I BAMBINI E LA MAFIA: RAPPRESENTAZIONI

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I BAMBINI E LA MAFIA: RAPPRESENTAZIONI
I BAMBINI E LA MAFIA:
RAPPRESENTAZIONI LETTERARIE E CINEMATOGRAFICHE
DELL’INFANZIA NEL GENERE-MAFIA DEL XXI SECOLO
by
LARA SANTORO
A dissertation submitted to the Graduate School – New Brunswick
Rutgers, The State University of New Jersey
In partial fulfillment of the requirements
For the degree of
Doctor of Philosophy
Graduate Program in Italian
Written under the direction of
Elizabeth Leake
And approved by
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New Brunswick, New Jersey
October, 2011
ABSTRACT OF THE DISSERTATION
I bambini e la mafia: rappresentazioni letterarie e cinematografiche
dell’infanzia nel genere-mafia del XXI secolo
by LARA SANTORO
Dissertation Director:
Elizabeth Leake
This dissertation examines the representation of children and the Mafia in 21st century
Italian texts, by analyzing them both in terms of their adherence to bildungsroman
standards and of their significance within the tradition of the Mafia-genre. In addition, I
demonstrate how these texts establish a connection with the aesthetic models of Italian
Neorealism. This dissertation is divided into four chapters, each with a specific
theoretical approach. In the first chapter, I use a Freudian-Jungian perspective and
Turner’s anthropological studies to show how the transition into adulthood in Certi
bambini and Gomorra follows the pattern of a "masculinization", which is understood as
a process through which the male child integrates into the paternal culture of the Mafia,
as he internalizes the typical values of the "man of honor". In chapter two, I analyze how
the child’s unwillingness to integrate into the Mafia culture, both in I cento passi and Io
non ho paura, brings about a violent father-son confrontation, ultimately resulting in a
symbolic parricide. Here, too, I utilize a psychoanalytic approach, drawing in Freud’s
oedipal complex, as well as in Lacan’s Name-of-the-Father. The third chapter has a
ii
philosophical-anthropological frame, drawing support in René Girard’s studies on the
sacrificial victim. I show how the presence of the child-martyr, depicted as figura Christi,
reduplicates the idea of sacrifice carried out by Placido Rizzotto and Alla luce del sole.
The death of the innocent child mirrors the sacrifice of the anti-Mafia hero and functions
as a means of expiation and redemption. The fourth chapter is gender-charged as it deals
with the representation of the female child within the Mafia. Drawing in gender and
queer theory, specifically in the works of Cixous, De Beauvoir and Butler, I demonstrate
how the female protagonists of Canto al deserto and La siciliana ribelle come to represent
a new type of woman in the male-dominated Mafia world. I suggest that in their
transitional state from childhood to adulthood, we see the symbol of a historic transition
taking place within the Mafia patriarchal order, in which, despite all contradictions, the
woman is emerging from her "invisibility" and becoming more empowered.
iii
RINGRAZIAMENTI
Innanzitutto, questa tesi non sarebbe stata possibile senza l’intuizione della mia
relatrice, la Professoressa Elizabeth Leake, alla quale va tutta la mia gratitudine per aver
ispirato questa ricerca, nonché per il suo sostegno e i suoi preziosi consigli. Grazie anche
per la fiducia che mi ha dimostrato nell’accettare di dirigere questo lavoro.
Desidero ringraziare, inoltre, tutti i Professori del dipartimento di italiano della
Rutgers University: il Preside, Professor Andrea Baldi, le Professoresse Laura Sanguineti
White e Paola Gambarota, e i Professori Alessandro Vettori e David Marsh: grazie di aver
arricchito con i vostri corsi la mia preparazione accademica e di aver ispirato con la
vostra esperienza i miei metodi d’insegnamento presenti e futuri.
Un ringraziamento speciale va alla mia relatrice esterna, la Professoressa Robin
Pickering-Iazzi, non solo per i suoi illuminanti studi che sono stati di fondamentale
importanza per dare avvio al mio progetto, ma per i suoi puntuali e utili consigli che
hanno permesso di consolidarlo, anche in chiave futura.
Ringrazio inoltre i Professori del dipartimento di lingue straniere della University
of Delaware, in particolare Mary Donaldson-Evans, Bruno Thibault e Laura Salsini, che
per primi hanno creduto in me e mi hanno incoraggiato a intraprendere questo percorso
accademico.
Una menzione speciale di ringraziamento va a Umberto Santino e Anna Puglisi,
che mi hanno aperto le porte del Centro siciliano di documentazione “Giuseppe
Impastato” di Palermo, accogliendomi con professionalità e gentilezza. E grazie anche
alla Rutgers Graduate School e alla Fondazione Coccia per le borse di studio che mi
hanno permesso di intraprendere quello straordinario viaggio nei luoghi geografici della
iv
mia ricerca.
Grazie a Marco Dalla Gassa e Fabrizio Colamartino, consulenti del “Centro
nazionale di documentazione e analisi per l'infanzia e l'adolescenza” di Firenze, che mi
hanno fornito una prima filmografia e un’utile bibliografia.
Desidero ringraziare anche i miei genitori, i miei fratelli e la mia nipotina
Martina, a cui sono costantemente andati i miei pensieri nei lunghi periodi di studio.
Inoltre, non posso prescindere dal ricordare i miei compagni di questi anni di studio
accademico, che mi hanno arricchito con la loro presenza, stimolato con i loro discorsi e,
soprattutto, mi sono stati accanto con solidarietà e affetto. In particolare: Monica Bilotta,
Bryan Cracchiolo, Paul D’Agostino, Daniele DeFeo, Carmelo Galati, Annachiara
Mariani, Ida Marinzoli, Mary Ann Mastrolia e Salvatore Pappalardo, e senza dimenticare
le mie preziose amiche lontane Daniela, Sara, Kati e Cinzia.
Un ringraziamento molto sentito va infine alle gentili ed efficientissime segretarie
Carol Feinberg e Robin Rogers, che hanno trovato sempre un modo per rendere semplici
anche i compiti più difficili e non mi hanno mai fatto mancare un caloroso abbraccio e un
biscotto al cioccolato.
Infine, dedico questa tesi a Chris, a cui sono infinitamente grata per il suo
sostegno, per l’incoraggiamento incondizionato e per aver sempre creduto in me. E per
avermi reso parte della sua vita.
v
INDICE
Abstract................................................................................................................................ii
Ringraziamenti....................................................................................................................iv
Indice delle figure.............................................................................................................viii
CAPITOLO INTRODUTTIVO...........................................................................................1
I.
La tradizione letteraria e cinematografica sulla mafia.................................1
II.
I bambini e la mafia come soggetto letterario e cinematografico................7
III.
Struttura e metodologia………………………………………………......15
CAPITOLO UNO: BAMBINI CON LA MAFIA.............................................................19
I.
Introduzione...............................................................................................19
II.
Certi bambini.............................................................................................24
III.
Gomorra.....................................................................................................49
CAPITOLO DUE: BAMBINI CONTRO LA MAFIA......................................................77
I.
Introduzione...............................................................................................77
II.
I cento passi................................................................................................81
III.
Io non ho paura........................................................................................106
CAPITOLO TRE: BAMBINI VITTIME DELLA MAFIA.............................................132
I.
Introduzione.............................................................................................132
II.
Placido Rizzotto.......................................................................................137
III.
Alla luce del sole......................................................................................161
CAPITOLO QUATTRO: LE BAMBINE E LA MAFIA................................................184
I.
Introduzione.............................................................................................184
II.
Canto al deserto........................................................................................188
vi
III.
La siciliana ribelle....................................................................................216
Conclusioni......................................................................................................................244
Bibliografia......................................................................................................................251
Curriculum Vitae..............................................................................................................277
vii
INDICE DELLE FIGURE
Fig. 1: Certi bambini: i ruoli invertiti.................................................................................30
Fig. 2: Certi bambini: l’esperienza liminale......................................................................33
Figg. 3 e 4: Certi bambini: la prova iniziatica...................................................................43
Fig. 5: Certi bambini: scena finale.....................................................................................47
Fig. 6: Gomorra: Ciro e Marco .........................................................................................53
Fig. 7: Gomorra: Totò osserva dall’alto ............................................................................64
Figg. 8 e 9: Gomorra: il “rituale del giubbetto”.................................................................68
Fig. 10: Gomorra: bird’s eye view shot su don Ciro ..........................................................72
Figg. 11 e 12: I cento passi: lo scontro edipico..................................................................85
Figg. 13 e 14: I cento passi: da insider a outsider.............................................................94
Fig. 15: Io non ho paura, il braccio-di-ferro ...................................................................115
Fig. 16: Io non ho paura: il bambino salvifico.................................................................129
Fig. 17: Placido Rizzotto: sotto la gran croce..................................................................150
Fig. 18: Placido Rizzotto: il martirio di Saro...................................................................152
Figg. 19 e 20: Alla luce del sole: Puglisi, i bambini, l’etica mafiosa...............................177
Fig. 21: Alla luce del sole: la coralità dei bambini .........................................................179
Fig. 22: La siciliana ribelle: la visione parziale di Rita...................................................221
Fig. 23: La siciliana ribelle: la morte del padre...............................................................226
Fig. 24: La siciliana ribelle: la consegna della pistola.....................................................235
viii
1
CAPITOLO INTRODUTTIVO
“Chiágnono sti guagliune 'e malavita!”
Libero Bovio, “Guapparia”, 1913
I. La tradizione letteraria e cinematografica sulla mafia
Negli ultimi due decenni in Italia si è avuta una proliferazione di romanzi e film
dedicati alla mafia. Se ne sono occupati, tra gli altri, gli scrittori siciliani Andrea
Camilleri, Aurelio Grimaldi e Maria Rosa Cutrufelli e i napoletani Diego De Silva e
Maurizio Braucci, oltre all’ormai “caso” mediatico Roberto Saviano. In ambito
cinematografico, registi emergenti come Matteo Garrone e Marco Amenta hanno
affiancato cineasti più affermati e che già in precedenza avevano raccontato il fenomeno
della mafia, come Damiano Damiani, Giuseppe Ferrara e naturalmente Francesco Rosi.
Negli ultimi vent’anni, l'interesse per i romanzi e i film a soggetto mafioso è aumentato
in modo tanto significativo che in Tutti a cena da don Mariano (1996): un’esaustiva
critica della genealogia letteraria post-unitaria della mafia, Massimo Onofri ha parlato
giustamente di “una galassia in espansione” (239). Come osserva Vito Mercadante,
curatore di un’antologia letteraria sulla mafia, proprio per la straordinarietà del fenomeno
e perché rappresenta “uno spazio . . . vasto su cui prestare la propria attenzione, un
soggetto economico, sociale, politico e morale” (5), la mafia ha sempre ispirato i letterati
italiani. Opere come Li mafiusi di la Vicaria del siciliano Giuseppe Rizzotto e I vermi del
napoletano Francesco Mastriani, entrambe del 1893, dimostrano un precoce interesse
degli scrittori meridionali per il problema della malavita in Italia. E se - come ha
osservato Leonardo Sciascia - gli autori della grande tradizione verista hanno stranamente
trascurato il fenomeno, arrivando a negarne l’esistenza (è il caso di Luigi Capuana e
2
Matilde Serao),1 e mantenendo nei riguardi della mafia “una sorta di omertà”
(“Letteratura e Mafia” 143), il Novecento ha visto invece un’abbondante fioritura di
opere dedicate alla mafia.
Il silenzio del verismo ha peraltro incuriosito i critici letterari, i quali hanno
ripetutamente scrutato nelle pagine delle opere dei grandi veristi italiani alla ricerca di
“tracce” sull’argomento.2 Secondo Vito Mercadante, in alcune novelle di Giovanni Verga
sono delineati valori siciliani riconducibili a sentimenti mafiosi: il culto della roba, la
patriarcalità della famiglia, la rassegnazione alla prepotenza, la coralità come “unica
forma di stato esistente in Sicilia” (7). Mercadante cita inoltre alcuni episodi caratteristici
del fare mafioso, come la fucilata che lascia morto Nanni l’orbo durante i moti in Mastro
Don Gesualdo (1889), così come l’altra schioppettata ne “La chiave d’oro” (1884), una
novella poco conosciuta, ma su cui si è soffermato anche Sciascia, perché rivela chiare
dinamiche mafiose. Anzi, secondo Massimo Onofri questa è l’unica novella esplicita del
Verga sull’argomento-mafia, mentre Pietro Mazzamuto ha ravvisato allusioni mafiose
anche in “Libertà” (1882) e “Cavalleria Rusticana” (1880) (29). I critici hanno visto dei
richiami alla mafia anche ne I viceré (1894) di Federico De Roberto, per la “religione
della famiglia” (Onofri 158) e per “l’immobilismo sociale e politico di cui godono gli
1
Sciascia nota che Luigi Capuana si era espresso contro l’inchiesta parlamentare di Franchetti e Sonnino
del 1877, che aveva giudicato un oltraggio alla Sicilia. Aveva perciò difeso la sua terra nel saggio La Sicilia
e il brigantaggio (1892), affermando candidamente che la mafia non esisteva o, se esisteva, era solo in
senso folcloristico o comunque assimilabile alla criminalità comune. Nelle sue opere, come Il marchese di
Roccaverdina (1901) e in alcune novelle, aveva poi rappresentato la mafia appunto in senso folcloristico.
A sua volta Matilde Serao, come osserva Antonio Altomonte, si era domandata nel 1907 se ci fosse ancora
la camorra a Napoli, rispondendosi che non c’era più, perché la identificava con una sorta di ordine
cavalleresco in difesa degli oppressi, sostituito nei tempi moderni da una delinquenza comune (74-75). Pur
indagando nel mondo del sottoproletariato napoletano, con Il ventre di Napoli (1884), la Serao ha offerto
solo figure di contorno alla malavita, convinta che si trattasse di delinquenti comuni.
2
Oltre a quello già citato di Massimo Onofri, rimando agli studi di Pietro Mazzamuto, La mafia nella
letteratura (1970), Antonio Altomonte, Mafia, briganti, camorra e letteratura (1979), Vito Mercadante,
Letteratura sulla mafia (1998) e Corinna del Greco Lobner, The Mafia in Sicilian Literature (2007).
3
Uzenda” (Mazzamuto 28). Fino ad arrivare a Luigi Pirandello che, pur senza avere mai
nominato esplicitamente la mafia, presenta figure e ambientazioni pseudo-mafiose ne I
vecchi ed i giovani (1913) e in alcune novelle di ispirazione verista.
In ogni caso, se in queste opere compaiono comportamenti riconducibili alla
mafia, gli autori non presentano tuttavia indagini approfondite delle ragioni storiche
all’origine di tali comportamenti, limitandosi a descrivere la vita quotidiana della gente
siciliana, in uno sforzo di rispecchiamento della realtà (l’attenzione è antropologica più
che sociologica). Pietro Mazzamuto conclude che negli autori veristi la mafia “entra
certamente non come motivo centrale della loro ispirazione regionalistica e soprattutto
non come complesso di vicende storicamente verificate e circoscritte” (24). Quando
appare, la mafia rimane un tema nascosto e implicito, confinato ai limiti regionali o
legato a tematiche etnico-sociali e spesso come fenomeno di costume. Anche un’opera
come I beati Paoli (1909-1910), che pur rappresenta la mafia già come un’associazione
criminale, la dipinge con i colori del “mito”. Un mito di cui la mafia siciliana si è
appropriata a lungo, come del resto ha fatto la camorra napoletana con il fenomeno della
“guapperia”, ovvero quegli atteggiamenti di tipo camorristico che associavano il
malavitoso all’uomo d’onore, presentandolo come difensore dei deboli e dispensatore di
giustizia. I “guappi”, non a caso, erano ben presenti nella letteratura popolare tardoottocentesca napoletana: i drammi di Raffaele Viviani pullulano di bellimbusti malavitosi
e delle loro sfide al coltello, le cosiddette “zumpàte”.
La letteratura napoletana è stata peraltro molto prolifica sul tema della camorra,
pur se inserita anche qui spesso ad elemento folclorico. Antonio Palermo ci ricorda come
sin dall’unità d’Italia la letteratura napoletana fosse “di multiforme ma nitido segno
4
realistico” (51). Era una “letteratura da bassifondi”, come l’ha definita Antonio
Altomonte (58), fatta per lo più da novelle, poesie, canzoni popolari e romanzi
d’appendice, che dipingevano la Napoli dei vicoli nei suoi aspetti di miseria e
sopraffazione. È il caso ad esempio del già citato Francesco Mastriani, i cui romanzi I
vermi (1863), Le ombre (1867) e I misteri di Napoli (1869-70) costituiscono “una vera e
propria enciclopedia o meglio un centone antropologico-linguistico della camorra tra
l’ultimo periodo borbonico e il primo decennio unitario” (Palermo 54). Isaia Sales ci
ricorda, inoltre, che il poeta Ferdinando Russo dedicò gran parte della sua attività agli
ambienti malavitosi, al punto da identificarsi con loro (famosi i sonetti di Gente ‘e
malavita 1897). Salvatore Di Giacomo pubblicò il poemetto A San Franscisco (1895),
dedicato ai camorristi rinchiusi in prigione e Libero Bovio scrisse una canzone popolare
intitolata “Carcere” (1933), oltre alla famosa “Guapparia” (1913). Senza dimenticare la
grande tradizione della “sceneggiata” napoletana, che mise spesso in scena la criminalità
come comportamento dovuto alla necessità di sopravvivere e mostrando il camorrista
come un uomo buono e rispettabile (“Le strade della violenza” 270-272).3
Tutto cambia, però, negli anni Cinquanta, in cui si sviluppa una visione sociopolitica della mafia, alimentata anche dalle rivelazioni sull’esistenza di rapporti affaristici
fra mafia e stato, fino allora rimasti sconosciuti. Spiega ancora Pietro Mazzamuto: “La
letteratura socialmente e civilmente impegnata giunge, dopo il crollo del fascismo, nella
temperie neorealista del secondo dopoguerra”. . .“con una più larga partecipazione di
3
Per quanto riguarda la letteratura calabrese, Antonio Altomonte afferma: “non si può dire che la mafia in
Calabria . . . abbia una letteratura in proporzione allo spazio che ha sempre occupato nella vita della
regione” (115). Ricorda però, oltre al più celebre Corrado Alvaro, gli scrittori Vincenzo Padula, Nicola
Misasi e Francesco Jovine, le cui opere si concentrano sulla figura del brigante fuorilegge. Per la
letteratura sarda, Altomonte cita Enrico Costa e Grazia Deledda per la presenza di protagonisti banditi e per
le suggestioni mafiose in opere come: La via del male, Elias Portolu e Marianna Sirca (88-89).
Nell’antologia: Mafia and Outlaw Stories from Italian Life and Literature (2007), Robin Pickering-Iazzi
inserisce la novella Il sicario (1928) della Deledda fra quelle di possibile ispirazione mafiosa.
5
scrittori, anche non siciliani, e con una dimensione ideologica e culturale”, oltre che una
nuova componente “giuridica e sociologica” (46-48). Scrittori come Carlo Levi, Guido
Loschiavo, Giuseppe Fava, Danilo Dolci, Vincenzo Consolo e ovviamente Leonardo
Sciascia si fanno portavoce di una letteratura sulla mafia caratterizzata da un forte
impegno civile (Sciascia pubblica i romanzi Il giorno della civetta, A ciascuno il suo, Il
contesto e Todo modo tra il 1961 e il 1974). Napoli e la Campania sembrano rimanere
legate per buona parte del dopoguerra allo stereotipo del camorrista buono della
“sceneggiata”, mentre soprattutto negli anni Settanta si sviluppa una tendenza artisticoletteraria che tende ad esaltare la violenza del malvivente, non più visto come un
“guappo” rispettabile, ma come un cinico criminale che fa valere la legge del più forte. Il
fenomeno abbraccia soprattutto - come ricorda Isaia Sales - l’ambito della canzone
napoletana, che fa del malavitoso un mito: i cosiddetti “neo-melodici”, ossia i cantanti del
sottoproletariato urbano, si affermano proprio in questi anni (273-274). Il fenomeno di
denuncia della camorra esploderà, però, nel nuovo millennio con Roberto Saviano, il cui
libro Gomorra (2006) susciterà un grandissimo interesse. La denuncia fatta da Saviano,
che indaga le relazioni che la camorra intrattiene con tutti i settori della società civile,
compresi gli interessi economici e la collusione con la politica, è senza precedenti nella
letteratura italiana, e dà spazio, tra l’altro, ad un genere “nuovo”, quello del romanzoreportage, che molto farà discutere la critica contemporanea.
Anche il cinema sin dalla metà del Novecento ha dato numerosi e notevoli
contributi alla rappresentazione della mafia, dando vita ad una tradizione filmica ben
precisa, quella appunto del genere-mafia (o “mafia-movie”) e fornendolo di codici
immediatamente riconoscibili per personaggi, temi, ambientazioni e situazioni narrative.
6
Dalla tradizione mitico-favolistica degli anni Cinquanta, iniziata con Pietro Germi (In
nome della legge è del 1949), passando per il “cinema politico” di Gillo Pontecorvo, Elio
Petri, Damiano Damiani e Francesco Rosi, per arrivare al grande filone antimafia degli
anni Novanta, l’interesse del cinema per la mafia è stato incessante e ha attraversato i
generi più disparati: il western, il poliziesco, l’inchiesta, l’“instant-movie” e persino la
commedia e la farsa.4 Da rimarcare è soprattutto l’apporto di Francesco Rosi, che ha
cambiato il modo di affrontare il tema della mafia al cinema fino a quel momento. Rosi
ha avuto il pregio di dare alla mafia un’immagine al di là del folclore e delle
stereotipizzazioni, proponendo un approccio analitico sulle cause e gli effetti del
fenomeno e orientando l’interesse sui risvolti politici. Con i cosiddetti “film-inchiesta”
(Salvatore Giuliano 1961, Le mani sulla città 1963, Il caso Mattei 1971, Lucky Luciano
1973, Cadaveri eccellenti 1976), Rosi ha fatto un’indagine sociologica sulla mafia,
unendo ai documenti storici le testimonianze dirette e le immagini d’archivio, usando il
cinema per svelare i meccanismi socio-politici alla base della mafia.
Negli ultimi dieci anni ha prevalso infine, almeno nel cinema siciliano, un filone
commemorativo, nato dall’esigenza di celebrare il sacrificio degli uomini e donne che
sono morti per la causa antimafia. Millicent Marcus ha parlato di un vero e proprio
sottogenere del “cinema politico” degli anni Settanta, rilevandone l’“impulso
memorialistico”: una tendenza, peraltro, secondo lei, tipica del Neorealismo, in cui film
come Roma città aperta (1945) e Paisà (1946) facevano già l’elogio degli eroi popolari
che agirono all’ombra della storia ufficiale (“La scrittura sullo schermo: il martirio
antimafia come epitaffio nel cinema contemporaneo” 74). Anche questa nuova tendenza
4
Per approfondimenti sulla storia del cinema e la mafia si veda il libro di Vittorio Albano, La mafia nel
cinema siciliano. Da In nome della Legge a Placido Rizzotto (2003): l’unico studio comprensivo del cinema
italiano sulla mafia.
7
commemorativa, come fu per il Neorealismo, sembra peraltro scaturire da una reazione
ad eventi tragici che hanno scosso la società italiana: mi riferisco agli attentati ai giudici
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino del 1992, che hanno portato ad un forte
cambiamento nella percezione della mafia anche da parte della gente comune, marcando
una rottura nella secolare omertà e orientando sempre più il cinema verso un approccio
storico-sociale e memorialistico. Anche Pauline Small ha notato questa tendenza,
ricordando come il genere-mafia prima del 1992 non s’interessasse ai personaggi minori
e dimenticati dalla storia e non analizzasse le conseguenze tragiche della mafia sulla vita
della gente comune (“Giordana’s I Cento Passi: Renegotiating the Mafia Codes” 43-44,
51). Fanno parte di questo filone: Il giudice ragazzino di Alessandro Di Robilant (1994) e
quattro film che saranno analizzati in questo studio, I cento passi (2000) di Marco Tullio
Giordana, Placido Rizzotto (2000) di Pasquale Scimeca, Alla luce del sole (2005) di
Roberto Faenza e La siciliana ribelle (2009) di Marco Amenta. Ispirati a fatti di cronaca
vera e immersi in un preciso contesto storico e sociale, questi film operano una
demistificazione della mafia e pongono l’accento sulla responsabilità individuale
proponendo, grazie alle figure degli eroi martirizzati, dei modelli da imitare.
II. I bambini e la mafia come soggetto letterario e cinematografico
Un aspetto che mi ha colpito dei recenti romanzi e film sulla mafia è il ruolo
centrale che occupa l'infanzia all’interno della struttura narrativa e cinematografica. Che
siano protagonisti dell'azione o figure di secondo piano, rappresentati come criminali in
erba o come vittime innocenti della violenza mafiosa, i bambini popolano la scena dei
moderni romanzi e film sulla mafia. Da questa osservazione è nato il mio impulso di
investigare i motivi della presenza dei bambini nelle recenti opere sulla mafia e i modi di
8
rappresentazione dell’infanzia nel moderno “mafia-movie”. L’argomento non ha ricevuto,
infatti, a mio parere, un'adeguata attenzione da parte della critica. Nonostante importanti
studi, fra cui principalmente quello già menzionato di Millicent Marcus, abbiano sfiorato
il tema dell'infanzia e la mafia, è assente un approccio diretto, non più marginale, sulla
questione. Il mio studio si propone di colmare questa lacuna attraverso l’analisi di otto
opere apparse in Italia nell’ultimo decennio, cioè all’affacciarsi del nuovo millennio.
Soltanto il romanzo di cui mi occuperò nel quarto capitolo, Canto al deserto di Maria
Rosa Cutrufelli, appartiene al secolo scorso, essendo stato pubblicato nel 1994.
È opportuno iniziare domandandosi quali siano motivi del crescente interesse per
i bambini e la mafia da parte degli scrittori e registi italiani contemporanei. Cosa li spinge
a mettere in scena figure di bambini? In Cinema’s Missing Children, Emma Wilson ha
notato che i bambini traumatizzati, vittime di predatori, rapiti, scomparsi o uccisi sono
oggetto di una nuova attenzione da parte del cinema a livello internazionale, perché nel
moderno mondo globalizzato sono percepiti come maggiormente indifesi e in pericolo (23). È un’osservazione che si applica bene al discorso-mafia, giacché sui suoi territori la
mafia agisce da vera predatrice dell’infanzia. Basti pensare al caso dei bambini-soldato
arruolati dalla camorra. O ai bambini morti direttamente o indirettamente per mano della
mafia, come il siciliano Giuseppe di Matteo, ucciso per una vendetta trasversale nel 1996
e la napoletana Annalisa Durante, colpita da una pallottola vagante in uno scontro fra clan
nel 2004. Negli ultimi anni, l’uso dei bambini da parte della criminalità organizzata è
emerso prepotentemente all’attenzione pubblica, sollecitando una presa di coscienza
collettiva e facendo nascere in registi e scrittori l’impulso di documentare questo
fenomeno. Goffredo Fofi aveva già osservato come la rappresentazione dei giovani
9
criminali subisse un’intensificazione nei momenti di maggior sconvolgimento sociale,
proponendo come esempi l’America della depressione e l’Italia del secondo dopoguerra
(cit. in Capussotti 46).
L’interesse per il tema dell’infanzia sofferente o “deviata” non è tuttavia un
fenomeno recente. Era presente, infatti, nella letteratura occidentale sin dai romanzi di
Charles Dickens e dei naturalisti francesi. Per quanto riguarda l’Italia, Giovanni Verga
aveva denunciato il caso dei bambini sfruttati nel lavoro nelle zolfare siciliane in “Rosso
Malpelo” (1878). L’antenato più pertinente sembra da ricercarsi, però, perlomeno in
ambito siciliano, nei Racconti della Conca d’Oro di Giuseppe Nuccio, come ha notato
Robin Pickering-Iazzi, inserendolo nella sua antologia critica Mafia and Outlaw Stories
from Italian Life and Literature (2007). Pubblicati nel 1911 sul Giornalino della
domenica, questi racconti di stampo verista propongono quadri vivi di vita siciliana. In
particolare, la novella “Testagrossa acconsente” offre un’importante testimonianza del
problema dei bambini poveri di Palermo assoldati dalla mafia, perché Testagrossa si deve
difendere da una banda di delinquenti che vogliono arruolarlo nelle loro fila. Memorabile
è la scena dello scontro tra Testagrossa e la banda, messo in parallelo con quello dei
paladini dell’”Opera dei pupi”. Come nota Pickering-Iazzi, grazie a questo confronto, la
lotta del bambino con le forze del male assume “dimensioni tragicamente epiche” (8), ma
Testagrossa si piega infine alla legge del più forte. Antenati dei moderni bambini
“deviati” sono anche gli “scugnizzi” napoletani, i poveri monelli di strada che nell’Italia
post-unitaria vivevano di espedienti e venivano facilmente arruolati nella malavita
organizzata. Il nome “scugnizzi” compare per la prima volta nella raccolta di sonetti ‘E
scugnizze (1897) di Ferdinando Russo, come ci ricorda Generoso Picone (179). Nel 1932
10
diventano protagonisti nella commedia L’ultimo scugnizzo di Raffaele Viviani. Sono
composte di “scugnizzi” anche le bande di disperati che percorrono i vicoli della Napoli
occupata nei romanzi La pelle (1949) di Curzio Malaparte e Napoli ’44 del britannico
Norman Lewis (uscito solo nel 1978). Ed è affollata di “scugnizzi” la Napoli del
dopoguerra, anche se trasferiti al cinema diventano “sciuscià”, ovvero lustrascarpe,
nell’omonimo film di Vittorio De Sica (1946). Un tema d’ispirazione artistica, quello dei
monelli di strada, che è sopravvissuto fino ai giorni nostri, come dimostra la pellicola di
Nanni Loy intitolata proprio Scugnizzi del 1989.5
Il ruolo centrale dei bambini nelle opere sulla mafia risponde, però, ad esigenze
che vanno al di là del bisogno di documentare un fenomeno sociale in ascesa. Per
individuarle è utile fare riferimento al Neorealismo, una corrente cinematografica che ha
avuto nell’infanzia una costante fonte d’ispirazione e che per questo motivo si presta a un
facile quanto inevitabile confronto. Nei film neorealisti, i bambini erano spesso
protagonisti della scena. Rappresentati in situazioni al limite della normalità, cioè, miseri,
disperati, orfani o criminali, erano il simbolo stesso del deterioramento della società
uscita distrutta dalla guerra. La scelta di porre i bambini al centro della narrazione era
strumentale alla riproduzione della realtà: concentrare l’attenzione sull’infanzia
sofferente permetteva, infatti, ai registi, di mostrare - amplificati - gli aspetti più atroci
5
Il tema degli “scugnizzi” meriterebbe un discorso a parte. Come osserva l’antropologo Marino Niola: “Lo
stereotipo dello scugnizzo è chiaramente ottocentesco, l'epoca in cui si consolida la mitologia popolare
napoletana, quella delle grandi icone della città di Dumas e madame de Staël”. Continua Niola: “è il figlio
del lazzaro, il suo cucciolo. Come lui fa parte di quel mondo non redento dalla civiltà, di quella Napoli che
Leopardi definiva semibarbara. Ma, diversamente dal lazzaro che è figura inquietante, suscita tenerezza,
anche se oscilla continuamente tra positività e negatività, come tutti i miti.” Lo stereotipo dello scugnizzo
“tenero” è finito secondo Niola con gli anni Sessanta ma non è scomparso il fenomeno dei bambini di
strada. Lo stesso ex-sindaco di Napoli, Rosa Russo Iervolino, ha ammesso in un’intervista del 2004: “Oggi
viviamo in un altro tempo, i nuovi scugnizzi di Napoli hanno altre facce, altri modelli di vita e differenti
modi di confrontarsi con la miseria, ma anche queste ferite richiedono da parte della città uno sforzo
maggiore” (cit. in Bertolotto).
11
della società. Il Neorealismo, d’altra parte, era un “cinema antropomorfico”, secondo la
celebre definizione data da Luchino Visconti nell’articolo apparso su Cinema nel 1943.
S’impegnava cioè a rappresentare l’uomo comune, che soffre, lavora e cerca di
sopravvivere nella vita di ogni giorno in un contesto sociale ed economico
contemporaneo.6 In quanto elemento più debole del genere umano, il bambino diventa la
figura emblematica di questo cinema, andando a rappresentare “l’uomo” che lotta contro
le forze immani della società che governano la sua esistenza.
Allo stesso modo, rappresentare i bambini nel contesto mafioso è un modo di
isolare la mafia nei suoi aspetti più orrendi. Violenza, morte, illegalità sono tanto più
odiosi quanto più colpiscono i bambini, la parte più indifesa della società. Inserirli in un
ambiente mafioso significa, pertanto, eleggerli a simbolo stesso della ferita inflitta dalla
mafia sull’uomo e sulla società civile. Il parallelo fra lo sfacelo della società descritto dai
neorealisti e quello dei territori governati della mafia è d’altronde pertinente (in Gomorra,
non dice, infatti, Simone a Totò: “Siamo in guerra”?). Come l’Italia post-bellica, anche le
periferie di Scampia, i vicoli di Napoli o i quartieri-ghetto di Palermo sono scenari di
guerra: appaiono in rovina, “bombardati”, e svuotati di ogni dimensione umana. E come i
bambini del dopoguerra, anche i bambini della mafia sono abbandonati a se stessi,
sopravvissuti, ma al tempo stesso vittime predestinate, proprio in quanto più deboli e
indifesi della società. Rappresentare l’infanzia in scenari di mafia è anche un modo per
richiamare lo spettatore adulto alle proprie responsabilità, attraverso la pietà che
6
Non è più insomma, il “super-uomo” del fascismo, dalla mascolinità eroica, e Carlo Celli rileva
quest’aspetto parlando di Ladri di biciclette, dicendo: “De Sica’s thematic emphasis on children, the
weakest members of society, reads like a reaction to the defeats of the macho culture espoused by the
fascist regime” (48-49). Anche Jaimey Fisher fa osservazioni simili parlando degli uomini del cinema
neorealista come di "marginal males", ossia "men who were compelled - in the wake of the war and the
social crisis surrounding it - to embrace lack and inadequacy" (28).
12
suscitano le immagini dei bambini sofferenti. I bambini provocano sempre una risposta
degli adulti a livello emotivo, perché non possono badare a se stessi e soprattutto sono
senza colpa, il che fa sembrare i mali della mafia ancora peggiori e accresce il senso di
responsabilità nello spettatore, messo di fronte alla propria incapacità in quanto adulto di
difenderli e di tutelarli. Il fatto che l’infanzia sia un fenomeno universale (siamo stati tutti
bambini) accentua la risposta emotiva dello spettatore e rende il legame fra l’infanzia e la
mafia, che può sembrare anche inaccessibile e lontano, una faccenda concreta e
personale. Giuseppina Mecchia riassume questo concetto ricordando che la presenza del
bambino sulla scena del Neorealismo (e per estensione nel “mafia-movie”) “prevents us
from ever escaping responsibility and retribution” (133).
Ma c’è di più. Come insegna il Neorealismo, e come ci ricorda Marcia Landy nel
capitolo “A Cinema of Childhood” nel suo libro: Italian Film, i bambini non sono
soltanto vittime innocenti di un mondo corrotto, ma sono anche soggetti che osservano e,
in quanto tali, costringono lo spettatore a guardare criticamente il mondo rappresentato
(246). Attraverso la prospettiva del bambino “testimone”, come lo definì Gilles Deleuze,
il cinema neorealista operava una denuncia della società, con l’intenzione di spronarla ad
affrontare i problemi più urgenti. Secondo Deleuze, i personaggi del Neorealismo erano
caratterizzati da un indebolimento della capacità di agire, a causa degli effetti della
guerra. Situazioni che lui chiama “puramente ottiche” (in luogo di quelle “sensoriomotorie” del realismo tradizionale) davano vita ad un cinema “della veggenza”
(“voyance”), dove il personaggio non era attivo nella realtà in cui si muoveva, bensì era
trasformato in un semplice spettatore (9-10). Per la sua fragilità, il bambino incarnava
perfettamente l’idea di questo personaggio non-agente, ma capace, tuttavia, con il suo
13
sguardo puro di “vedere” più dell’adulto, e dunque meglio adatto a evidenziare le
anomalie della società.7 Nei film del Neorealismo, allora, l’azione dei bambini era
sostituita dall’andare a zonzo (è il concetto della “errance”). Sullo schermo, li vediamo
vagare fra le macerie del dopoguerra, guardandosi intorno. È il caso di Edmund in
Germania anno zero (1948), Bruno in Ladri di biciclette (1949) e anche dei bambini di
Sciuscià (1946) che sono spettatori incerti e inconsapevoli degli eventi a cui partecipano.
Nonostante rimanga passivo e ridotto alla “veggenza” più che all’azione, il
bambino-testimone ha comunque un effetto importante sullo spettatore. E non solo
perché il mondo osservato dai suoi occhi innocenti si concretizza davanti allo spettatore
in tutta la sua forza visiva, ma anche perché, attraverso la testimonianza del bambino, lo
spettatore può fare una riflessione critica sulla società: riflessione resa più attiva dalla
conoscenza storica e sociale che egli possiede rispetto al bambino. È grazie a questa
consapevolezza che si supera la prospettiva, se vogliamo, ingenua o immatura del
bambino e nasce una reazione di sdegno nell’adulto. Similmente, per gli autori
contemporanei sulla mafia, adottare il punto di vista infantile significa risvegliare nello
spettatore una coscienza critica nei riguardi del mondo rappresentato. Guardando i film
da una prospettiva infantile, siamo portati a considerare la questione della mafia con gli
occhi del bambino, che diventano così una “finestra”, attraverso cui guardare gli orrori
della mafia. Riflettiamo sui crimini perpetuati dalla criminalità organizzata sulla società
civile e, messi di fronte alla gravità della situazione, ci rendiamo conto che è necessario
agire con urgenza. Il fatto che molti di questi romanzi e film facciano riferimento a fatti
realmente accaduti è testimonianza di un chiaro intento civile.
7
Deleuze scrive: “l’enfant est affecté d’une certaine impuissance motrice, mais qui le rend d’autant plus
apte à voir et à entendre” (10) (“il bambino soffre di una certa impotenza motoria, che lo rende però ancora
più capace di vedere e di sentire”, trad. mia).
14
Il parallelo con il Neorealismo non si esaurisce alla tradizione cinematografica.
Alcuni di questi film, specialmente quelli ambientati in Sicilia, si rifanno anche, più o
meno esplicitamente, alle opere di Elio Vittorini per la rappresentazione del popolo
italiano (e siciliano, nello specifico) come genere umano “offeso”. Una definizione,
questa, ripresa da Leonardo Sciascia nel saggio: “La Sicilia al cinema” del 1963, in cui lo
scrittore individua tre modi di rappresentazione cinematografica della Sicilia: come teatro
della commedia erotica (e porta come esempio Divorzio all’italiana di Germi, 1961),
come terra mitica di bellezza (l’esempio è Stromboli di Rossellini, 1950) e, appunto,
come “mondo offeso” (275). Sciascia riconosce che quest’ultimo paradigma è quello che
ha avuto i migliori risultati in passato (il suo esempio è La terra trema di Visconti, 1948)
ed è quello che ha creato il terreno più fertile per la rappresentazione della mafia. La
citazione da Conversazione in Sicilia nel prologo del film Placido Rizzotto (2000)
conferma l’esistenza di un forte legame fra i moderni film di mafia e la tradizione storicoletteraria siciliana. La citazione, non solo “creates a geneological tie based on sicilianità”,
come nota Elizabeth Leake (240), ma permette di tracciare un parallelo tra la situazione
di oppressione descritta in Placido Rizzotto e quella descritta da Vittorini. Con le loro vite
soggette alla sopraffazione mafiosa, i siciliani di Rizzotto sono rappresentanti di un
“genere umano perduto”. Laddove è più evidente, il richiamo al Neorealismo funziona sì
come uno strumento di denuncia, ma anche come una dichiarazione di fiducia nella
possibilità del cambiamento, di cui spesso i bambini si fanno i catalizzatori. Simile alla
tradizione neorealista è, infatti, anche il ruolo del bambino come “coscienza” dell’orrore
e portatore del mandato morale, in virtù dell’assenza o della perdita dell’etica adulta.
Come Bruno di Ladri di biciclette, anche qui sono i bambini che riconsegnano agli adulti
15
la struttura morale che hanno perduto e si fanno portavoce della ricostruzione della
società.
Per alcune delle opere che affronteremo in questo studio, può essere fatto dunque
un parallelo con il Neorealismo, per i concetti sopra esposti, per l’aderenza a certi
paradigmi come la “presa diretta” della realtà, la descrizione delle condizioni di vita della
gente comune, la condanna dell’oppressione sociale e politica, la fiducia nella funzione
sociale dell’arte e, nel caso del cinema, per l’uso di attori non professionisti, lo stile
documentaristico, le riprese in loco e perché, più genericamente, i registi continuano a
mostrare una predilezione per quello che Lino Miccicché ha definito il “filo rosso della
realtà”, tipico del cinema italiano. I registi dei film in questione sono ovviamente sempre
consapevoli dei legami con questa tradizione, anche se spesso il richiamo non è diretto o
confessato apertamente. Anzi, spesso sono i critici a legare questi film alla gloria passata,
definendoli, a ragione o a torto, film “neo-neorealisti”, giacché, come osserva Millicent
Marcus, “L’etichetta neorealista agisce come una sorta di grande leggittimatore,
l’imprimatur che conferisce autorità e continuità” (“La scrittura sullo schermo” 73-4).
