed un urlo di gioia iniziò a correre nel sangue, un grido di amore invase il mio corpo, le catene si spezzarono, per un solo attimo ma si spezzarono, iniziai a volare più in alto degli aquiloni, più leggero di una piuma e da lì vidi la verità, nudo dai preconcetti, sentii il profumo della verità che inevitabilmente si unii ad un sentimento di libertà ero come un bambino appena nato, con la coscienza di un uomo. Il concetto di libero arbitrio, si trasformò in colori e profumi meravigliosi, lo incontrai nelle foglie, nei fiori, nell’aria che respiravo, nel sole, nella creazione. La libertà è il principio di tutto, il regalo più grande che Dio poteva donarci, un regalo che dobbiamo vivere nella sua pienezza, lontano dai falsi dei della nostra civiltà, dagli obblighi imposti dalla società, dai preconcetti, dalle regole non vere. Lontano dalle religioni che non predicano l’amore, lontano da quelle che ci vogliono cechi e sordi, lontani dal meccanismo che ingoia i nostri sogni. La libertà è figlia dell’amore di Dio visibile ovunque. Libera di nascere crescere, trasformarsi e continuare ad esistere, proteggendosi modificandosi secondo le necessità della creazione. Così i fiori si vestono di forti colori per farsi riconoscere dagli insetti che dipendono dal loro nettare, le giraffe si allungano per nutrirsi delle foglie più alte, la natura è in continua trasformazione adattandosi alle necessità che si presentano durante il suo cammino. Il soffio di Dio che mi fece volare sulla verità fu la ricompensa del Cammino di Santiago. Ero ancora molto in alto quando senti la paura di perdere la lucidità che avevo incontrato. Lasciai lo zaino insieme a quello di altri in mezzo alla piazza della cattedrale, entrai in chiesa piangendo, assisti la messa piangendo, era la festa del papà, era il mio ultimo giorno del cammino, ero arrivato dove è l’inizio.