Però, il parallelo resta legittimo (sebbene non sia l’unico proponibile) ed è perciò utile
tenerlo a mente quando si analizzano le opere della nuova tradizione cinematografica
sulla mafia, pronti a coglierne similitudini e contrasti.
III. Struttura e metodologia
Considerando la complessità dell’argomento trattato, ho ritenuto opportuno
raggruppare le otto opere scelte per questo studio in quattro aree tematiche che
corrispondono ad altrettanti capitoli. Le prime tre aree si caratterizzano in base alla
posizione in cui si trovano i bambini in rapporto alla mafia, vale a dire a seconda che
16
desiderino entrare o facciano parte della mafia (Certi bambini e Gomorra); che si
ribellino alla mafia (I cento passi e Io non ho paura); ovvero che siano vittime della mafia
(Placido Rizzotto e Alla luce del sole). Il quarto capitolo si concentra invece sulla realtà
della mafia dal punto di vista infantile e femminile (Canto al deserto e La siciliana
ribelle), un soggetto che mi è parso opportuno seguire separatamente, poiché carico di
significati particolari relativi al ruolo subalterno della donna nel contesto mafioso. Ho
selezionato le due opere di ogni area accoppiandole per comunanza di tematiche e
situazioni narrative, lasciandone inevitabilmente fuori molte (in particolare vorrei
sottolineare l’assenza per motivi di spazio dei film di Antonio Capuano, un regista che ha
dedicato molti sforzi alla rappresentazione dell’infanzia e la camorra). Come spesso
accade quando si riduce a schema una realtà complessa, questa divisione non tiene conto
delle sfumature e intersezioni tematiche tra le opere di aree diverse: è chiaro ad esempio
che tutti i bambini sono vittime della mafia, non solo quelli che ne subiscono
direttamente la violenza. La quarta area, inoltre, ha legami tematici con le prime due, dal
momento che possiamo rintracciare nelle opere analizzate la presenza di bambini
(bambine in questo caso) inseriti in un ambiente mafioso in cui vogliono affermarsi o a
cui intendono ribellarsi.
Per il mio studio, ho adottato un approccio interdisciplinare, in cui il livello
estetico e il livello storico-sociale si sfiorano e si sovrappongono. Parlare di mafia pone
inevitabilmente il problema della realtà, per la natura storica e realistica del fenomeno. La
mafia è innanzitutto un mondo reale, prima di essere un oggetto estetico, e in quanto
reale, è un Ur-text che a mio parere non è possibile ignorare. La questione di partenza è
stata dunque per me valutare quanto fosse possibile indagare il fenomeno senza limitarmi
17
all’estetica, ma ricorrendo anche a strumenti di lettura diversi, relativi ad un sapere
storico-sociale. D’altra parte, è un tema, quello dei legami della criminalità organizzata
con l’infanzia, che sfida competenze diverse: dall’antropologia alle discipline sociali,
dalla psicologia alle discipline economico-giuridiche, tutte ugualmente importanti per chi
vuole entrare nella sostanza di un fenomeno così complesso e multiforme. Le
rappresentazioni dell’infanzia e la devianza, poi, sono quasi sempre legate ai modelli del
realismo narrativo, raramente al fantasy o al fiabesco. In sostanza, non siamo di fronte ai
romanzi di Italo Calvino o al cinema di Tim Burton, ma a rappresentazioni che devono
comunque fare i conti con la realtà. Sebbene non possano (né debbano) dare una visione
scientifica della mafia, queste opere si rivolgono alla realtà dei fatti, prendendo spunto
dalla cronaca e facendo riferimento a persone ed eventi reali, spesso con atteggiamenti di
condanna. Il che non significa attenersi sempre alla realtà in termini Baziniani, ovvero
per cogliere “il senso intimo del reale” e svelarne i meccanismi; non vuol dire neanche
che della mafia non si possa proporre un’immagine diversa, alterata, filtrata attraverso
l’autore, o ancora distorta o agiografica. Ciò, anzi, è accaduto (pensiamo alla tradizione
hollywoodiana) e accadrà ancora. E spesso la libertà di fantasia nelle rappresentazioni
della mafia riflette un respiro poetico-estetico più ampio da parte del narratore/regista e
dona i migliori risultati.
Ma il mio studio tiene sempre presente la mafia reale come Ur-Text fondamentale.
Non ignora il rapporto tra la rappresentazione dell’infanzia e il contesto culturale e
storico in cui le opere letterarie e cinematografiche sono state prodotte o a cui fanno
riferimento. Per questo, ho attinto, oltre che alla teoria letteraria e cinematografica, alla
storiografia e alla critica sociologica, e aprendomi anche alla psicologia, all’antropologia
18
e all’etnografia, senza dimenticare le posizioni etiche ed estetiche di registi e narratori.
L’analisi di tipo interdisciplinare si concentra soprattutto nell’introduzione di ogni
capitolo, che offre un excursus storico-socio-antropologico su ogni categoria di
rappresentazione. Nel cuore di ogni capitolo, poi, ho adottato un approccio formale, fatto
di un’accurata analisi testuale dei film, spesso messi in rapporto ai romanzi da cui sono
stati tratti. Ho proposto uno studio comparato fra le due opere scelte in ogni capitolo,
considerate nelle unità e nelle diversità delle strategie adottate per la rappresentazione
dell’infanzia. La sfida, che spero riuscita, è stata appunto quella di ridurre e conciliare la
tensione tra analisi estetica e analisi storico-sociologica.
Un’ultima, doverosa, precisazione: poiché i termini “bambini” e “mafia” fanno
riferimento a un insieme complesso di significati e possono creare ambiguità, vorrei
precisare che, ai fini del mio studio, ho deciso di considerare “bambini” i fanciulli al di
sotto dei quattordici anni, ben essendo consapevole che la percezione della soglia oltre
cui l’infanzia è ritenuta conclusa è variabile e soggettiva. Ho deciso inoltre di riferirmi
con il termine di “mafia” a qualsiasi organizzazione criminale operante nel Sud Italia,
abbracciando in un’unica parola le realtà, peraltro alquanto diverse fra loro, della mafia
siciliana, della camorra napoletana e della ‘ndrangheta calabrese. Nel mio studio,
pertanto, quando parlerò di “mafia” mi riferirò genericamente all'insieme delle mafie
italiane. Userò invece i termini di “camorra” e “'ndrangheta” esclusivamente in
riferimento ai casi specifici della criminalità organizzata napoletana e calabrese.
19
CAPITOLO UNO: BAMBINI CON LA MAFIA
“Tutti quelli che conosco o sono morti o sono in galera. Io voglio
diventare un boss. Voglio avere supermercati, negozi, fabbriche, voglio
avere donne. Voglio tre macchine, voglio che quando entro in un
negozio mi devono rispettare, voglio avere magazzini in tutto il mondo.
E poi voglio morire. Ma come muore uno vero, uno che comanda
veramente. Voglio morire ammazzato”.
Lettera di un ragazzino rinchiuso in un carcere minorile, cit. in Saviano,
Gomorra 2006, 129
I. Introduzione
Il fenomeno dei bambini-soldato, reclutati come manovalanza dalla criminalità
organizzata per compiere furti, rapine e persino omicidi su commissione, è in costante
aumento in Italia ed ha ricevuto per questo una crescente attenzione da parte di sociologi,
psicologi, antropologi e studiosi di diritto,8 andando inevitabilmente ad attrarre l’interesse
di sceneggiatori e registi cinematografici, come dimostrano i recenti film Certi bambini
(2004) dei fratelli Frazzi e Gomorra (2008) di Matteo Garrone.
Come ha osservato don Tonino Palmese in un’intervista del 2006 a “Trenta Ore
per la Vita”, i bambini-soldato costituiscono “un esercito invisibile”; fanno parte cioè di
“un mondo semisommerso”, difficilmente quantificabile.9 Nelle periferie dei grandi centri
urbani del Sud la situazione appare particolarmente drammatica. I bambini a rischio
vivono, infatti, per la maggior parte in quartieri-dormitorio, privi di servizi, dove i
fenomeni di violenza sono all’ordine del giorno e anche gli omicidi sono considerati
8
Citiamo, fra i tanti, gli studi di Laura Aleni Sestito, Francesco Barbagallo, Maurizio Calvi, Paolo Crepet,
Franco Occhiogrosso, Anna Puglisi, Roselina Salemi, Isaia Sales, Marco Schermi, Renato Scifo e Renate
Siebert.
9
Il vicepresidente della Commissione d'inchiesta sulla mafia, Maurizio Calvi ha provato a quantificare il
fenomeno dei bambini-soldato in Italia. Nello studio C'era una volta l'infanzia: uno sguardo sulla
criminalità minorile (1991), ha riportato che i minori denunciati ogni anno alla Procura della Repubblica di
Napoli sono cinquemila. Calvi ha sottolineato, tuttavia, che tale numero si riferisce solo ai reati violenti
(scippi e rapine non vengono più denunciati), pertanto si può dedurre che il numero di minori che
delinquono nella città partenopea sia all’incirca il doppio (115).
20
eventi normali. La psicologa Laura Aleni Sestito ha osservato come in questi quartieri si
registrino i più alti tassi d’insuccesso scolastico e lavoro minorile. I bambini sono esposti
a mille difficoltà e pericoli e vivono in condizioni di una marginalità socio-culturale che
li conduce inevitabilmente alla debolezza sul mercato del lavoro, a disoccupazione,
sottoccupazione, precarietà (37-38). Indicativo è il caso di Napoli, dove interi quartieri
costituiscono vere e proprie fabbriche della devianza in cui si producono i futuri boss
camorristi. Maurizio Calvi ha calcolato che in alcuni quartieri di Napoli l’abbandono
scolastico raggiunge punte del 30 % (46). Secondo i dati riportati dal giornalista Giorgio
Bocca, il 50% dei giovani nel quartiere di Scampia è senza lavoro: gli undicimila
disoccupati vanno inevitabilmente ad infoltire le leve dei soldati pronti a delinquere (8182). Ad appena sette-otto anni cominciano come “muschilli”, cioè corrieri della droga in
motorino; a quattordici hanno incarichi importanti e sanno usare la pistola e a diciassette
sono già diventati “capizona”. Costano poco e rendono molto, perché non sono punibili
dalla legge e dunque più idonei a svolgere mansioni rischiose. La mobilità è altissima e
rapidissima (non è questione di decenni, bensì di pochi mesi), ma spesso la carriera di
questi piccoli boss finisce con la morte violenta.
Lo psicologo Mario Schermi ritiene però che questi ragazzini non siano
necessariamente degli emarginati. Sono bambini determinati e pieni di risorse e,
soprattutto, fortemente attratti dal modello sociale proposto dai gruppi mafiosi. Essi
desiderano appartenere al “sistema”, perché è un modo per uscire dall’anonimato e
considerano l’uso della violenza come un’opportunità di promozione sociale. È un mondo
affascinante, quello della mafia, che può garantire un precoce ingresso all’età adulta e
fornire loro - oltre che denaro e prestigio sociale - un forte senso d’identità, poiché
21
risponde con un modello potente al bisogno di appartenenza tipico dell’adolescenza.
Anche il magistrato Marco Bouchard nota la “forza carismatica che il modello del
criminale è in grado di esercitare . . . nell’immaginario di molti ragazzini in cerca
d’identità” (cit. in Scifo 60). In alcuni casi, osserva Giorgio Bocca, i bambini sono così
determinati da mentire sulla loro vera età per apparire maturi agli occhi dei boss ed
entrare più rapidamente nell’organizzazione (101). Come mostra la lettera riportata qui
sopra, hanno elaborato una mentalità secondo cui, piuttosto che portare avanti una vita
banale, è meglio avere in poco tempo soldi, potere e prestigio, e poi morire ammazzati.
Non sorprende pertanto che nell’ultimo decennio i bambini reclutati dalla mafia
siano diventati soggetto d’interesse narrativo da parte di scrittori, intellettuali, giornalisti,
registi e sceneggiatori. Quello dei giovani e la devianza è tra l’altro un connubio tipico
dell’epoca moderna, che aveva già attratto la letteratura europea ottocentesca, che si era
servita dei bambini “deviati” come pretesto per un commentario sull’inadeguatezza della
società. Le opere italiane sulla devianza minorile si rifanno però anche alla tradizione
neorealista d’indagine sociale, richiamando con i loro piccoli protagonisti sia i “ragazzi di
vita” pasoliniani delle borgate romane, sia gli “scugnizzi” e “sciuscià” dei film
neorealisti, sfruttati dagli adulti e costretti alla delinquenza nel degrado post-bellico.
Napoli, ma anche Palermo, diventano location privilegiate per chi si occupa
cinematograficamente di delinquenza giovanile, come provano i film di Antonio Capuano
(La guerra di Mario 2006, Luna rossa 2001, Pianese Nunzio, 14 anni a maggio 1996, Vito
e gli altri 1991) e Baby gang (1992) di Salvatore Piscicelli, ambientati tutti a Napoli, e
quelli di Marco Risi (Ragazzi fuori 1990 e Mery per sempre 1989), girati invece nel
capoluogo siciliano: entrambe le città private di ogni elemento di esotismo e
22
fascinazione.
I fratelli Frazzi e Matteo Garrone, i cui film sono oggetto di studio in questo
capitolo, hanno scelto entrambi come ambientazione la città di Napoli, pur non
menzionandola apertamente e quasi decontestualizzandola. Certi Bambini, tratto
dall’omonimo romanzo di Diego De Silva, è ambientato nella Napoli dei vicoli e
Gomorra, il film adattato dal libro-reportage di Roberto Saviano, prevalentemente nel
quartiere periferico di Scampia. Le due opere propongono storie simili di bambini privi di
prospettive e ansiosi di entrare nel “sistema”. L’undicenne Rosario in Certi bambini e il
tredicenne Totò in Gomorra, sono “criaturi” con la smania di raggiungere velocemente lo
status di “òmmini”10 ed entrare a far parte della malavita. Guidati da violenti boss di
quartiere, essi compiono un percorso criminale scandito da tappe ben precise, che li fa
crescere rapidamente e prematuramente, distruggendo per sempre l'innocenza della loro
infanzia. Per Rosario il passaggio da “criaturo” a “òmmo” avviene al termine di un
tirocinio d’istruzione a uccidere, mirato cioè alla sua trasformazione in omicida. Totò
diventa adulto superando prove di coraggio e di fedeltà che lo conducono pian piano alla
sua consacrazione a membro di un clan di quartiere. Alla fine di questo percorso che è
insieme d’iniziazione all'età adulta e alla malavita, Rosario e Totò sono pronti per fare il
loro ingresso ufficiale nella camorra.
I film uniscono gli elementi del classico racconto di formazione alle convenzioni
del genere-mafia e strizzano l’occhio appunto ai modelli estetici neorealisti, non solo per
la tematica dei bambini sofferenti e le vicende ispirate alla vita quotidiana, ma anche per
alcune tecniche particolari come: l’uso di attori non professionisti e del dialetto e le
10
In questo capitolo farò spesso riferimento a parole del dialetto napoletano. Ho consultato il Dizionario
etimologico napoletano di Francesco D’Ascoli.
23
riprese in esterno. In Italia, come abbiamo visto, il tema dei bambini nel Neorealismo è
strettamente connesso a quello della crisi bellica e della miseria. Enrica Capussotti scrive
che questi bambini “portano inscritte la memoria della tragedia appena passata e le
speranze di un riscatto collettivo presente e futuro” (46). Giovanna De Luca aggiunge che
sono “lo sguardo rigenerante della ricostruzione; lo sguardo del progresso e del domani”
(50-1). Contrariamente a ciò, nei film di questo capitolo, c’è un forte pessimismo di
fondo e non assistiamo ad alcun tipo di riscatto finale. Filmati con stile documentaristico
(come nel Neorealismo la violenza si può solo esporre, documentare, e non commentare),
qui i giovani delinquenti sono proposti come casi estremi. Sono bambini disperati,
prodotti di un ambiente depravato e travolti da un destino che non possono controllare,
quasi in maniera deterministica. A proposito di Certi bambini, Paolo D’Agostini ha
parlato di “visione cattivista senza speranza di riscatto o recupero” (46). In Gomorra come nella città biblica a cui il titolo del film fa riferimento - non c’è per i protagonisti
alcuna possibilità di redenzione. Parlando del recente canone narrativo che pone al centro
Napoli e un Sud Italia minaccioso e feroce, lo scrittore Antonio Pascale ha osservato
appunto che opere di questo tipo creano “una specie di retorica dell’apocalisse”. Non c’è
insomma nessuna illusione di salvezza. Nessun lieto fine. Nessuna via di scampo.
24
II. Certi bambini
Certi bambini (2004), il secondo lungometraggio dei fratelli Frazzi, racconta il
percorso di formazione che possiamo definire “perverso” compiuto da un bambino di
undici anni con la smania di diventare camorrista. Il film non si addentra nelle pieghe del
“sistema” per raccontarlo dall’interno (come fanno ad esempio molti film di Capuano) e
non propone soluzioni o modelli positivi a cui ispirarsi. Si contenta invece di illustrare un
determinato contesto sociale, e tratteggia con accuratezza di dettagli ambienti degradati (i
quartieri popolari di Napoli), personaggi equivoci (pedofili, sfruttatori di baby-criminali)
e situazioni di vita estreme (spaccio, rapina, prostituzione) senza puntare direttamente il
dito e senza accusare. Come hanno ammesso gli stessi registi, Certi bambini non tenta di
fare un’indagine sociologica del fenomeno dei bambini-soldato, né si pone come pellicola
di denuncia sociale, bensì mette in primo piano il percorso di vita di Rosario e il modo in
cui la totale mancanza di prospettive finisce per farlo arruolare nella camorra e per fargli
premere il grilletto contro un uomo indifeso.11 I fratelli Frazzi sono interessati insomma a
tracciare la traiettoria esistenziale di un “angelo” caduto all’inferno, in cui compie “di
girone in girone . . . un percorso senza ritorno” (Spada 149). In tal senso, proprio perché
prova a scavare nell’interiorità del bambino, il film trascende la dimensione etica e
sociologica, senza tuttavia eliminarla totalmente: nel mostrare una società allo sbando è
dato, infatti, anche un giudizio su di essa, così come sugli adulti che permettono la
corruzione di una vita innocente.
A fronte di una trama da bildungsroman tradizionale, con un solido impianto
11
Allo stesso modo i registi non prendono mai posizione per dare giudizi morali sul protagonista, anzi,
come precisano loro stessi, Rosario “non è un mostro: è un bambino cresciuto nella più assoluta libertà,
senza alcuna educazione, senza alcuna regola. È un bambino privo di qualsiasi senso etico . . . Di
conseguenza ingiudicabile” (“Certi bambini – Intervista ai registi”).
25
narrativo che ricostruisce le tappe della formazione “perversa” di Rosario, il film propone
però una tecnica di racconto più insolita, frammentata e a-lineare. Infatti, la struttura
narrativa di Certi bambini è composta di una serie di flashback che presentano i ricordi di
Rosario in ordine sparso, cioè non cronologico. Questi ricordi affiorano alla mente del
bambino durante un viaggio in metropolitana verso il luogo in cui deve uccidere un
uomo. L’omicidio ci viene mostrato solo alla fine del viaggio, ribaltando la struttura
narrativa del romanzo che presentava l’omicidio all’inizio. Il cambiamento è avvenuto
evidentemente per questioni di suspense. Inoltre, collocando l’omicidio alla fine del film,
i registi pongono l’enfasi sul percorso che conduce il bambino ad entrare nel gruppo dei
camorristi e che segnala ufficialmente la sua appartenenza al “sistema”. Preceduto da
diverse fasi d’istruzione e addestramento, l’omicidio costituisce l’ultimo atto del suo
tirocinio da killer, la prova che dà conferma del suo valore e che lo trasforma da bambino
in adulto. Come osserva Antonio Frazzi:
Abbiamo pensato a Certi bambini come alla storia di due viaggi: un viaggio
fisico, che è quello che Rosario compie in metropolitana ufficialmente per
raggiungere un campo di calcio per una partita, ma che nasconde una sorpresa; e
un viaggio mentale che lo stesso protagonista compie nei ricordi del proprio
passato. La chiave di lettura . . . è proprio la memoria di Rosario: tutto è visto e
filtrato attraverso il suo sguardo. (“Certi bambini – Intervista ai registi”)
L’intera storia è pertanto vissuta dagli spettatori attraverso l’esperienza soggettiva
del bambino. Il mondo interiore di Rosario è messo in primo piano dai registi, che
nell’esposizione dei fatti seguono il filo della memoria del bambino, quasi come un
“flusso di coscienza”. Come osserva Roberto Escobar, tanto la sceneggiatura (scritta col
contributo di De Silva) quanto il montaggio ci forniscono “l’immediatezza e la verità
psicologica” dell’interiorità del bambino. Il film si allontana così dallo stile asciutto e
26
conciso del libro che tendeva quasi a lasciare il lettore al di fuori della storia, complice
anche un narratore extradiegetico. Invita, invece, lo spettatore a partecipare
emotivamente. E soprattutto, attraverso la presentazione soggettiva dei ricordi di Rosario,
propone una realtà che non è perfettamente spiegabile, dominabile e dunque neppure
documentabile (la tecnica del flashback è, tra l’altro, anche la meno adatta a
rappresentare la realtà in senso documentaristico). Tant’è vero che i ricordi di Rosario,
oltre a essere confusi in senso temporale, sono anche, come spesso accade, inaffidabili: il
bambino ricorda ad esempio due volte, e in modo diverso, l’episodio cruciale del suo
incontro con Caterina.
I registi giocano su una dicotomia bambino/adulto assai evidente nel film, a vari
livelli, per mostrare come lo status dell’infanzia sia molto fragile nel contesto mafioso,
così come accadeva in quello bellico e post-bellico del Neorealismo. Rosario è un
bambino-non bambino e vive un’infanzia innaturale, non soltanto perché immersa in un
retroterra di violenza e sopraffazione, ma perché il suo passaggio dall’infanzia all’età
adulta avviene in maniera assai rapida e prematura. In conformità al genere-mafia,
inoltre, Certi bambini mette in scena e solleva anche questioni sulla mascolinità. Il film
può esser letto, infatti, come una storia d’iniziazione maschile o di una
“mascolinizzazione”, il che diventa evidente se analizziamo il tipo d’istruzione che
Rosario riceve dall’addestratore di baby-killer, Damiano. Damiano rivela un’attenzione
ossessiva all’importanza di essere “uomini” e fa misurare Rosario con una serie di prove
destinate a sancire il suo passaggio alla piena mascolinità: “Sii òmmo” gli ripete ad
esempio mentre lo istruisce su come compiere l’omicidio, rendendo palese che il suo
scopo è quello di fornirgli un’educazione virile (“Mo’ si’ òmmo” si sentirà dire a sua
27
volta Totò in Gomorra in una scena che fa eco a questa).
Così come gioca sulla dicotomia “criaturo/òmmo,” il film dei Frazzi propone
allora anche un’opposizione marcata fra maschile/femminile e rende evidente che il
protagonista si trova in uno spazio di transizione fra i due. Lo stato di liminalità in cui
vive Rosario è uno dei fili rossi che collegano la sua vicenda a quella di Totò: entrambi i
bambini sono situati in un luogo “betwixt and between” - secondo la nota definizione
dell’antropologo inglese Victor Turner - cioè “tra e in mezzo”.12 E per entrambi il
superamento della condizione liminale è sacralizzato da un rituale ben preciso, volto a
drammatizzare il loro passaggio alla mascolinità come avveniva nelle culture primitive e
tradizionali (l’omicidio per Rosario, i proiettili in petto per Totò). La trasformazione dei
bambini
in
maschi
adulti
comporta
inoltre
l’abbandono
del
femminile:
quell’allontanamento cioè dalle “madri” così necessario anche secondo il pensiero
Freudiano-Junghiano al percorso di maturazione di ogni bambino maschio.13
Ogni bambino deve negare il passato infantile, legato alla madre, per sviluppare le
qualità di forza richieste alla mascolinità. Ciò significa per Rosario e Totò rinunciare ai
12
Nel suo celebre saggio: “Betwixt and Between: The Liminal Period in Rites of Passage” (1967), Turner
spiega che i soggetti inseriti in questa zona si trovano in uno stato di ambiguità, perché sebbene non
abbiano più le caratteristiche dello stato precedente, non hanno però ancora quelle del successivo. E
precisa: “they are neither one thing nor another, or may be both; or neither here nor there; or may even be
nowhere . . . and are at the very least ‘betwixt and between’ all the recognized fixed points in space-time of
structural classification” (7). In sostanza, i partecipanti liminali si trovano in una posizione limbica, essendo
in uno stato di vaghezza, che deve essere superato per passare allo stadio successivo.
13
L’atto di separazione dalla madre è alla base dell’identità sessuale maschile e recidere il proprio legame
affettivo con la madre è un processo fondamentale per la crescita di ogni individuo. In “Two Essays on
Analytical Psychology”, Carl Jung scrive appunto: “separation from [the mother] is a delicate and
important matter for the greatest educational significance” (cit. in Mahdi, Foster, and Little 170). Tutta una
serie di studi psicoanalitici sviluppati sul concetto Freudiano-Junghiano del ripudio della madre sono
riassunti nel libro: The Cultural Myth of Masculinity (2003), in cui Christopher Blazina scrive: “Traditional
psychoanalytical theory addresses masculine identity development, that is, how boys become men, by
positing a process of disidentifcation. . . . disidentification is described as a two-pronged process whereby
(1) a boy must renounce emotional ties to his primary caregiver (traditionally held to be his mother), and
(2) he must counteridentify with his father or another male role model. These developmental tasks are held
as necessary steps toward emotional and physical autonomy as well as being necessary for proper genderidentity development (67).
28
lati deboli del proprio carattere, per non essere considerati poco virili. Significa anche
affiancarsi ai “padri”, cioè a figure maschili che fungano loro da guida e trasmettano loro
i comportamenti necessari ad assumere un ruolo adulto nella comunità. Per i particolari
valori che assumono il maschile e il femminile nella mafia, la separazione dalle “madri” e
l’identificazione con i “padri” appare a maggior ragione un processo obbligato, poiché
ciò che rappresenta la madre, cioè protezione, calore, tenerezza fa riferimento a
sentimenti inammissibili per un mafioso; mentre i valori di forza di cui si fa portavoce il
padre costituiscono le caratteristiche principali dell’“uomo d’onore” ed arrivare a
possederle è il fine ultimo dell’educazione mafiosa. Come vedremo, saranno gli uomini
camorristi a farsi carico della “mascolinizzazione” di Rosario e Totò. Essi li aiuteranno ad
entrare nel mondo sociale del “padre”, ovvero a permettere loro di aderire alla legge
patriarcale, che in questo caso s’identifica con quella della mafia. L’iniziazione finale dei
due bambini è perciò anche la vittoria della legge “paterna” della mafia, che è forte,
potente e prepotente contro la legge “materna” che invece è debole e difettosa e in Certi
bambini è simboleggiata, oltre che dal suo ambiente domestico, anche dalla comunità
d’accoglienza in cui Rosario fa il volontario.
Sin dall’inizio del film, i fratelli Frazzi enfatizzano l’universo femminile e
“materno” in cui è immerso Rosario, all’interno del quale il bambino ha ruoli e mansioni
marcatamente femminili. Orfano di entrambi i genitori, Rosario vive con la nonna e fa il
volontario a “Casa Letizia”, un centro d’accoglienza gestito dalla parrocchia che ospita
ragazze-madri e giovani donne in difficoltà. Al centro, Rosario aiuta le ragazze bisognose
mentre a casa si occupa delle faccende domestiche: cucina, fa la spesa e il bucato. Inoltre,
accudisce la nonna malata con sollecitudine quasi materna, provvedendo ai suoi bisogni
29
più elementari: le prepara da mangiare, le fa il bagno, le somministra le medicine ecc. In
quest’ultimo compito, Rosario subentra non solo alla madre, ma anche un’altra donna che
l’ha preceduto, Vitina: una parente o forse una governante, ormai morta, a cui la nonna fa
spesso riferimento. Allo stesso tempo in cui all’interno di questi luoghi domestici svolge
compiti femminili, però, all’esterno Rosario è anche a capo di una gang di piccoli
criminali, in cui dominano comportamenti virilistici che esaltano atteggiamenti di forza e
di prepotenza. L’esasperazione di questi comportamenti anticipa già nei bambini la
diffidenza per il femminile e rivela una palese omofobia (si veda il loro uso frequente del
termine “ricchione” in netto contrasto con l’immagine dell’“uomo vero”).
Oltre ad esemplificare il suo stato “tra e in mezzo” a livello di ruoli sessuali, il
film rivela fin dal principio che la condizione esistenziale di Rosario in quanto bambino è
innaturale e assume, anzi, i tratti di una drammatica anomalia. Benché abbia soltanto
undici anni e sia a tutti gli effetti ancora un “criaturo”, Rosario non conduce uno stile di
vita tipico dei bambini e dei bambini non possiede neppure la spensieratezza. Non va a
scuola, non ha passatempi infantili e non gioca con i compagni della sua età. Al contrario,
è già responsabilizzato alla vita adulta, o come osserva Ignazio Senatore “precocemente
adultizzat[o]” (154), giacché provvede da solo al suo nucleo familiare, lavorando come
ladro per Casaluce, un piccolo camorrista del quartiere. Nel caso di Rosario, più di
quanto vedremo in Totò, i ruoli bambino/adulto poi sono chiaramente invertiti perché non
è l’adulto a prendersi cura del bambino, come sarebbe logico e immaginabile, ma
viceversa. Tant’è vero che è Rosario a preoccuparsi della salute di nonna Lilina, a
raccomandarle di mangiare o di riposarsi. È lui a metterla a letto e a rimboccarle le
coperte. Infine, è ancora Rosario ad incoraggiarla nelle sue fantasticherie infantili (la
30
nonna non ricorda le persone morte e gli domanda di continuo quando la verranno a
trovare). Capovolgendo la definizione di Stella Cervasio, secondo cui Rosario è un
“bambino-vecchio”, possiamo sostenere che nonna Lilina è a sua volta una “vecchiabambina”, giacché a causa dell’età avanzata e della poca lucidità, è indifesa come una
bambina e, come una bambina, non sa badare a se stessa.14 È proprio la nonna a
riconoscere implicitamente il capovolgimento dei ruoli fra lei e Rosario, quando osserva,
mentre quest’ultimo la aiuta a lavarsi: “A te, quand’eri piccolo, te lo facevo sempre io il
bagno!”
Fig. 1
In tali condizioni, è ovvio che anche con i suoi coetanei, Rosario non si comporti
come un bambino. Invece imita, e negli aspetti peggiori, il comportamento degli adulti:
fuma, beve alcolici, gioca a biliardo. Si dà arie da grande e intrattiene i compagni con
storie da adulti, di cui ripropone goffamente anche i discorsi. Si vanta addirittura di avere
messo incinta una ragazza, Caterina, che vive al centro d’accoglienza e della quale è
segretamente innamorato. Anche quando racconta di Caterina agli amici, Rosario
scimmiotta il modo d'esprimersi degli adulti, giacché ne parla facendo riferimento
14
Nel romanzo, Diego De Silva contribuisce a tracciare di lei un ritratto di perfetta “criatura” dicendo che
nonna Lilina “Manda un odore dolciastro” (8), inventa parole che non esistono, e quando dorme “ha la
faccia increspata in un broncio infantile, e la mano destra mezza chiusa sul cuscino, come avesse stretto
qualcosa prima che il sonno gliela togliesse di mano” (10).
31
unicamente alle sue parti anatomiche e usando per lo più un linguaggio intriso di
volgarità. “Il linguaggio, scurrile e senza fronzoli, sottolinea come la distanza emotiva tra
il mondo dei giovani adolescenti e quello degli adulti si sia ridotta al minimo”, osserva
giustamente Ignazio Senatore (154): sentendoli parlare, è difficile immaginare che si tratti
solamente di bambini. Inoltre, le atrocità della sua infanzia innaturale sono vissute da
Rosario “in modo mostruosamente naturale” (D’Agostini 46), con l’atteggiamento freddo
e distaccato di chi non conosce alternative. In uno dei flashback mostrati dai registi,
Rosario non fa una piega quando gli amici vanno a chiamarlo a notte fonda per compiere
una rapina agli ordini di Casaluce: s’informa soltanto su chi dovrà fare da palo in
quell’occasione. E quando decide di andare a provare il sesso a pagamento (di per sé un
comportamento anomalo per un undicenne), non si sorprende di trovarsi di fronte una
bambina di otto/nove anni. Si limita a dichiarare piattamente che la ragazzina non gli
piace, perché “nu’ tien ’e zizz” (“non ha le tette”). Rosario rappresenta l’antitesi del
bambino innocente Rousseauiano, staccato dagli orrori della società15 (sarà questo il caso,
come vedremo, di Saro in Placido Rizzotto, la cui visione improvvisa dell’orrore mafioso
lo sconvolgerà e lo farà soccombere). Si allontana però anche dall’idea Deleuziana del
bambino-testimone: non soltanto qui Rosario è fin dall’inizio testimone diretto
dell’orrore, ma ne è partecipante attivo, dentro l’orrore stesso.
Il film dei Frazzi gioca infine sulla dicotomia “criaturo/òmmo” anche nel modo in
15
La descrizione che fa De Silva del suo personaggio nelle prime pagine del romanzo mostra bene la
condizione di “bambino-vecchio” di Rosario, assuefatto ai peggiori orrori: “Rosario di espressioni non ne
ha quasi. Per la sua faccia è sempre tutto normale. Cose come la meraviglia o lo smarrimento o l’allegria o
la pena o la ripugnanza non hanno presa su di lui . . . Rosario rimane dov’è quando la vecchia aggrappata
alla borsa viene trascinata dalla vespa. Rosario si infila nella folla per vedere il morto ammazzato, e tocca
la segatura impregnata di sangue con la punta della scarpa. Rimane pure quando arriva la Mortuaria.
Guarda l’aria con le braccia alzate mentre i falchi [i poliziotti] lo toccano lungo i fianchi e dentro alle
cosce. Rosario non li guarda in faccia quando poi gli danno pizzicotti e gli dicono tu tieni una brutta fine
preparata . . .” (18-19).
32
cui Rosario viene percepito dalle persone intorno a lui. Ad esempio, nella scena in cui il
bambino si presenta per la prima volta a “Casa Letizia”, il prete che gestisce il centro,
don Alfonso, lo accoglie con entusiasmo perché - così dice - “c’è bisogno di uomini”. Al
tempo stesso, però, quando in metropolitana un gruppo di ragazzi lo minaccia
pesantemente, gli altri passeggeri intervengono gridando di lasciarlo stare perché è solo
“‘nu criaturo”. L’ambiguità rimane anche nel modo in cui Rosario percepisce o vuol far
percepire se stesso. A nonna Lilina quando racconta di essersi innamorato di Caterina,
che ha vent’anni, insiste col dire che ha quasi dodici anni e a Caterina che l’aveva preso
in giro perché non ha “manco un pelo di barba in faccia” aveva mentito, dicendo di
averne quattordici. Eppure, quando la polizia fa irruzione nella sala giochi e vuole
perquisirlo, Rosario esclama per due volte: “Io, undici anni tengo!” Mentre cerca di
liberarsi dagli strattoni, si presenta astutamente come “piccolo”, perché è consapevole
che, in quanto “criaturo”, non è perseguibile dalla legge.
La sequenza d'apertura di Certi bambini riassume metaforicamente lo stato di
liminalità in cui si trova Rosario all’inizio del film: la sua oscillazione fra l’appartenenza
al mondo dei “criaturi” e quello degli “òmmini” e fra la condizione maschile e quella
femminile del vivere. In questa scena, Rosario e i suoi amici osservano dapprima le
automobili in corsa dal ciglio di un’autostrada. Poi decidono di attraversarla correndo,
scansando le auto che sfrecciano ad alta velocità e rischiando così di farsi investire. Uno
di loro, Brasile, si getta per primo in strada e lancia la sfida: “Se si muore, si muore e chi
non si butta, è ricchione!” Allora anche gli altri bambini attraversano la strada, tra gli
stridori dei freni e le imprecazioni degli automobilisti. Solo Matteo all’ultimo momento
cambia idea e si allontana correndo dalla parte opposta, dopo aver rivolto agli altri una
33
pernacchia di scherno. L’attraversamento dell’autostrada è una metafora dell’esperienza
liminale. La strada rappresenta il luogo di collegamento spazio/temporale tra due estremi:
un qua e un là, un prima e un dopo, l’infanzia e l’età adulta, essere uomo e non essere
uomo. Sul ciglio i bambini si trovano, come nella vita, “tra e in mezzo” e in quanto tali,
sono privi di status: non sono né una cosa né l’altra, ma sono sia l’una sia l’altra. Non
sono né qua né là, ma in un certo senso sono in tutti i punti che permettono la separazione
tra un “di qua” e un “di là”.
Fig. 2
Attraversare la strada è fondamentale in tal senso, perché l’attraversamento
rappresenta simbolicamente la fine della condizione di liminalità, quindi di sospensione,
ed il passaggio ad ruolo sociale nuovo: quello maschile e adulto. La prova pone i bambini
in due categorie: dalla parte di chi si è buttato ci sono quelli sprezzanti del pericolo, i
coraggiosi, gli “òmmini”; dalla parte di chi è restato, invece, i codardi, i “criaturi”, i
“ricchioni”. Per questi ultimi, l’ingresso nel mondo degli uomini adulti è negato, o
perlomeno rinviato. Non è un caso che, alla fine della sequenza, i bambini rincorrano
Matteo e lo puniscano togliendogli i pantaloni (un ovvio simbolo di mascolinità) e
buttandoli a mare. Dimostrandosi pavido, Matteo ha lasciato che prevalessero in lui
qualità di tipo femminile e merita pertanto l’appellativo di “ricchione”. Conformemente a
quanto riportato da molti studiosi sull’ambiguità dei legami fra uomini mafiosi, questa
34
scena colpisce però anche per la sua natura omoerotica: la punizione inflitta a Matteo
rivela, infatti, il paradosso di una minaccia (più o meno velata) di violenza sessuale - e
omosessuale.16
È interessante che per attraversare la soglia fra mondo femminile e maschile e
passare dall’infanzia all’età adulta, Rosario si affianchi non a uno, bensì a due diversi
“padri” che gli fungono entrambi da guida. Da un lato c’è Santino (“un nome che pareva
fatto apposta” dice di lui De Silva, 44), un volontario al centro di accoglienza, e dunque
modello positivo; dall’altro Damiano, il camorrista addestratore dei baby-killer, e dunque
modello negativo. Santino e Damiano sono ambedue giovani e carismatici e al cospetto di
entrambi il bambino si mostra mite e malleabile. Che l’ammirazione di Rosario sia rivolta
allo stesso modo verso i due personaggi si può costatare proprio da come sia pronto a
seguire indifferentemente l’esempio dell'uno e dell'altro. Come una “banderuola” (così lo
definisce, infatti, De Silva in un’intervista),17 il bambino abbraccia a turno le loro idee e i
loro punti di vista, sia quelli di Santino, che non pone mai in discussione, sia quelli di
Damiano, che addirittura mette sullo stesso piano della nonna.18 I due personaggi sono
figure chiave della crescita di Rosario perché, in assenza di altri adulti maschili di
16
L’omofobia, e in particolare il timore di essere ritenuti omosessuali, è un sentimento che caratterizza e
accomuna gli uomini mafiosi. Nel contesto iper-virilizzato della mafia, si è uomini solo se si preferiscono le
donne e l’appellativo di “ricchione” è una delle offese più infamanti che si possano rivolgere a un mafioso.
Un uomo che “viene riconosciuto come ricchione non può essere mai capo,” sancisce ad esempio un antico
codice della camorra del 1842 (cit. in Paliotti 76). Durante la loro educazione alla malavita, i mafiosi
assimilano una concezione della mascolinità forte ed aggressiva, violenta e competitiva. Interiorizzano e
imparano a proiettare all'esterno, un’immagine di maschio basata sulla forza e la prevaricazione. Se
diventare “òmmini” significa identificarsi con un simile ideale maschile, è evidente che gli omosessuali non
vanno ammessi, giacché essi “rappresentano la negazione, la disconferma di quanto interiorizzato e, quindi,
del loro stesso modo di essere” (LoVerso, Lo Coco, and Siebert). Però – come avverte Renate Siebert –
l’omofobia è solo una manifestazione dell’insicurezza maschile e nasconde aspetti di profonda ambiguità: i
rapporti fra mafiosi sono, infatti, caratterizzati da affetto e complicità e sono carichi di una forte
componente omoerotica (Le donne, la mafia 42).
17
È l’intervista con Donata Ferrario (v. bibl.)
18
Mi riferisco alla scena in cui Damiano sentenzia: “- Le cose belle si pagano”. Rosario risponde
sorridendo: -“ Eh pure nonna Lilina dice sèmpre accussì!”
35
riferimento, rappresentano un modello in cui il bambino si può identificare e da cui si
aspetta di essere riconosciuto alla fine del suo percorso come “uno di loro”. Entrambi
hanno le potenzialità di portare Rosario ad entrare nell’ordine simbolico del “padre” ed è
interessante che sarà la rivalità edipica con uno dei due, come suggerisce Allison Cooper
nel suo saggio “Growing up Camorrista: Antonio and Andrea Frazzi’s Certi Bambini”
(2011), a provocare, anzi ad accelerare l’ingresso di Rosario nella camorra.
È utile proporre un confronto fra film e romanzo a proposito dei personaggi di
Santino e Damiano. Il film, rispetto al romanzo, non sviluppa in maniera approfondita il
personaggio di Santino e si concentra in modo quasi esclusivo su quello di Damiano, che
ritorna ossessivamente nei flashback per mostrare il ruolo che ha sulla formazione
“perversa” del bambino. Nel romanzo, invece, De Silva adotta il punto di vista di Rosario
e traccia di Santino un ritratto molto positivo: Santino è bello, buono, affabile, e agli
occhi di Rosario non ha difetti; anzi ha “una misteriosa capacità di ingentilire le cose e di
adattarle a sé” (47-48). Inoltre è “ospitale, generoso, continuamente entusiasta” (48), e
talmente dedito ad aiutare le persone bisognose che assume quasi le sembianze di un
santo: “Certe donne, quando parlavano di lui, dopo un poco si facevano la croce e
mandavano il bacetto” (44). Ogni volta che lo incontra per strada, Rosario trema
dall’emozione “come una femmina innamorata” (45) e si rende conto all’improvviso
della miserabilità della sua vita, si sente “brutto, maldestro, misero nei panni che aveva
addosso, ridicolo nei movimenti” (104). Santino rappresenta per lui la possibilità di un
destino diverso da quello che pare già segnato. A riprova di ciò, il narratore scrive che,
anche mentre lavora per Casaluce, Rosario si sente “con la testa da un’altra parte” (57),
come “protetto, garantito. Come se, dal momento in cui Santino era andato a bussare a
36
casa sua, gli fosse stato promesso un altro futuro, e con un posto riservato” (59).
L’ammirazione che Rosario prova per Santino si trasforma però in cocente delusione
quando, durante una festa a “Casa Letizia”, scopre che lui e Caterina hanno una
relazione. Il bambino si sente tradito e perciò tronca ogni rapporto con lui.
Come abbiamo accennato, Allison Cooper ha visto nella rivalità fra i due
personaggi a causa di una donna il paradigma Freudiano del complesso edipico. Rosario è
la figura filiale che vuole portare via al “padre” Santino la “madre” e possederla: Caterina
rappresenta, infatti, l’oggetto di attrazione libidica di Rosario ma, essendo più vecchia di
lui e per di più incinta, incarna anche la figura materna. Il desiderio di stabilire un
contatto fisico con la madre è però ostacolato dalla figura paterna, il vero “detentore”
della donna e quindi odiato dal bambino perché spezza l’intimità madre-figlio. La rivalità
di Rosario con il “padre” cresce poco a poco fino a sfociare in odio e desiderio di
vendetta ed è questo odio che accelera l’arruolamento di Rosario nella camorra, fino a
diventare l’elemento catalizzatore della sua affiliazione. Scrive Allison Cooper:
Rosario’s decision to affiliate himself with the Camorra is conditioned by an
Oedipal logic, as he discovers Santino and Caterina making love and, rather than
repress his desire for Caterina, sets Santino up with a plan intended to publicly
humiliate or even harm his rival. (349)
In sostanza, Rosario supera il complesso edipico rifiutando l’identificazione con il
primo “padre” e affiancandosi ad uno nuovo che lo incoraggia ad esprimere, invece che a
reprimere, i suoi istinti. Da quel momento in poi, inizia per Rosario lo sviluppo che lo
proietta verso l'ordine simbolico “paterno” e che va a coincidere con il mondo sociale
mafioso, con la legge patriarcale del boss e col mestiere di assassino. Pertanto la camorra,
attraverso Damiano, sostituisce, con la sua cultura “paterna”, maschile, forte e potente la
37
cultura femminile “materna” in cui Rosario era inserito e di cui Santino era il portavoce.19
I due modelli di riferimento sono chiaramente all’opposto, e non solo per i rispettivi
valori etici che incarnano (amore e compassione vs. violenza e insensibilità), ma perché
Damiano è l’uomo “fallico” ed è chiaramente associato all’universo potente e prepotente
della mafia, mentre Santino, che è di per sé più femmineo, appartiene al mondo
femminile del centro d’accoglienza e della parrocchia e verrà piano piano spinto sempre
più indietro verso l’universo femminile, fino a diventare debole ed impotente, ed essere
definito dai camorristi e da Rosario stesso come una “signurinèlla”.
Contrariamente a quanto avviene per Santino, e inaspettatamente, data la
maggiore influenza che esercita sul bambino, il romanzo non sviluppa affatto il
personaggio di Damiano. Non c’è descrizione fisica o psicologica, né viene tracciato il
suo background criminale. Il narratore si limita a sovrapporre il discorso su Rosario alle
parole di Damiano, via via che Rosario ricorda i momenti trascorsi insieme al camorrista.
Ad una narrazione tradizionale, perciò, De Silva sostituisce una tecnica insolita che gli
permette di rendere l’immediatezza degli insegnamenti e come essi siano stati assorbiti
dalla mente di Rosario - anche questo è una sorta di “flusso di coscienza”. Infatti, come
nota Giuliana Adamo:
i riferimenti a Damiano si trovano disseminati in tutto il libro: sia in forma di
citazione diretta, tra parentesi, col “tu” rivolto a Rosario, ma senza nessun segno
diacritico che indichi il discorso diretto riportato; sia in forma di dialogo tra i due
amici nel passato; sia in forma di stralci di situazioni vissute dai due che
emergono nella memoria di Rosario. (“Riflessioni” 184 n. 14)20
19
Allison Cooper vede in questa sostituzione un’evidente ed aspra critica sociale portata avanti dai fratelli
Frazzi: “Rosario’s subsequent transformation into a camorrista as he rapidly acculturated into the
organization, is thus framed in the film as the violent consequence of the family and church’s failure to
protect Italy’s youngest generation” (350). Allora: “[the film] dramatizes the process by which the
Neapolitan Camorra comes to supplant traditional Italian social institutions like the Catholic Church and
the family” (346).
20
Ecco un esempio di questa tecnica: “Rosario va in cucina e apre la finestra . . . Scarta il formaggino e col
coltello incide la mollica lungo il contorno della cresta. Allora s’incanta. (Solo i cornuti e i guappi
38
Questa tecnica trova riscontro nel film proprio nell’uso dei flashback, i quali
interrompono regolarmente il filo narrativo per mostrare i momenti vissuti da Rosario
insieme a Damiano. Sulla metropolitana che avanza verso il luogo dell’omicidio Rosario
va ossessivamente con la memoria alle parole del “maestro”: “Ricordati: non bisogna
farsi mettere sotto da una fémmena. Se ti fai mettere sotto da una fémmena . . . nun si’ ‘n
òmmo. Si’ ricchione”; “Lo sai che fa uno quando ci punti la pistola? Ti guarda dritto in
faccia. Vede se tieni le palle”; “Tu cacci le palle e la gente cala ‘a capa”.
Gli insegnamenti di Damiano lo identificano certamente come l’uomo “fallico” e
in opposizione diretta al femmineo Santino, poiché derivano dalla cultura fallocentrica
mafiosa e coniugano l’esaltazione delle caratteristiche virili dell’“uomo d’onore” con
l’omofobia e il disprezzo delle donne. In particolare, Damiano consegna a Rosario un
modello di mascolinità basato prima di tutto sull’opposizione al femminile: per essere
uomini non bisogna farsi dominare da una donna. Va da sé che il contrario non soltanto è
ammesso ma auspicabile. Con il dominio maschile sul femminile il potere dell’uomo è
interiorizzato come parte dell’ordine naturale delle cose. Tuttavia, interiorizzare il potere
dell’uomo esclusivamente in relazione al femminile rende l’identità maschile
praticamente vuota: una sorta di involucro. La mascolinità si riduce nelle parole di
Damiano all’esaltazione del coraggio tipico di chi possiede gli attributi maschili (“le
palle”) e che distinguono appunto il “vero uomo” dalla “fémmena”, dal “ricchione”. In
una cultura di questo tipo, cioè in un contesto di egemonia esclusivamente maschile, gli
organi genitali diventano perciò oggetto di una valorizzazione eccessiva, se non
pisciasotto si fanno buoni col coltello. Ricordati. Chi ti vuole fare male veramente non perde tempo. Non si
fa vedere in faccia. Non corre pericoli. Quando uno ti minaccia e di spiega pure perché ti minaccia, è uno
stronzo). Rosario è rimasto con la punta del coltello infilata nel pane. Mentre gli occhi ripartono dalla
finestrella su cui s’erano fermati, sorride” (9).
39
propriamente ossessiva. “This is hardly surprising,” osserva Elizabeth Badinter, “when
the sex alone is supposed to sum up a person’s gender or even the quality of the entire
person. ‘To have or not to have’ tends to be substituted for ‘to be or not to be’” (134-135).
Damiano si presenta come l’incarnazione stessa dell’ideale mascolino che intende
trasmettere al bambino. Il giorno in cui fa la conoscenza di Rosario nella sala giochi, gli
dà immediatamente una dimostrazione pratica di cosa significhi per lui “avere le palle”, e
lo fa mettendo una smisurata quantità di zucchero nel caffè del boss Casaluce - che è
diabetico - e obbligandolo a berlo mentre tutti guardano. Questa scena rispecchia quella
più avanti nel film in cui Rosario deciderà di vendicarsi di Santino per il tradimento,
commissionando ai camorristi il furto della motocicletta. Mentre questi ultimi rubano la
moto di Santino e tutti gli ospiti di “Casa Letizia” osservano la scena dal balcone, senza
che nessuno trovi il coraggio di fare qualcosa, Rosario si rivolge proprio a Santino
chiedendogli, con falsa innocenza: “E che fai? Rimani a guarda' accussì?” È interessante
che il film contenga una battuta non presente nel romanzo, ovvero: “Faccello vede’ che si'
n’òmmo a sta ggente!” (“Faglielo vedere che sei un uomo a questa gente!”, enfasi mia), la
quale segnala quanto efficacemente Rosario abbia interiorizzato gli insegnamenti di
Damiano. In pratica, secondo questa logica per essere “òmmo” Santino deve dimostrare
di avere il coraggio di opporsi ai mafiosi, ladri di motociclette. Poiché non lo fa, mostra
di non “avere le palle”, perciò non merita l'appellativo di “òmmo” ed è definitivamente
svalutato da Rosario quale modello maschile di riferimento. Sia nel film sia nel romanzo,
infatti, i delinquenti si rivolgono a Santino con toni ironici dandogli degli appellativi
femminili (rispettivamente “signurinèlla” nel film e “femmenèlla” nel romanzo), il che
contribuisce alla svalutazione virile del personaggio e al suo scivolamento definitivo
40
verso la dimensione femminile.
Infine, gli insegnamenti impartiti da Damiano suggeriscono a Rosario che
l’espressione della mascolinità si realizza nella prevaricazione e nella violenza. Per la
mafia essere “òmmo” equivale alla capacità di esercitare la violenza e, se necessario,
anche di sapere uccidere. L’azione violenta è un modo di dimostrare il proprio potere e si
pone a garanzia di mascolinità. In tal senso, la pistola è un oggetto fondamentale. E non
soltanto perché possedere un’arma da fuoco e provare di saperla usare è parte integrante
del processo di affiliazione, ma perché la pistola è chiaramente un simbolo fallico: essa
equivale al pene, che a sua volta è metonimia per l’uomo. Che la pistola sia un’estensione
fallica è suggerito da numerose scene del film. Essa appare per la prima volta quando
viene rinvenuta per caso da Rosario e dai suoi amici nella borsa di un uomo omosessuale
che hanno prima adescato e poi rapinato nei bagni pubblici. I bambini si battono per il
possesso della pistola, vale a dire per la supremazia virile. In particolar modo, Brasile la
reclama sulla base del fatto che: “C’aggio fatto vede’ io ’o pesce, no tu!” (“Gliel’ho fatto
vedere io il pesce, non tu!”), il che traccia un parallelo evidente tra il membro maschile
(“’o pesce”), che Brasile ha dovuto mostrare all’uomo per adescarlo e l’arma da fuoco
che gli spetta come premio. Poiché Rosario vince il confronto a sangue con l’amico,
ovvero lo scontro per il predominio maschile, si sente immediatamente diverso, più forte,
e maggiormente rispettato dai compagni.21
In un’altra scena significativa (una delle poche presenti solo nel film e non nel
romanzo), Rosario immagina di usare la pistola per sparare alla baby-prostituta. Mentre i
21
De Silva descrive bene l’insieme di sensazioni che attraversano la mente di Rosario dopo l’accaduto. Pur
non riuscendo a dormire per gli spasimi del dolore che fanno male come “una miriade si spilli”, egli sente
“dentro una bella mistura di nausea e soddisfazione”. E, dopo una notte quasi insonne, la mattina dopo si
alza comunque rinvigorito, sentendosi addosso “una specie di responsabilità” (86).
41
suoi amici consumano il rapporto sessuale nella stanza accanto, Rosario si chiude in
bagno imbarazzato perché non è in grado di avere un’erezione. Lì punta la pistola prima
allo specchio e poi alla porta, simulando gli spari e pronunciando insulti a denti stretti
contro la bambina. In questo caso, la pistola opera quale sostituto del pene, che non gli
funziona correttamente, compensandolo per la sua inadeguatezza sessuale e per la
vergogna di non essere all’altezza rispetto ai compagni. La pistola compare, infine, nel
momento in cui Rosario si reca all’ospedale per attuare la vendetta nei confronti del
medico che ritiene responsabile della morte di Caterina per non averla soccorsa da
un’improvvisa emorragia. Anche questa volta, però, la pistola (ovvero il pene) fallisce nel
suo intento (l’erezione), perché Rosario comincia a tremare e spara colpi ad occhi chiusi,
riuscendo soltanto a ferire il dottore alle gambe. Dopo aver usato l’arma, poi, Rosario
manifesta una serie di ansie; si nasconde; scappa; è terrorizzato; tutti atteggiamenti che
testimoniano, oltre all’inesperienza come assassino, anche la sua immaturità dal punto di
vista sessuale, la sua impotenza.
Non è un caso che sarà proprio Damiano ad assumersi l’incarico di insegnare a
Rosario come usare la pistola e, implicitamente, a guidarlo verso la piena virilità.
Dapprima Damiano gli dà istruzioni precise su come fare uso della pistola (le
connotazioni sessuali sono evidenti, soprattutto nel romanzo): “Quando alzi la pistola non
la devi guardare più. He’’a cummanna’” (27); “Quando tieni la pistola non devi mai fare
il buono. Non fare mai capire che la tieni . . . La pistola è un momento quando la cacci. . .
Ricordati. Insieme alla pistola si cacciano pure le palle. E se non cogli al primo colpo, è
meglio che te ne vai” (131). Successivamente Damiano fa esercitare Rosario a sparare,.
In una scena particolarmente cruenta, ad esempio, gli intima di dare il colpo di grazia al
42
proprio cane Dottore, dopo avergli sparato con freddezza alle zampe (il nome del cane è
un chiaro riferimento al medico maldestramente ferito da Rosario, che questa volta va
ucciso per dimostrare di essere “uomo”). Damiano allena psicologicamente Rosario
all’insensibilità emotiva, insegnandogli a non avere paura e a non tremare di fronte alla
vittima per non tradire le proprie emozioni. Queste scene rendono evidente che tutto
l’indottrinamento di Damiano è volto a sostituire la cultura femminile “materna” (debole
e impotente), con una maschile “paterna” (forte, impassibile e potente): sostituzione
necessaria per compiere il definitivo rifiuto del femminile e l’interiorizzazione dei valori
di forza e aggressività tipici dell’“uomo d’onore”. 22
Come abbiamo anticipato, il definitivo passaggio di Rosario alla mascolinità (e il
superamento della condizione liminale) è sacralizzato da un cerimoniale che ritualizza la
sua trasformazione in uomo come accadeva nelle culture primitive e tradizionali. Infatti,
per come viene presentato l’omicidio e per la serie di simboli e allusioni disseminati dai
registi lungo il finale del film, l’omicidio ha tutte le caratteristiche di una prova iniziatica
che ricalca i riti puberali “di passaggio” e drammatizza simbolicamente la morte e la
rinascita dell’iniziato.23 L’omicidio avviene in un luogo buio e sotterraneo, al termine del
viaggio di Rosario in metropolitana (anch’esso di per sé un luogo profondo ed interrato),
all’imbocco del tunnel che porta verso l’uscita. Anche le luci del tunnel si spengono
all’improvviso, prima che Rosario raggiunga la vittima, di modo che il buio diventi quasi
assoluto. Quando Rosario esce dal tunnel dopo aver sparato, un uomo che
22
Imparare ad uccidere a sangue freddo è parte integrante del percorso di formazione mafiosa: “per essere
reputati adatti, [i ragazzini] devono appunto dimostrare di essere capaci di uccidere”, racconta Renate
Siebert: “Si inizia uccidendo un animale e poi si passa a un uomo. Dopodiché uccidere diventa un
mestiere, una qualità professionale” che richiede determinati requisiti come l'“autocontrollo e un dominio
sulle proprie emozioni tali da provocare un vero e proprio processo di anestetizzazione” (“’Matria’ e
‘patria’. Intervista a Renate Siebert”).
23
Questi riti sono stati ampiamente descritti dagli antropologi. In particolare ho fatto riferimento ai testi di
Arnold Van Gennep e Mircea Eliade.
43
presumibilmente fa parte del clan di Damiano scambia con lui uno sguardo d’intesa, il
che decreta il riconoscimento della prova.
Fig. 3
Fig. 4
. La discesa nel tunnel della metropolitana e la risalita nel mondo esterno
rappresentano simbolicamente la morte di Rosario e la sua successiva rinascita con un
nuovo status. La presenza dell’oscurità e dei luoghi sotterranei è altamente simbolica,
poiché rimanda a luoghi sepolcrali oppure a grembi materni in cui si regredisce ad una
forma prenatale, per poi rinascere con un nuovo status. In Certi bambini, si moltiplicano i
gesti e dettagli che alludono al passaggio all’età adulta: ad esempio, dopo l’omicidio
Rosario succhia il sangue della vittima dalla propria mano che ne era rimasta imbrattata.
Succhiare il sangue ha un'alta valenza simbolica: “by sucking the mother's milk, one
becomes feminine and by drinking masculine liquids, one becomes manly”, ricorda
Elizabeth Badinter (80). In molti riti di passaggio, gli adolescenti usavano succhiare il
sangue dalla ferita di un uomo per diventare a loro volta uomini, un atto ripreso, non a
44
caso, dai rituali mafiosi per decretare l’ingresso di un nuovo adepto nell’organizzazione.24
In Rosario, poi, i capelli tagliati corti (li aveva rasati dopo aver sparato al medico
per non farsi riconoscere) e i segni su viso stanno ad indicare che è avvenuto anche a
livello fisico un cambiamento importante: non esiste più il bambino con i riccioli e il viso
pulito che si occupava della nonna malata, così come è definitivamente scomparso il
Rosario inserito nel mondo femminile della casa d’accoglienza. Poco prima di scendere
in metropolitana per andare a compiere l’omicidio, Rosario aveva, infatti, rifiutato
l’invito di Santino a tornare a “Casa Letizia”, nonostante quest’ultimo avesse cercato di
attirarlo usando proprio l’esca femminile (“le ragazze hanno piacere di vederti”): un
rifiuto che aveva sancito il suo definitivo allontanamento dalla dimensione “materna”.
Questa scena si riflette in una scena simile e successiva in cui Rosario, sceso dalla
metropolitana, si avvia verso l'uscita della stazione e verso il luogo dell’omicidio
camminando sul tapis roulant. Dopo qualche secondo, incrocia un gruppo di ragazze
allegre e scherzose che camminano sul tapis roulant nella direzione opposta. Rosario si
volta varie volte a guardarle e si direbbe che vorrebbe unirsi a loro, ma non lo fa. Il suo
tapis roulant - metafora anche di una direzione già intrapresa, senza possibilità di ritorno prosegue inesorabilmente dalla parte opposta a quella delle ragazze, segnalando un
distacco sia dal mondo dei suoi coetanei (evidentemente diversi sono gli scopi del
24
Vittorio Paliotti descrive ad esempio il rito camorristico della “zumpata”, il duello con il coltello fra
iniziato e “anziano”, alla fine del quale “Il vincitore . . . succhiava il sangue sgorgato dal braccio del
soccombente” (158). Anche Ignazio Sales dà testimonianza di questo rito che “consisteva nel colpire al
braccio, al terzo assalto, un camorrista anziano. La ferita prodotta veniva leccata dall’aspirante” (La
camorra, le camorre 80). Nel contesto della mafia, il rito fatto col sangue, ricorda Renate Siebert,
“rappresenta una promessa e una minaccia”: la promessa di entrare a fare parte della mafia e la minaccia di
non uscirne più, tranne che da morti (Le donne, la mafia 30): “perché si entra in Cosa Nostra col sangue e
se ne esce solo col sangue”, conclude Giovanni Falcone nel suo celebre studio sulla mafia siciliana
(Falcone e Padovani 98).
45
viaggio e il futuro a cui vanno incontro), sia dalla dimensione femminile.25
L’omicidio su commissione compiuto da Rosario costituisce dunque il punto di
arrivo del processo di “mascolinizzazione” intrapreso all’inizio del film. Con esso,
Rosario dimostra di possedere i requisiti necessari per entrare nella camorra ed essere
integrato a tutti gli effetti nella comunità degli uomini adulti. Non è più in uno stato
limite, “betwixt and between”, ma è chiaramente passato alla fase successiva. Tuttavia,
come sostengono John Allan e Pat Dyck a proposito dei riti di passaggio, “Transition
from one developmental phase to another usually involves changes in personal awareness
and necessitates the learning of new behaviour” (24). Alla luce di ciò, è opportuno
rimarcare che il passaggio da una fase all'altra non porta Rosario ad un vero
cambiamento. Nonostante si confronti prematuramente con scelte morali complesse,
Rosario non raggiunge un nuovo livello di consapevolezza, né alcun tipo di saggezza o
conoscenza di sé. Il bambino decide di seguire il male, ma lo fa senza compiere una
scelta veramente cosciente e senza alcun tipo di partecipazione emotiva. Così come, a
differenza di molti film di mafia, non c’è una contrapposizione manicheistica fra Bene e
Male, perché non è presente nemmeno nella società in cui si muove Rosario (tutte le
figure che gravitano intorno a lui - anche quelle positive - si dimostrano inaffidabili o
ingannatrici: Santino approfitta di una ragazza giovane, l’obiettore di coscienza del centro
è un infiltrato, don Alfonso non si accorge della doppia vita di Rosario, i poliziotti lo
maltrattano augurandogli “una brutta fine”), la personalità di Rosario “vive una
condizione sdoppiata” (D’Agostini 46). Privo di ogni comprensione etica sulla differenza
fra il bene e il male e facilmente influenzabile dalle persone che gli stanno accanto, di cui
25
Nel romanzo Damiano suggella l'irrevocabilità di questo passaggio con le parole pronunciate a Rosario:
“Da questo momento non guardarti più indietro” (35), parole che sanciscono l'avvenuta transizione ed
indicano nel contempo l'impossibilità per Rosario di un ritorno dal cammino delinquenziale intrapreso.
46
non distingue le intenzioni buone o cattive, Rosario passa dall'altruismo alla violenza più
estremi. In lui, “L’amore (la nonna, Caterina, l’esempio di Santino) porta al bene
altrettanto ovviamente e senza conflitto né contraddizione di come la legge della strada,
della sopraffazione, del prendersi ciò che si può prendere conduce a fare e farsi del male”
(D’Agostini 46).
Per Rosario, quindi, è del tutto indifferente ascoltare i consigli del buon Santino o
obbedire agli ordini dei camorristi.26 La mattina dell'omicidio, poi, va ad uccidere con
“una specie di ignoranza”, con “disinteresse per quello che dovrà succedere” (28), come
una cosa che non lo riguarda in prima persona e con un’obbedienza così cieca che assume
quasi i contorni di un incanto ipnotico. Prima di uscire, promette addirittura alla nonna di
portarle dei “babà”. E, infine, preme il grilletto senza alcun turbamento e si allontana dal
corpo dell'uomo steso in terra senza rimorso. Lo dimostra il fatto che, dopo averlo ucciso
e avendo presumibilmente ancora il sapore del suo sangue in bocca, Rosario getta l’arma
a terra. E poi, come se niente fosse, mentre si sente in lontananza il suono di
un’ambulanza, si unisce a un gruppo di bambini che giocano a calcio in piazza. L’ultima
inquadratura, un’oggettiva irreale con un carrello all’indietro, si allarga per diventare uno
sguardo da lontano che quasi include lo spettatore, rimasto lì di fronte a una realtà
pesante e fastidiosa, a chiedersi come possa giocare a pallone un bambino che ha appena
commesso un omicidio. Questa oggettiva sembra, tra l’altro, corrispondere alla vox
popoli del romanzo (così l’ha chiamata Giuliana Adamo, in “Riflessioni” 111), cioè a
quella narrazione paratestuale in corsivo, parallela al narratore extradiegetico, che nel
libro rappresentava tutti i lettori/gli spettatori che guardano indifferenti lo svolgersi della
26
De Silva descrive nel romanzo in modo esemplare il dualismo di Rosario nel momento in cui Casaluce lo
chiama per compiere una rapina: “In una sola giornata avevano chiesto di lui due volte. A parte il rischio
che adesso si trattava di correre, non trovava molta differenza. Santino o Casaluce” (59).
47
storia di Rosario e che sembra essere una sorta di richiamo della coscienza.
Fig. 5
Con questa scena finale, che non è presente nel romanzo, i registi hanno voluto
dare, a detta loro, “un messaggio di speranza”. La scena è da intendersi come il segnale di
una volontà da parte del bambino di riappropriarsi della dimensione di gioco che gli era
sempre stata preclusa, e quindi, come un’immersione, benché tardiva, nel mondo
dell'infanzia. Nel momento in cui si unisce ai bambini per giocare a calcio, Rosario
permette per la prima volta a se stesso di essere soltanto un bambino. È interessante a
questo proposito - e sembra dare conferma alle parole dei registi - che, subito dopo
l'omicidio, Rosario si cambi d’abito per indossare la divisa da calcio, ritornando a vestire
i panni di un bambino (al contrario, Totò in Gomorra, dopo l’iniziazione, verrà rivestito
come un adulto, perché i camorristi cercheranno di fargli indossare una t-shirt di qualche
taglia più grande). Inoltre, lontano dal suo ambiente in cui tutti lo trattano da adulto, gli
altri bambini vedono Rosario come uno di loro. Nel chiedergli il pallone che gli era
rotolato accanto, gli gridano appunto: “Oh, guaglio’!” e poi lo accolgono festosamente
nell’improvvisato campetto come un bambino qualunque.
La sensazione che si ricava dalle scene finali non è, tuttavia, di speranza e poco
ottimismo ci rimane sul futuro di Rosario, che dopo il suo definitivo ingresso nel clan,
pare inevitabilmente segnato verso “una brutta fine”. Nel film, così come il bene e il male
48
non sono distinti nemmeno dalla prospettiva del protagonista, non sembra esserlo
neanche il suo ruolo di vittima o carnefice. Rosario è l'uno e l'altro insieme. E passa
dall'uno all'altro quasi inconsapevolmente. Allison Cooper accomuna quest’aspetto del
film a Sciuscià, notando che, come nel film di De Sica, il passaggio di Rosario da vittima
a carnefice denuncia (malgrado i dichiarati intenti dei registi) il fallimento delle
istituzioni nello suo scopo di proteggere lui e tutti i bambini:
both films’ social critiques derive their power as much from their young
protagonists’ seemingly innate cruelty as they do from their victimization. The
young protagonists of Shoeshine, like Rosario and his companions in Certi
bambini, become victimizers when confronted with society’s indifference to their
fate, capable of the same kind of violence as their adult role models. (351)
In questo modo, alla fine del proprio percorso, invece di scegliere da sé ed
imporsi con una personalità ben definita - o mafioso o non mafioso - il protagonista
finisce imbrigliato nel ruolo che la società corrotta ha imposto su di lui, il che appiattisce
fino ad annullare il suo potenziale umano. Se, alla fine di questo percorso, la presa di
coscienza è del tutto assente in Rosario, il suo nuovo status nel mondo dei “grandi” non
può che apparire indefinito, se non un vero e proprio fallimento. Eppure, Rosario resta
ingiudicabile. E l’occhio della macchina da presa che si allontana da lui sembra anche
voler prendere le distanze da un giudizio morale, abbracciando l’idea deterministica di un
percorso già segnato, senza ritorno, e proprio per questo, ancora più drammatico.
49
III. Gomorra
Nel film Gomorra (2008), tratto dal best-seller di Roberto Saviano (oltre un
milione di copie vendute solo in Italia), il regista Matteo Garrone affronta il tema dei
bambini-soldato in uno dei cinque episodi ricavati dal romanzo, quello riguardante la
storia di Totò. Anche qui è mostrato il percorso di formazione “perverso” compiuto da un
ragazzino senza prospettive che vive nel quartiere di Scampia, roccaforte camorristica
alle porte di Napoli. Rispetto a Certi bambini che, come abbiamo visto, adottava la
tecnica del “flusso di coscienza” per mostrare il punto di vista del bambino, in Gomorra
la prospettiva infantile non è presa in considerazione. Tutto il film, d’altra parte, annulla
la soggettivazione che era presente nel romanzo di Saviano grazie al personaggio del
giornalista-testimone, per essere esclusivamente oggettivo. Nel libro, il personaggio del
giornalista è fondamentale. Non soltanto perché è un insider (viene dallo stesso ambiente
che descrive e osserva le cose “dal di dentro”, essendo in tutto e per tutto immerso in
quella realtà), ma anche perché, grazie alla prospettiva interna, sollecita una
partecipazione emotiva nel lettore. Il giornalista ha vissuto gli eventi in prima persona: ha
lavorato in un cantiere gestito dalla camorra, ha fatto sopralluoghi in Vespa per i quartieri
di Napoli, è entrato di nascosto nella villa dei Casalesi. È presente sulle scene del delitto,
parla con le persone, partecipa ai matrimoni dei boss, ai loro funerali ed ai processi.
Soprattutto è coinvolto personalmente, tanto che il lettore vive insieme lui le reazioni a
ciò che vede e prova via via le sue stesse emozioni: stupore, sgomento, rabbia, disgusto
ecc.
Proprio in questo senso, il libro di Saviano non è un semplice reportage
giornalistico che si limita a raccontare i fatti di camorra in modo obiettivo. A volte
50
assume sì il tono di un’indagine governativa o di un’inchiesta giudiziaria e si riempie di
appunti sociologici ed antropologici. Saviano però mescola sempre la cronaca con la
letteratura, i dati oggettivi con la soggettività e ai numeri, alle percentuali e alle liste di
nomi tratti dalla cronaca affianca regolarmente commenti personali e parti
autobiografiche.27 Le implicazioni di questa scelta stilistica sono molto ampie, come
hanno notato numerosi critici. Secondo Wu Ming I, nel romanzo esiste una sorta di
sdoppiamento dell’io, che raccoglie “le parole e i sentimenti di una comunità”, al punto
che si può parlare quasi di “una voce collettiva”. Sostiene Ming: “l’io narrante di
Gomorra è l’autore, ma non soltanto e non sempre. L’autore . . . ha esercitato la libertà di
‘dare dell’io a qualcun altro’, di collocarsi dietro gli occhi di diversi ‘io’ che raccontano
storie di camorra”. “È sempre ‘Roberto Saviano’ a raccontare, ma ’Roberto Saviano’ è
una sintesi, flusso immaginativo che rimbalza da un cervello all’altro, prende in prestito il
punto di vista di un molteplice”.28 È “[u]n io narrante mobile e corale”, osserva Marcella
Marmo, che poi aggiunge: “Dalla capacità di catturare molte voci derivano al libro il suo
carattere coinvolgente e insieme le complessità del discorso di Gomorra” (2).29
27
Molto si è scritto sul valore strettamente letterario di Gomorra e sul genere dell’opera, difficilmente
classificabile: è un romanzo in senso stretto? una testimonianza? un memoriale? un libro-inchiesta? un
saggio storico? un reportage giornalistico? Rimando agli scritti di Carla Benedetti, Franco Petroni, Gilda
Policastro e Antonio Tricomi pubblicati su “Allegoria” e a quelli di Laura Gatti e Andrea Inglese per un
approfondimento della diatriba riguardante il genere dell’opera. Intervistato più volte al proposito, Roberto
Saviano ha parlato di “un libro trasversale ad ogni genere” (cit. in Forlani 2006), ma alla fine ha definito
Gomorra un “romanzo no-fiction” del tipo proposto da Truman Capote per il suo In Cold Blood (1966) (cit.
in Lipperini 2006).
28
Recensione di Gomorra apparsa in “Nandropausa”, n. 10, il 21 giugno 2006. Wu Ming ha coniato
l'espressione “nuova epica italiana” per un insieme di opere diverse, ma dai simili intenti e da spunti
stilistici e tematici affini, apparse in Italia a partire dal 1993. Queste opere - tra cui appunto Gomorra - sono
basate su elementi quali: la coralità del punto di vista, un forte senso di responsabilità, una certa tonalità
emotiva, ardore civico ed etica della narrazione e una rinnovata fiducia nel potere della parola (New Italian
Epic 22-32 e 108-9).
29
Laura Gatti ha proposto due esempi interessanti di questa tecnica in cui il narratore penetra quasi nei
pensieri e nella dimensione emotiva dei personaggi, tanto di quelli positivi, come il sarto Pasquale (quando,
ad esempio, vede l’abito indosso ad Angelina Jolie alla TV), quanto di quelli negativi, come il boss Cosimo
di Lauro (nella descrizione del suo arresto) (38). Per far questo, il narratore ha adottato spesso la tecnica del
discorso indiretto libero.
51
A fronte di questa soggettività del libro che possiamo chiamare “plurima”, il
regista Matteo Garrone invece sembra quasi azzerare il punto di vista: oltre a quello del
giornalista-testimone cancella anche quello delle persone con cui viene a contatto e
persino quello della macchina da presa, che vuole far diventare “invisibile”. Garrone
osserva, documenta. E se è vero che si allontana dagli aspetti cronachistici tout court del
libro, mettendo in scena gli episodi meno legati alla cronaca, quelli cioè dal significato
più universale e anche i più “attraenti” per lo spettatore, egli si tiene però distante anche
dall’emozione: si fa semplice osservatore. Le cinque storie ricavate dal romanzo sono
presentate in maniera indipendente l’una dall’altra, filmate come se la macchina da presa
fosse (sono le parole di Garrone) quella di un testimone accidentale che passa per
strada.30 Di conseguenza, il regista non propone quasi mai riprese in soggettiva e si serve
di tecniche atte a riprodurre i fatti con crudo realismo: ad esempio, usa la macchina da
presa a spalla e mobile (come se le riprese fossero appunto estemporanee), una fotografia
a volte “sporca” e fuori-fuoco, e piani sequenza che danno allo spettatore l’impressione di
trovarsi vicino alla scena, anche lui osservatore casuale degli eventi. La macchina da
presa si muove inoltre a ridosso dei personaggi, quasi inseguendoli (è il caso, come
vedremo, soprattutto di Totò) e quando due persone stanno conversando si sposta spesso
in orizzontale, cioè passa da una faccia all’altra, come se stesse ascoltando la
conversazione. È uno stile documentaristico portato quasi all’estremo. Nella sua
recensione del film, Paolo D’Agostini ha parlato, infatti, di una “narrazione impassibile”.
Il film di Garrone ha evidentemente, e per ammissione dello stesso regista, finalità
30
Quest’osservazione è riportata nelle “Note di regia” e in numerose interviste. Ne cito soltanto una: “The
raw material I had to work with when shooting Gomorrah was so visually powerful that I merely filmed it
as straightforward as possible, as if I were a passerby who happened to find myself there by chance” (cit. in
Alexander 6).
52
diverse dal libro; più neutrale è l’approccio. Non ha gli stessi intenti di esplicita denuncia
del romanzo, con la sua prosa “arrabbiata”, destinata a scuotere il lettore per svegliarlo
dal suo presunto torpore. Come osserva Pierpaolo Antonello: “The testimonial nature and
moral indignation at the core of Saviano’s social denunciation and which forms the
general rhetoric of the book is totally bracketed off in the film, where the camera is the
only witness to [the] events” (378). Fondamentale nel senso dell’impegno civico assunto
da Saviano nel romanzo, è il brano in cui racconta del suo pellegrinaggio laico sulla
tomba di Pasolini, da cui ripartì animato di passione civile e con la convinzione di avere
il dovere morale di denunciare. E rilancia da lì il suo famoso J’Accuse: “Io so e ho le
prove. Io vedo, trasento, guardo, parlo, e così testimonio . . . Io so e ho le prove. E quindi
racconto” (234).31 In questo senso, come osserva Carla Benedetti, Saviano fa “un patto
col lettore” (178) e s’impegna a scrivere un libro contro la camorra, assumendosi tutti i
rischi del caso (anche quello di essere minacciato di morte). Garrone, invece, gira un film
sulla camorra. In definitiva, il romanzo è per Garrone solo uno spunto da cui partire per
raccontare la sua visione personale della camorra, da un punto di vista che sia
innanzitutto esteticamente “bello” e visivamente sorprendente (non dimentichiamo che
Garrone, venendo dalla pittura, ha un gusto estetico spiccato). Su questo punto, che è
stato ribadito dal regista in diverse occasioni, non ci sono dubbi: "I was . . . attracted
more to adapting Saviano’s book because of the characters and the images, not because of
the message” (cit. in Porton 15); “I wanted to create an image that remained with the
audience” (cit. in Madden 43); “Always, always, we were thinking about image, as if it
were a silent movie” (cit. in Garcia). Citiamo e riportiamo, fra tutte, la scena in cui i
31
Molti critici si sono occupati dell’importante rapporto fra Saviano e Pasolini in Gomorra. In particolare
rimando agli articoli di Pasquale Sabbatino, Raffaello Palumbo Mosca ed Andrea Inglese).
53
camorristi “indipendenti” Ciro e Marco fanno fuoco con i kalashnikov su una spiaggia
deserta, un’immagine non a caso scelta come locandina del film, giacché condensa in
pochi fotogrammi l’intero impianto visionario del film.
Fig. 6
In maniera ancora più accentuata che in Certi bambini, allora, in Gomorra
l’interesse principale del regista non è puntare il dito o dare un giudizio morale sul
comportamento dei personaggi, in parte perché non si sente investito di questo potere, in
parte perché la cosiddetta “estetica dell’orrore” parla da sé: “I don’t say what is right and
what is wrong, but you can see the consequences of their choices”, dice parlando dei suoi
personaggi (cit. in Garcia). Garrone mantiene insomma un distacco morale, lasciando allo
spettatore il compito di trarre le sue conclusioni. Il regista ha ammesso in un’intervista di
essere stato influenzato dai neorealisti e soprattutto dal rosselliniano Paisà, oltre che per
la struttura a episodi, perché si seguono le vicende dei personaggi senza giudicarli (cit. in
Porton 14).32 Come in Paisà, il materiale è così forte che non ha bisogno di commento e
lo spettatore può giungere da sé alle sue conclusioni. Questa tecnica si trasmette anche
nel modo in cui affronta la materia scottante dei bambini-soldato. Il regista non dà un
32
Garrone ha sottolineato, però, nella stessa intervista che il Neorealismo resta un prodotto del periodo
post-bellico e quindi è un risultato estetico che rimane legato a quelle specifiche condizioni economiche,
storiche e sociali, prendendone in un certo senso le distanze (cit. in Porton 15).
54
giudizio etico su Totò, bensì intende mostrare come la vita del ragazzino sia segnata e il
suo percorso criminale sia in un certo senso inevitabile, perché è il prodotto di un mondo
in sfacelo. E lo mostra, Garrone, diversamente dai Frazzi, senza neanche “arricchire” la
narrativa con soluzioni metaforiche, come quella della metropolitana che in Certi bambini
serviva a scandire le tappe della formazione di Rosario ed era chiaramente un simbolico
viaggio avvenuto contemporaneamente verso il passato e verso il futuro, dal luogo in cui
era stato bambino al luogo del primo omicidio adulto (nella scena in cui Totò si arrampica
sul balcone per recuperare la pistola possiamo vedere, però, una metafora della sua
scalata gerarchica in seno alla camorra).
E proprio in riferimento all’episodio di Totò si registrano grandi differenze fra
romanzo e film, differenze che riguardano anche il punto di vista e la distanza del
narratore/regista. Nel libro, l’argomento dei bambini-soldato è introdotto nel quarto
capitolo, quando il narratore incontra un gruppo di ragazzini raccolti intorno al cadavere
di una donna stesa in strada, intenti a discutere su quale sia il modo migliore per morire
ammazzati (colpo in testa o colpo al cuore?). Uno di loro, Pikachu, comincia a parlare col
giornalista, spiegandogli in dettaglio le diverse particolarità della morte secondo gli
organi feriti e le armi usate. Subito dopo, gli presenta Kit Kat, un ragazzino che si
atteggia già a boss e che lo informa su come avvengono gli addestramenti dei bambini,
mostrandogli come prova i lividi sul torace (frutto dei proiettili scaricatigli addosso). La
tecnica dello sdoppiamento dell’io narrante è portata avanti in modo evidente in questo
capitolo, perché il giornalista narra riferendo quanto riportato dai ragazzini in prima
persona, facendo emergere la soggettività dei parlanti. E a loro volta, anche i due bambini
(in particolare Pikachu) raccontano cose che hanno visto o sentito in giro per i quartieri di
55
Napoli. L’io narrante sposta insomma il focus da se stesso verso gli altri “attori” della
scena e verso le loro storie individuali. Come osserva Marcella Marmo si tratta anche qui
di “un io corale [che] connette i tanti particolari ascoltati” (4, n. 19).
Infatti, il giornalista, che poi finisce seduto in pizzeria con Kit Kat e un gruppo di
bambini che hanno appena terminato il turno di “lavoro”, e hanno ancora indosso i
giubbotti antiproiettile, chiede loro di raccontarsi nel registratore: “Forza, parlate qua
dentro, dite quello che volete” (122). Questo “io corale” passa ad avere così
immediatamente un’evidenza socio-antropologica. Registrando e trascrivendo, Saviano
procede dalla soggettività dei racconti in prima persona ad un resoconto freddo e
oggettivo, fatto in terza persona, con cui entra nelle dietrologie sociologiche del problema
della criminalità minorile. Passa da essere personaggio-testimone a relatore e
commentatore e spiega quanti anni hanno i bambini-soldato, da dove vengono, come si
sono arruolati e quali vantaggi ha il clan nel reclutarli. Descrive le loro mansioni, le loro
responsabilità, i loro guadagni e le possibilità di avanzamento di carriera. Ed inserisce
finanche la trascrizione di un’intercettazione dei carabinieri fatta ad un ragazzino che
lavora come pusher. L’intero episodio non prende in tutto più di dieci pagine del quarto
capitolo.
Rispetto al romanzo, gli sceneggiatori del film (tra cui lo stesso Saviano) hanno
ampliato e al contempo ridimensionato la portata del reportage giornalistico concernente i
bambini-soldato. L’hanno ampliata perché hanno costruito ex novo il personaggio di Totò,
partendo da una traccia piuttosto flebile: Totò corrisponde al ragazzino che tende
l’agguato alla donna morta in strada, a cui nel libro sono dedicate appena due righe
(“Arrestarono anche la presunta esca, il sedicenne che aveva citofonato per far scendere
56
la donna” 115). Totò ricorda però anche Pikachu per gli orrori che ha visto in giro per
Scampia e rimanda a Kit Kat e agli altri bambini per il “rituale del giubbetto”.33 Gli
sceneggiatori hanno dunque dato un’unica voce e un unico volto a vari personaggi del
romanzo, conferendo a Totò un’identità precisa rispetto ai ragazzini anonimi del libro, ai
quali tra l’altro Saviano faceva riferimento come a dei “morti parlanti” (129). Totò non è
uno zombie; è invece proprio uno di quei bambini perduti, addestrati a prendersi un
proiettile nel petto negli scantinati di Scampia. E la sua storia personale è portata
drammaticamente in primo piano. Gli sceneggiatori hanno poi sviluppato l’ambiente
familiare e sociale di Totò (ha una madre, un lavoro, degli amici, una simpatia speciale
per la signora Maria e la sua scimmietta), donando umanità al personaggio e più spessore
alla vicenda appena accennata del tradimento. Infine, hanno posto l’enfasi su un percorso
di formazione anche qui “a tappe” che consente al bambino di arrivare al suo scopo di
entrare nella camorra, seguendolo passo passo nella sua educazione criminale.
La sceneggiatura ha però anche ridimensionato l’episodio rispetto al romanzo e
soprattutto la portata socio-antropologica del discorso di Saviano. Scomparsi Pikachu e
Kit Kat come personaggi autonomi, scomparso anche il gruppo dei bambini-soldato in
pizzeria (e azzerato dunque anche il loro punto di vista), il film si concentra
esclusivamente su Totò, puntando sulla forza della sua storia personale e su immagini
visivamente potenti, come quella dell’iniziazione nello scantinato, allo scopo di
sorprendere e anche affascinare lo spettatore. Eppure, nonostante Totò sia eletto a
protagonista unico dell’episodio sui bambini-soldato (e sebbene nell’episodio in
33
Solo dopo aver scritto questo capitolo, ho notato che osservazioni simili sul personaggio di Totò come
sintesi di tre personaggi del romanzo erano state fatte nell’articolo: “Da Saviano a Garrone. Oltre lo
specchio: Gomorra visionaria”, in cui Pierpaolo De Sanctis ha analizzato in modo approfondito le maggiori
differenze fra romanzo e film.
57
questione la macchina da presa non si stacchi mai da lui e lo inquadri spesso in primo
piano), Garrone adotta raramente il suo punto di vista. Gli eventi sono raccontati in modo
oggettivo e lineare, anche se spezzati dalla struttura episodica, e rispettando le tappe
cronologiche che portano Totò a diventare camorrista. Un’altra differenza notevole del
romanzo rispetto al film è la presenza del giudizio morale che viene dato dal narratore a
conclusione dell’episodio. Dopo aver registrato le loro voci al tavolo della pizzeria, il
giornalista non rimane imparziale. Osservando come i camerieri abbiano la stessa età dei
bambini-soldato, eppure siano considerati dei “falliti”, perché lavorare legalmente è
“un’ignominia”, il narratore commenta sarcastico: “Questi ragazzini imbottiti, queste
ridicole vedette simili a marionette da football americano, non avevano in mente di
diventare Al Capone, ma Flavio Briatore, non un pistolero, ma un uomo d’affari
accompagnato da modelle: volevano diventare imprenditori di successo” (124). Non c’è
pietà nel narratore, né imparzialità nel resoconto, ma quasi un senso di superiorità che gli
viene dal fatto di essere scampato (anche lui è figlio di quel mondo) al medesimo destino.
In linea con il resto del film, la storia di Totò non assume quindi la forma di
un’inchiesta sui bambini-soldato, che avrebbe potuto - perché no? - proporre delle
interviste ai piccoli delinquenti con il volto oscurato. Non si basa su dati esclusivamente
oggettivi e non intende proporre soluzioni al problema. Il film reinventa una trama
romanzata per la vicenda personale di Totò ed elegge il bambino a protagonista di una
tipica storia degli “ultimi” di Gomorra che, secondo De Sanctis, sono “corpi emblematici
che valgono come campioni di universo, modelli infinitamente risonanti, vittime e agenti
al tempo stesso del mondo-ingranaggio in cui sono rinchiusi” (“Da Saviano a Garrone”
38). Inoltre, nonostante le differenti tecniche stilistiche, di montaggio e di
58
s/oggettivazione, anche in Gomorra, come in Certi bambini, la storia di Totò serve a
Garrone per esplorare i fragili confini fra mondo infantile e mondo adulto, e il regista
gioca su una dicotomia “criaturo/òmmo” molto simile che si manifesta a più livelli.
Infatti, anche Totò, come Rosario, è un bambino prematuramente invecchiato e anche lui
si misura con varie prove che scandiscono il suo passaggio alla mascolinità. L’omicidio
finale di Maria (sebbene non sia Totò a premere il grilletto) costituisce anche qui l’ultimo
atto che dà conferma del suo valore di uomo. Il percorso che porta Totò a sentirsi dire:
“Mo’ si’ òmmo” al termine del suo rituale d’iniziazione è insomma del tutto simile a
quello che porta Rosario a compiere l’omicidio su commissione alla fine del viaggio.
Allora, anche la storia di Totò può essere letta come la storia individuale di una
“mascolinizzazione”.
C’è del resto, in tutto il film, una certa attenzione all’importanza di essere
“uomo”, che riflette l’importanza del ruolo tradizionale maschile nella società mafiosa, i
cui codici di onore e il machismo ostentato rivelano una vera ossessione per la virilità. Il
film di Garrone gioca su quest’aspetto, mostrando come all’interno dell’universo della
camorra - microcosmo di una dinamica psicosociale iper-fallicizzata - si nascondano in
realtà aspetti di profonda ambiguità. La scena d’apertura del film, ad esempio (che strizza
l’occhio al “gangster-movie” americano), riprende i camorristi in un centro estetico,
intenti ad abbronzarsi e farsi fare la manicure: una scena che “femminilizza” l’immagine
macho dell’“uomo d’onore” e rivela anche una certa tensione omoerotica (bella in tal
senso la scelta della canzone melodica in sottofondo). Al di là dei camorristi, inoltre, tutti
i principali protagonisti maschili del film sono emasculati: è il caso tanto del sarto
Pasquale, quanto del conta-soldi don Ciro e di tutti gli uomini divorati dalla paura dei
59
mafiosi che finiscono col ritirarsi o scappare. Per uomini ordinari come loro, essere “in
guerra” significa perdere il controllo sul proprio mondo, sui propri familiari e anche su se
stessi, essere indifesi e disorientati, perdere l’autorità. Un altro aspetto di ambiguità che
esplora il film è quello degli adulti che regrediscono allo stato di bambini: in molte scene,
i camorristi si comportano in modo infantile e sembrano quasi tornare ragazzini che
giocano a sparare con pistole giocattolo. Al contrario, i bambini piccoli si comportano da
“òmmini”, perché sono più coraggiosi di loro: pensiamo alla scena in cui un gruppo di
giovanissimi viene arruolato per guidare i camion di rifiuti tossici nella cava, perché
nessun adulto ha voluto farlo.
I personaggi di Ciro e Marco collegano perfettamente i due aspetti di ambiguità
del film (“criaturo/òmmo” e maschio/femmina) perché con i loro corpi gracili e acerbi
appaiono, appunto, come dei bambini che giocano a fare i grandi. Rappresentativa in
questo senso è la loro scena d’esordio nella villa vuota dei Casalesi, in cui giocano
letteralmente a fare i criminali con le pistole, imitando i personaggi di Scarface.
Altrettanto importante è la scena già citata della spiaggia, perché li vediamo anche in
questo caso giocare con i kalashnikov come bambini esaltati. In mano hanno armi di
distruzione di cui sembrano ignorare l’impatto. E sono, infatti, sorpresi come fanciulli
quando la barca colpita esplode con un gran botto. I due si scambiano spesso anche dei
gesti d’affetto e nella scena in questione sono quasi nudi, il che svela la forte componente
omoerotica del loro rapporto. Inoltre, se i boss anziani non li puniscono all’inizio per le
loro azioni “anarchiche”, questo avviene proprio perché Marco e Ciro sono visti come dei
“criaturi” (e sono anche immaturi sessualmente, come si vede dall’episodio dello stripclub). Però, paradossalmente vengono avvicinati dagli stessi boss (che poi li uccidono)
60
perché hanno mostrato di “avere le palle” per compiere un’operazione importante e sono
quindi più vicini alla condizione di “òmmo” (la stessa logica di Damiano in Certi
bambini). In definitiva, Marco e Ciro, così come i maschi criminali intorno a cui gravita
Totò, permettono al regista di mostrare la virilità dei camorristi come qualcosa di non
naturalmente data, ma continuamente da ribadire, da (ri)esibire, da (ri)conquistare. “Mo’
si’ òmmo” implica, infatti, che quello dell’acquisizione della mascolinità non è un
processo scontato o raggiunto una volta per tutte, ma che servono invece delle continue
prove di forza per (ri)meritarsi l’appellativo di “uomo”.
Nel creare il personaggio di Totò, gli sceneggiatori hanno giocato proprio intorno
alle ambiguità “criaturo/òmmo ” e maschile/femminile che stanno alla base del film. E
l’hanno fatto dando un carattere particolare all’ambiente in cui si muove Totò e
complicando la sua stessa identità sessuale. Anche Totò, come Rosario in Certi bambini,
inizialmente è inserito in un universo femminile e materno. Non ha il padre (che
presumibilmente è in prigione), né fratelli, zii o altre figure maschili di riferimento e vive
solo con la madre che aiuta al negozio di alimentari, consegnando la spesa a domicilio.
Nel vicinato, Totò gravita lungo un’orbita prevalentemente femminile, poiché si sposta
quotidianamente dalla propria casa a quella delle altre donne che vivono sole e senza
uomini. Ha un’amicizia stretta in particolare con Maria, a cui consegna la spesa tutti i
giorni e con cui sembra avere un rapporto quasi filiale. A casa di Maria si radunano
inoltre le altre donne del vicinato a parlare e giocare a carte (il loro atteggiamento
d’intimità allude a un’abitudine frequente), il che contribuisce a dare all’ambiente
domestico di Totò un’impronta prevalentemente femminile. L’assenza del maschile
nell’ambiente domestico di Totò si riflette nella scarsità di caratteristiche virili nel suo
61
aspetto fisico. Totò ha marcate fattezze femminili e in una delle prime scene lo vediamo
intento a depilarsi le sopracciglia allo specchio. Sembra persino che porti del trucco, o del
lucidalabbra: tutti segni indicativi di un’identità sessuale non ben definita, o comunque
ambigua.34 L'identità sessuale di Totò ha caratteristiche di indeterminatezza ancora più
marcata di quella di Rosario, complicata dal fatto che la sua mascolinità in erba non è
percepibile: contrariamente a Rosario non fa parte di una baby-gang di maschi violenti e
senza scrupoli.
Anche in Gomorra, come in Certi bambini, però, la condizione di Totò in quanto
bambino ha dei tratti anomali e drammatici. Ad appena tredici anni, Totò è un bambinovecchio: non conduce uno stile di vita tipico dei bambini, non va a scuola e non passa il
tempo con i suoi coetanei. Anzi, gli sono assegnati ruoli che di solito spettano agli adulti
perché, abitando da solo con la madre e aiutandola all’emporio, sostituisce, di fatto, il
padre nel ruolo di capofamiglia. Il carattere innaturale dell’infanzia di Totò è posto in
evidenza in modo ancora più drammatico dall’ambiente che lo circonda, che non lo mette
al riparo ma, al contrario, lo pone quotidianamente a contatto con le più aberranti atrocità.
Il regista fotografa con crudezza il quartiere di Scampia, in cui Totò vive in una
situazione di estremo degrado, circondato da miseria e violenza. Così come Rosario stava
perlopiù in strada, tra i vicoli della città vecchia, Totò passa il tempo vagando tra gli
edifici popolari delle Vele, dove avvengono quotidianamente spaccio di droga e
sparatorie fra clan. Il regista usa le Vele come set principale (il film è girato in loco), e
34
È interessante che Garrone abbia detto in alcune interviste che il suo film ha una “anthropological value”
(riportando le parole del regista Francesco Rosi - cit. in Porton 14) e che, insieme al suo assistente
Gianluigi Toccafondo, ha scelto il cast studiando attentamente i visi degli attori e le loro espressioni del
volto, il corpo, il modo di guardare, di camminare (cit. in Garcia). L’attore che impersona Totò, Salvatore
Abruzzese, ha decisamente un viso femminile o comunque delle fattezze che trasmettono un senso di
dolcezza e vulnerabilità.
62
quasi come un elemento narrativo parallelo al processo narrativo che riguarda i
protagonisti. Il set dà significato alla narrativa e viceversa: così sostiene, infatti, come
vedremo, Pauline Small nel suo dettagliato studio del “set as narrative” in Gomorra (“No
Way Out. Design in Mafia Films” 112).
Le Vele - che Saviano descrive come “(i)l simbolo marcio del delirio
architettonico” (75) - sono un mondo sotterraneo e labirintico. Con i suoi lunghi corridoi,
le scale buie e gli interni oscuri, costituiscono una specie di claustrofobico Inferno
dantesco da cui non sembra possibile uscire.35 Megan Ratner, fra gli altri, ha notato gli
interni poco illuminati e i colori opachi di questa location che - dice - “sometimes seems
like a quarantined colony” (78) (ricordiamo che si trattava di edifici realmente
abbandonati). Non c’è secondo lei l’idea di un centro, anzi, il senso d’isolamento è
ampliato dall’uso del dialetto che ne fa una sorta di zona di frontiera, e dal fatto che è
controllato da vedette che sorvegliano tutte le entrate. Anche Tim Parks nota la luce fioca
del luogo in cui: “Close-up camerawork and low, or chiaroscuro lightning intensifies a
sense of entrapment” (38). Mario Pezzella parla di “un non-luogo invivibile e amorfo”
che “sembra condensare in immagine architettonica il destino opprimente dei personaggi”
(470) e nota come Garrone usi i movimenti della macchina a spalla proprio per mostrare
un senso di restrizione spaziale: la macchina da presa che si muove in orizzontale è la
“cifra stilistica di un universo senza apertura, chiuso nell’immanenza delle situazioni e
dei corpi” (468).
Le Vele impongono dunque una sensazione di chiusura soffocante, come di una
prigione che intrappola tutti coloro che vi abitano, in particolare proprio Totò. Il bambino
35
Nel romanzo di Saviano, il narratore racconta che nel rione di Napoli, Terzo Mondo, all’imbocco della
strada principale, si trova proprio una scritta su un muro che dice: “Rione Terzo Mondo, non entrate” (107),
che richiama alla scritta sulle porte dell’Inferno dantesco.
63
è tra l’altro l’unico personaggio insieme al conta-soldi don Ciro ad essere mostrato - anzi
quasi inseguito dalla macchina da presa - mentre si aggira fra gli inquietanti palazzoni;
l’unico a non uscirne mai, o comunque di rado. Anche questa è un’osservazione di
Pauline Small, la quale ha scritto: “The figures of Totò and Don Ciro are used to map out
the topography of the estate” (122-124) e ha osservato come la macchina da presa li
rincorra continuamente mentre camminano indisturbati per le Vele, tra i cancelli, i garage,
le scale e i corridoi. Totò consegna la spesa a domicilio e don Ciro porta i soldi alle
famiglie dei camorristi che si trovano carcere. I lunghi piani sequenza (il montaggio è
ridotto al minimo) ci permettono di cogliere bene la dimensione spaziale in cui si
muovono. I due vanno in direzioni indipendenti e le loro traiettorie sono apparentemente
contrastanti: Totò vuole entrare nel clan e don Ciro, che all’inizio ha un andamento
sicuro, diventa poi sempre più braccato, man mano che scoppia la violenza fra i clan, e
vuole uscirne. Ma in realtà le loro storie convergono, non solo a livello narrativo (si
rifanno al medesimo tema di fondo della faida di Secondigliano), ma anche a livello
simbolico, perché entrambi sono imprigionati in questo mondo chiuso. Pauline Small ha
messo l’accento su diverse scene in cui don Ciro cerca di scappare, ma non sembra
esserci via d’uscita; uno dei boss lo minaccia dicendo: “siete più morto che vivo” (125).
Ha perfettamente senso, tra l’altro, che Totò si muova in spazi claustrofobici. Totò vuole
entrare nel clan, che è un mondo chiuso e ristretto e sarà per lui come una prigione e uno
spazio abitato da bambini-zombie, anch’essi “più morti che vivi.” L’ha detto anche
Garrone, che ha messo in contrasto lo spazio in cui si muove Totò con quello in cui
agiscono Ciro e Marco che, proprio perché cercano di essere indipendenti dal clan, sono
circondati quasi sempre da spazi aperti (cit. in Thomson 20).
64
Sebbene le Vele siano un vero mostro architettonico e un ricettacolo di vite umane
completamente alla deriva, il bambino Totò ci si muove perfettamente a suo agio. Sin
dalle prime scene, Totò ha un atteggiamento del tutto insensibile alla dura realtà del
quartiere che si dipana quotidianamente davanti ai suoi occhi, quasi come fosse
anestetizzato. La prima volta che incontra per strada il suo amico e coetaneo Simone, per
esempio, questi lo saluta dicendo che sta “faticànno”, cioè facendo la vedetta per i
trafficanti di droga. Poi lo informa distrattamente che hanno arrestato due camorristi, il
che non suscita alcun tipo di reazione in Totò.36 Più avanti, proseguendo il suo cammino,
assiste con distacco alla fila di tossicodipendenti che acquistano la dose giornaliera. In
questa scena, Garrone adotta il punto di vista di Totò come un passante che osserva la
scena dall’alto di uno dei piani del palazzone (la macchina da presa punta verso il basso),
mentre i tossicodipendenti in un piano più basso alzano le mani verso la grata per pagare.
È un set a tre strati, come nota ancora Pauline Small, che esplora il potenziale della
verticalità dell’edificio e amplifica il senso di prigionia, poiché “it may be read as a visual
metaphor that extends to all those on the estate, living as if in enclosed cells (or sub-sets)
accessed by means of bolts, bars, and gates” (123).
Fig. 7
36
In una scena del tutto simile a questa, in Certi Bambini, l’amico Giornaletto non saluta Rosario con un
“Ciao” quando lo incontra in sala giochi, bensì chiedendogli: “- Hai visto chi è muorto? ... - Nz’. - Leprotto.
Te lo ricordi? – Come. – Eh. Stamattina” (De Silva 21), senza dare seguito a commenti da parte di Rosario.
65
Il fatto che Garrone adotti il punto di vista di Totò in questa scena è molto
interessante. Sembra un modo con cui cerchi di rendere a livello filmico gli orrori di cui
Pikachu e gli altri bambini erano stati testimoni nelle pagine del romanzo (Pikachu, tra
l’altro, era originariamente il nome dato a Totò).37 Nel libro, Pikachu racconta
freddamente di aver visto una grande quantità di morti ammazzati, di sapere quanto
tempo ci vuole perché esalino l’ultimo respiro. Ha assistito allo spaccio di droga a cielo
aperto e alla “paranza” di un boss, con le loro bombe a mano, i loro arsenali, mentre
giocavano insieme alla playstation prima che gli promettessero di portarlo a sparare, ecc.
Garrone riproduce il suo occhio da testimone in questa scena, lasciandolo in un certo
senso ancora al di fuori del discorso criminale.
Come spettatore impassibile di un orrore sociale che è tanto più agghiacciante
quanto più ha un'apparenza di normalità, Totò - come Pikachu, ma anche Rosario richiama i bambini-testimoni del Neorealismo, immersi nel clima di perdizione postbellica. Edmund in Germania anno zero, ma anche Bruno in Ladri di biciclette vagavano
anch’essi come bambini-vecchi tra le rovine dei palazzi distrutti dalla guerra, e senza
punti di fuga. Garrone stesso ha tracciato questo parallelo, facendo notare come nel
prologo in voice-over di Germania anno zero fosse descritta la condizione disperata di un
bambino e di un popolo che vivevano “nella tragedia come se fosse il [loro] elemento
naturale”, incoscienti della loro condizione, così abituati all’orrore che non si
sorprendevano più di niente (cit. in Braucci 71). Il fatto che si tratti di uno dei pochi,
forse il solo momento di ripresa in soggettiva del film, chiama in questione lo spettatore.
Garrone permette allo spettatore di condividere la visione di Totò, consentendo allo
37
Lo riferisce in un’intervista a De Sanctis, Massimo Gaudioso, uno degli sceneggiatori del film (“L’uomo
delle storie” 125).
66
spettatore innanzitutto di coglierne la desolazione, e poi dandogli il vantaggio di riflettere
sulle implicazioni degli eventi (specificatamente lo spaccio di droga), grazie alla sua
conoscenza maggiore del mondo che Totò, in quel momento ancora innocente, non
possiede. Mettendo in diretta relazione la figura di Totò con l’ambiente sociale delle Vele,
Gomorra come i film di Rossellini e De Sica, indaga e fa riflettere anche sul rapporto
esistente tra le strutture sociali inadeguate (a Scampia non c’è nulla di nulla)38 e la
riproduzione del disagio e della violenza minorile che ne consegue.
Le Vele sono, infine, anche il regno della cultura paterna, in cui Totò è visto
costantemente aggirarsi, cercando di entrare, per affiancarsi ai “padri”. Per tutta la durata
del film, Totò desidera staccarsi dall’universo femminile in cui è immerso per accedere al
mondo dei maschi adulti: quelli che girano su macchine potenti, indossano giubbotti
antiproiettile, manovrano armi, spacciano droga, contano i soldi e usano la violenza per
farsi valere. Personaggio liminale, a cavallo fra mondo infantile ed adulto e fra il
maschile e femminile, Totò cerca nel modello criminale dei “veri uomini” una conferma
della propria identità maschile. Come per Rosario in Certi bambini, i camorristi sono
figure chiave della sua maturazione virile, oltre che criminale. Ed esattamente come per
Rosario, si fanno carico, in assenza del padre, anche della sua “mascolinizzazione”. I
camorristi diventano allora il surrogato della figura paterna che non ha mai avuto o che
non ha più: sono loro che si occupano di fornirgli un’educazione, di dargli delle regole. E,
da loro, Totò si aspetta di ricevere un riconoscimento quasi filiale. Ciò è evidente nel
38
Basta leggere i libri Napoli comincia a Scampia (2005) di Maurizio Braucci, Napoli siamo noi (2006) di
Giorgio Bocca e Passaggio per Scampia (2009) di Franco Maiello per rendersi conto della drammatica
situazione in cui versa Scampia, quartiere-dormitorio in cui vivono 80.000 persone, ma non ci sono
infrastrutture, negozi, piazze o luoghi di aggregazione, né strade percorribili a piedi e neppure marciapiedi
su cui camminare. Ma l’intera area metropolitana attorno a Napoli – effetto del disastro urbano degli anni
Sessanta e che conta più di tre milioni di abitanti – è un gigantesco quartiere-ghetto privo dei servizi più
elementari.
67
modo in cui Totò ronza continuamente intorno agli uomini del clan, cercando visibilità,
premendo per essere notato e perché le sue qualità siano riconosciute. Tant’è vero che si
sente dire: “Bravo!” quando restituisce al clan la droga e la pistola recuperate durante
un’incursione della polizia. Questo gesto assume la valenza di azione essenziale al suo
futuro ingresso nel clan. Essa è, infatti, pubblicamente riconosciuta dai camorristi come
ammirevole e con furbizia, Totò la usa come leva di scambio, per ottenere il diritto a
lavorare per loro, cioè per consegnare le bustine di droga nel proprio zainetto.
L’ingresso ufficiale di Totò nel mondo dei “padri” comporta prendere parte al
“rituale del giubbetto”, descritto anche da Saviano nel romanzo: un rituale primitivo che
come, e ancor di più che per Rosario in Certi bambini, sacralizza il suo passaggio all’età
adulta. Tanto più che rispetto a Certi bambini è anche un rituale collettivo, eseguito
insieme ad altri aspiranti camorristi e al cospetto dei boss “anziani”, tutti immersi in
un’atmosfera di grande solennità. L’importanza primitiva e tribale del rito è ampliata dal
fatto che esso avviene nei sotterranei di un palazzone di Scampia, una sorta di caverna
con pochissima luce, e dalla presenza, appunto degli anziani camorristi, i quali
probabilmente hanno ricevuto in passato lo stesso tipo d’iniziazione. Nella scena molto
intensa i ragazzini, aspettano allineati che venga il proprio turno di essere sparati in petto,
indossando un rudimentale giubbetto antiproiettile. L’impatto dell’arma da fuoco fa
cadere i ragazzini e quanto veloce si rialzano determina quanto sono coraggiosi. Dal
momento che Totò si rialza subito, la prova è considerata superata, la dimostrazione di
forza è riconosciuta davanti a tutti, così come il suo nuovo status di maschio adulto: “Mo’
si' òmmo,” sono appunto le parole di rito pronunciate dal camorrista. Nel caso di Totò,
più ancora che per Rosario, la drammatizzazione della morte rituale è marcatamente
68
evidente, simulata dai colpi di proiettile e dalla caduta per terra: il suo rialzarsi sancisce
appunto la sua rinascita come uomo. Anche qui l’oscurità e il luogo sotterraneo sono
elementi simbolici, poiché rimandano a luoghi sepolcrali e all’utero materno in cui si
regredisce ad una forma pre-natale, finché si è pronti a rinascere con un nuovo status.
Tant’è vero che Garrone sceglie di filmare la scena in uno scantinato rispetto al romanzo,
in cui - come racconta Kit Kat - i bambini erano condotti a compiere l’addestramento in
aperta campagna.
Fig. 8
Fig. 9
Dopo questo rituale, specchiandosi nuovamente in bagno, Totò non si depila più
le sopracciglia, ma osserva affascinato i segni violacei lasciati dalle pallottole sul petto. I
segni sono come una riproposizione simbolica del passaggio al nuovo status di uomo, che
si riflette nelle ferite sofferte. Sono ovviamente anche simboli di morte, della sua
decadenza che inizia (Saviano scrive, infatti, che si tratta di “un addestramento a morire”
119).39 L’espediente di mostrare Totò allo specchio sembra proporsi come sostituto visivo
della prospettiva soggettiva di Kit Kat che nel romanzo si era espresso in prima persona:
39
Ricordiamo che nei riti di passaggio, le mutilazioni corporali (amputazioni, cicatrici, tatuaggi, piercing e
anche la circoncisione) hanno, appunto, la funzione di rendere l’iniziato immediatamente riconoscibile
come un nuovo membro della comunità degli uomini adulti. Arnold Van Gennep afferma che la mutilazione
corporale è un segno di appartenenza: “[it] automatically incorporates him into a defined group” (72), “[it]
makes the novice forever identical with the adult members” (75). Nel romanzo, Kit Kat mostra, infatti, con
orgoglio i segni dei proiettili sul petto al giornalista.
69
“Quando arriva la botta cadi per terra e non respiri più, apri la bocca e tiri il fiato, ma non
entra niente. Non ce la fai proprio. Sono come cazzotti in petto, ti sembra di schiattare . . .
ma poi ti rialzi, è questo l’importante. Dopo la botta, ti rialzi” (119). E sei “òmmo ”.
Il ripudio del mondo femminile e materno, che come abbiamo già visto in Certi
bambini è di fondamentale importanza per la maturazione del bambino maschio, assume
per Totò in Gomorra contorni molto più drammatici. Infatti, una volta entrato nelle file
della camorra, Totò è costretto a fornire un’ulteriore prova di fedeltà al clan, che consiste
nel tendere un agguato all’amica Maria (non a caso una donna, e non a caso una sorta di
seconda madre), attirandola fuori dalla casa in cui si nasconde e condannandola a morte.
Così Totò trasforma in tragica realtà quanto teorizzato da Elizabeth Badinter, secondo la
quale per un maschio: “the manly act par excellence is to murder the mother” (58). È
interessante ricordare che nel contesto della mafia il “sacrificio” della madre assume
significati ancora più ampi che si collegano all'idea della Famiglia. “L’adesione a Cosa
Nostra è un atto di negazione del femminile, in generale, e del potere materno, in
particolare, e la contemporanea assunzione delirante del potere femminile materno negato
ma declinato al maschile”, spiega Innocenzo Fiore (“La famiglia nel ‘pensare mafioso’”
59), che poi aggiunge: “L’uccisione simbolica della madre e del femminile familiare
coincide con la rottura di un legame dell’adepto alla famiglia d’origine, che è elemento
fondante per l’istituzione del nuovo legame con quella mafiosa” (Le radici inconsce dello
psichismo mafioso 228).40
In Gomorra, il momento dell’agguato a Maria è preceduto da una scena intensa in
40
È anche significativo che molto spesso nelle cerimonie di giuramento della mafia si bruci l’immagine
della Madonna: “unica presenza femminile in un ambiente di soli uomini e per soli uomini, [essa] ripropone
un femminile materno forte che la ‘famiglia’ mafiosa chiede che sia sacrificato” (Fiore, Le radici inconsce
dello psichismo mafioso 228). Interessante, infine, che la donna “da sacrificare”, nel film, si chiami proprio
Maria e che il nome sia cambiato rispetto alla Carmela del romanzo.
70
cui gli uomini del clan, radunati all’ospedale dopo l’omicidio di uno di loro, parlano in
maniera fitta, ignorando completamente Totò, il quale resta silenzioso in disparte, come
se non fosse presente. La macchina da presa inquadra Totò sullo sfondo, e talvolta fuorifuoco, mentre ascolta i camorristi assorbendo ogni parola, ma senza fiatare (anche lo
spettatore, grazie al lungo piano sequenza e i movimenti orizzontali della macchina da
presa sembra essere lì nascosto a origliare). Come per buona parte del film, Totò sembra
destinato ad osservare dal di fuori il mondo dei “padri” cui desidera così tanto entrare.
Essendo considerato un “criaturo” era sempre ai margini, fuori campo, oppure dietro una
porta o una grata che lo separavano dal mondo adulto. In questa scena, però, avviene un
cambiamento significativo. Quando, dopo aver discusso per un po', gli uomini del clan
decidono di vendicarsi, la macchina da presa si muove sempre in orizzontale verso Totò e
lo inquadra, includendolo finalmente nel gruppo (il movimento in orizzontale è anche
segno di un’inclusione nell’“universo senza apertura” della camorra di cui parlava Mario
Pezzella in una precedente citazione), mentre per la prima volta i camorristi gli rivolgono
la parola come ad uno di loro: “Totò, tu che hai pensato e fa'? Stai cu nui o stai cuntro a
nui?” (“Totò, tu che hai pensato di fare? Stai con noi o stai contro di noi?”). Totò esita,
ma in realtà non ha una scelta: la dinamica del dominio e dell'obbedienza mafiosa pone
gli aspiranti in due uniche fazioni: o sei con l'una o sei con l'altra: “E se stai cuntro a nui,
da cca' nun te ne vai” (“E se stai contro di noi, da qui non te ne vai”). Poiché Totò non
risponde alla domanda, la scena seguente è carica di suspense, essendo strutturata in
modo tale che si pensi che correndo a chiamare ad alta voce Maria per dirle
“'n'ambasciata”, Totò vada ad avvertirla del pericolo, non a tradirla.41
41
È una delle tante ellissi del film. La storia procede “per salti” e in molti casi non vediamo tutte le
implicazioni delle scelte dei personaggi, ma solo il necessario, oppure solo il risultato finale. È una tecnica
71
Il tradimento di Totò, così come l'omicidio su commissione compiuto da Rosario
in Certi bambini, costituisce il punto di arrivo del suo percorso di formazione. Totò
dimostra di possedere i requisiti necessari per entrare nella camorra e per essere integrato
nella comunità dei “padri”. Non è più in uno stato limite, “betwixt and between”, ma è
passato allo stadio successivo, affiancandosi definitivamente alla legge patriarcale
mafiosa. Così come in Certi bambini non c’era una contrapposizione manicheistica fra
Bene e Male e le azioni di Rosario oscillavano fra azioni buone e cattive, anche qui non
c’è una presa di coscienza: Totò compie un atto criminale con la medesima facilità e
naturalezza con cui all’inizio faceva gesti premurosi o comunque di apertura verso il suo
amico Simone e la stessa Maria, che poi condanna a morte senza ripensamenti. Anche qui
la sensazione che si ricava dalle scene finali non è di speranza e poco ottimismo ci rimane
sul futuro di Totò, che dopo il suo definitivo ingresso nel clan, pare incamminato verso la
stessa “brutta fine” di Rosario. Sebbene Totò esca di scena velocemente e senza ulteriori
sviluppi, possiamo intuire quale sarà il suo futuro, ben “oltre i titoli di coda” (Crispino
48): un futuro che, tra l’altro, era già stato riassunto nel romanzo dalla definizione di quei
bambini come “morti parlanti”. La speranza di vita è bassa e i giovani camorristi non si
aspettano di avere una vita lunga (Marco, ad esempio, pone a trent’anni il suo limite
massimo di sopravvivenza). Che Totò e questi bambini siano parte di un’umanità
sconfitta, travolti come tutti gli altri personaggi di Gomorra da un destino che non
possono controllare, e senza possibilità di salvezza, si può vedere bene alla fine
dell’episodio di don Ciro (personaggio, come abbiamo visto, complementare a Totò): uno
straordinario bird’s eye view shot inquadra dall’alto, a strapiombo, don Ciro che cammina
di montaggio tipica del cinema di Garrone, come ha spiegato l’addetto al montaggio Marco Spoletini,
intervistato da De Sanctis (“Dare corpo alle forme” 140).
72
fra una delle tante mattanze di cadaveri per strada durante la faida fra clan, mostrando che
tutti i partecipanti di quel mondo sono delle vittime (Orsitto 101) e che “qualunque
‘ritorno all’ordine’ è illusorio” (Wu Ming, New Italian Epic 55).
Fig. 10
È interessante, per finire, che il libro, e in un certo senso anche il film,
propongano personaggi che fanno un percorso d’iniziazione inversa a quello di Totò.
Marco e Ciro, contravvenendo alle regole del “sistema”, seguono una traiettoria
differente, ma parallela: sono comunque imbevuti di cultura criminale, anche se rifiutano
di essere affiliati al clan. Essi subiscono pure una sorta d’iniziazione (la presunta
“missione” che è affidata loro dai boss) che finisce però con la morte: questa volta una
morte vera, non più soltanto simbolica. Inoltre, intuiamo che Totò morirà giovane perché
è entrato a fare parte del clan, mentre Marco e Ciro vengono soppressi perché non
vogliono entrarci: due punti di partenza diversi che conducono alla stessa conclusione.
Come osserva Garrone: “questo il tema centrale del film: il fatto che ci sia un sistema che
condiziona, che stritola e che in particolare lo faccia con i più piccoli. Uno crede di
esserne consapevole, di potersi gestire e invece, quando si accorge che non è così, è
ormai troppo tardi” (cit. in Braucci 73). In maniera ancora più rilevante, tuttavia, lo stesso
narratore fa un cammino opposto a quello dei bambini-soldato di cui parla nel quarto
73
capitolo. Pur avendo l’apparenza di una storia secondaria, specie se rapportata al grande
impianto epico e visionario del romanzo, il “percorso esistenziale”42 del narratore è di
grande significato. Anche il narratore, infatti, è un prodotto del mondo che descrive; è
nato e cresciuto nelle zone di camorra, e come i bambini di cui racconta era candidato ad
entrarci (lo stesso Saviano, se accettiamo l’idea della corrispondenza autore-narratore, ha
detto: “Da ragazzino divenire boss, crescere, combattere, gestire tutto e crepare mi
sembrava il destino migliore che potessi scegliermi”, cit. in Lipperini). Ma al contrario di
Pikachu, Kit Kat e lo stesso Totò, il narratore si salva.
Tim Parks ricorda come il libro offra alcuni spunti importanti riguardanti la
formazione del narratore. A tredici anni, mentre andava a scuola con degli amici, vide una
macchina con le gambe di un uomo morto che uscivano dal finestrino, capovolto a testa
in giù dai colpi di mitragliatrice, uno dei suoi primi atti formativi d’immersione nella
camorra, che lo rende non dissimile dai bambini che incontrerà a Secondigliano: nessun
filtro, nessuno che lo protegga da quella vista, “(s)enza nessuna mano morale che ci
venisse a coprire gli occhi” (113). Di particolare importanza è però l’episodio in cui
Saviano racconta la propria iniziazione, quando cioè il padre gli insegnò a sparare. Aveva
dodici anni (all’incirca l’età di Totò) e il padre voleva che imparasse ad usare la pistola,
perché - a suo dire - “un uomo senza laurea e con la pistola” è “uno stronzo con pistola” e
“un uomo con la laurea senza pistola” è “uno stronzo con la laurea”, dunque bisogna
essere “un uomo con la laurea e con la pistola” per essere “un uomo” (187). Al padre di
Saviano interessa, più che la cultura, il rispetto che viene portato ai boss camorristi,
ch’egli ammira per la loro potenza e per la paura che riescono ad incutere negli altri. “C’è
42
Così lo chiama Marcella Marmo, osservandone l’importanza nell’economia del romanzo: “il montaggio
del libro, di là dalle perplessità che suscita l’uso impressionistico della documentazione, [si può decifrare]
nel percorso innanzitutto esistenziale dell’autore” (4, n. 18).
74
chi comanda le parole e chi comanda le cose”, dice in un’altra occasione, “Tu devi capire
chi comanda le cose, e fingere di credere a chi comanda le parole. Ma devi sempre sapere
la verità in corpo a te. Comanda veramente solo chi comanda le cose” (188). Con questi
discorsi che sembrano fare eco a quelli di Damiano in Certi bambini (torna anche
l’immagine della pistola come simbolo fallico), il padre del narratore rappresenta l’anello
di congiunzione fra la cultura fallocentrica mafiosa, quella secondo cui “avere le palle” (e
magari anche una pistola) è la cosa veramente importante per un uomo, e il mondo
“materno” volto verso la conoscenza e il sapere. Rispetto alla madre, che (come
intuiamo) gli aveva trasmesso l’amore per la cultura, infatti, il padre si opponeva alla
vocazione umanistica del narratore, sostenendo che i filosofi non hanno potere su
nessuno e incoraggiandolo ad entrare, o per lo meno sostenere, la cultura del più forte
della camorra.
Il narratore-Saviano rifiuta tuttavia di diventare una vittima di questo sistema e
fugge dalla legge del padre, compiendo un percorso di crescita intima e personale, mentre
cerca un modo per liberarsi dall’influenza mafiosa (“Mi tormentavo” - dice - “cercando
di capire se fosse possibile tentare di capire, scoprire, sapere senza essere divorati” 330).
Contrariamente al volere paterno, studia filosofia all’università e passa a rivolgere il suo
sguardo ad altri “padri”, quelli della letteratura: Pasolini in primis. Soprattutto passa da
essere un semplice testimone di un mondo in cui, suo malgrado, era inserito, ad assumere
su di sé il ruolo di narratore di quel mondo, e ancor di più, il ruolo di accusatore. Come
sarà per Peppino Impastato ne I cento passi e per Rita Atria ne La siciliana ribelle, la
parola diventa allora un importante atto di ribellione e d'accusa, da usare al posto della
pistola, dei kalashnikov o del tritolo, una vera arma nelle mani dell’intellettuale. La
75
scrittura diventa affilata quanto una “lama” (243) o esplosiva come una bomba: "La
parola diviene un urlo. Controllato e lanciato acuto e alto contro un vetro blindato: con la
volontà di farlo esplodere" (244), scrive appunto il narratore, rivendicano la possibilità
che la letteratura possa contribuire alla lotta e al cambiamento sociale.
Nel film che, come sappiamo, ha annullato il personaggio del narratore-Saviano,
questi ricompare però reincarnato nel personaggio di Roberto (che non per caso porta il
suo nome) protagonista di una storia a parte che riflette quella autobiografica dell’autore.
Roberto è il giovane laureato che fa da assistente a Franco, colui che si occupa dello
smaltimento dei rifiuti tossici del nord nella campagna di Napoli, e a cui Roberto trova il
coraggio di ribellarsi. Verso la fine del film, disgustato da quello che scopre e
dall’atteggiamento cinico di Franco, Roberto lascia il lavoro, affermando ad alta voce che
lui “è diverso” e allontanandosi da solo, a piedi, verso un destino che allo spettatore non è
dato conoscere. Racconta uno degli sceneggiatori del film, Massimo Gaudioso, che fu lui
ad insistere per inserire la presa di coscienza finale di Roberto, il solo personaggio che
prova a salvarsi: “l’unico spiraglio di luce nel grigiore fangoso di quelle terre infettate”
(cit. in De Sanctis, “L’uomo delle storie” 41). Come per Totò, ignoriamo quale sia il
futuro di Roberto, ma rispetto a Totò, la sua presenza nel film rappresenta un’apertura,
una ribellione al servilismo, una speranza verso un cambiamento possibile. Anche
Roberto, come il narratore-Saviano, sceglie la propria dignità rispetto alla cieca
sottomissione al “sistema”, sceglie la verità rispetto alla menzogna. E così, attraverso il
personaggio di Roberto, è recuperato un po’ il senso di denuncia del libro ed è lasciata
una certa speranza che le cose possano cambiare. Al lettore di Gomorra (e allo spettatore,
malgrado gli intenti dichiarati da Garrone) spetta fare lo stesso percorso esistenziale. La
76
partecipazione emotiva del narratore, che è proprio lì a trascendere il semplice dato di
cronaca o la storiografia, abolisce la distanza con il lettore e funge da sprone a
quest’ultimo perché esca da un’accettazione passiva e rassegnata e passi all’azione. E
perché dimostri che, contrariamente a quanto afferma il padre del narratore, e come prova
già il grande successo del libro, non comanda veramente “chi comanda le cose”.
Comanda “chi comanda le parole”.
77
CAPITOLO DUE: BAMBINI CONTRO LA MAFIA
"Mio padre! La mia famiglia! Il mio paese! Io voglio fottermene! Io
voglio scrivere che la mafia è una montagna di merda! Io voglio urlare
che mio padre è un leccaculo! Noi ci dobbiamo ribellare. Prima che sia
troppo tardi. Prima di abituarci alle loro facce. Prima di non accorgerci
più di niente.”
Peppino Impastato (Luigi Lo Cascio), I cento passi, 2000
I. Introduzione
Come abbiamo osservato nel precedente capitolo, la struttura esclusivamente
maschile della mafia e l’enfasi posta sulla mascolinità, che si manifesta a vari livelli,
fanno sì che i legami tra uomini assumano un grande rilievo nella società mafiosa. In
particolare, il rapporto tra padre e figlio ha un'importanza fondamentale per la
trasmissione della cultura mafiosa, come dimostrano i film analizzati in questo capitolo, I
cento passi (2000) di Marco Tullio Giordana e Io non ho paura (2004) di Gabriele
Salvatores, tratto dall’omonimo romanzo di Niccolò Ammaniti. “I mafiosi educano”: così
spiega questo punto importante lo psicologo Mario Schermi, “Educano i loro figli. Fanno
crescere i loro cuccioli. Trasferiscono i saperi. Allenano le competenze. Promuovono i
valori. Assicurano la discendenza. Tirano su le nuove generazioni. Insomma: le mafie si
rigenerano innanzitutto in coloro che verranno” (69). A loro volta, gli storici Giuseppe
Casarrubea e Pia Blandano sostengono che se nella mafia si realizza con successo il
processo d’identificazione del figlio con il padre, cioè se il figlio interiorizza norme e
valori riconducibili al cosiddetto “sentire mafioso”, è anche perché “il figlio di un
mafioso ha spesso la percezione che il modello trasmesso dal padre è pienamente
realizzato, almeno secondo alcuni parametri (arricchimento, rispetto, potere, ecc.)” (134).
In realtà, nella famiglia mafiosa i rapporti inter-generazionali si basano su
78
dinamiche molto più complesse. Gli studi di psicologia effettuati sin dalla definizione di
“familismo amorale” di Edward Banfield del 1958,43 hanno rivelato che la famiglia
mafiosa è di tipo “saturo”, cioè non incoraggia l’espressione dell’individualità, bensì
trasmette al figlio determinati pensieri, valori e atteggiamenti fino a “saturare” totalmente
la sua identità. Girolamo Lo Verso ha parlato di una struttura “fondamentalista”, in cui
“Non vi può essere identità personale ma solo l’essere identico a ciò che ti ha con-cepito”
(La mafia dentro 29), dove “con-cepito” è da intendersi nel significato doppio di
“procreato” e di “pensato” in un certo modo nella mente dei genitori e dove ogni
tentativo di rendersi indipendenti è pesantemente sanzionato. Anche all’esterno, il
bambino si presenta in forza di un'appartenenza. Non entra in relazione con gli altri come
soggetto autonomo, ma come appartenente a un altro: un padre, una famiglia, un clan. Per
continuare a rigenerarsi, la mafia ha necessariamente bisogno di produrre figli
appartenenti al “Noi-famiglia” (Fiore, Le radici inconsce dello psichismo mafioso 155),
privi di un proprio pensiero autonomo e sottomessi all’autorità paterna. La questione se
all’interno di una struttura familiare di questo tipo sia possibile il conflitto generazionale
e una simbolica, quanto necessaria, “uccisione del padre” è molto delicata. E non solo
perché ribellarsi a un padre mafioso significa indebolire la sua autorità, rischiando
l’ostracismo familiare o peggio la morte (“Onora tuo padre” è il primo comandamento
della famiglia mafiosa e disobbedire al padre, anche quando si considera inadeguato
come simbolo dell’ordine morale, equivale a disonorarlo),44 ma anche perché la ribellione
43
Mi riferisco in particolare agli studi di Girolamo Lo Verso, Gianluca Lo Coco, Franco Di Maria e
Innocenzo Fiore, che si sono occupati soprattutto della famiglia mafiosa siciliana.
44
Scrive Renate Siebert: “’Uccidere il padre’ per crescere e diventare adulti non è esperienza psichica
pensabile per i figli del mondo unico della sottomissione e dell’obbedienza all’autoritarismo del patriarca
mafioso. È piuttosto il figlio ad essere ucciso, metaforicamente e a volte materialmente” (“Prefazione”. Lo
Verso and Lo Coco, 11).
79
comporta inevitabilmente una lacerazione interiore. Si tratta di entrare in conflitto con il
padre mafioso “esterno”, ed anche con quello “interno”, cioè con un sistema di valori che
è presente dentro di sé e che ha strutturato - e “saturato” - fino a quel momento la propria
identità. Il conflitto non è dunque solo generazionale ma personale, perché si svolge tra le
varie parti della stessa personalità.
Nei film qui analizzati, I cento passi e Io non ho paura, il rapporto padre/figlio
come veicolo di trasmissione della cultura paterna mafiosa è reso problematico e carico
di tensioni. Peppino e Michele, i protagonisti dei rispettivi film, non possono identificarsi
con i codici normativi che il padre impone, perché sono portatori di valori
diametralmente opposti. Per entrambi, il processo che li porta a “uccidere” il padre per
sviluppare una morale autonoma e diventare adulti è causa di sofferenza. Attraverso lo
scontro, però, essi riescono a costruirsi un’identità diversa da quella imposta dalla
famiglia d’origine, il che permette loro di affermarsi come individui indipendenti. Per
Peppino e Michele si tratta di fare un percorso inverso a quello di Rosario e Totò in Certi
bambini e Gomorra, cioè uno di non conformità alla Legge patriarcale della mafia, di
non-affiliazione. Come quei film, però, anche questi si configurano come racconti di
formazione, stavolta di tipo edificante, in cui viene riportata la graduale presa di
coscienza dei bambini e la loro trasformazione in adulti.
Nel raccontare queste storie, sia Giordana - che ha precisato di non voler fare un
film sulla mafia - sia Salvatores, hanno privilegiato l’aspetto psicologico piuttosto che
quello storico-sociale, mettendo il periodo storico (siamo negli anni Settanta) e la mafia
quasi sullo sfondo e lo scontro padre/figlio al centro del discorso. I due film si
allontanano dunque sensibilmente dai codici narrativi del genere, specialmente dalla
80
tradizione d’inchiesta di Francesco Rosi (quest’ultimo è citato però ne I cento passi). Pur
non operando una denuncia diretta, né un’accurata ricostruzione storica, questi film
permettono comunque di posare lo sguardo sul fenomeno sociale che fa da sfondo alla
storia dei personaggi. Anzi, attraverso l’esempio “eroico” di opposizione al potere
patriarcale mafioso, chiamano gli spettatori a venire a patti con un periodo storico e con
un fenomeno sociale “scomodi” e, in sostanza, e malgrado gli intenti dichiarati dai registi,
li spronano all’impegno civile. In questo senso, sono anche film auto-referenziali, in
particolare, come vedremo I cento passi, perché il loro ruolo è considerato in relazione al
ruolo del cinema stesso nella società e nel movimento antimafia in particolare.
81
II. I cento passi
Ispirato alla storia vera del giovane militante siciliano Peppino Impastato, ucciso
dalla mafia nel 1978, I cento passi racconta una vicenda anomala della storiografia
antimafia. E non soltanto perché si tratta di un piccolo e sconosciuto militante di
provincia, ma anche perché, parafrasando le parole di Umberto Santino, Peppino era
cresciuto con la mafia “dentro casa”. Mafioso il padre e mafiosa tutta la parentela, il
mondo degli “uomini d’onore” era parte naturale della sua vita e naturale sarebbe stato
per lui diventare a sua volta uno di loro. Ma Peppino rifiuta di adeguarsi a questo destino
e lo scontro con la famiglia è inevitabile. Scrive Santino:
Questa tragedia di Peppino bambino e ragazzo, figlio di mafioso e contro la
mafia, pubblico rinnegatore del padre e dei parenti rende la sua scelta . . . radicata
nel suo stesso sangue. Peppino non è certo l’unico siciliano ad aver fatto la lotta
alla mafia pagandone il prezzo con la vita, ma è l’unico . . . ad avere fatto questa
lotta anche, anzi a cominciare, dal di dentro della sua famiglia, cioè di se stesso.
Non ci sono altri esempi di lotta così totalizzante, esistenziale, genetica. (“Le idee
e il coraggio”)
Nel raccontare la storia di Peppino Impastato, Giordana sceglie di enfatizzare la
rivalità padre/figlio rispetto a un approccio di tipo storico-sociologico sulla mafia, allo
scopo di esemplificare quel conflitto edipico universale che per Freud era indicativo di un
conflitto più ampio, cioè quello tra autorità e istinto. Il regista rende evidente che Peppino
lotta sì contro l’autorità paterna, ma soprattutto per se stesso, per affermare il proprio Io
al di là dell’appartenenza ai “padri”, e per accedere alla piena autonomia psichica ed
esistenziale che gli viene costantemente negata all’interno della famiglia mafiosa. Come
Edipo, inoltre, anche Peppino vive il dramma di un’esistenza condotta entro i limiti di un
destino segnato. Perciò, così come per Edipo separasi da Tebe, per Peppino rompere con
la cultura paterna significa sfuggire al suo destino e pretendere di esistere come
82
individuo. Ribellandosi al padre, Peppino rompe molti legami, e su piani diversi: sul
piano personale con una parte di se stesso; sul piano generazionale con il padre biologico;
sul piano familiare con il resto della parentela e anche in senso più ampio con la grande
Famiglia mafiosa (che non è altro che un’associazione di “padri”). E infine, poiché
partecipa alla contestazione giovanile del Sessantotto, Peppino rompe anche con la
società, il mondo chiuso e tradizionale degli anni Settanta, rappresentando con la sua
rivolta quella di un’intera generazione di “figli” contro il potere dominante dei “padri” (è
lo stesso Peppino nel film a citare Marcuse, profeta della protesta studentesca, che vedeva
proprio nel padre la matrice primigenia dell’autoritarismo).
La ricerca di Peppino di un’autonomia dal “pensiero già pensato da altri” (Di
Maria 43) si fa anche ricerca di un linguaggio nuovo con cui potersi esprimere
liberamente e da contrapporre al silenzio omertoso della famiglia. Contro il padre che gli
impone fin dalle prime scene di stare zitto, “muto”, Peppino risponde sostanzialmente
con le armi della parola, un’operazione che ricorda quella compiuta dall’autore-narratore
in Gomorra, e che lo porta ad ispirarsi ad altri “padri" politici e culturali (anche qui
Pasolini, ma soprattutto Dante). La parola occupa allora il posto della violenza, che di
solito è messa in scena estensivamente nei film di mafia (e che qui non è presente). E per
esercitare il diritto di parola, Peppino usa tutti i mezzi a sua disposizione: il giornale, i
comizi, il teatro politico in strada e ovviamente la radio, dalle cui frequenze parte la sua
denuncia contro i potenti, facendo apertamente (proprio come Saviano) nomi e cognomi
dei boss mafiosi. La sua lotta si delinea perciò anche come uno scontro fra antico e
moderno, tradizione e innovazione, arretratezza e progresso culturale. E passerà dunque
anche attraverso la maturità letteraria, un processo in cui, come vedremo, coinvolgerà
83
pure la madre e il fratello.
Lungi dall’essere usata unicamente per fare presa sull’emotività dello
spettatore, come suggerito da alcuni,45 la lettura edipica è perciò anche un modo da parte
di Giordana di universalizzare il conflitto descritto e di ridurlo ad un archetipo in cui il
pubblico si può facilmente riconoscere. Il simbolico parricidio commesso da Peppino
diventa paradigmatico della lotta di ognuno per l’affermazione del proprio Io contro
qualsiasi forma di potere dominante o “castrante”. Inoltre, sebbene Giordana metta la
mafia sullo sfondo a vantaggio dello scontro padre/figlio, il discorso si fa comunque
significativo anche in chiave antimafia. Infatti, l’archetipo padre/figlio rende più
immediato il fenomeno della mafia, altrimenti percepibile come distante da chi non ne è
coinvolto in prima persona. In tal modo, la mafia non è più vista solo come un insieme di
violenza e barbarie, lontano da noi, ma come un sistema di oppressione che si cela nelle
relazioni più intime e che si trova, come ha ricordato Umberto Santino, “dentro casa” o,
per usare la metafora del film, a soli “cento passi” da noi. Allora lo scontro padre/figlio
offre allo spettatore un esempio concreto di opposizione al potere mafioso e suggerisce
una lettura del film in termini di impegno civile. Come suggerisce Millicent Marcus, il
film si propone come un modello cinematico d’impegno contro la mafia, raccogliendo
l’eredità del cinema politico di Francesco Rosi, peraltro citato apertamente da Giordana
nella scena in cui viene proiettato il film Le mani sulla città al cine-club. Proprio come
nel libro Gomorra, inoltre, il coinvolgimento emotivo su cui gioca il film - grazie anche
45
Andrea Bartolotta, compagno di Peppino e uno dei fondatori di Radio Aut, ritiene che si sia voluta fare
eccessiva leva sulle emozioni dello spettatore, esagerando il conflitto generazionale. Secondo lui nel film
manca tutta l’esperienza politico-sociale rivoluzionaria di Peppino. Il personaggio sembra meno interessato
alla politica e più alla ribellione contro il padre. È quasi completamente messa da parte la sua verve
rivoluzionaria di stampo comunista a vantaggio di una lettura prevalentemente edipica della storia (cit. in
Impastato and Santino, Lunga è la notte 187).
84
ad una colonna sonora evocativa e nostalgica46 - va a costruire una sorta di “patto
identificativo” tra protagonista e spettatore, a cui contribuiscono l’uso frequente dalle
soggettive e semi-soggettive (perlopiù di Peppino bambino) e l’insistenza sui primi piani,
che rendono il suo viso quasi iconico, un prototipo dell’“eroe ribelle”.
E mentre assistiamo al personaggio di Peppino che assume via via maggiore
autonomia e spessore, siamo al tempo stesso testimoni del progressivo crollo della figura
paterna che diventa sempre più incapace di esercitare il suo ruolo di padre, marito e
mafioso. All’inizio, Luigi Impastato s’impone come una figura autoritaria: il voice-over
dei suoi rimproveri, mentre la macchina da presa inquadra in campo lungo l’auto degli
Impastato che giunge alla masseria, lo configura come presenza inquietante che incombe
con un senso d’oppressione sulla famiglia. Ma nel corso del film, Luigi perde
progressivamente la capacità di farsi obbedire dai figli e dalla moglie, mentre anche
nell’“altra” famiglia comincia ad essere bistrattato e sottomesso. Inoltre, l’ansia che nutre
nei confronti dell’incolumità di Peppino e la consapevolezza di non poterlo salvare
generano in lui un sentimento di impotenza. L’emasculazione del personaggio di Luigi va
di pari passo con l’orientamento individualistico di Peppino che indebolisce a poco a
poco la sua autorità fino a detronizzarla. Come un vero Edipo, Peppino subentra al padre
nel ruolo di capofamiglia (è proprio Luigi a dire che, adesso che c’è il divorzio, la moglie
può divorziare da lui e sposarsi con Peppino: “il suo fidanzato”) e lo spodesta anche
come simbolo dell’ordine morale, man mano che istruisce la madre e il fratello sul
significato della propria lotta politica e esistenziale.
46
Emanuele D’Onofrio ha fatto uno studio approfondito e molto interessante sulla colonna sonora del film,
notando, tra l’altro la carica utopica della canzone “Volare” nella prima scena e come il testo della canzone
“The House of the Rising Sun”, usata estensivamente nel film, esprima “la rabbia di un figlio contro la
miseria morale a cui le disgrazie di un padre . . . lo hanno inchiodato” (228) e quindi faccia leva anch’essa
sul tema del parricidio.
85
La configurazione edipica su cui è basato il film si palesa in due scene
fondamentali che sono rivelatrici anche dello stretto legame fra tema edipico e impegno
civile. La prima scena è quella del violento scontro fisico tra Peppino e il padre. È una
scena ad alta tensione emotiva in cui, in un ultimo tentativo di domare il figlio ribelle,
Luigi Impastato picchia Peppino nello stomaco intimandogli di “onorare il padre” ma
ricevendo in cambio da lui un atto supremo di resistenza e di rifiuto. L’intera scena fa
pensare ad un assalto di tipo sessuale. Dana Renga parla di “metaphorical rape” (205) e
sottolinea il senso d’angoscia provocato nello spettatore dai primissimi piani sul viso di
Luigi mentre tiene fermo a terra il figlio accarezzandolo e baciandolo in viso (si noti
inoltre come Luigi non gli ripeta di “onorare il padre e la madre” come impone il
comandamento biblico, ma solo di “onorare il padre”). Il netto rifiuto di Peppino di
aderire al comandamento, ma persino di ascoltarlo o ripeterlo, insieme al gesto di
capovolgere il padre sul pavimento (un atto comparabile al parricidio), sono un affronto
insostenibile all’autorità del paterfamilias, che non può fare altro che ripudiarlo,
cacciandolo di casa.
Fig.11
Fig.12
Nella scena successiva i toni edipici si fanno, se possibile, ancora più espliciti:
Felicia sorprende il figlio a letto nel garage in cui si è rifugiato e insieme cominciano la
lettura della “Supplica a mia madre” di Pasolini, una poesia in cui l’affetto per la madre è
86
ritratto in termini di attaccamento sessuale. I due sono inquadrati in primo piano con un
suggestivo gioco campo-controcampo (e fuoricampo). Dana Renga rileva la natura
erotica della scena, esemplificata oltre che dal soggetto della poesia, dalla quasi nudità di
Peppino e da altri elementi voyeuristici, come gli sguardi profondi fra i due personaggi e i
corpi riflessi nello specchio (205). La scena ha il valore complessivo di riaffermare,
rafforzandolo ed amplificandolo, il già aspro conflitto di Peppino contro l’autorità
paterna, rendendo palese che la rivalità fra Peppino e il padre è anche quella per l’amore
della madre: il padre non è soltanto il portatore della Legge da onorare ma anche l’intruso
che s’insinua nell’amorevole coppia madre/figlio. Il ricorso a Pasolini non è casuale:
richiama alla rivalità terribile che il poeta romano ebbe con il padre e al suo attaccamento
morboso per la madre, andando a creare un parallelo fra i due: proprio come Pasolini,
Peppino soffre dell’abuso di potere paterno e reclama a gran voce la necessità di
affrancarsene.47
Ma in maniera ancora più rilevante, e similmente all’“Io so” di Saviano in
Gomorra, la voce di Pasolini è proposta come un exemplum d’impegno civile e,
nonostante Peppino metta da parte “Le ceneri di Gramsci” (dopo averne letto un verso) a
favore di una poesia dedicata alla madre, la scena non è però priva di forti implicazioni
politiche. Giordana sceglie di fare recitare a Felicia i versi di Pasolini, alternando la sua
voce a quella di Peppino (elemento che è stato giudicato inverosimile per lo scarso livello
di alfabetizzazione della vera Felicia), allo scopo di mostrare il ruolo militante che la
madre assume attraverso il figlio e che assumerà, sappiamo, anche dopo la sua morte.
47
La poesia sembra avere - come fu per Pasolini - anche il valore di una confessione: quella di “dire con
parole di figlio” un segreto difficile da rivelare, cioè la sua omosessualità: un aspetto, questo, della vita
personale di Peppino che emerge dai suoi diari e che è stato per il resto ignorato dal film, come da buona
parte della critica. Solo George De Stefano ne ha parlato nel suo saggio inserito in Renga, Mafia Movies,
320-328.
87
Incoraggiando la madre alla lettura, non solo Peppino la rende partecipe del proprio
mondo, ma le suggerisce che aprirsi ad un sapere soggettivo è un mezzo per raggiungere
la consapevolezza critica. Imparare una cultura politica nel senso morale del termine
(Giordana in conferenza stampa al festival di Venezia si è soffermato sull'etimologia
greca “polis”), non assumere come propria la cultura dominante sono passi necessari per
affermare la propria libertà di pensiero e per maturare il coraggio di ribellarsi.48 L’arma
della parola - suggerisce Peppino - è potente quanto le armi dei mafiosi (tra l’altro, il
parallelo è creato proprio in una scena con la madre, che in una delle ultime sequenze gli
consiglierà di procurarsi una pistola, suscitando la sua disapprovazione). In tal senso è
illuminante l’analisi di Millicent Marcus che a proposito di questa sequenza afferma:
La decisione di Giordana di scrivere e girare questa scena come un dialogo . . .
Suggerisce che i versi di Pasolini non sono solo veicolo di espressione
dell’attaccamento edipico di Peppino alla madre: ma che alla madre viene dato un
ruolo attivo, culturalmente militante. Non è un passivo oggetto di adorazione
filiale bensì può esprimere la sua comprensione e corresponsabilità in questo
rapporto di reciproca dipendenza dando voce ai versi pasoliniani. (“La scrittura
sullo schermo” 78)
Questa scena esprime anche l'angoscia della solitudine di Peppino per la sua
condizione di outsider (“non voglio essere solo”, recitano i versi) e, forse, una tensione
dialettica non ancora risolta tra il suo bisogno di una libertà totale dall’imposizione
paterna e quello della sicurezza arcaica e istintiva del rifugio materno, che gli viene dai
ricordi infantili: la nostalgia cioè dello stato di unione pre-edipica originaria, quando il
bambino viveva in simbiosi con la madre e si sentiva amato, protetto, in qualche modo,
“inserito”. L’angoscia è giustificata dal fatto che Peppino, che a quel punto è diventato un
outsider a tutti gli effetti, essendo stato cacciato da casa, non appartiene più al “Noi48
Lo stesso tipo d’indottrinamento letterario riguarderà anche il fratello Giovanni. Lo vediamo in una scena
in cui Peppino gli legge dei passi dal Don Chisciotte di Cervantes. È interessante che la scelta per il fratello
ricada su un testo in cui la battaglia che combatte il protagonista è utopica e vana, destinata alla sconfitta.
88
famiglia”, anzi è diventato “un corpo estraneo”,49 avendo rifiutato la protezione dei
“padri” e non avendo più una cultura paterna di riferimento. L’Io di Peppino si trova
smarrito di fronte alla difficoltà di spezzare il legame di appartenenza “Io/Noi-famiglia” e
di trasferire il suo Io al di fuori della famiglia stessa.
La contrapposizione fra la condizione di insider e outsider di Peppino - che si
configura anche nei termini di prigionia vs. libertà - è un altro dei temi fondamentali de I
cento passi e Giordana la mette in scena con una serie di espedienti narrativi e particolari
accorgimenti tecnici e visivi. In particolare, il regista ricorre ad una narrazione
perfettamente lineare che accompagna per mano lo spettatore dall’infanzia del
protagonista all’adolescenza e all’età adulta e infine alla morte. Giordana racconta così
nell’intervista ad Andrée Tournès i motivi che l’hanno spinto ad usare una struttura
narrativa tradizionale e cronologica:
Je ne voulais pas prendre mon public en otage en lui montrant d’emblée le crime
final. Le film commence comme une fable, . . . mais l’œil que l’enfant porte sur
ce qui se passe, lui permet petit à petit de comprendre que ce n’est pas un conte de
fée. Le choix de laisser grandir lentement cet enfant est le parti pris narratif de
tout le film: ne pas prétendre savoir plus que les autres. (Tournès 10)50
Ne consegue che lo spettatore, non sapendo più di quanto l’occhio del bambino
possa vedere, è posto allo stesso livello del protagonista e compie il suo medesimo
percorso da bambino inconsapevole ad individuo adulto pensante: le verità del mondo
circostante gli vengono rivelate a poco a poco, man mano che cresce in lui la
consapevolezza critica sugli eventi di cui è testimone. Per restituire questa visione
49
In questo modo è definito Peppino dal giornalista Franco Vassia che ha intervistato il fratello Giovanni
Impastato nella sua biografia: Resistere a Mafiopoli.
50
“Non volevo prendere il pubblico in ostaggio mostrandogli subito il crimine finale. Il film comincia
come una fiaba, . . . ma l’occhio attento che il bambino porta sugli avvenimenti gli permette di capire poco
a poco che non si tratta di una fiaba. La scelta di far crescere lentamente il bambino è il presupposto
narrativo di tutto il film: [la macchina da presa] non pretende di saperne più degli altri” (trad. mia).
89
soggettiva ed infantile tutta la prima parte è girata dalla prospettiva del piccolo Peppino e
lo spettatore è immerso nel mondo rappresentato almeno quanto lui. Le uniche soggettive
del film sono, infatti, quelle di Peppino, il che unisce il personaggio e lo spettatore in un
medesimo punto di osservazione e crea un forte senso d’identificazione, perché lo
spettatore entra nei panni di Peppino e “cresce” con lui. Ma alla fine della prima parte, il
brusco salto cronologico fra l’infanzia all’età adulta è un invito allo spettatore ad
allontanarsi, come fa Peppino, dal mondo dell’infanzia inconsapevole e ad abbracciare
l’età della ragionevolezza. La sovrapposizione dei volti di Peppino bambino e Peppino
adulto segnala appunto la fine dell’infanzia e della sua condizione di insider all’interno
del “Noi-famiglia”. Indica anche la fine dell’identificazione passiva con il codice paterno
e l’inizio della dissociazione attiva che sfocerà dapprima in disobbedienza e poi in
ribellione.
Alla struttura narrativa lineare che divide in modo netto la biografia di Peppino tra
un “prima” e un “dopo” corrisponde una struttura rigorosa tra le due parti del film, che
appaiono costruite in maniera simmetrica. La prima parte è incorniciata da due eventi
familiari a cui Peppino partecipa durante l’infanzia: il pranzo di nozze del cugino
Anthony organizzato dal capomafia Cesare Manzella e il funerale dello stesso Manzella,
assassinato dal rivale Tano Badalamenti. La seconda parte si apre sulla nuova “famiglia”
dei compagni di Partito impegnati in una campagna di protesta civile e si chiude
anch’essa con un funerale, questa volta quello di Peppino. Un rigore strutturale, questo,
che è tipico del teatro classico e che accentua la drammaticità degli eventi (e il conflitto
edipico), conferendo alla pellicola una dimensione eroica.51 In particolare, come
51
Oltre a questa evidente simmetria il film presenta moltissimi richiami e rimandi: ad esempio la foto di
famiglia scattata all’inizio riemerge da una scatola di cartone dopo la morte del padre, insieme al primo
90
vedremo, il contrasto tra la scena del pranzo di nozze e quella del funerale di Manzella è
funzionale alla presa di coscienza di Peppino e alla rappresentazione del suo passaggio ad
outsider.
Giordana abbraccia fin da subito l’idea della prigionia di Peppino e, proprio a
rinforzo di tale idea, sceglie di ambientare la prima scena fra le mura domestiche. La
macchina da presa entra così nella stanza da letto di casa Impastato, dove la famiglia si
sta preparando per andare al pranzo. Grazie all’espediente del viaggio in macchina con
cui padre, madre e i figli raggiungono i parenti già riuniti alla masseria, tuttavia,
Giordana unisce immediatamente la famiglia di Peppino all’“altra” famiglia. Il viaggio in
macchina funziona come trait d’union che collega fisicamente e metaforicamente il
nucleo familiare di Peppino alla “tribù” mafiosa. Dal claustrofobico interno domestico ci
si muove perciò verso uno spazio più aperto. Tuttavia, così come la stanza da letto, anche
il cortile della masseria si configura come un luogo chiuso, “recintato”, in cui a Peppino è
concessa la libertà di guidare la macchina dello zio Cesare soltanto all’interno del suo
perimetro e solo sotto la sua supervisione. La stanza di casa Impastato e il cortile della
masseria contribuiscono a dare all’ambiente in cui si muove Peppino “la double
dimension d’une clôture qui enferme l’enfant dans sa famille puis dans la famille élargie”
(Tournès 4).52
È evidente che tutta la scena iniziale alla masseria di don Cesare è resa
volutamente idillica dal regista e richiama al modo di rappresentazione cinematografica
volantino antimafia di Peppino. Allo stesso modo, il ritratto fatto da Venuti ritorna nel momento in cui
Peppino decide di candidarsi alle elezioni politiche. Ritornano i luoghi di Cinisi (Municipio, barbiere) e le
azioni simboliche: il fratello Giovanni grida contro Tano dalla finestra della stanza da letto dopo la morte
del padre, così come Peppino aveva gridato contro la finestra di Tano nella scena dei “cento passi”, “cento
passi” che ritornano nella scena del funerale di Peppino in cui il corteo marcia lungo il percorso che divide
le case di Peppino e Tano, e così via...
52
“la doppia dimensione di una chiusura che sembra confinare il bambino all’interno della propria famiglia
d’origine e poi in quella allargata” (trad. mia).
91
della Sicilia indicato da Sciascia, ovvero come “terra mitica di bellezza”. C’è
un’insistenza sulla “sicilianità” dell’ambiente, che va dagli elementi visivi che ricalcano
l’immaginario comune della Sicilia come regione soleggiata, rurale, pittoresca, alle
parole pronunciate dai personaggi: Anthony è contento di essere “con amici e parenti
siciliani”; il suo cuore, a dispetto del passaporto americano, è “siciliano” e si brinda al
fatto che abbia sposato “una femmina delle nostre parti”. L’enfasi sulla sicilianità, così
come anche il proverbio: “mogli e buoi dei paesi tuoi”, citato da Impastato e ripetuto da
tutti in coro con cenni di approvazione, contribuisce a creare un senso d’appartenenza
familiare. Ci sono poi elementi atti a trasmettere una sensazione di continuità: si celebra
un matrimonio che è simbolo della prosecuzione della famiglia e si fa accenno ai “molti
figli” che Anthony avrà con la moglie. Il riferimento di don Cesare all’infanzia di
Anthony quando erano “cafoni ca sudano sotto i padroni” accentua il senso di continuità
lineare, creando un legame fra passato e presente e riallacciandosi nel contempo alla
storia di secolare asservimento della Sicilia.
Il carattere di unità della scena è ottimamente convogliato dall’immagine della
lunga tavolata che include tutti i presenti: uomini, donne, vecchi e bambini. Inoltre, le
attività che si svolgono alla masseria sono marcatamente sociali: si mangia, si beve, le
donne parlano, gli uomini si danno consigli, i vecchi raccontano storielle e i bambini
giocano: tutte attività aggregative che privilegiano il “Noi-famiglia” come una unità
solida e compatta. La scena, che è stata accostata all’episodio siciliano de Il Padrino
(1972)53 di Coppola ha nel complesso la funzione di mettere in luce il valore della
53
Pauline Small ha scritto: “Giordana’s citation of Coppola’s film constitutes a major structuring device
within I cento passi. The entire opening section of the film recalls the Sicilian interlude of The Godfather”
(“Giordana’s I Cento Passi” 45). Pierre Eisenreich parla di “folklore mythique” e aggiunge: “La partie
consacrée à l’enfance rend hommage aux séquences siciliennes de la saga du Parrain”(40). Per finire,
92
famiglia/Famiglia come punto nevralgico della vita di Peppino e come un mondo in cui il
bambino trascorre la sua infanzia in maniera del tutto naturale. L’ambiente luminoso e
sereno riflette la prospettiva soggettiva di Peppino. È nel ricordo di Peppino, infatti, che
quelle giornate sono belle e spensierate.54 Non c’è l’ombra della mafia e niente fa
presupporre che ci si trovi all’interno una roccaforte mafiosa: gli “amici” appaiono
cordiali e rispettabili e i loro discorsi parlano di lavoro, di lotta per la sopravvivenza e di
povertà. Su questo mondo familiare e protettivo Peppino mantiene uno sguardo
disincantato non rendendosi conto né della propria prigionia al suo interno, né delle
incrinature e delle mezze frasi che nascondono conflitti inimmaginabili. E sorride anche
allo “zio” Tano, il suo futuro rivale (come anticipa la scena in cui rischia di investirlo con
l’automobile, che mette di fronte anche visivamente i due antagonisti come fossero
duellanti), rassicurato da una presenza che avverte come familiare.
A questa serenità idillica Giordana contrappone l’atmosfera cupa del funerale di
Cesare Manzella che segna la fine della spensieratezza e l’infiltrazione della violenza
nella vita del bambino. Inevitabile è il confronto tra le due scene che - sebbene siano
inestricabilmente collegate (si tratta anche qui di una riunione familiare e vi partecipano
le stesse persone) - risultano antitetiche nel palese contrasto tra luci ed ombre, interni ed
esterni, silenzio e rumore, celebrazione della vita che inizia e cordoglio per la vita che
finisce. Mentre la prima scena è all’aperto ed è pervasa da un senso di calore e luminosità
(la luce soleggiata, i colori intensi e quasi sensuali trasmettono un senso di pace e
Attilio Coco afferma: “Tutta la sequenza d’apertura, l’incontro delle famiglie per festeggiare il ‘cugino’
americano, cerca un impatto visivo, un senso cromatico, un’atmosfera riconducibile all’opera di Coppola”
(34).
54
Scrive al proposito Tullio Masoni: “La luce tersa dell’inizio è anche la luce dei buoni ricordi, quando la
festa degli adulti attorno al piccolo Giuseppe non lascia sospettare a quest’ultimo la realtà sordida degli odi
e delle vendette” (61).
93
bellezza), la scena del funerale è ambientata nel freddo interno di una stanza da letto, fra
oscurità, ombre, lacrime: tutti elementi che donano allo spettatore “una certa impressione
di opacità notturna” (Masoni 60-61). Ai colori chiari della prima scena si contrappone
una paletta di colori scuri, il nero su tutti, drammaticamente interrotta dal rosso (sangue?)
dell’enorme poltrona in cui Peppino è seduto.
La differenza principale fra le due scene riguarda, infatti, proprio la collocazione
di Peppino nello spazio, resa esplicita dai particolari accorgimenti tecnici e visivi adottati
dal regista. Nella scena iniziale, Peppino è chiaramente inserito nell’ambiente circostante.
A segnalare la sua appartenenza in seno alla famiglia è la poesia di Leopardi, che il
bambino recita, docile e obbediente, a capotavola davanti ai parenti e “amici” riuniti.55
Giordana sceglie di inquadrare Peppino, che è in piedi sulla sedia, di fronte, dal fondo
dalla tavolata, con un senso di prospettiva che incanala su di lui gli sguardi inclusivi degli
ascoltatori. In particolare la macchina da presa isola i primi piani di don Cesare e Tano
che lo osservano attentamente “making clear that this is a kind of initiation to groom
Peppino as one of the next generation of Mafia members” (Small 45). In maniera ancora
più incisiva della performance poetica, però, è la fotografia finale a sigillare la condizione
di insider di Peppino. Nello scatto, che include tutti i membri maschili del clan, Peppino è
sistemato fra don Cesare a sinistra e Tano a destra, di modo che il bambino appaia quasi
come “scortato” dai due pezzi grossi della mafia locale.56
55
La scena della poesia è ricordata per ben due volte nella seconda parte del film, proprio in riferimento
alla docilità con cui Peppino si era prestato all’esecuzione. La prima volta è menzionata dal padre nel
toccante monologo che precede la sua morte in cui, rendendosi conto che non c’è soluzione al conflitto col
figlio, singhiozza: “Però quando eri picciriddo ci parlavi con tuo padre, la poesia te la ricordi?
Dolce...Com’era? Naufragar...” Anche la cugina “americana”, Cosima, ricorda Peppino per la docilità con
cui si era prestato a recitare la poesia. Dice, infatti, che era “un picciriddo a posto” perché, in contrasto
comportamento presente, si conformava alle regole del rispetto mafioso.
56
Ci sono molte foto che mostrano Peppino Impastato bambino in posa con il padre, lo zio, i boss di Cinisi
e i politici locali collusi con la mafia. Ho avuto la fortuna di visionare queste foto al Centro siciliano di
94
Fig.13
Fig. 14
Se nella prima scena la recitazione della poesia e la fotografia sono indicative
dello status di insider di Peppino, al funerale di don Cesare altri accorgimenti visivi
mostrano il bambino come un observer, incoraggiando lo spettatore ad assumere la sua
prospettiva e preparandolo al suo futuro ruolo di outsider. La scena è completamente
girata secondo il punto di vista di Peppino, mentre osserva “fotografando” dall’esterno
l’ambiente che lo circonda. Giordana usa tecniche soggettivanti che rinforzano la
relazione tra personaggio e pubblico, come ad esempio la posizione in disparte di
Peppino, seduto in poltrona, che ricalca quella di uno spettatore nell’ombra, e lo sguardo
in macchina con i primi piani sugli occhi vispi del bambino che scrutano ogni cosa. Per
ben quindici volte, la macchina da presa stacca dall’immagine degli occhi di Peppino
all’ambiente circostante, passando con insistenza dagli eventi oggettivi alla percezione
soggettiva di Peppino.
Lungi dall’essere un presagio del suo futuro ruolo di mafioso, la posa “da piccolo
boss”57 che sfoggia Peppino - grazie anche ad un’inquadratura a mezzo busto,
leggermente dal basso - mentre siede comodamente in poltrona, i gomiti appoggiati ai
documentazione “Giuseppe Impastato” di Palermo, che nel 2006 ha curato la mostra fotografica: “Peppino
Impastato. Ricordare per continuare”.
57
Pauline Small osserva: “the young boy is caught on camera in a pose that cannot but recall Coppola’s The
Godfather trilogy” (45) e paragona la sua posa a quella assunta abitualmente da Michael Corleone.
95
braccioli, le mani giunte sulle labbra, rivela invece il risveglio della sua coscienza. La sua
posizione isolata, distaccata dal resto della famiglia, ne anticipa la dissociazione, mentre
il gesto di mettersi e togliersi ripetutamente le mani dal mento (gesto che si fa quando si
pensa) testimonia che stanno nascendo in lui i germi di un pensiero autonomo. Attraverso
uno sguardo finalmente critico sul mondo che lo circonda, Peppino “si affranca e si
innalza” (Escobar) dall’influenza altrui, il che gli permette di vedere cose e persone in
modo nuovo. I suoi occhi si soffermano in particolare sullo “zio” Tano che, come entra,
infonde paura e fa cessare persino le preghiere. Chiude la scena il primissimo piano sul
viso del bambino che aggrotta la fronte turbato, confermando che qualcosa non è chiaro
in ciò che sta osservando e che Tano non e più visto in maniera disincantata, come una
presenza rassicurante nel quadro, ma come una possibile minaccia.
La de-romanticizzazione della famiglia/Famiglia messa in atto da Peppino a
partire dalla morte dello zio va di pari passo con lo sviluppo della sua consapevolezza
critica e Giordana coinvolge lo spettatore in questa sorta di risveglio della coscienza. Così
come accade al bambino, la morte di Manzella ci fa aprire gli occhi sulla presunta
rispettabilità della famiglia, ci fa dubitare della sua moralità e ci fa riflettere per la prima
volta sulla violenza criminale. La metamorfosi di Peppino in “essere pensante” è anche la
nostra e le domande incalzanti che pone dapprima alla madre e poi al pittore Stefano
Venuti sono anche quelle che si pone lo spettatore: “ma tu lo sai chi è stato?”; “e papà?”;
“e allora chi è stato?” ecc... In particolare, la scena nell’atelier di Venuti ha chiaramente la
funzione di mostrare un Peppino trasformato. Non soltanto il bambino si presenta da solo
a casa del pittore, in quella che può essere vista come “sa première démarche autonome”
(Tournès 4), cioè la sua prima azione indipendente che lo porta ad uscire fuori dal
96
perimetro in cui era circoscritto, ma Peppino pretende di avere da lui delle risposte chiare,
al di là delle mezze parole o dei silenzi omertosi che riceve in famiglia. Durante il
colloquio con Venuti, l’individualità di Peppino emerge con prepotenza ed il bambino
cresce in autorevolezza. Tant’è vero che, benché inizi con una serie di domande, la visita
termina con un imperativo, quando Peppino pretende di sapere dal pittore la storia del
poeta Majakovskij, incuriosito dal ritratto che vede sul cavalletto.58
Parafrasando
quanto
scritto
da
Luciano
Cecconi
a
proposito
della
rappresentazione iconografica del bambino, possiamo affermare che dal punto di vista
figurativo, la presa di coscienza di Peppino è un elemento dalle conseguenze importanti.
Peppino passa da essere oggetto dipendente e passivo a soggetto autonomo e attivo, con
un proprio punto di vista, una propria storia individuale e, come dice appunto Cecconi,
con “un’immagine viva che reclama di essere rappresentata” (99). Quando non era
percepito come soggetto, Peppino era un elemento di contorno della rappresentazione, ai
margini del quadro e comunque sempre in compagnia di qualche adulto. Nel momento in
cui gli si attribuisce dignità di soggetto diventa protagonista. È interessante che Giordana
impieghi proprio l’arte ritrattistica per manifestare a livello visivo l’avvenuto
cambiamento. Dalla foto iniziale in cui è incluso nel clan mafioso, il bambino passa, con
il ritratto che Venuti disegna a sua insaputa, a diventare soggetto unico del quadro: segno
che la sua autonomia è sbocciata, si è distaccato dalla famiglia e non è più necessario per
lui farsi vedere - o ritrarre - accompagnato dai parenti mafiosi. D’altra parte, il ritratto è
58
Il modo di parlare di Peppino cambia, soprattutto la sua abilità di prendere l’iniziativa e di sostenere un
dialogo con un adulto. Qui Peppino sfida l’autorità del parlante adulto mettendosi alla pari con lui. La
fermezza di Peppino è indicativa del suo mutato senso di sé. Anche se il suo ruolo non è ancora cambiato,
la sua autonomia verbale segnala un’abilità nuova di controllare e influenzare la realtà che lo circonda, e di
negoziare il suo ruolo e la sua identità. Per uno studio approfondito delle rappresentazioni del linguaggio
dei bambini al cinema si rimanda all’articolo di Roberta Piazza: "They Are What They Talk: The Verbal
Representation of Children and Adolescents in Italian Cinema".
97
un tipo di raffigurazione pittorica che chiaramente esalta l’unicità dell’individuo.
Ma più ampie sono le implicazioni delle due diverse rappresentazioni artistiche.
Andando ad aggiungersi alla galleria di attivisti politici dipinti da Venuti, il ritratto di
Peppino segnala il passaggio dalla famiglia biologica e “tribale” a quella dei compagni di
Partito e da una cultura intrisa di mafia ad una antimafia. È significativo al proposito che
nell’aprire la porta al bambino, Venuti lo identifichi ancora come il figlio di Impastato,
con una domanda (“tu sei Impastato, il piccolo?”) che lo richiama all’appartenenza
familiare. Ma durante il colloquio il pittore finirà non solo col dissociare il bambino da
quella famiglia ma addirittura con l’“affiliarlo” ad una nuova.59 Lo schizzo del ritratto
funziona come una sorta di rito di affiliazione al contrario del battesimo dell’“uomo
d’onore” che, alla pari di quello tra mafiosi, crea un individuo nuovo e sigilla un patto di
sangue fra iniziante e iniziato. L’atto di dipingere un ritratto, peraltro, è un atto molto
vicino a quello della procreazione perché con esso si “dà vita” ad un altro individuo, il
che presuppone anche un certo grado di partecipazione e coinvolgimento emotivo da
parte del “padre-creatore” nei confronti del “figlio raffigurato”.
Stefano Venuti si propone allora come Ersatz father per il bambino.60 E assume
anche la funzione di educatore politico che lo introduce al risveglio di una coscienza
sociale e lo avvia alla militanza comunista. Come il poeta Majakovskij è per Venuti un
“fiume in piena” nell’ispirargli l’azione politica, così Venuti è per Peppino la fonte
d’ispirazione per il proprio impegno politico e Peppino, con il suo esempio, lo è per lo
59
Per Peppino non è automatico il percorso che lo porta a non essere più visto come un Impastato “parente
di mafiosi”. Durante l’imprigionamento che segue la protesta per l’esproprio delle terre, ad esempio, gli
altri compagni di cella non lo ascoltano quando esprime la propria opinione e uno di loro urla: “Ma tu cu
cazzo si’? Ti permetti di farci una lezione? U figghio d’Impastato, u nipote di don Cesare Manzella?”
60
Quando Luigi Impastato parlando con la moglie definisce sarcasticamente Peppino come “il figlioccio di
Stefano Venuti” avvalora il passaggio di consegne e gli riconosce implicitamente il nuovo ruolo di padre.
Non sfuggano le implicazioni nella scelta del termine “figlioccio” invece del semplice “figlio”, che
richiamano all’importanza della relazione padrino/figlioccio nella mafia.
98
spettatore. Non sfuggano le implicazioni di Giordana su come il film stesso, attraverso la
narrazione della storia di Peppino, si proponga come un modello artistico di ispirazione
per il nostro impegno politico. Come ricorda Millicent Marcus, il film aderisce all’idea
della funzione militante dell’arte (che sia poesia, pittura o arte cinematografica), capace
di muovere all’azione sociale. L’impulso all’azione parte proprio dalla storia del poeta
Majakovskij; anzi, come sostiene Marcus, dalla “volontà di Peppino di ascoltare la storia
che attiva il processo di trasformazione”: Majakovskij è in tal senso “una forza
galvanizzatrice, l’exemplum che replica se stesso nella vita dell’ascoltatore” e noi
spettatori “siamo coinvolti in questo processo interpretativo attraverso il quale l’arte può
intervenire per modificare il corso dell’esistenza umana. Come lettori della vicenda
paradigmatica di Peppino Impastato diventiamo l’anello successivo nella catena di azione
sociale ispirata dall’arte” (“La scrittura sullo schermo” 77).
Vale la pena ricordare, infine, che il ritratto, almeno ai suoi esordi nell’umanesimo
e poi con la grande ritrattistica rinascimentale, aveva una funzione principalmente
celebrativa e commemorativa. Ancora oggi lasciare la propria immagine impressa in un
dipinto o una fotografia significa opporsi alla dimenticanza e all’avanzare del tempo. Si
ricollega a questa funzione anche il ritratto di Peppino che, non a caso, riemerge dal
cassetto di Venuti poco prima che la vita del giovane militante sia spezzata da una morte
che lo consegna alla memoria collettiva. Lo stesso si può dire per i filmati amatoriali
arbitrariamente inseriti da Giordana nella sequenza del funerale, e soprattutto per le
fotografie del vero Peppino Impastato che compaiono nella postfazione al film. Come
osserva ancora Marcus, i filmati amatoriali girati in super-8 “creano un deposito di ricordi
visivi” per lo spettatore, “suggerendo così la presenza di altri punti di vista, altri modi di
99
vedere Peppino” (80) che non siano solo quello di futuro mafioso (come nella prima foto)
o di futuro attivista politico (come nel ritratto di Venuti). L’album di foto a sua volta serve
ad autenticare il film: “ci ricorda che quello che abbiamo visto è una ricostruzione, il
lavoro di un regista e nonostante ciò punta a riferirsi alla realtà storica come a un
referente preciso, un referente che visse e morì e le cui spoglie giacciono in una bara . . .
e la cui storia ha un valore di verità” (80).
Interessanti per il discorso dell’arte come trasformazione sono anche gli sviluppi
successivi del rapporto padre-figlio, docente-discente, tra Peppino e Stefano Venuti.
Infatti, l’autorità di cui è insignito Venuti in qualità di padre surrogato (nonché di
“capofamiglia” del Partito) lo propongono presto come una sorta di alter-ego del padre
naturale, aprendo la strada ad un nuovo possibile conflitto. Così, il rapporto col pittore,
che aveva avuto una funzione tanto importante per la maturazione adulta e politica di
Peppino, finisce poi quasi inevitabilmente col ricreare il rapporto originario con il padre.
Giordana sceglie di fare soltanto un breve accenno a questo nuovo conflitto edipico che
fu pesante nella vita del Peppino reale. Tuttavia, nella scena in cui Venuti rifiuta di
ciclostilare il primo volantino scritto dal ragazzo contro la mafia, possiamo notare che
Peppino manifesta nei confronti di Venuti la stessa insofferenza per l’autorità che aveva
manifestato nei confronti del padre: “E questo non si può fare! E quello è
avventurismo!”, sbotta il ragazzo, “La disciplina! L’obbedienza! Hanno deciso così a
Roma! Hanno deciso così a Palermo! E noi quando decidiamo?” Da queste parole
capiamo che, così come accadeva fra le mura domestiche, Peppino si sente intrappolato
all’interno del partito, “castrato” da una nuova figura autoritaria che tenta di dargli ordini
e di privarlo del suo status di soggetto libero e pensante. Posto di fronte a un nuovo tipo
100
di prigionia (non a caso una delle prime scene di Peppino adulto insieme a Venuti è in
carcere), Peppino non può fare altro che ribellarsi per rivendicare ancora una volta il
proprio diritto all’autonomia.61
Quello a cui il film allude soltanto di sfuggita è dunque che, dopo aver rifiutato il
padre biologico e quelli mafiosi, Peppino rigetterà anche l’Ersatz father. E a quel punto e a questo il film dà invece un notevole risalto - troverà finalmente un genitore vero fra i
“padri” della letteratura. Come Pasolini in Gomorra era “il padre autorizzante di Saviano,
ed anzi, la possibilità stessa della scrittura e della testimonianza” (Palumbo Mosca 315),
così lo stesso Pasolini e gli altri “padri” ispireranno Peppino e, per mezzo di una sorta
“investitura a distanza,” lo faranno andare nella direzione giusta, e gli daranno il coraggio
di opporsi definitivamente alla cultura paterna della mafia. La scoperta dei “padri” della
letteratura dà finalmente un significato alla lunga ricerca di Peppino di un’identità
alternativa. Facendo sua la lezione dei grandi esponenti della letteratura italiana, può
finalmente esprimere liberamente se stesso, riesce ad acquisire quell’autonomia a lungo
cercata. In questo senso, possiamo vedere lo stesso Peppino quasi come un artista
incompreso a cui è negata la sua vocazione e Stefano Venuti come lo scopritore artistico
che ne ha riconosciuto il talento (“hai una bella faccia, pulita, occhi vivi e intelligenti” aveva detto all’inizio) e gli ha insegnato a coltivarlo aiutandolo a superare gli ostacoli che
si frappongono fra lui e la sua vocazione. Ma, come accade ai migliori talenti, il figlio
supera il padre per volgere il suo sguardo a quelli più grandi di lui.
61
Devo alla lucida analisi di Umberto Santino la comprensione dell’entità dello scontro di Peppino con il
“partito-padre”, che nel film è soltanto suggerito. Ne “Le idee e il coraggio”, parlando del vero Peppino
Impastato, Santino definisce il rapporto di Peppino col partito “invivibile come il rapporto con il padre
naturale”. E poi aggiunge: “è un’altra camicia di forza che Peppino si impone per realizzare la fuga dalla
prigione-famiglia, dal carceriere-padre. Ha ritrovato un nuovo padre, arcigno e implacabile, che vuole i
suoi atti e i suoi pensieri, pretende la donazione di sé, impone la circoncisione dei sentimenti e degli
impulsi più profondi, come un antico e sempre rinnovato rito puberale in cui per rinascere come ‘soci’
bisogna rinnegarsi come individui”.
101
Anche ad una visione poco attenta del film appare evidente che la maturazione
politica di Peppino va di pari passo con quella letteraria e che lo scontro col padre (come
accadeva peraltro a Saviano in Gomorra) è anche lo scontro tra cultura mafiosa e cultura
scolastica. Sin dall’inizio del film, è delineato il conflitto fra tradizione e innovazione,
antico e moderno, progresso e sviluppo. Sin dal principio, infatti, il mondo paterno è
rappresentato come un mondo arcaico e tradizionale, con i suoi riti e codici del passato:
un mondo che sta per essere incrinato dagli stimoli libertari del Sessantotto di cui
Peppino si farà portavoce. Non a caso, nella scena iniziale alla masseria, lo zio Gaspare,
quello definito “antico” da don Cesare, perché mette ancora l’olio nelle botti di legno e
vota per il Re, recita una poesia in dialetto siciliano, in evidente contrapposizione a
Peppino che si riallaccia invece al patrimonio letterario italiano recitando la poesia di
Leopardi e presentandola al cugino americano come un modo “to remember our language
and our land” (enfasi mia).62 Fin da bambino, dunque, Peppino è associato alla
letteratura. Il suo primo “comizio” è la recita di una poesia. L’indottrinamento che riceve
da Venuti nasce da un’ispirazione letteraria (Majakovskij) e non da una politicorivoluzionaria. In seguito, come abbiamo visto, recita insieme alla madre la poesia di
Pasolini. In questo topos della recitazione poetica che attraversa tutto il film, Peppino
assume un ruolo sempre più creativo, arrivando persino a “riscrivere” parodicamente il
testo di Dante per il suo programma radiofonico. Millicent Marcus ne traccia
l’evoluzione in questi termini:
He begins as a passive vessel, merely parroting the Leopardian lyrics in a
monotone indifferent to the text’s gradations of meaning, but by mid-film he has
62
Anche il contenuto della poesia (che parla di accumulo di denaro e di violenza) mostra lo scontro fra la
cultura mafiosa da cui è circondato Peppino e la cultura scolastica a cui aspira. A titolo di curiosità, la
poesia in dialetto è del poeta siciliano Gaspare Cucinella, che è anche l’attore che impersona lo zio Gaspare
nel film.
102
advanced to the level of stage director who turns Pasolini’s love poem to his
mother into an anguished duet. This progression from passive recitation to active
coauthorship culminates in the long and brilliant radio broadcast of Peppino’s
spoof on Inferno. (“In Memoriam” 300-301)
Se la recitazione dei versi di Pasolini si distacca parzialmente dalla dimensione
militante (ricordiamo che Peppino rinuncia a leggere “Le ceneri di Gramsci” a favore
della “Supplica a mia madre”), sono proprio i versi del Sommo Poeta a permettergli di
attuare la sua pungente critica sociale. Dante è una potente fonte d’ispirazione che, grazie
alla sua “furia profetica” e al suo “morso satirico,” (sono sempre le parole di Marcus 79)
gli consente di attaccare la mafia in modo obliquo ma impietoso. Nella Cretina
commedia, trasformando la città di Cinisi in “Mafiopoli”, il municipio in “Maficipio” e
don Tano in “Tano Seduto”, Peppino rielabora ironicamente le situazioni dantesche
intorno agli eventi e personaggi della malavita locale mettendo così in atto la sua
definitiva condanna alla mafia. Inoltre, appropriandosi ingegnosamente del linguaggio di
Dante, della struttura metrica (la terza rima) e dei temi narrativi della Commedia (il
contrapasso) e plasmandoli a suo piacimento, dimostra di avere raggiunto una piena
maturazione linguistica e letteraria e di saperla usare per i suoi scopi.
Anche nella scena alla radio, come in quella iniziale, Peppino ha un pubblico che
ascolta la sua performance. Si tratta delle stesse persone che avevano assistito alla
recitazione di Leopardi a casa Manzella, ma uniti agli abitanti di Cinisi raccolti intorno
alle proprie radioline. Mentre parla, però, Peppino non è più inquadrato in prospettiva,
dal fondo, con un senso d’inclusione protettiva, ma in primo piano, negli studi solitari di
Radio Aut. La scelta di Giordana di far interpretare la Cretina commedia unicamente a
103
Peppino quando in realtà, almeno nella sua parte iniziale, era recitata dall’amico Salvo,63
insieme ad altri elementi quali il messaggio trasmesso via etere, cioè non più filtrato o
limitato dall’ansia di fare “bella figura” (come gli aveva raccomandato il padre),
l’appassionata verve di Peppino e l’energia che irradia dal suo viso quasi clownesco
servono a dare risalto alla sua conquistata autonomia. L’insistenza sul primo piano limita
lo spazio intorno ed esalta la presenza iconica del personaggio-Peppino, marcando
l’apoteosi della sua individualità.
D’altra parte, però, la fredda solitudine degli studi radiofonici e l’oscurità degli
interni in contrasto con gli esterni soleggiati, vanno inevitabilmente a rinforzare la sua
solitudine di outsider. In modo molto convincente Marcus equipara la condizione di
outsider Peppino a quella di esiliato di Dante, sostenendo che è proprio la posizione di
“internal exile” di Peppino a permettergli di trovare le armi con cui combattere la guerra
contro la mafia. Così come Dante sceglie di sostituire il volgare illustre al latino come
lingua atta ad esprimere le sue questioni filosofiche e morali, Peppino trova nella rete di
forme mediatiche da lui utilizzate, ma in special modo nella radio privata, un controspazio allo spazio della cultura mainstream, un medium affrancato dai condizionamenti,
in cui poter esprimere liberamente la sua protesta politica e sociale (“In Memoriam” 302).
La grande intensità con cui è girata la scena rende giustizia a questa conquista. Non a
caso, nella sequenza immediatamente successiva alla performance dantesca, il regista
stacca sul mezzobusto di un Luigi Impastato sconfitto che riconosce con i familiari “di
non contare più nulla” all’interno dell’universo domestico e definisce il figlio addirittura
come “’o Re” della casa. In quell’istante si realizza la definitiva destituzione di ruoli. In
63
È possibile ascoltare la registrazione originale della Cretina commedia sul sito web di Peppino Impastato:
www.peppinoimpastato.com.
104
una revisione edipica, il figlio diventa padre e il padre figlio: Luigi ha perso autorità
come patriarca, e il figlio l’ha definitivamente annientato, “detronizzato dal ruolo di
tiranno e capoclan”, assumendo su di sé tutta l’autorità (Santino, “Le idee e il coraggio”).
Trovo interessante, per finire, che la decisione di Tano Badalamenti di far
uccidere Peppino, cioè il “figlio” ribelle, avvenga quando questi ha deciso di candidarsi
autonomamente alle elezioni amministrative. Morto il padre biologico, rigettata la cosca
mafiosa dei “padri”, allontanato anche l’Ersatz father, Peppino conta solo su di sé. È
diventato orfano di ogni genitore, e in un certo senso padre di se stesso. Ma quella di
Peppino-padre è un’eventualità possibile? Umberto Santino la nega fermamente
affermando che: ”Peppino non è padre per nessuno, e tanto meno per se stesso” (“Le idee
e il coraggio”). Eppure, se è vero che non lo fu in vita, né per lui, né per i compagni di
partito (il ruolo di leader non gli si addiceva), è innegabile che lo divenne dopo la morte.
Giordana sembra voler abbracciare questa idea. Il film si chiude, infatti, con la grande
partecipazione dei familiari stretti e dei compagni al funerale di Peppino, a dimostrazione
che sono pronti a raccoglierne l'eredità, proprio come “da padre in figlio”, senza farsi
intimidire. Come denota la scena che precede il funerale, la madre dà prova di aver fatto
propria la lezione di Peppino: al cugino Anthony che tenta di farlo rientrare nell’orbita del
“Noi-famiglia”, definendolo: “sangue pazzo, ma era uno di noi”, risponde decisa: “no,
non era uno di voi” (escludendo con quel “voi” anche se stessa); e poi aggiunge: “Ed io
vendette non ne voglio”. Così, la madre rompe con la cultura paterna mafiosa che
prevede che la famiglia rimanga chiusa in se stessa aspettando in silenzio la vendetta. In
contrasto con la sua storia privata e familiare, esce dall’isolamento in cui è relegata dai
codici mafiosi e sceglie la cultura “nuova” del figlio: il regista la mostra infatti in prima
105
fila al funerale di Peppino. E sappiamo che da quel giorno Felicia interromperà i rapporti
con i parenti mafiosi e si adopererà insieme a Giovanni per avere giustizia e mantenere
viva la memoria di Peppino proprio attraverso la parola (si farà spesso intervistare).
Allora, la strategia del “padre” Badalamenti di mettere a tacere il “figlio” ribelle si
scontra con il coraggio della madre, del fratello e dei compagni. La loro volontà di essere
presenti al funerale e la grande partecipazione fisica, emotiva e persino uditiva (cantano:
“Peppino è vivo e lotta insieme a noi! Le sue idee non moriranno mai!”), dimostrano che
Peppino è diventato per loro un “padre” e che essi sono pronti ad accoglierlo come punto
di riferimento essenziale nella lotta contro l’oppressione mafiosa. Pur con la sua
apparente sconfitta, alla fine del film Peppino rimane (è questo appunto il senso
dell’album fotografico finale “a memoria di chi resta”) per comunicare il suo messaggio
cioè, che “in un mondo in cui, contrariamente a quanto si dice, la storia non è finita, è
ancora necessario rompere con i padri” (Santino, “La memoria difficile”, corsivo mio).
106
II. Io non ho paura
Tratto dall’omonimo romanzo del 2001 di Niccolò Ammaniti (cha ha collaborato
anche alla sceneggiatura), Io non ho paura è un film molto diverso da I cento passi: non è
ispirato ad una storia vera, non è un film d’impegno politico e non è neppure
propriamente un film di mafia: si è parlato infatti di thriller o di genere noir. La trama del
film e il contesto spazio-temporale suggeriscono però un ambiente legato alla
‘ndrangheta calabrese, in particolare al fenomeno dei sequestri di persona a scopo
estorsivo avvenuti con grande frequenza in Italia negli anni Settanta (il film è ambientato
nel 1978).64 Inoltre, pur non presentando una famiglia rigidamente strutturata secondo
codici mafiosi e pur non facendo mai esplicito riferimento alla mafia, anche Io non ho
paura come il film di Giordana mostra una famiglia “deviata” di tipo patriarcale in cui
una figura paterna, portatrice di autorità, si contrappone ad un figlio in lotta per affermare
la propria autonomia. Salvatores privilegia l’aspetto etico-morale piuttosto che quello
storico-sociale, mettendo l’azione criminale (con il suo contorno di violenza, familismo e
omertà) sullo sfondo e la dimensione interiore del giovane protagonista Michele al centro
del discorso.
Mantenendosi fedele allo spirito del romanzo, quindi, il regista non offre allo
spettatore un’edificante storia antimafia capace di spronare l’impegno civile, né una
denuncia delle condizioni miserevoli del Mezzogiorno e neppure una ricostruzione del
difficile panorama politico e sociale degli anni Settanta (i cosiddetti “anni di piombo”).65
64
Secondo Rivista Penale ci furono 290 casi di rapimento in Italia nel 1978 (cit. in Storia della criminalità
in Italia dal 1946 ad oggi di Romano Canosa, Feltrinelli, 1995).
65
Anthony Cristiano ha criticato aspramente la mancanza di spessore politico-sociale nel romanzo, e di
conseguenza nel film, accusandolo di essere un prodotto esclusivamente commerciale: “the year 1978 ... is
a marked date in Italian history due to the influential events that have taken place. The choice of making
such a major date conspicuous in the story and then retreating from informing it with proper significance
leaves the reader with the impression of a narrative found utterly wanting. If the elements at play in the
107
Invece presenta il film come una sorta di enigma etico-morale che interessa unicamente
la vita del protagonista chiamato al risolverlo. Nello specifico, Michele si trova a fare i
conti con la drammatica scoperta di un bambino sequestrato e nascosto in fondo a un
buco e con il fatto che il proprio padre è coinvolto nel rapimento. Il film diventa allora
una rappresentazione del conflitto interiore vissuto da Michele tra il dovere di lealtà verso
il genitore e il bisogno di seguire le proprie convinzioni morali. La risoluzione del
conflitto coincide con la perdita dell’infanzia e il passaggio all’età adulta. Si tratta
insomma di “una storia d’infanzia perduta” (secondo la definizione dello stesso
Salvatores) che si struttura intorno ai canoni del racconto di formazione, in cui il
protagonista bambino, attraverso varie esperienze, si allontana dall’innocenza infantile e
prende coscienza dei compromessi della vita adulta.66
Nel film Michele affronta per la prima volta l’esistenza del male, della violenza, e
della morte. Allo stesso tempo, grazie a Filippo, apprende la solidarietà, la pietas e la
scoperta della differenza nell’incontro con l’altro. Infine, interrogandosi sul valore della
responsabilità individuale e collettiva, giunge a ribaltare i valori negativi del padre e
persino a compiere un’azione “eroica”. Come I cento passi, il film segue una struttura
narrativa lineare. La maturazione di Michele avviene attraverso varie tappe che, come in
un rito iniziatico, costituiscono prove progressive di coraggio ed affermazione.
Inizialmente, il rapimento di Filippo lascia Michele confuso e pieno d’interrogativi:
l’orrore del rapimento esiste come a distanza perché non lo comprende, così come non si
story lend themselves to an allegorical portrayal of one of the most intriguing and darker end of decades in
Italian history, this opportunity was missed by the very composition and modes of the narrative in favour of
producing an entertaining work of sellable fiction”.
66
Simbolica è in tal senso la bella scena a metà film dell'arrivo delle mietitrebbia, che scendono minacciose
da sopra la collina tagliando le spighe di grano dorato dove Michele ha corso a perdifiato durante l’estate: il
loro passaggio segna la fine della stagione estiva e della dimensione idillica dell’infanzia.
108
sa spiegare il coinvolgimento del genitore (Ammaniti ebbe a dire che voleva esplorare
precisamente come un bambino di dieci anni assorbe l’orrore di una circostanza che non
comprende). Però a poco a poco raggiunge una consapevolezza sempre maggiore
dell’azione criminale, grazie all’aiuto d’indizi più o meno evidenti, a riflessioni e a
conversazioni spiate o scambiate con gli adulti.
Come accade per il film di Giordana, lo spettatore è direttamente coinvolto nella
presa di coscienza del bambino protagonista, perché la macchina da presa è collocata
fisicamente a un metro e trenta da terra, cioè praticamente all’altezza dei suoi occhi.
Questa scelta tecnica voluta da Salvatores per restituire la visione soggettiva infantile
(oltre che la narrazione in prima persona del romanzo) rinforza la nostra identificazione
con Michele e con la sua visione parziale delle cose. Tutti gli eventi sono focalizzati
“attraverso il punto di vista (ingenuo, romanzesco, mitico) di Michele in modo da
costituire per lo spettatore un alter-ego infantile attraverso cui osservarli” (Nepoti 61).
Grazie a questa focalizzazione interna - che include anche molte riprese di Michele
mentre spia gli adulti dalle porte chiuse - siamo sempre ancorati alla sua esperienza
percettiva della realtà: vediamo solo quello che vede lui e di conseguenza sappiamo solo
quello che sa lui. Ci avviciniamo al mistero del “bambino nel buco” al suo stesso livello e
dobbiamo mettere insieme gli indizi come fa lui. Così quando Michele non capisce il
comportamento degli adulti condividiamo la sua stessa confusione e le sue sorprese sono
anche le nostre: siamo stimolati a scoprire gli eventi e i personaggi man mano che li
scopre Michele. L’identificazione dello spettatore con Michele si realizza anche con la
dilazione dell’azione, che favorisce una simbiosi con il personaggio. Michele si muove
con inconsapevolezza rispetto agli eventi che si svolgono davanti a lui e si lancia a
109
capofitto nell’azione senza capire totalmente ciò che succede e lo spettatore fa la stessa
cosa, senza anticipare i risultati. Questo favorisce la confluenza del punto di vista fra
personaggio e spettatore.
Altri aspetti del punto di vista infantile del film sono le inquadrature oblique dal
basso con l’asse rivolto verso l’alto, come a rendere la prospettiva, appunto, “bassa” di
Michele rispetto agli adulti, e l’utilizzo dei colori primari che il regista ha adottato a
partire da uno studio sulla percezione dei colori nei bambini. I bambini non percepiscono
- e di conseguenza non disegnano - i colori secondo diverse tonalità e sfumature, ma
usano esclusivamente i colori primari, perché è così che vedono il mondo. Da qui la
scelta di usare solo colori vividi e brillanti, dal grande impatto visivo (questo aspetto è
riportato nella recensione di Wendell Ricketts). C’è poi la tecnica che Viva Paci,
riprendendo Gilles Deleuze, chiama “soggettiva libera indiretta” (definita anche “semisoggettiva”), che è l’equivalente del discorso indiretto libero in letteratura. Si tratta di una
tecnica per mezzo di cui la macchina da presa osserva le cose da un punto di vista che
riflette quello
del
personaggio,
anche
quando
lo
sguardo
non
corrisponde
necessariamente al suo, cioè anche nelle inquadrature oggettive. In pratica, la macchina
adotta il modo di vedere del personaggio, anche quando non è lui a vedere. Spiega Paci:
“Vi è lo sdoppiamento tra la visione del personaggio e la visione del suo mondo,
canalizzato dalla visione di ciò che la macchina da presa costringe a vedere, ed è proprio
in questo doppio canale che si realizza la soggettiva libera indiretta” (190-1). Essa rinvia
sempre ad una percezione soggettiva delle cose, pur non essendo una vera soggettiva, e
permette allo spettatore di essere insieme (être-avec) al personaggio e di condividere i
suoi sentimenti pur rimanendo indipendente dal suo punto di vista. Più questo espediente
110
è marcato, più fortemente lo spettatore partecipa all’esperienza percettiva del personaggio
(Paci 189-192).
Per quanto riguarda il confronto padre/figlio, in Io non ho paura esso è trattato in
modo molto diverso dal film di Giordana. Più che di uno scontro vero e proprio si può
parlare, infatti, di un processo dis-identificazione dalla figura paterna. In rapporto al
padre, Michele passa, infatti, dall’identificazione al distacco e infine all’emancipazione
che si manifesta nel suo essere in grado di prendere decisioni autonome, anche se
contrarie alla volontà del genitore. E se è vero che Giordana aveva mostrato un processo
analogo nella prima parte de I cento passi, è vero altresì che tale processo era pressoché
concluso nel brusco stacco temporale fra le due parti. Io non ho paura, invece, mette in
scena, lungo tutta la durata del film, il dramma vissuto dal bambino nell’apprendere i
codici immorali del padre e il dilemma fra aderire o sottrarsi a essi. Anzi, Salvatores fa
salire gradualmente - grazie anche ad una colonna sonora particolarmente indovinata - le
tensioni interne del protagonista, mentre lunghi primi piani mostrano il bambino pervaso
fino all’ultimo dai dubbi su da che parte stia la verità.
Ma soprattutto, nel corso del film, avviene in Michele una modifica della
percezione di autorità attraverso il confronto fra l’immagine idealizzata del padre e il
comportamento del padre stesso. A dieci anni, Michele è in una fase in cui si forma il
concetto di sé nel rapporto identificativo con i modelli autoritari. È il processo che Freud
chiama di “identificazione” e presuppone un certo grado d’idealizzazione della figura
paterna, di modo che il figlio desideri essere “come papà”. Attraverso l’identificazione
col padre, il bambino progressivamente diventa capace di identificare se stesso, acquista
cioè un’identità maschile matura e coerente. Aderendo al codice normativo del padre, che
111
è diretto verso la legittimazione sociale, il bambino acquisisce via via il proprio codice
morale. Freud lo definisce notoriamente il Super-Io: cioè un’istanza psichica che
rappresenta il sistema di valori e proibizioni introiettati. Più specificamente, a proposito
dello sviluppo della moralità nel bambino, Jean Piaget parla di passaggio da un codice
morale “eteronomo” ad uno “autonomo”. Nel suo studio Le jugement et le raisonnement
chez l'enfant, Piaget spiega che la moralità eteronoma è governata dall’esterno, cioè
dipende da una volontà esteriore, e le regole e i divieti sono visti come norme assolute ed
immutabili. Il bambino è convinto che ogni colpa reclami una punizione espiatoria (chi
sbaglia, paga) e le azioni sono valutate non in base all’intenzionalità ma in base alle
conseguenze. La morale autonoma, invece, è governata dall’interno; le norme non sono
fisse ed immutabili ma costruite e modificate solo in base a convenzioni sociali, vale a
dire che sono obbligatorie solo nella misura in cui il bambino vi si riconosce e acconsente
di seguirle; le intenzioni valgono più delle conseguenze. Michele passa appunto da uno
stadio di conformità in cui obbedisce alle regole dei genitori perché sono, appunto,
“regole” provenienti da un’autorità esterna e punitiva (“papà mi ammazza!”, “papà si
arrabbia!”), ad uno in cui interpreta le regole e comprende che è possibile, anzi
necessario, trasgredirle (“- Mà si arrabbia” – dice la sorella – “Non importa” risponde
lui).
Essere in grado di riferirsi a codici normativi autonomi è un passo decisivo per
l’acquisizione dell’identità del bambino. Non si tratta più di rendersi simili al proprio
padre, cioè di pensare, sentire ed agire “come papà”, ma di imparare a pensare, sentire ed
agire autonomamente. Tornando a Freud, possiamo dire che il Super-io non si adagia sul
padre, ma al contrario lo affronta, lo ”uccide” per diventare indipendente ed assumere la
112
propria dimensione soggettiva. “Uccidere” il padre significa rompere con la fiducia
incondizionata nella figura genitoriale per credere in se stessi. Significa essere in grado di
assumere un ruolo individuale di soggetto libero e di esprimere i propri desideri, le
proprie libertà di scelta e di azione. Emanciparsi dal padre, però, non comporta solo la
rimozione ma anche la presa di coscienza dei suoi insegnamenti. Inizialmente percepita
come esteriore e impersonale, la Legge è poi vista come proveniente dal padre e cioè
personale, così da offrire sicurezza e relazione affettiva. La Legge è allora vissuta come
parola del padre (è il Nome del Padre Lacaniano), di cui si ha una conoscenza diretta e
personale e con la quale si può creare un dialogo. Come precisa lo psichiatra Romeo
Lucioni (spiegando Lacan):
Il “Nome del Padre” non è quindi sottomettersi al potere, alla legge e alla verità
della parola, al contrario è accettare il legame con il sociale e la cultura, garantire
le norme, paradossalmente “entrare nella legge abbandonando la legge” . . .
aderire alla normativa ed alla genealogia, assumendo un nome ed il proprio nome.
Come ne I cento passi, però, anche in Io non ho paura, il percorso che porta
Michele a sviluppare una morale autonoma è reso più complicato dal contesto mafioso o
comunque “deviato” in cui si muove la sua famiglia. Per Michele l’identificazione con la
Legge paterna si problematizza perché il padre trasmette modelli d’illegalità che, se
riconosciuti come tali, diventano inaccettabili. Il processo risulta allora estremamente
doloroso. Scoprendo la verità sul padre, Michele non scopre soltanto la possibilità del
Male (il padre non è per forza buono come aveva sempre creduto), ma perde anche il suo
punto di riferimento col mondo degli adulti. Rifiutando il Nome del Padre, non vedendo
in lui alcuna possibilità d’identificazione positiva, Michele si ritrova quasi in una zona
113
identitaria di non-essere, in cui è a rischio la formazione della sua stessa identità.67Questo
lo condurrà, come vedremo, ad identificarsi con figure alternative di riferimento: con i
suoi alter-ego di fantasia e contemporaneamente anche con Filippo, il bambino
prigioniero.
Per tornare al concetto di autorità, c’è da dire che in Io non ho paura fin
dall’inizio la figura del padre come fonte di autorità è piuttosto atipica. Il padre Pino non
è molto presente nella vita del bambino perché lavora come camionista al Nord Italia,
delegando il ruolo di paterfamilias alla madre. Le assenze del padre, però, lungi da
provocare un indebolimento della sua autorità, portano ad un'interiorizzazione maggiore
della figura paterna che viene, per così dire, mitizzata dalla lontananza. Visto con gli
occhi di Michele, infatti, il padre è una figura quasi d’incanto: è alto, bello, buono, e
forte. Viaggia con il camion e vive in una sorta di altrove mitico, invisibile al di là degli
orizzonti del suo piccolo borgo; un luogo magico da cui provengono oggetti preziosi,
come il televisore Grundig e la bicicletta Red Dragon, e giocattoli stravaganti con cui non
è ammesso giocare.68 Come un evento d’importanza sacrale, ogni arrivo del padre è per
Michele un’occasione di festa, fonte di sorrisi e di allegria e anticipatore di nuovi piaceri
(promette di portarlo al mare e di affittare un pedalò). Ma il padre è presente anche come
fonte di conoscenza ed autorevolezza: con la sua saggezza risolve i piccoli contrasti fra
fratelli (chi deve andare a prendere il vino), conosce le risposte agli interrogativi infantili
67
A mio avviso questo momento d’incertezza identitaria in Michele è rappresentato dalla scena in cui il
bambino si rifugia sull’albero dopo uno scontro col padre. E, alla sorella che va a chiamarlo per mangiare,
risponde “Digli che io non sono più figlio loro! E che non torno più”. In quel momento si è distaccato dalla
famiglia, ma la sua nuova posizione individualistica non gli consente ancora di ri-entrare nell’ordine sociale
paterno e rimane bloccato sull’albero. Nel romanzo, rispetto al film Michele si rifugia molto spesso sul
carrubo, metafora del suo stato liminale, a riflettere, guardare l’orizzonte, a pensare al bambino rinchiuso
nel buco.
68
Nel romanzo, il narratore esprime in questo modo la difficoltà di Michele di raffigurarsi il Nord Italia:
“Non riuscivo tanto bene a immaginarmi questo Nord. Sapevo che il Nord era ricco e che il Sud era povero.
E noi eravamo poveri” (37).
114
(perché le vespe fanno l’alveare? “È nella loro natura”) e il suo sapere è assunto a
modello incontestabile, tant’è vero che è proprio al padre che Michele conta di rivolgersi
non appena scopre il bambino nel buco, affermando con convinzione: “Papà mi avrebbe
spiegato tutto” (54).69
L’idealizzazione del padre è evidente in maggior misura nel momento in cui
Michele si rende conto che lui potrebbe essere responsabile della prigionia del bambino.
Nel tentativo di giustificarlo, Michele immagina che Filippo sia il suo fratello gemello,
nato pazzo e nascosto dal padre per pietà nel buco invece di pugnalarlo e si compiace di
essere complice del segreto con il genitore (“Mamma non sapeva che era vivo. Io sì” 72).
A causa di questa idealizzazione il padre è visto attraverso una lente deformata di affetto
e fiducia e nemmeno di fronte all’evidenza Michele accetta che il padre possa essere
l’artefice dell’azione criminale. Al contrario, costruisce una storia dai contorni miticofiabeschi in cui proietta l’immagine idealizzata del padre sull’“eroe buono” che salva il
bambino dalla morte e che possiede quei tratti umani di pietà e di solidarietà che proprio
lui mostrerà di avere in seguito.
Il padre di Michele gli trasmette anche un modello di forza basato sulla prestanza
fisica. Appena tornato, chiede a Michele se in sua assenza ha fatto le flessioni e lo sfida
ad una gara a braccio-di-ferro, suggerendo che l’identificazione con la figura paterna, e di
conseguenza con la mascolinità, passa attraverso la forza fisica: sei più un uomo se
sviluppi i muscoli e se puoi mettere giù il braccio di un altro uomo. L’immagine del
braccio-di-ferro funziona quasi come una miniatura del mondo mafioso adulto ed è un
69
Anche la madre di Michele ha un ruolo importante nella creazione dell'immagine paterna ideale, come si
vede quando sottolinea i sacrifici che il padre fa per la sua famiglia, contribuendo a fabbricare di lui un
ritratto ideale e mitico. Ad esempio: “Mamma diceva che se papà continuava a lavorare così tanto, presto
non saremmo stati più poveri, saremmo stati benestanti. E quindi non dovevamo lamentarci se papà non
c’era. Lo faceva per noi” (37).
115
modo di allenare il bambino ad essere uomo, a crescere essendo capace di combattere le
battaglie reali e pericolose come fanno gli adulti del gruppo e richiama, seppur
sottilmente, agli addestramenti “mascolinizzanti” di Damiano in Certi bambini.70
Fig. 15
Il padre tende anche ad associare il coraggio con un’intraprendenza di tipo
militare: per decidere chi deve andare a prendere il vino gli insegna il “tocco del soldato”,
uno stratagemma dell’esercito in guerra per stabilire a chi toccano le missioni mortali.
Questi elementi rivelano uno sbilanciamento nei sistemi di valori dei due personaggi,
perché per il genitore la forza fisica sembra essere più importante di quella morale,
mentre Michele si caratterizza fin dall’inizio per la sua bontà e per un istintivo
atteggiamento altruistico verso gli altri, come dimostra aiutando Barbara, la bambina
tiranneggiata dai compagni, addossandosi addirittura la sua penitenza.71
Nonostante l’idealizzazione, esiste perciò fra i due personaggi una certa
ambivalenza. Il fatto che l’approvazione del padre passi attraverso l’ostentazione della
forza fisica causa disagio in Michele e non solo perché, per sua ammissione, detesta fare
70
Nel romanzo quest’insistenza sulla forza fisica si nota maggiormente. Il narratore dice che il padre lo
trova “rachitico”. Inoltre, in un episodio in cui lo abbraccia, il padre non privilegia il lato affettivo del gesto
bensì pretende che Michele lo stringa: “Fammi sentire quanto sei forte!” (111). E poi, vedendolo piangere
lo rimprovera: “Asciugati quelle lacrime, che se qualcuno ti vede fai la figura della femmina” (111).
71
Come scrive Paolo Perrone, con questo gesto: “Michele . . . rivela già un preciso codice etico nel proprio
atteggiamento, una consapevolezza, seppure non teorizzata né manifestata, di un rapporto corretto e
coerente tra vita possibile e vita plausibile” (41).
116
le flessioni, ma perché non si sente all’altezza di gareggiare a braccio-di-ferro con il
padre. Anzi, in suo confronto è debole, inadeguato e destinato a fare la figura della
“femmina” con “la ricotta al posto dei muscoli”. Inoltre, nonostante che nel proprio
nucleo familiare Michele abbia assunto su di sé sia l’unico ruolo maschile sia l’altro ruolo
genitoriale, prendendosi cura della sorellina più piccola, dal padre è trattato come un
bambino sprovveduto a cui vengono imposte continuamente regole che limitano la sua
mobilità spazio-temprale (“non ti allontanare”, “non tornare tardi”) e inflitte punizioni a
volte immeritate. Quando, al di là della comunicazione attraverso la fisicità, Michele
cerca un dialogo più autentico con il padre, questi lo liquida giudicandolo “troppo
guagliuncello”. Come sottolinea Arthur Lazere, la relazione tra padre e figlio è quanto
meno ambivalente, poiché bilancia in modo precario l’amore e la competizione, il rispetto
e il dubbio, la dipendenza e l’indipendenza. Man mano che la storia si sviluppa,
l’ambivalenza si trasforma in diffidenza, al punto che più avanti, aggravato dal pensiero
di Filippo rinchiuso nel buco, Michele rifiuterà di fare a braccio-di-ferro con il padre,
giudicando inadeguato sia il gioco, sia la forza fisica in sé come metro di giudizio sul
proprio valore e interrompendo, di fatto, il loro unico canale di comunicazione.
La distanza fra padre e figlio si manifesta proprio nella loro crescente
impossibilità di comunicare, che diventa, come nota Stefano Lusardi, un “elemento
estremo di separazione”: il linguaggio del bambino è fatto di domande che richiedono
una risposta semplice (“Perché l’avete messo lì? Non riesco a capirlo”); quello del padre
“è come un puzzle impossibile da decifrare”. L'unica cosa che riesce a fare è assumere la
parte di padre autoritario e proibirgli di tornare al nascondiglio. In un’altra occasione, il
padre fornisce a Michele delle idee ambigue su cosa sia giusto e sbagliato, concetti che
117
non vanno al di là del tornaconto individuale o familiare (il rapimento renderà migliore la
loro vita fatta di stenti), rendendo di fatto abissale la differenza fra i rispettivi codici
morali. Non solo. Ma il padre, che dovrebbe essere simbolo di protezione e sicurezza,
colui che si interpone tra le paure del bambino ed il mondo esterno, diventa simbolo
d’incertezza e l’origine della paura stessa, fino ad assumere addirittura i panni
dell’“uomo nero”: “Papà era l’uomo nero”, scrive il narratore nel romanzo: “Di giorno
era buono, ma di notte era cattivo” (92).
In questo modo, sempre secondo lo schema Freudiano, l’idealizzazione della
figura paterna e il desiderio di somigliargli lasciano “il posto alle convinzioni che il
genitore reale è diverso da com’è stato immaginato in precedenza, e comunque non può
essere assunto come unico modello d’identificazione” (Casarrubea, Blandano 135).
“Uccidere” il padre significa allora smettere di vederlo attraverso la lente deformata che
lo fa percepire come perfetto ed iniziare a vederlo come un essere umano. Questo è
esattamente ciò che succede a Michele. Se dapprima il padre era presente anche
nell’assenza come un dio onnipotente, come una specie di burattinaio che tirava le fila
della sua vita (papà ha detto di no, papà si arrabbia, devo fare il bravo perché papà si
sacrifica e perché se faccio il bravo mi porta al mare), in seguito diventa presente
fisicamente come un uomo mortale e vulnerabile. In particolare, passa dall’essere nella
sua fantasia mitica “il capo di Acqua Traverse” (89) ad avere un capo in carne ed ossa,
Sergio, che lo umilia insultandolo davanti a tutti e imponendogli di stare zitto.72 Questo,
come concorda Salvatores, è il momento decisivo del passaggio all’identità autonoma,
72
Così esprime il narratore, nel romanzo, la cocente delusione per questa scoperta: “Lo aveva chiamato
imbecille. È stato come se mi avessero dato una coltellata in un fianco. Nessuno aveva mai parlato così a
papà. Papà era il capo di Acqua Traverse. E invece quel vecchio schifoso, arrivato da chissà dove, lo
insultava davanti a tutti” (89).
118
quello in cui il bambino riconosce le fragilità del padre e i suoi limiti e difetti: “that’s the
moment when we actually do mature and become adults…when we realize that our
parents are not only good or only bad…when we understand our parents are simply
human…that they can make mistakes, that they can get sick, and that they can die” (cit.
in Goldstein 7).
Così Michele resta da solo a risolvere il dilemma che gli si pone davanti: chi è il
bambino nascosto nel buco? Perché ce l’hanno messo e che cosa si deve fare con lui?
Infatti, a differenza di Peppino ne I cento passi, Michele non ha figure adulte positive a
cui relazionarsi al di là della figura paterna. Gli altri uomini del gruppo sono “doppi” del
padre e costituiscono una famiglia alternativa che è disfunzionale e rispecchia la prima a
livello di valori. Non solo tutti gli adulti sono coinvolti nel rapimento di Filippo,
costituendo una sorta di clan di “uomini neri” che dormono di giorno e complottano di
notte, ma sono anche inverosimili come figure educative. Alla maniera dei genitori, che la
sera s’infuriano e la mattina vogliono baci e carezze, sono incoerenti, contraddittori.
Sono, inoltre, intellettualmente miseri e senza un minimo di empatia umana. In
particolare, Michele si confronta con due personaggi secondari che rappresentano
appunto il “doppio” del padre. Il milanese Sergio è il criminale che ha organizzato il
sequestro di Filippo. Contrariamente al padre, è violento, dispotico, losco e cinico, ma
come il padre viene dal Nord (con l’atteggiamento di superiorità snobistica che ne
consegue) e anche lui vive in un altrove mitico: il Brasile, dove “la vita non costa niente,
sei servito e riverito”. Anche Felice, il carceriere di Filippo, rimanda al padre per
associazione con il Nord (pure lui a un certo punto vi si era trasferito) e benché di
temperamento sia piuttosto mite, come il padre, è associato al militarismo: porta giacche
119
ed anfibi militari, tute mimetiche e fa le flessioni, come è gradito al papà. Di fronte a
questi due personaggi, Michele prova una ripugnanza e diffidenza istintiva, proiettando
su di loro i sentimenti negativi che sente (inconsciamente) per il padre: si rifiuta di
dormire nella stessa stanza con Sergio e la semplice vista di Felice gli provoca rabbia e
repulsione.
Non avendo punti di riferimento nel mondo adulto per affrontare le sue scoperte
ed il male che lo circonda, Michele mette in moto una ricerca inconscia di modelli
alternativi capaci di dare una risposta propositiva alle sue domande. E lo fa usando il
potere
dell’immaginazione,
identificandosi
in
personaggi
coraggiosi
e
contemporaneamente mettendo in atto un’identificazione/immedesimazione con Filippo,
che lo porta pian piano a sostituirsi a lui. Il romanzo e la sceneggiatura sono ricchi di
“assumed identities”, come le definisce John Walsh. Michele è infatti a seconda delle
circostanze l’Uomo Lucertola e l’Uomo di Vetro, quando è costretto per penitenza a
camminare sulla trave nella casa abbandonata e allora si auto-convince di avere poteri
soprannaturali (“lui era l’Uomo Lucertola e poteva anche camminare sui muri”), o
l’Angelo Custode di Filippo, identità che impersona quando va in soccorso del bambino
in pericolo di morte. Oppure s’identifica con un Sé alternativo che ripete continuamente a
se stesso “Io non ho paura”, come una formula magica, per affrontare i pericoli ed
esorcizzare le paure.73
73
Nel romanzo la figura ideale assume, invece, le sembianze di Tiger Jack, un eroe indiano dei fumetti che
Michele ammira particolarmente per il suo coraggio e il suo senso di giustizia. Michele cerca di essere
come Tiger Jack fino a trasformarsi letteralmente nella sua mente in lui (“Io sono Tiger”). Ma c’è di più.
Nel suo tentativo simbolico di essere come l’eroe, Michele disconosce il proprio padre inadeguato, e se ne
fornisce uno nuovo, immaginando di essere non già Tiger Jack in persona, bensì “il figlio di Tiger Jack”.
Ecco i brani dedicati a Tiger Jack nel romanzo: “Cos’avrebbe fatto Tiger Jack al mio posto? Non tornava
indietro neanche se glielo ordinava Manitù in persona. Tiger Jack. Quella era una persona seria. Tiger Jack,
l’amico indiano di Tex Willer. E Tiger Jack su quella collina ci saliva pure se c’era il convegno
internazionale di tutte le streghe, i banditi e gli orchi del pianeta perché era un indiano navajo, ed era
120
Le fantasie a cui ricorre Michele non servono solo a fornirgli un alter-ego
coraggioso, ma agiscono anche come un potente signifier per il conflitto tra padre e
figlio. Un aspetto del romanzo che il film non ha particolarmente sviluppato, infatti, è che
nella sua immaginazione infantile Michele dipinge il mondo adulto come un regno
popolato da “esseri deformi e spaventosi” (118): mostri, uomini neri, streghe, lupi
mannari, zingari e orchi che mangiano i bambini. Immagina, ad esempio, che Filippo sia
stato catturato da un orco e che nella casa abbandonata ci siano spaventose streghe
impegnate in messe nere notturne. Immagina, soprattutto, che i campi siano abitati da
giganti “fatti di terra e coperti di spighe” che di notte si svegliano e si trasformano in
minacciosi “signori della collina” (173-174). Le fantasie di giganti nella mente di
Michele non sono altro che la proiezione interna della figura del padre che, nella sua
rielaborazione psichica, egli dota di poteri onnipotenti caricandola al contempo di valenze
fortemente negative.
Michele affronta cioè quello che in The Hero With a Thousand Faces, Joseph
Campbell ha chiamato “the ogre aspect of the father”. “The ogre”, che in italiano ha
valenza di “orco”, “demone”, “mostro”, “drago” o appunto “gigante” rappresenta il
timore inconscio del padre che s’interpone fra il figlio e la sua libertà, che lo divora
(“Dovevo stare attento. Se un orco mi prendeva, buttava anche me in un buco e mi
mangiava a pezzi” 48) e che deve essere ucciso per spezzare il legame di
dipendenza/sudditanza tra padre e figlio. Qualunque forma assuma, “the ogre” è una
intrepido e invisibile e silenzioso come un puma e sapeva arrampicarsi e sapeva aspettare e poi colpire con
il pugnale i nemici. Io sono Tiger, anche meglio, io sono il figlio italiano di Tiger, mi sono detto” (48-49).
”Tiger Jack. Pensa a Tiger Jack. L’indiano mi avrebbe aiutato. Prima di fare una mossa, dovevo pensare a
cosa avrebbe fatto l’indiano al posto mio. Questo era il segreto” (200). “Cos’avrebbe fatto Tiger Jack al
posto mio? Li avrebbe massacrati con il suo Winchester e li avrebbe trasformati in salsicce da arrostire sul
fuoco” (204).
121
manifestazione simbolica dell’archetipo paterno che impedisce la realizzazione
dell’individuo, tarpandone il potenziale alla crescita e all’indipendenza.74 Nella
letteratura occidentale, come ci ricorda Gershon Reiter, è rappresentato dalla balena
bianca Moby Dick, la cui controparte cinematica è il pescecane di Spielberg ne Lo Squalo
(11). Nelle fiabe è generalmente un drago posto a guardia del castello che protegge tesori
e principesse imprigionate e che l’eroe deve uccidere per liberarli (e liberare se stesso). È
l’inadeguatezza del padre di Michele come modello positivo e propositivo di crescita a
dare via libera ai “giganti”. La cosa importante è che l’uccisione simbolica dei “giganti”
gli permette di sbarazzarsi del proprio padre interno e di diventare adulto.
Le forze psichiche che trasformano il padre in “gigante” si manifestano a livello
inconscio soprattutto nei sogni. E, infatti, dopo che il padre gli ha proibito di tornare al
nascondiglio, Michele sogna che i giganti si risvegliano, gli vengono addosso e lo
seppelliscono. Dopo il sogno, Michele trasgredisce alla proibizione del padre e si avvia
sul sentiero che porta alla casa abbandonata. Ma durante il tragitto, non può fare a meno
di sentire la sua voce intimidatoria che risuona come una minaccia per lui e per Filippo:
“Ascoltami bene. Se torni lì, lo uccidono” (174). Spaventato torna indietro, non senza
aver sperato, con preveggenza, di “passargli sopra la schiena a quei maledetti mostri”
(174). Non sorprende che i giganti tornino a popolare la sua mente durante la prova
finale, quando Michele decide di correre alla stalla in cui è rinchiuso Filippo per liberarlo.
Disobbedendo al padre (in quello che assume i contorni di un vero parricidio, avendo egli
giurato solennemente “sulla testa del padre” di non andarci più), Michele pedala
74
Questo archetipo è stato definito e rappresentato in vari modi, ma il suo ruolo è sempre lo stesso: è la
proiezione negativa del padre. In Finding Our Fathers, Samuel Osherson lo chiama ad esempio “the
wounded father” e lo definisce come: “the internal sense of masculinity that men carry around within them.
It is an inner image of father that we experience as judgmental and angry or, depending on our relationship
with father, as needy and vulnerable” (22).
122
terrorizzato nel buio, sentendosi addosso gli occhi dei mostri minacciosi: “E dietro
c’erano i signori delle colline, i giganti di terra e spighe che mi seguivano, aspettando
solo che finivo fuori strada per venirmi sopra e seppellirmi” (201); “Avanzavo veloce
respirando appena, e continuavo a gettarmi occhiate alle spalle. Temevo che l’artiglio
affilato di un mostro mi affondasse nel collo” (203). L’immagine interna del padre è
quella che Michele porta con sé mentre va in bicicletta a salvare l’amico: una forza
intimidatoria e oppressiva ed è chiaro che egli deve confrontarla ed “ucciderla” per
crescere.
Il momento decisivo giunge quando arriva alla stalla in cui è rinchiuso Filippo e si
trova di fronte proprio il padre. Per Michele, completare l’azione eroica e liberare il
bambino (e se stesso) implica scontrarsi frontalmente col padre, diventato infine il suo
diretto antagonista. L’importanza dello scontro diretto, per quanto violento in questo
caso, è fondamentale e non va sottovalutata: combattendo col padre, non solo Michele si
riconcilia con lui, ma cresce, diventa la figura genitoriale idealizzata, il se stesso adulto,
la figura a cui ispirarsi e su cui modellarsi ora. Ricordiamo che nelle fasi finali del film,
Salvatores rimpiazza i giganti della collina con una filastrocca scaramantica contro gli
animali notturni, ispirata dal Sogno di una notte di mezza estate di Shakespeare, che
Michele recita sotto voce a se stesso mentre pedala verso la stalla. Gli stacchi della
cinepresa sui primissimi piani di un gufo, una biscia e una rana durante il tragitto sono
espedienti tecnici della “soggettiva libera indiretta” che permette allo spettatore di
condividere il suo terrore (Paci 191). Anche “quei ragni pelosi”, “quei tassi barbassi”,
quelle “lumache bavose”, “quei ciechi orbettini”, a cui Michele impone di restare “lontani
dai nostri bambini” sono proiezioni della figura paterna che il bambino tenta di
123
esorcizzare.
Al di là dell’identificazione con gli immaginari modelli di coraggio che gli
permettono di uccidere i “giganti” paterni, la chiave narrativa della crescita di Michele è
però soprattutto nell’identificazione con Filippo. In questo discorso può esserci utile
ritornare per un istante al concetto del Nome del Padre Lacaniano. Figura carica di
valenze positivo-affettive, come abbiamo visto, il padre è l’ambasciatore della Legge, il
protettore che proietta il bambino verso l'ordine simbolico della lingua e della società.
Come ricorda ancora Romeo Lucioni, è un’entità simbolica ideale di perfezione,
riconoscibile come l’Altro, valorizzato e valorizzante. Rispecchiandosi nel padre, il
bambino riconosce se stesso “nel riflesso affettivo di sé nell’occhio dell’Altro. Questo
porta sicurezza, stabilità e senso di valere e di potere, oltre che di autoidentifcazione e
autosoddisfazione. Il Sé diventa ‘oggetto identificato e stabile’ che quindi non genera
[più] ansie e/o angosce” (Lucioni). È il cosiddetto meccanismo dello specchio: “Solo
l’avvento dell’Altro, dello ‘specchio’, permette di scoprire la ‘verità di sé’ e, quindi,
assumersi come oggetto integrato . . . stabile, sicuro e soddisfatto di sé. Lo specchio é
dunque un altro ‘nome del padre’” (Lucioni). Michele, tuttavia, non trova l’Altro nel
padre, bensì in Filippo. L’incontro con Filippo riempie il vuoto creato dalla forclusione
dell’Altro paterno e permette all’Io di ricomporre la sua unità e di rappresentarsi
finalmente come l’uomo adulto che vuole essere: coraggioso e forte, leale e giusto,
intraprendente e senza paura.
Quando Michele lo vede per la prima volta, Filippo è sporco, animalesco, quasi
cieco e urlante di paura. Perciò fugge via spaventato. Ma pian piano (l’avvicinamento fra
i due è lento e guardingo) il prigioniero diventa innocuo, per poi tramutarsi nel suo
124
“doppio”. Wendell Ricketts parla di “fotonegativo” l’uno dell’altro: infatti, Filippo è
biondo, delicato, angelico, viene dal Nord ricco, ma sta sottoterra, mentre Michele è
bruno, scuro, agile e viene dal Sud povero, ma sta su nel giallo dorato del grano. Il primo
delira con la fantasia perché vede il mondo come una serie di buchi con dentro se stesso
morto. E il secondo cerca di riportarlo faticosamente alla lucidità. A poco a poco però i
due bambini scoprono di non essere così diversi, anzi di essere “uguali”: hanno la stessa
età; fanno entrambi la quinta elementare; usano lo stesso linguaggio e le medesime
fantasie infantili nel rapportarsi agli adulti e tutti e due ricorrono all'immaginazione per
sopravvivere alle paure, entrambi rifugiandosi sotto una coperta o un lenzuolo.75
È interessante che il forte legame tra i due bambini cominci ad instaurarsi quando
si presentano l’un l’altro: “Senti, ma tu come ti chiami? Come si chiama tuo padre? Il
mio si chiama Pino. Pure il tuo si chiama Pino per caso? Io mi chiamo Michele”, “ti
chiami Filippo vero?” Soprattutto Michele, come mostra l’uso ridondante del verbo
“chiamare”, sente forte l’esigenza di dare un nome alle cose, perché non le comprende.
Ciò che non si comprende, si sa, spaventa. Dare un nome alle cose è perciò un primo
passo verso la conoscenza. Significa non solo imparare a pensarle, ma anche a
padroneggiarle per non averne paura. Secondo Jean Piaget “il pensiero precede il
linguaggio”, cioè quando il pensiero del bambino possiede un concetto, allora è in grado
di parlarne e di capirlo (La psychologie de l’enfant). Inoltre, il nome rimanda all’identità.
Dando il nome ad un individuo lo si distingue da tutti gli altri, gli si attribuisce
caratteristiche che lo rendono unico ed irripetibile. Avere un’identità porta Filippo, che
75
Le somiglianze fra i due sono molte: anche il padre di Filippo lavora lontano, in America, come vediamo
nel tema che Michele trova nella valigia di Sergio e che è presente solo nel romanzo (125). Anche suo
padre gli porta in regalo cose strane ed esotiche quando torna a casa. A livello di simboli, poi, nel film
vediamo che a casa di Filippo c’è un quadro con un veliero, mentre a casa di Michele c’è una gondola sul
televisore ecc. ecc.
125
all’inizio era simile ad un animale (quando beveva e mangiava faceva pensare a un cane),
a diventare umano e suscitare così la pietà da parte dell’amico e infine a rinascere (idea
rinforzata dal fatto di essere anche qui in un buco, contemporaneamente utero e tomba). E
porta Michele a declamare a Filippo con forza di auto-asservimento: “Io sono Michele.
Michele Armitrano”, passando così dall’essere “il figlio di Armitrano” (come lo definiva
Melichetti), “il figlio del Pino” (come lo apostrofava Sergio) e il “figlio a tuo padre”
(come lo canzonava Felice) ad essere finalmente soltanto se stesso. Autonominandosi
Michele produce una distinzione netta tra l’io “oggetto” e l’io “soggetto” del discorso.
L’avvicinamento graduale dei due bambini è esplicitato anche attraverso la
particolare tecnica di ripresa usata da Salvatores. Come indica lo studio di Guido
Bonsaver, all’inizio, anche quando i bambini sono insieme, non compaiono mai nella
stessa inquadratura. Salvatores usa riprese a soggettive parziali, in cui uno solo dei due è
visibile sullo schermo, mentre si intuisce la presenza dell’altro da lembi del vestiario o
della coperta. In una seconda fase, che coincide con l’ultimo incontro nel buco, Filippo è
filmato attraverso le gambe di Michele che sta in piedi davanti a lui. Ed è solo
nell’incontro successivo che l’inquadratura si allarga per diventare inclusiva di entrambi i
personaggi. Questa scena è, non a caso, quella in cui Filippo allunga la mano per toccare
il viso Michele, “riconoscendolo” come individuo e come amico. L’avvenuto sodalizio
fra i bambini è giustamente celebrato nella scena successiva in cui, usciti
temporaneamente dal buco, si rotolano felici e ridenti in mezzo al grano. E, infatti, nota
Bonsaver, qui la tecnica di ripresa è totalmente diversa, in quanto la scena è filmata in
gru, con tanto di plongée sopra le loro teste (“Raccontare all’’americana’” 67).
Fra Michele e Filippo si stabilisce così un senso d’interdipendenza. Michele lo
126
nutre, lo consola, lo fa uscire dal buco, lo fa tornare sorridere. Filippo, a sua volta, aiuta
Michele a crescere, a diventare coraggioso, a trasgredire le regole, e - cosa non meno
importante - gli permette “di allargare i suoi orizzonti di riferimento, per comprendere
storie . . . notizie e comportamenti, ben lontani dal microcosmo finora frequentato a
Acqua Traverse” (Tarino). Il sodalizio fra i due diventa pian piano un rapporto quasi
simbiotico. Salvatores rende i germi di questa simbiosi con l’espediente tecnico di
staccare diverse volte l’inquadratura dall’immagine di Michele (nel letto, a casa)
all’immagine di Filippo (per terra, nel buco). Una di queste scene è particolarmente
riuscita: dopo che Michele ha tentato di fare aprire gli occhi incrostati a Filippo, la
macchina da presa opera uno stacco dalla faccia di Filippo ad occhi chiusi a quella di
Michele che, lasciato il nascondiglio, pedala nel vento, anche lui ad occhi chiusi come
farebbe l’amico. A questo punto il senso d’immedesimazione è completo e i due bambini
sono diventati “reflective images of each other” (Kemp 47).
È interessante notare che nel rapportarsi a Filippo, Michele passa per le tre fasi
dello sviluppo psicosessuale del bambino descritte da Freud: orale, anale e fallica.76
All’inizio della loro relazione Michele si occupa di Filippo: usa i suoi risparmi per
comprargli il pane, si preoccupa se ha mangiato la fettina di carne, gli dà da bere quando
ha sete. Michele “gioca” a fare la madre con il bambino che dipende da lui per la sua
sopravvivenza: provvedere ai suoi bisogni primari caratterizza la fase orale della loro
relazione, che passa attraverso il cibo e che vede la bocca come la zona erogena
principale. La seconda fase, che inizia quando Michele scende nel buco (che è pieno di
escrementi), caratterizza la fase anale, quella in cui il bambino prova piacere nel passare e
76
Ho elaborato questa idea a partire dall’analisi fatta in da Gershon Reiter di E.T. the Extra-terrestrial di
Steven Spielberg, un film in cui il rapporto fra i due personaggi principali ha molti punti in comune con Io
non ho paura (in Fathers and Sons in Cinema, 117-120).
127
trattenere le feci. Attraverso la padronanza delle feci, il bambino acquisisce potere,
autoaffermazione e controllo. In questa fase, Michele prende possesso geloso di Filippo e
lo tratta come una cosa sua: lo tira fuori dal buco, lo rimette dentro, lo nutre e gli toglie il
cibo e, compatibilmente con la fase anale, vuole “tenersi” il bambino (“Era mio”). Questo
stadio di possesso viene sigillato da un patto: la promessa sacra che Michele tornerà
dall’amico. La terza fase è quella dello sviluppo fallico, in cui l’attenzione del bambino si
distacca dal rapporto madre/figlio e la sua libido si rivolge verso un oggetto esterno per
culminare nell’unione sessuale e nella conquista della mascolinità. Ci sono diversi
simboli di questa fase nel film. Uno di questi è la presenza di Barbara, la bambina che
Michele aveva salvato dalla penitenza e che in seguito gli propone di fidanzarsi con lei
(questo episodio c’è solo nel romanzo). Inoltre, Michele assiste ad un tentativo di
violenza sessuale da parte di Felice sulla propria madre, una vera e propria “scena
primaria” su cui indugia incuriosito per qualche secondo prima di intervenire. E infine,
lui e Filippo, usciti dal buco (cioè dalla fase anale), giocano e si rotolano nel grano come
amanti. Da questo momento in poi, e soprattutto dopo la proibizione del padre-castratore
di rivedere l’amico, vale a dire di esprimere la propria sessualità, Michele non smette di
pensare a Filippo e alla promessa che gli ha fatto. Inoltre, comincia a rendersi conto del
pericolo di morte che corre il bambino. Quando capisce che lo deve salvare, Michele
capisce anche che lo deve lasciare andare e abbandonando il desiderio di “tenersi” il
bambino, abbandona la fase anale, cresce, lotta con l’agente castrante e diventa uomo.
L’apoteosi della relazione simbiotica fra Michele e Filippo diventa evidente nel
finale del film. Arrivando alla stalla prima dei suoi aguzzini, Michele lo libera, gli salva
la vita, si sostituisce a lui e finisce quasi addirittura per morire al suo posto. Ed è proprio
128
il padre di Michele a impugnare la pistola che lo ferisce. Quando spara a Michele,
avendolo scambiato per Filippo, i due bambini non sono più soltanto “reflective images
of each other”, ma sono diventati una cosa sola. Nella caverna reale e metaforica in cui
avviene lo scontro, Filippo rinasce per mano di Michele. Ma anche Michele, dopo avere
“ucciso” metaforicamente il padre ed esserne stato a sua volta “ucciso”, rinasce come
individuo nuovo. Sono perciò entrambi artefici della rispettiva rinascita. Non è un caso
che nell’inquadratura finale, come ricorda lo stesso Salvatores (“I wanted the last glance
and, I guess, extension of parent, to be between the two children”, cit. in Goldstein 7),
Michele non rivolga lo sguardo al padre, bensì tenda il braccio verso l'amico,
riconoscendo in lui lo “specchio” e il riflesso di sé nell’occhio dell’Altro. La reciprocità
del loro sguardo rimpiazza il processo identificativo padre/figlio.
Per il suo forte impatto emotivo e perché si distanzia in qualche modo dal
romanzo, il finale è stato analizzato cospicuamente dalla critica. Philip Kemp ritiene che
sia un finale troppo coeso e consolatorio (il padre è pentito, Sergio si arrende, i bambini
sono salvi) e che il simbolismo religioso sia eccessivo, riducendo il film ad una “banal
fable of good triumphing over evil” (47). Anche Anthony Cristiano critica il finale,
definendolo “artificiale” e “calcolato,” perché i personaggi buoni e quelli cattivi si
ritrovano insieme, come nel Giorno del Giudizio, ad affrontare ricompense ed espiazioni.
Per Evan Williams, infine, il film assume i contorni di una “parable of sacrifice and
redemption” (B38), in cui bambino “salvifico” appare come una forza redentiva che
sconta i peccati degli adulti. Infatti, non solo Michele è una sorta di agnello sacrificale,
ma Filippo è chiaramente una presenza angelica, quasi una figura Christi, che riappare in
una veste bianca per offrirsi in sacrificio all’amico e, “resuscitando” (illuminato da dietro,
129
il bambino sembra proprio emergere dalle tenebre), salva l’umanità.
Fig. 16
Non è da sottovalutare, però, l’aspetto morale/educativo delle sequenze finali che
sembrano impartire una lezione precisa: cioè che laddove fallisce la morale degli adulti,
opera invece quella dei bambini. Alla fine, anche il padre di Michele sembra aver
imparato questa lezione e il suo abbraccio al figlio ha un valore di riconoscimento della
superiorità morale del bambino sull’adulto, e in generale, dei figli sui padri. Paul Sutton
riconosce quest’aspetto del film, definendo Michele come “a bearer of a morality” che
agisce come agente stabilizzatore, bilanciando l’immoralità degli adulti (357). Secondo
schemi collaudati nella rappresentazione dell’infanzia al cinema (pensiamo a Bruno in
Ladri di biciclette o a Pricò ne I bambini ci guardano), quindi, Io non ho paura presenta il
bambino come fonte di saggezza da trasmettere all’adulto. Il suo compito è quello di
istruire l’adulto e (ri)educarlo ai giusti valori che ha perduto sostituendo un nuovo codice
morale a quello “deviato” degli adulti.
Ed è nel finale che si ritrova, se vogliamo, anche un tema politico o quanto meno
sociale. Con la simbolica unione fra Michele e Filippo, come scrive Laura Guglielmo
nella sua recensione, “si unificano due volti, quello del nord e quello del sud italiani, si
uniscono l’alta borghesia e il proletariato, si avvicinano due bambini, simbolo della parte
130
più pura e vera di un paese dalle mille contraddizioni”. Allora i bambini, diventati “due in
uno”, sono un richiamo a ritrovare i valori essenziali dell’esistenza, della convivenza
sociale e della legalità, al di là dei particolarismi locali e di classe. A loro, che
“rinascono” sulle rovine della devastazione morale provocata dai dis-valori mafiosi, è
affidato il compito della rigenerazione. Possono essere cioè il simbolo della rinascita
della società che, nello specifico, e soprattutto in chiave antimafia, deve riemergere unita
dai traumi causati dalla criminalità organizzata, e unita deve combatterla. Questa unione
simbolica fa eco alle riflessioni di Antonio Gramsci sulla natura redentiva dell’alleanza
fra Nord e Sud Italia in Alcuni temi della questione meridionale (1935). Michael O’Riley,
che ha avuto per primo l’intuito di proporre questo parallelo, ricorda come Gramsci
auspicasse un’unione del Nord (operaio) con il Sud (agricolo) per arrivare ad una
rigenerazione economica e politica del paese. Un potenziale, come sappiamo, irrealizzato
che si manifesta però a livello simbolico nel film attraverso l’unione dei due bambini.
Anche se, come precisa O’Riley, i due si tendono la mano senza raggiungersi, andando a
sottolineare il fallimento del processo di unione e di redenzione morale auspicato da
Gramsci (344), il gesto rimane però importante come punto di chiusura del film e invita
alla speranza.
Michele diventa il simbolo eroico di questa possibile rigenerazione. Come
Peppino ne I cento passi, anche Michele va contro la famiglia e si oppone alle scelte
criminali impostegli dal padre. Il dramma che sperimenta di fronte a un evento grave
come il sequestro di persona non lo rende passivo, anche in senso Deleuziano, anzi, come
nota Paul Sutton “Michele’s curiosity transforms him from passive ‘optical witness’ to
physical rescuer” (358). Senza essere un eroe come fu, suo malgrado, Peppino, Michele
131
dimostra come, in una situazione estrema, persone ordinarie (e come lui inadeguate e
impaurite) riescono a compiere azioni valorose per fare quello che profondamente
intuiscono come giusto. Così, attraverso l’esempio di Michele, lo spettatore è chiamato
alla responsabilità civile, incoraggiato a venire a patti con il periodo storico e la ferita
inflitta dalla mafia sulla società: aspetti, questi, messi sì sullo sfondo dal regista, ma non
totalmente cancellati. Ed è interessante ricordare, per finire, che nel romanzo Niccolò
Ammaniti aveva strizzato l’occhio al Neorealismo attraverso un sottile riferimento alla
Resistenza (l’ha notato Michael Dibdin). In particolare, aveva descritto il momento in cui
Michele accorre a salvare il cane che Barbara cerca di annegare in un torrente, mentre
canticchia le parole della canzone partigiana: “Bella ciao”. Con la crudeltà sull’animale,
la bambina rappresenta la crudeltà che gli abitanti di Acqua Traverse stanno perpetuando
sul bambino e per estensione tutti gli orrori compiuti dalla mafia sulle vittime innocenti.
Ispirato (forse) dalla canzone, Michele accorre per salvare il cane, come farà in seguito
con Filippo. Allora, lo scrittore sembra rammentare, seppur per la durata di qualche breve
paragrafo, che la Storia, senza essere al centro della narrazione, è tuttavia presente e
invita lo spettatore all’azione, anche quando dalla sua prospettiva “bassa” - lontana da
quella ufficiale - gli eventi sembrano difficili da comprendere fino in fondo.
132
CAPITOLO TRE: BAMBINI VITTIME DELLA MAFIA
“Che non debbano ancora aspettare
i bambini morti di mafia
per riposare.”
Luciano Violante, Cantata per la festa
dei bambini morti di mafia, 1994
I. Introduzione
I due film analizzati in questo capitolo, ovvero Placido Rizzotto (2000) di
Pasquale Scimeca e Alla luce del Sole (2005) di Roberto Faenza, rappresentano
situazioni in cui viene posto il dramma dei bambini uccisi dalla mafia. Lo stereotipo di
una vecchia mafia “buona” che non uccideva donne e bambini, opposta ad una nuova
mafia spietata anche nei confronti dei più indifesi, è difficile da sradicare, alimentato in
parte dagli stessi membri dell’“onorata società”, ma smentito di fatto da tutte le analisi
storiche e sociologiche sulla mafia. “La mafia buona non è mai esistita, se non nella
fantasia di Buscetta”, ha scritto Anna Puglisi (77), evidenziando il fatto che nella sua
lunga scia di sangue la mafia non ha mai risparmiato donne e bambini. Anzi, come hanno
dimostrato diversi studiosi, le giovani vittime della mafia sono state numerose nel corso
degli anni. Umberto Santino, ad esempio, ha documentato come, fin dai primi del
Novecento, nei conflitti fra clan fossero massacrate intere famiglie, inclusi i bambini. Ne
L’altra Sicilia, Santino ha riportato le storie di alcune di queste piccole vittime della
mafia, includendo vicende tristemente note, come quella di Giuseppe Di Matteo,
strangolato e disciolto nell’acido per una vendetta trasversale nel 1996, ma anche molte
vicende di bambini “anonimi” e sconosciuti.77
“I bambini uccisi dalla mafia sono per lo più vittime senza memoria, le
77
Rimando inoltre agli studi di Enzo Catania, Anna Puglisi, Renate Siebert e Isaia Sales.
133
commemorazioni dell’antimafia non li ricordano quasi mai, né individualmente né
collettivamente”: così scrive il neuropsichiatra infantile Renato Scifo, che ha operato per
anni presso la Asl di Catania. Eppure, le piccole vittime dimenticate della mafia non sono
solo coloro che vengono uccisi. Anzi. Come precisa lo stesso Scifo: “Ancora più
drammatica [è] la dimenticanza nei confronti di quei bambini o ragazzi che sopravvivono
e che, proprio per questo, io definisco le vittime assolute” (49). Bambini costretti a
crescere in realtà di grande degrado ambientale e culturale, spesso confinati nel perimetro
ristretto di quartieri-ghetto e addestrati alla violenza come unica arma di sopravvivenza.
Bambini che vengono su con ideali e valori sbagliati, senza modelli di riferimento
positivi e sui quali la mafia esercita, senza incontrare particolari resistenze, una vera e
propria “violenza formativa” - come l’ha definita don Luigi Ciotti, aggiungendo: “Questi
ragazzi non sono liberi di scegliere, di crescere, di imparare: la fama del boss, la
promessa falsa di soldi “facili”, di potere, di un rispetto guadagnato con la sopraffazione,
sono il loro unico orizzonte culturale”.78 Marco Bouchard, magistrato e giudice minorile,
ha richiamato l’attenzione sulla drammaticità di questo fenomeno, avvertendo che: “Chi
si limita a pensare alla mafia nei suoi aspetti economici, politici, criminali e sociali e non
coglie la profondità del suo marchio emotivo sulle vite di queste piccole vittime, rischia
obiettivamente di concorrere alla tragedia che le consuma” (cit. in Scifo 66).
La rappresentazione della morte del bambino è un soggetto poco adatto al cinema,
come ha osservato John Thompson nel suo articolo: “Reflexions on Dead Children in the
Cinema and Why There Are Not More of Them”, sostenendo che la morte del bambino è
78
Don Ciotti è un sacerdote ed è il fondatore dell’Associazione “Libera” che si occupa di lotta antimafia.
Questo discorso si è tenuto il 10 novembre 2008, in occasione dell’inaugurazione del giardino intitolato
proprio a Giuseppe Di Matteo, nato sui territori dove il bambino venne ucciso ("Mafia: don Ciotti, da
sacrificio bambini può nascere riscatto", notizia ANSA, riportata sul sito dell’Associazione).
134
sempre un fatto remoto, innaturale ed inaccettabile, perché il bambino non è mai
abbastanza “anonimo” per morire e neppure troppo cattivo per meritare la morte (210).
Se esiste la morte del bambino al cinema è qualcosa che l’autore chiama “dying for the
narrative”, cioè una morte per così dire “facile”, costruita per scopi narrativi, in cui il
bambino non è un personaggio molto sviluppato “antropomorficamente” ma una funzione
narrativa (porta l’esempio della figlia di Scarlett in Via col Vento (212). I film di questo
capitolo affrontano, invece, direttamente la morte del bambino, sviluppandolo come
personaggio di un certo rilievo e dandogli anche una funzione importante nell’impianto
narrativo, vale a dire quella di martire. Il film di Scimeca, Placido Rizzotto, mette in
scena la storia vera di Giuseppe Letizia, ucciso nel 1948 per aver assistito
involontariamente alla morte del sindacalista Placido Rizzotto. I protagonisti di Alla luce
del sole, invece, sono i bambini del quartiere Brancaccio di Palermo che, cresciuti con
l’ombra minacciosa della mafia, ne patiscono condizioni di vita distorte e violente. Don
Puglisi, anche lui figura realmente esistita, dedica i suoi ultimi anni di vita a strapparli
alla delinquenza, mentre uno di loro, Domenico, si toglie la vita per la disperazione.
In entrambi i film, i bambini non sono più potenziali intrusi che cercano di
ritagliarsi un posto all’interno della mafia, né potenziali esclusi che lottano per uscirne.
Essi sono osservatori, cioè recipienti passivi della violenza mafiosa. In tal senso, il
pastorello di Placido Rizzotto è la vittima per eccellenza. Semplice e indifeso, è il
bambino Rousseauiano naturalmente innocente, testimone muto e inconsapevole della
barbarie mafiosa, e perciò vero agnello sacrificale. Ma sebbene non periscano tutti sotto i
colpi della barbarie omicida e non lo siano dunque in senso proprio, anche i bambini di
Alla luce del sole sono delle vittime, anzi, per dirla con Scifo, delle “vittime assolute,”
135
privati come sono di un’infanzia normale ed emotivamente segnati dall’azione corruttiva
della mafia. La loro presenza corale nell’impianto filmico pone in evidenza il problema a
livello collettivo e generazionale. Questi bambini rappresentano un’intera generazione di
vittime incolpevoli della mafia, il cui dramma è anche nel pericolo di essere dimenticati.
Così, mentre focalizzano l’attenzione sulle figure eroiche di Placido Rizzotto e don
Puglisi, i due film si propongano anche di porre rimedio a questa dimenticanza.
L’“impulso memorialistico” di cui parla Millicent Marcus non riguarda, infatti, soltanto
Rizzotto e don Puglisi, alla cui memoria i film sono dedicati, ma anche gli stessi bambini,
tanto più facili da dimenticare quanto più marginale è il loro ruolo rispetto all’eroe e alla
storia esemplare raccontata.
È interessante, a questo proposito, che nella rappresentazione dell’eroe, entrambi i
film propongano elementi della vita di Cristo come leitmotiv parallelo al tema principale
e che affianchino alla figura di martire “eccellente” quella “anonima” del bambino, anche
lui rappresentato come figura Christi. Nel subire il martirio per mano della mafia, e
nell’ottica Girardiana dell’“avvento messianico”, necessario secondo il filosofo francese
al superamento della società violenta, il bambino innocente (elemento sacrificale per
eccellenza) si associa all’icona dell’eroe morto per redimere i peccati dell’umanità.
Entrambi i film si rifanno, inoltre, più o meno esplicitamente, all’opera di Elio
Vittorini per la rappresentazione del popolo siciliano come genere umano “offeso”. Con
le loro vite vissute fra stenti e sopraffazioni, i siciliani di Placido Rizzotto e Alla luce del
sole rimandano a quelli di Vittorini oppressi sotto il fascismo e la loro lotta di resistenza
alla mafia si configura negli stessi termini della lotta partigiana contro la dittatura
fascista. Amy Boylan ha fatto osservazioni simili sul film di Scimeca, tracciando un
136
parallelo tra gli eroi comuni della Resistenza e il personaggio di Placido Rizzotto (che tra
l’altro era stato un partigiano, ma lo stesso discorso può essere fatto anche per don
Puglisi), entrambi votati a portare riscatto a un popolo oppresso, rischiando persino la
propria vita. Il loro progetto di liberazione dal Male assume a volte i contorni di un
“sogno” (così si esprime, infatti, don Puglisi parlando al vescovo di Palermo) o
dell'utopia (utopico appare il progetto di Placido sin dal suo arrivo a Corleone),
all’apparenza impossibile da realizzare, ma che, come vedremo, troverà proprio nei
bambini il suo elemento catalizzatore.
137
I. Placido Rizzotto
La presenza del bambino è piuttosto secondaria nell’impianto narrativo del film di
Pasquale Scimeca, il primo film sulla mafia ideato e diretto da un regista siciliano. Al
centro della vicenda spicca la figura del sindacalista Placido Rizzotto, assassinato dal
boss Luciano Liggio nel 1948. Aderendo alla tendenza dei film di mafia degli anni
novanta definita “celebrativa” da Vittorio Albano e “memorialistica” da Millicent
Marcus, il regista rende omaggio al sacrificio di un uomo comune che lottò contro la
mafia pagando il proprio impegno con la vita. La vicenda di Placido Rizzotto s’inserisce
in quella più ampia dei movimenti contadini del dopoguerra in Sicilia che rivendicavano
il diritto alle terre incolte, scontrandosi con gli interessi della classe agraria e delle
famiglie mafiose, rimanendone spesso uccisi.79 A fronte delle scarse informazioni
esistenti su Placido Rizzotto, Scimeca si è documentato proprio sulla storia dei
movimenti contadini e sulla vita degli altri sindacalisti morti in quell’anno per ricostruire
la storia di Rizzotto. Inoltre, il regista ha fatto ricorso agli atti processuali ed ai verbali
degli interrogatori condotti dall’allora capitano dei carabinieri Carlo Alberto Dalla
Chiesa. Il film richiama così esplicitamente ai “film-inchiesta” di Francesco Rosi, in
particolare a quel Salvatore Giuliano che sin dal titolo (il semplice nome e cognome) è un
punto di riferimento costante. L’ispirazione a Salvatore Giuliano diventa maggiormente
evidente nella seconda parte del film, quando Scimeca fa uso della stessa tecnica
narrativa di Rosi che mira a ricostruire le tappe dell’omicidio attraverso una serie di
79
Nel triennio che va dal 1945 al 1948 morirono per mano della mafia un elevato numero di agricoltori,
braccianti, consiglieri comunali di sinistra e più di quaranta sindacalisti che aiutavano i contadini a
organizzarsi e a occupare le terre. Soltanto nel 1948 furono uccisi, oltre a Placido Rizzotto, Vincenzo
Campo, Epifanio Li Puma e Calogero Cangelosi, a distanza di pochi giorni l’uno dall’altro. È del 1955,
invece, la morte di Salvatore Carnevale. Per notizie più dettagliate sui movimenti contadini in Sicilia si può
consultare il testo di Maurizio De Vitis, Riforme agrarie e movimento contadino nel Mezzogiorno d’Italia
(1944-1950).
138
flashback. Le dichiarazioni rese dai testimoni interrogati da Dalla Chiesa fanno emergere
diverse versioni del delitto in un avvicinamento graduale alla verità, il che conferisce al
film un punto di vista che Millicent Marcus ha definito “corale” (“In Memoriam” 294).80
Ai margini di questo solido impianto narrativo costruito intorno alla figura storica
di Placido Rizzotto, si muove quella secondaria del pastorello Saro, il “tragediato” (così è
chiamato in Sicilia chi assiste a un delitto di mafia). Anche il personaggio di Saro è
realmente esistito: la sua vicenda si rifà a quella del pastore tredicenne Giuseppe Letizia
che fu involontario testimone dell’omicidio di Rizzotto mentre di notte accudiva il gregge
in montagna. Giuseppe svenne per il terrore. Il giorno seguente fu trovato in stato di
shock dal padre che lo condusse all’ospedale “Dei Bianchi” di Corleone, diretto dal noto
capomafia Michele Navarra. Il ragazzino delirava e raccontava di un contadino
assassinato nella notte. Il giorno dopo Giuseppe morì, ufficialmente per tossicosi, ma
probabilmente ucciso con un’iniezione somministratagli dal dottor Dall’Aria, il quale
subito dopo chiuse lo studio e fuggì in Australia. Se per Placido Rizzotto l’atteggiamento
iniziale comune a gran parte dell’opinione pubblica fu quello di minimizzare le cause
dell’omicidio (ritenuto di matrice passionale) e il fatto stesso fu dimenticato dalla storia
ufficiale,81 del piccolo Giuseppe Letizia si parlò soltanto di sfuggita. Qualche giorno
dopo la sua morte, il giornale La voce della Sicilia ne ipotizzò l’avvelenamento, ma della
sua storia non resta memoria.
La presenza del pastorello Saro nell’economia narrativa del film non deriva solo
80
Elio Girlanda ha scritto invece: “Questa scelta offre, tra l’altro, un’ottima lezione demistificatrice sui
diversi livelli di lettura dei fatti di mafia, possibili ancor oggi, soprattutto dai media e dai politici ambigui
che si muovono tra falsità e verità, omertà e indifferenza, comprensione e oblio” (155).
81
Scimeca ha confessato in un’intervista: “Le difficoltà più grosse nella realizzazione del film sono state
nella fase della preparazione. È stato difficile soprattutto trovare i fondi: ci rispondevano che Placido
Rizzotto era una storia troppo vecchia e che quel personaggio non lo conosceva nessuno”(“Intervista su
Placido Rizzotto”, corsivo mio).
139
da un’esigenza di aderire ai fatti reali. Ciò che caratterizza Saro è di essere la vittima
innocente, crollata per la corruzione della società. In questo senso la sua figura, oltre ad
essere il simbolo dell’innocenza contro la barbarie mafiosa, è accostata a quella di
Placido Rizzotto in una sorta di reduplicazione del martirio portata avanti da tutto il film.
L’accostamento fra i due personaggi è piuttosto evidente: anche Placido da bambino è
rappresentato come un pastorello lasciato solo all’imbrunire a badare al gregge (e il suo
pianto di paura anticipa il terrore di Saro). Anche Placido, da giovane soldato, fu
testimone impotente di un delitto atroce: l’impiccagione dei partigiani sui monti della
Carnia, che lo lasciò sconvolto. Morendo assassinato per mano della mafia, Saro subisce
lo stesso tipo di martirio di Placido. E come Placido è delineato nel film quale figura
Christi. Così come il martirio di Placido Rizzotto rappresenta quello di tutti i sindacalisti
uccisi (è questo il senso delle due liste di nomi recitati ad alta voce nel film, una da
Placido stesso e l’altra dal suo successore Pio La Torre, in una sorta di “mappatura”
storico-geografica delle vittime di mafia), così Saro rappresenta tutti i bambini ammazzati
dalla mafia, per cui non esistono elenchi ufficiali o commemorazioni: sfuggita ai clamori
della cronaca, la loro tragedia è ancora più nascosta, dimenticata dalla storia.
Si è detto che il film di Scimeca costituisce una sorta di pietra tombale per Placido
Rizzotto che non ebbe mai una sepoltura: solo un anno dopo l’omicidio, i suoi resti
furono recuperati in una foiba e a tutt’oggi risultano smarriti negli archivi del tribunale di
Palermo.82 Più esattamente, Millicent Marcus ha parlato del film come avente il valore di
82
I resti di Placido potrebbero anche trovarsi presso la Corte di Cassazione di Roma. Recentissimi articoli
apparsi sul Giornale di Sicilia hanno riportato le parole di alcuni esponenti della CGL italiana come
Maurizio Calà e Dino Paternostro che hanno fatto appello alle forze dell’ordine e alla magistratura per il
recupero del corpo di Rizzotto, come “modo per affermare verità e giustizia e onorare la memoria di un
martire della libertà” (28 novembre 2010). Eppure quest’appello non ha trovato molta eco sul resto della
stampa italiana. È interessante, invece, il clamore suscitato nell’ottobre dello stesso anno dal ritrovamento
delle ossa di Salvatore Giuliano nel cimitero di Montelepre, e recuperate per scoprire se fossero compatibili
140
una “cinematic tomb inscription” (292), accostandolo ad altri film “epitaffici” come I
cento passi e Alla luce del sole, designati cioè a ricordare le gesta di personaggi
coraggiosi per trasmettere un’eredità d’impegno civile. Benché Giuseppe Letizia ottenga
una degna sepoltura ed un risarcimento sotto forma di giustizia vendicativa (il suo
assassino Dall’Aria fu a sua volta ucciso in Australia), anche per il bambino il film si
pone ad epitaffio commemorativo, segno tangibile ed incancellabile contro l’oblio che ne
accompagnò la fine. La spinta “memorialistica” di cui parla Millicent Marcus a proposito
del film riguarda cioè anche la figura “anonima” di Giuseppe Letizia, tanto più facile da
dimenticare quanto più secondario è il suo ruolo rispetto all’eroe. Significativo, a questo
proposito, è il fatto che nel film il capitano Dalla Chiesa cerchi di ricomporre non solo le
tappe dell’omicidio del sindacalista, ma è intenzionato a scoprire anche i motivi nascosti
dietro alla misteriosa morte del bambino.
L’idea della testimonianza diretta (il pastorello testimone del delitto, il giovane
Placido testimone dell’impiccagione, i corleonesi testimoni delle ultime ore del
sindacalista) è portata avanti dalla stessa cornice strutturale del film, la quale propone una
narrazione degli eventi effettuata da chi li ha vissuti in prima persona, cioè il padre di
Placido Rizzotto, Carmelo. Scimeca “recupera forme arcaiche e pre-cinematografiche”
(Morreale 26-27), affidando al vecchio padre il ruolo di un cantastorie come quelli che si
vedevano all’opera nelle piazze siciliane fino alla fine del secolo scorso.83 Alla maniera
dei cantastorie, il vecchio mostra a un pubblico costituito prevalentemente da bambini un
lenzuolo colorato in cui sono raffigurati i momenti salienti della vita del figlio. Gli undici
con i resti del bandito. Anche a distanza di anni, il mistero che avvolge la fine di un bandito rimane dunque
più avvincente della storia esemplare di un coraggioso sindacalista.
83
Scimeca ha confidato in un’intervista di aver avuto spesso occasione di vedere i cantastorie da bambino,
quando arrivavano nel suo paese d’origine, Aliminusa, in provincia di Palermo (cit. in Girlanda 153).
141
quadri disegnati prendono vita ad uno ad uno, mentre i personaggi si animano nel
racconto del vecchio. A proposito di questa strategia, che intelligentemente Scimeca ha
ricavato dallo stesso retroterra culturale messo in scena dal film, Millicent Marcus ha
parlato di una cornice narrativa di tipo “antropologico”, che serve al regista per introdurre
il film come un racconto orale e presentare il personaggio come un eroe leggendario
(294). Roberto Escobar ha parlato invece di un’“epica popolare”, il che richiama alla
memoria le chansons de gestes, antenate tra l’altro di un’altra forma artistica tipicamente
siciliana: il teatro dei pupi. Il film risente dell’influenza di questa tecnica in ogni ripresa,
non soltanto perché ogni nucleo narrativo si sviluppa con la linearità del racconto
popolare (e il montaggio avviene per scene più che per inquadrature), ma anche perché,
come osserva Alessandro Gambino: “Gli attori davanti alla macchina da presa
cominciano a recitare sempre dopo qualche secondo dall’inizio dell’inquadratura, come
se prendessero vita d’improvviso, allo stesso modo in cui . . . si animano le figure delle
scene dipinte nei teloni del cantastorie.”
Ad accentuare l’aspetto mitico della vicenda raccontata concorrono diversi
elementi visivi e narrativi. Innanzitutto, proprio il padre di Placido, dai capelli e barba
lunghi, bianchissimi, e il volto scavato dai segni del tempo, sembra avere un'età
indefinibile (Carmelo Rizzotto dovrebbe avere superato i cent’anni se fosse stato vivo
agli inizi di questo secolo).84 Mitico è anche il tono con cui inizia il racconto: nonostante
precisi la data e il luogo in cui la storia ha inizio (il 20 ottobre 1945 a Corleone), le
locuzioni temporali (“a quei tempi”) e la ripetizione della forma verbale “c’era” (“c’era
fame, c’era miseria, c’era disoccupazione, c’era chi possedeva tutte le terre e chi non
84
Anche Amy Boylan osserva che il vecchio cantastorie è una figura senza tempo, quasi di un altro mondo:
“He also serves as an iconic, folkloric figure . . . He is a sort of timeless, otherworldly presence” (315).
142
aveva niente”) ci introducono in una dimensione di favola antica. Anche lo scarto
temporale contribuisce all’atmosfera epico-leggendaria: siamo nel presente, ma
ascoltiamo una storia accaduta in un passato lontano. Nella tradizione delle storie narrate
dai cantori in piazza, ricorda Roberto Escobar, “l’eroe di cui si celebrano le gesta viene
da un passato ancor più remoto di quello in cui quelle gesta accaddero. C’è insomma un
tempo prima del tempo che fa dell'eroe un eroe.”
I personaggi della vicenda sembrano appartenere a loro volta ad un’epoca lontana,
cristallizzati come sono su ogni quadro del cartellone illustrato. Il cantastorie li introduce
ad uno ad uno, chiamandoli per nome e cognome, mentre prendono vita passando dal
disegno all’inquadratura sulla piazza di Corleone. Da un lato della piazza c’è Placido
Rizzotto, insieme ai compagni sindacalisti. Dall’altro vediamo i “galantuomini” a capo
delle famiglie mafiose, fra cui Pasquale Criscione (amico d’infanzia di Rizzotto),
Luciano Liggio e il capomafia Michele Navarra. Anche in questo caso, malgrado
l’individuazione precisa dei personaggi, siamo di fronte ad una schematizzazione al
limite del fiabesco, a cui contribuiscono anche l’uso dei soprannomi (Liggio è “’u
Sciancato”) e la chiara delineazione dei ruoli fornita dal cantastorie, che divide
immediatamente i personaggi in “buoni” e “cattivi”, oppressi e oppressori. Come nota
ancora Roberto Escobar, la piazza ha il valore di un “gran teatro,” un “palcoscenico
ideale”,85 in cui Scimeca mette in scena la lotta fra il Bene e il Male in schieramenti ben
distinti, contrapponendo fin dall’inizio il protagonista Placido e l’antagonista Liggio:
l’uno nobile e affascinante, l’altro fisicamente deforme e ambiguo. Al paragone teatrale
testimoniano anche la presenza del “coro”, costituito dai poveri contadini di Corleone che
85
Anche Scimeca ha usato questo termine di paragone, dicendo che “Corleone diventa il palcoscenico, il
grande teatro dell’umanità derelitta. E la recita non può che finire in tragedia” (cit. in Girlanda 152).
143
osservano silenziosi in disparte, e la recitazione in uno stile fortemente visivo, antinaturalistico, appunto teatrale.86
Non soltanto l’impostazione fornita dal cantastorie, ma lo stesso prologo del film
contribuisce a dare alla vicenda una dimensione spazio-temporale mitica. La sequenza
iniziale mostra Placido da bambino presso una casupola di pastori, circondata da un
silenzio irreale, che sembra voler esprimere la solitudine e la remota distanza del luogo.
La seconda sequenza, in dissolvenza incrociata sulla prima, si apre sulla corsa disperata
di Placido, divenuto soldato, verso il posto in cui i quattro partigiani stanno per essere
impiccati sui monti della Carnia. Come osserva Francesco Bolzoni, entrambi i luoghi
sono identificati “come luoghi non realistici in senso stretto”: la Sicilia è raffigurata come
una landa deserta, “arcaica, distanziata” (57) (l’immagine della casupola isolata,
inquadrata in campo lungo, è metonimia per la Sicilia stessa: richiama ciò che dal campo
viene escluso ma che da quel momento in poi sarà presente nella percezione mentale
dello spettatore), mentre la Carnia è facilmente confondibile con qualsiasi altro luogo
impervio e montagnoso.
Anche il personaggio di Placido in queste prime scene è circondato da un alone
mitico. I “quadri” che lo riguardano includono tutta una serie di elementi che vanno a
precisare la dimensione leggendaria dell’eroe: il ritorno per mare dopo la battaglia,
l’approdo sulle sponde dell’isola, l’addio ai compagni di viaggio, l’arrivo a piedi a
Corleone, la sosta sulla collina che domina la piana sottostante e infine le braccia alzate al
cielo in segno di vittoria o di speranza. Emergono presto, tra l’altro, la natura malinconica
di Placido, l’urgenza dei “nuovi doveri” vittoriniani, da compiere, che si manifesta in
86
Molti critici hanno notato questo stile, in particolare Elio Girlanda e David Rooney. Quest’ultimo ha
parlato di un “almost theatrical, non-naturalistic register for the actors” (18).
144
quella cosa che lo tormenta “qua dentro lo stomaco” (così confida alla fidanzata Lia) e lo
spirito estremo di sacrificio: tutte caratteristiche principali dell’eroe. Ad accentuare
l’alone mitico che lo circonda, il Rizzotto di Scimeca non ha un elevato spessore
psicologico. Persino l’identità politica (era membro del Partito Socialista) gli viene
sottratta dal regista che, per sua ammissione poco interessato alle sigle di partito, lo fa
aderire ad una sinistra anonima, sollevando per questo forti polemiche da parte dei
socialisti all’uscita del film.87
È evidente allora che, nonostante il richiamo a Francesco Rosi e malgrado la
precisa collocazione storica della vicenda e dei personaggi, il film di Scimeca non tende
al documentarismo. Al contrario, il personaggio e le situazioni sono decontestualizzati e
trasferiti in un contesto universale. “Cercavo - dice il regista - di andare oltre il realismo,
intendendo la storia come metafora del povero che lotta contro [i potenti], in Sicilia ma
anche altrove” (cit. in Porro 29). È la stessa tecnica usata da Vittorini, citato non a caso
nella didascalia iniziale del film che legge: “Ad evitare equivoci o fraintendimenti
avverto che la Sicilia che inquadra e accompagna questo film è solo per avventura Sicilia;
solo perché il nome Sicilia suona meglio del nome Persia, Venezuela, Brasile o Messico”.
Così recita notoriamente anche la postfazione di Conversazione in Sicilia (1941), a
ricordarci appunto che il racconto potrebbe essere ambientato ovunque, in qualsiasi altra
parte del mondo. Come nel romanzo di Vittorini, anche qui, la Sicilia trascende le
coordinate geografiche per essere solo uno spazio allusivo di terra “offesa”. Allo stesso
87
In particolare hanno protestato Emanuele Macaluso e l’allora ministro Ottaviano Del Turco, il quale si è
lamentato sul Corriere della sera dicendo che si era ignorato il fatto che Placido Rizzotto fosse socialista e
precisamente: “uno dei 29 socialisti uccisi dalla mafia in Sicilia” (16 ottobre 2000). Salvatore Parlagreco ha
scritto che c’è stato: “Un oscuramento che tradisce la verità storica e non rende onore alla passione,
dedizione, coraggio, dirittura morale e spirito di libertà di tanti giovani siciliani.” A causa delle polemiche,
l’uscita del film è stata anche bloccata in alcune sale cinematografiche siciliane.
145
modo i contadini corleonesi sono i rappresentanti di tutto il “genere umano perduto” e la
vicenda di Placido, pur con le sue lotte concrete da contadino prima e da sindacalista poi,
si dipana come una “universale parabola di resistenza politica” (Finesi 16). La citazione
da Conversazione in Sicilia permette di creare una simmetria fra la situazione sociopolitica descritta da Scimeca e quella descritta da Vittorini. L’ha fatto per esempio Amy
Boylan, scrivendo: “By quoting Vittorini, Scimeca draws a parallel between the neglect
and suffering that the Sicilians experienced under Fascism (and before it) and their
similar fate at the mercy of the Mafia” (312). Non solo questi contadini sono sottomessi
mafia sono come i siciliani/gli italiani oppressi sotto il fascismo, ma la loro lotta alla
mafia rimanda alla Resistenza e il ruolo di Placido, essendo lui sia partigiano sia attivista
antimafia, “reinforces his relevance to Italian collective identity and strenghtens his
position as a bridge between past and present” (313).
Se per la rappresentazione dell’umile che lotta contro i soprusi dei potenti,
Scimeca si è ispirato a Vittorini, numerose sono le ispirazioni letterarie per
l’impostazione cristologica data alla figura del sindacalista. In particolare Scimeca si è
rifatto alla ballata popolare: “U lamentu pi la morti di Turiddu Carnavali” (1956) del
poeta siciliano Ignazio Buttitta e al romanzo di Carlo Levi Le parole sono pietre (1955),
dedicati entrambi ad un altro sindacalista ucciso dalla mafia nel 1955, Salvatore
Carnevale. Le storie di Carnevale e Placido Rizzotto sono molto simili: anche Carnevale
aiutò i contadini a rivendicare le terre e si batté per la difesa dei diritti sindacali. Anche
lui fu assassinato in un’imboscata e i colpevoli assolti. Anche nel suo caso i giornali
trattarono l’argomento con sufficienza e del tutto simile alla reazione del padre di
Rizzotto fu quella della madre di Carnevale, che denunciò gli assassini e s’impegnò a
146
continuare la lotta politica e sociale del figlio. Nella ballata, Buttitta usa una retorica
fortemente religiosa: Carnevale è paragonato ad un santo dalle capacità taumaturgiche e il
suo martirio è affiancato esplicitamente a quello di Cristo. Così come Cristo radunava
intorno a sé i poveri e i derelitti diffondendo fra loro il suo Vangelo, allo stesso modo
“Turiddu” predicava l’uguaglianza e la condivisione fra i contadini: “uguali tutti,
travagghiu pi tutti” (“tutti uguali, lavoro per tutti”) – diceva – e proponeva “pani a li
panzi vacanti, / robbi a li nudi, acqua a l’assitati” (“pane per le pance vuote, / vestiti agli
ignudi, acqua agli assetati”). E si opponeva ai tiranni mafiosi senza far uso della violenza,
bensì proclamando la pace e usando come armi le parole della Bibbia.88
Contemporaneamente alla ballata di Buttitta, anche il romanzo di Carlo Levi
descrive la vicenda di Salvatore Carnevale in termini cristologici. Qui l’omicidio del
sindacalista assume chiaramente il valore simbolico della crocifissione. Ai mafiosi che lo
minacciano qualche giorno prima della morte Salvatore risponde - è la madre a
raccontarlo a Levi: - “Chi uccide me uccide Gesù Cristo” (174). Carlo Levi si dilunga
sull’identificazione di Carnevale con Cristo, arrivando ad accostare il brigadiere dei
carabinieri che si sottrasse alla responsabilità delle indagini a Ponzio Pilato e la madre del
sindacalista a Maria o agli apostoli, entrambi chiamati a tramandare ai fedeli la Buona
Novella di una nuova “chiesa terrestre” (175). Come la madre di Cristo, anche la madre
di Carnevale diventa collaboratrice nell’opera di salvezza dell’umanità attuata dal figlio e
può diffondere al mondo il suo messaggio di lotta e speranza.89
88
Così recita la prima strofa della ballata: “Ancilu era e nun avia ali / nun era santu e miraculi facìa, / 'n
cielu acchianava senza cordi e scali / e senza appidamenti nni scinnia; / era l'amuri lu so' capitali / e 'sta
ricchizza a tutti la spartìa: / Turiddu Carnivali nnuminatu / ca comu Cristu nni muriu ammazzatu” (“Angelo
era e non aveva ali / non era santo e miracoli faceva / saliva in cielo senza corde e scale / e senza sostenersi
ne scendeva; / era l'amore il suo capitale, / questa ricchezza con tutti la spartiva: / Turiddu Carnevale
nominato / che come Cristo morì ammazzato”).
89
È da citare anche il richiamo al film Un uomo da bruciare, opera prima dei fratelli Taviani del 1962 (il
147
È inevitabile che Scimeca abbia risentito dell’impostazione cristologica di queste
opere, che conosceva bene, per la sua rappresentazione di Placido Rizzotto. Il riferimento
al sacrificio di Cristo può essere letto anche nell’ottica Girardiana dell’“avvento
messianico”, necessario secondo il filosofo francese al superamento della violenza e per
permettere un riequilibrio delle dinamiche sociali, corrotte proprio dalla violenza e dalla
pratica della vendetta. Secondo le teorie esposte da Girard in La violence et le sacré
(1972) e Des choses cachées depuis la fondation du monde (1978), il sacrificio di Cristo
corrisponde al meccanismo vittimario dei riti sacrificali antichi, perché l’eliminazione
della vittima permette di ritrovare la pace e reinstaurare l’ordine nella società: la sua
uccisione funge da mezzo per sopire il disordine e la violenza ed è simbolo di salvezza.
La vittima è sacra, proprio perché prodigiosamente capace di ripristinare la pace, ma
soprattutto - e questa è una novità rispetto ai riti sacrificali antichi - è una vittima
totalmente innocente: la Buona Novella evangelica afferma categoricamente e senza
ambiguità l’innocenza di Cristo (egli incarna l’Innocenza stessa, è l’agnello di Dio che
non conosce peccato). Il pensiero Girardiano, non a caso, ha interessato alcuni studiosi
del fenomeno mafioso che, nel modello profetico/eroico (“modello etico”, fondato sulla
formazione delle coscienze) hanno visto una soluzione alternativa al “modello lineare
lavoro/ricchezza” (basato sulla redistribuzione della ricchezza), come momento di
superamento della mafia. L’avvento di un eroe o di un profeta è visto come una delle
soluzioni possibili del fenomeno mafioso, in grado di portare alla fondazione di una
nonno di Scimeca lo portò a vedere “fare il cinema” proprio sul set di questo film da bambino – come ci
ricorda il regista nell’intervista sul DVD). Egocentrico e vanaglorioso, ma comunque sempre pronto al
sacrificio per la causa, anche in questo caso il personaggio di Carnevale è carico di valenze metaforiche,
rappresentato come un Cristo redentore, ingigantito da una forza quasi sovrumana, che riporta la fede e la
speranza ad una società smarrita.
148
“polis buona” al posto della “polis cattiva”.90
Punto di partenza del modello profetico-cristiano di cui è intriso il film di Scimeca
è il grande crocifisso che dalla collina sovrasta la città di Corleone. Esso configura la
discesa di Placido al paese di ritorno dalla guerra come simbolo dell’assunzione di una
solenne responsabilità e come anticipazione del martirio che lo aspetta (non a caso questo
è anche il primo quadro dipinto sul cartellone del cantastorie, che riproduce Placido a
braccia alzate con la croce dietro di sé). Millicent Marcus osserva che Placido ritorna
sempre in questo luogo per contemplare la sua missione e ricordare agli spettatori il suo
destino sacrificale (295). E, aggiungiamo, non ci torna da solo, bensì accompagnato dalle
altre due figure sacrificali della storia: ovvero la fidanzata Lia e il pastorello Saro, una
circostanza, questa, che va a consolidare l’idea della “moltiplicazione” del sacrificio
portata avanti dal film. Le affinità cristologiche vanno al di là della presenza del
crocifisso e sono innumerevoli (il paragone diventa presto pedante): Placido è celibe ed
ha gli stessi anni di Cristo; gli amici che lo accompagnano ovunque sono come i discepoli
fedeli; ai contadini predica una Buona Novella che è innanzitutto un messaggio di
speranza e come Cristo egli accoglie serenamente la morte in nome di una causa più
grande. D’altra parte, gli eventi che occorrono a Placido dal momento del suo ritorno a
Corleone (configurato come un ingresso a Gerusalemme) fanno della sua storia una
reduplicazione del calvario di Cristo: c’è un’ultima cena (non consumata) che lo aspetta a
casa; l’ex amico d’infanzia Pasquale Criscione lo “vende” consegnandolo nelle mani
degli assassini e i capi mafiosi votano per la sua morte mettendo schede bianche o nere in
un cappello, in un chiaro riferimento all’episodio evangelico in cui la folla sceglie tra la
90
Questi modelli sono descritti nel volume I ragazzi e le mafie in cui si legge appunto: “Queste due icone,
dell’eroe e del profeta, si fondano sul concetto di avvento messianico, che rimanda ad una comunità ‘altra’,
che verrà dopo, e che porterà al sacrificio di questi” (31).
149
crocifissione di Cristo o del ladro Barabba. Come Cristo, infine, Placido è deriso e battuto
a sangue prima di essere ucciso finché, sfigurato dalle ferite e dal dolore, diventa la
personificazione dell’ecce homo: il ritratto della sofferenza di ogni essere umano vittima
dei soprusi e della violenza.
Interessanti sono, inoltre, le corrispondenze con la kenosi di Cristo vissuta da
Placido. Nonostante Placido arrivi per mare, e dall’alto osservi il suo paese, come il
Messia pronto a salvare il suo popolo, e malgrado vesta i panni del Salvatore, però allo
stesso tempo si spoglia di questi panni per assumere quelli del popolo oltraggiato, di
coloro insomma che intende salvare. Lo vediamo nel momento in cui Placido accetta
senza protestare di andare a lavorare nei campi con il padre contadino. Placido vive fino
in fondo questa “incarnazione kenotica” nei panni della gente che si è ripromesso di
salvare. Sperimenta da vicino l’umiliazione delle persone tra cui è ritornato a vivere e
prova sulla propria pelle le sofferenze della condizione umana dei poveri contadini.91 Le
innumerevoli corrispondenze cristologiche tracciate intorno a Placido arrivano a toccare
anche chi gli è accanto: e così, quelle dei genitori che cercano Placido di casa in casa, la
mattina dopo l’omicidio, ricordano le stazioni di una via crucis o le tappe di
avvicinamento al sepolcro. Simile al Vangelo è la scena della lamentatio Virginis, altro
potente soggetto iconografico, che vediamo quando la madre di Placido si getta piangente
sui poveri resti del figlio raccolti in una sacca.
La stessa fidanzata di Placido, Lia, come abbiamo già accennato, è associata al
sacrificio e al martirio. È molto suggestiva in tal senso la scena del loro primo incontro
d’amore: dapprima i due innamorati sono inquadrati abbracciati a mezzo busto, poi la
91
Per approfondire il tema della kenosi e in generale quello della rappresentazione cinematografica di
Cristo e della figura Christi è utilissimo consultare i testi di Lloyd Baugh, padre gesuita, studioso di
cinematografia e docente presso l’Università Gregoriana di Roma.
150
macchina da presa allarga il campo visivo con un carrello indietro, distogliendo
l’attenzione dal punto iniziale e svelando proprio la grande la croce che si staglia contro il
cielo scuro e minaccioso e le figure dei due personaggi seduti a strapiombo sul pendio,
come a richiamare l’immagine evangelica del Golgota (anche la colonna sonora è dolente
e luttuosa).
Fig. 17
Il personaggio di Lia rimanda però anche esplicitamente a Maria Maddalena.
Accusata dalla madre di essere “disonorata”, “la vergogna della casa”, e da lei anche
picchiata con una cinghia, Lia appare come la discepola perseguitata a causa della sua
devozione a Placido (urla che piuttosto di lasciarlo si farà ammazzare) e come Maddalena
è testimone della crocifissione (c’è un’inquietante croce sulla porta d’ingresso della sua
casa, che la macchina da presa inquadra spesso con zoom a stringere, mettendola in
rilievo). Lia è anche identificata con la peccatrice penitente, simbolo iconografico della
Maddalena: dopo l’orrendo stupro subito da Liggio, la vediamo battersi il pugno in petto
con un gesto ritmico e ininterrotto che sembra indicare la volontà di un’espiazione di
colpa.
L’impostazione cristologica dell’intera vicenda è confermata infine dalla sacra
rappresentazione della Passione di Cristo, messa in atto dai corleonesi nel teatro cittadino
151
in occasione della Pasqua. Durante questa messinscena altamente melodrammatica,
Scimeca crea una sorta di ponte interattivo fra spettatori e personaggi presenti a teatro, in
particolare proprio tra Placido e Lia, i cui sguardi s’incrociano più volte durante lo
spettacolo, e in special modo proprio quando la Maddalena si butta ai piedi di Gesù sulla
croce. In questo caso, le corrispondenze analogiche fra la vita Christi di Placido con la
vita di Cristo diventano evidenti: le loro storie sembrano incontrarsi, e convergere, perché
il giovane sindacalista è accostato direttamente al Cristo crocifisso rappresentato sulla
scena. Tra l’altro, sono presenti a teatro tutti i corleonesi, cioè tutti i rappresentati
dell’umanità da salvare (ci sono i contadini e ci sono anche i mafiosi). Tuttavia, ciò che
sancisce definitivamente l’identificazione di Placido con Cristo è il corpo mancante del
sindacalista, il corpo invisibile, che non si trova, e che con la sua assenza domina tutta la
seconda parte del film, alludendo a un’ipotetica resurrezione.92 “[U]na figura cristica non
è mai del tutto soddisfacente se la sua esperienza non include una resurrezione” osserva
Lloyd Baugh (“La rappresentazione metaforica di Gesù” 727). E se è vero che l’icona del
“sepolcro vuoto” costituisce un segno ambiguo della rinascita di Cristo, la testimonianza
dell’avvenuta “resurrezione” di Placido è dimostrata dalla continuità del suo
insegnamento fra i discepoli: non solo a Corleone arriva subito il successore del
sindacalista, pronto a portare avanti la sua opera di rinnovamento, ma lo stesso padre di
Placido, inizialmente omertoso e sottomesso alla regola mafiosa, esce di casa e va a
cercare giustizia, facendosi prima testimone e poi “cantore” della Buona Novella del
92
È questo, d’altronde, un altro elemento di comunanza con Salvatore Giuliano di Rosi. Il film di Rosi si
caratterizza, infatti – come precisa lo stesso Scimeca – proprio per l’assenza della figura del bandito, il
quale si materializza soltanto in qualità di cadavere. Invece in Placido Rizzotto accade il contrario: il film
comincia con il corpo di Rizzotto fisicamente presente e finisce con la scomparsa fisica del corpo:
scomparsa che lui definisce “doppia”, sia perché il corpo non si trova, sia perché anche quando viene infine
identificato si è come disciolto nella terra insieme ad altri corpi (dall’intervista a Pasquale Scimeca sul
DVD del film).
152
figlio.
L’associazione del pastorello Saro con la Passione di Cristo è molto meno marcata
nel film, tutta riassunta in quell’immagine iconografica della Pietà che Scimeca sceglie di
utilizzare nella scena in cui il padre porta in braccio il figlio sofferente per le strade di
Corleone: un modello immediatamente riconoscibile, in cui il bambino in posizione
orizzontale e braccio destro ciondolante a terra appare nella stessa posizione del Cristo
morto in grembo alla Vergine Maria.
Fig. 18
Saro è configurato chiaramente come il martire innocente. Nel suo ruolo di
vittima sacrificale, è associato all’agnello di Dio, simbolo dell’innocenza senza colpa. Lo
status di martire avvicina Saro alla figura di Placido Rizzotto, com’è confermato dal loro
primo incontro proprio sotto il crocifisso sulla collina da cui osservano il paese
sottostante. D’altra parte, Saro è l’unico, insieme a Rizzotto, a guardare il paese da una
posizione di distanza che lo pone al di fuori dei meccanismi deviati che vi si perpetuano.
Il parallelo fra i due personaggi è tracciato esplicitamente dallo stesso regista nella scena
in cui Carmelo Rizzotto incontra per la prima volta Pio La Torre. “E ora sono due gli
innocenti,” dice Carmelo, parlando del figlio e del bambino uccisi a poche ore di
distanza. “Ma ‘o vero innocente è ’sto caruso che accompagnammo al cimitero”,
153
aggiunge subito, quasi a voler precisare che solo la morte di un essere ancora totalmente
innocente può incarnare degnamente l’ethos cristiano del martirio. In un mondo come
quello della mafia, il cui modello è l’homo homini lupus, il bambino va a rappresentare
l’agnello di Dio e la sua sofferenza funziona come metonimia per sofferenze più ampie,
quelle di tutti i bambini, ma anche dell’intera società civile ferita dalla violenza mafiosa.
Il funerale di Saro è accompagnato, infatti, da una folla di persone (donne, uomini,
bambini, adulti, vecchi), rappresentanti di un’umanità dolente che viene avanti
lentamente dal fondo della strada (la macchina da presa è fissa su di loro), a testimoniare
il dolore di un paese intero per la morte di Saro come individuo e, per metonimia, quella
di tutta la gente “offesa”.
Come se lo status dell’infanzia non bastasse di per sé a conferire a Saro un ideale
Rousseauiano di purezza originaria,93 Scimeca sceglie di piazzare il pastorello in un
luogo “altro” rispetto al mondo adulto della mafia, vicino ad esso ma al tempo stesso
rimosso. Saro vive, infatti, relegato nelle campagne sopra Corleone, dal momento che il
padre - un uomo la cui stazza enorme, la barba rossiccia e il gilet di pecora conferiscono
un’aria da gigante delle fiabe - gli ha vietato di entrare in città per timore dei pericoli che
vi si nascondono. Il padre di Saro tra l’altro parla pochissimo, come se ritenesse anche il
linguaggio imperfetto e corruttivo e relegando di fatto il bambino ad una condizione preverbale, posta al di fuori del discorso che lo circonda. Nonostante abbia visto molte città,
Saro ha potuto osservarle solo da lontano. La giustapposizione fra lo spazio rurale in cui
vive il bambino e la degenerazione criminale associata alla città ribadisce la distinzione
fra l’innocenza infantile e la depravazione mafiosa.
93
A onor del vero, occorre precisare che la purezza di Saro non è assoluta: lo vediamo nel fatto che egli
disobbedisce apertamente al padre fumando le sigarette: un’osservazione fatta anche da Amy Boylan (315).
154
Vivendo Rousseauianamente al di fuori della società corrotta, Saro non ha
conosciuto il Male. Lo pervade, anzi, un incantato sentimento di stupore per le cose del
mondo, che lui osserva da un’ottica distanziata e con gli occhi innocenti di chi le vede per
la prima volta. Ad esempio, si entusiasma vedendo i contadini che vanno ad occupare le
terre del feudo dove, vista dalla sua prospettiva, l’allegra festa con la banda musicale
prevale sull’impatto sociale dell’evento. L’apparizione dei mafiosi costituisce una
violenta intrusione del Male nell’universo “altro” del bambino e comporta la sua perdita
della ragione, oltre che dell’innocenza. Nel momento in cui è costretto ad incontrare la
società corrotta, infatti, il bambino soccombe. La purezza del suo sguardo non regge alla
violenza di ciò di cui è testimone: il brutale omicidio avvenuto davanti ai suoi occhi lo
priva dell’innocenza originaria, quasi pre-lapsariana, ma anche della sanità mentale, fino
a costargli la vita stessa.
Nel rappresentare la storia di Saro, Scimeca si è ispirato ancora una volta a
Vittorini, e in particolare al romanzo Le città del mondo, rimasto incompiuto e uscito
postumo nel 1969. Del romanzo il regista ha ripreso il tono mitico e soprattutto la trama
narrativa in cui due pastori, padre e figlio, viaggiano per la Sicilia facendo pascolare il
gregge e osservando dall’alto le città che incontrano sul loro cammino. Le scene più
emblematiche del romanzo sono proprio quelle in cui il pastorello Rosario ammira da
lontano le città che non può visitare. Rosario, infatti, come tutti gli altri personaggi del
romanzo, è alla ricerca della città perfetta, e nella sua ricerca divide il mondo in “città
belle” e “città brutte”. Nelle “città belle” la gente è buona, contenta, ed ognuno è libero e
rispettato, mentre nelle “città brutte” la gente è cattiva e malata. Si tratta del “mito della
polis ideale”, come osserva Carlo De Matteis, configurato come “l’aspirazione struggente
155
ad una felice e libera convivenza umana che si colora di utopistiche risonanze” (344), e
su cui i protagonisti proiettano il proprio desiderio idealistico di eguaglianza e di
giustizia.94 Le città viste dall’alto diventano perciò il simbolo dell’aspirazione dei diritti
individuali (infatti il romanzo si doveva intitolare I diritti dell’uomo). Vagheggiate
continuamente in lontananza, continua Giuseppe De Marco, esse possono essere il luogo
della realizzazione di tali diritti (quelle “belle”), come pure della loro totale negazione
(quelle “brutte”) (475). A riprova del tono allegorico del romanzo, la “polis ideale” si può
trovare in ogni parte del mondo: anche qui, “solo per avventura”, Vittorini la fa cercare ai
protagonisti in Sicilia.
Pur trasformando il personaggio di Saro nel Rosario de Le città del mondo
(Scimeca fa di Saro un orfano di madre proprio a replicare l’emblematico rapporto padrefiglio del romanzo), il regista lo priva tuttavia dello slancio vitale, oltre che della
dimensione utopica di cui è pervaso il pastorello di Vittorini. Le parole che il regista
mette in bocca a Saro fanno chiaramente eco a quelle di Rosario nelle prime pagine del
romanzo (“Io pure ne ho viste tante e tante di città, ne ho viste belle e ne ho viste brutte;
per esempio Agira è bella, Nicosia invece è brutta. Però le ho viste sempre dall’alto
perché mio padre non vuole”). Eppure, esse sono svuotate della portata utopica del
discorso di Rosario. È significativo, tuttavia, che Saro pronunci queste parole proprio a
Placido Rizzotto nel loro primo dialogo sulla collina. La carica utopica del pastorello
vittoriniano è dunque come “trasferita” al personaggio di Rizzotto, mentre anche lui
94
Così si esprime Rosario a proposito delle città “belle”: “Qui ciascuno dev’essere come se fosse un re o un
barone. Con tutti che lo chiamano Vossignoria. Con nessuno che può dargli del tu e trattarlo male. Con
nemmeno il maresciallo che lo possa sgridare e insultare. Con niente che sia costretto a fare o non fare per
paura . . . Accolto dovunque voglia entrare. Con ogni ragazza che lo può prendere per marito, anche se è un
povero capraio. E poi con un cavallo che può montare invece d’un asino o un mulo, proprio come un re che
cavalca, anche se è solo un contadino che si reca a zappare . . .” (Vittorini, Le città del mondo 17).
156
osserva la città di Corleone dall’alto, contemplando da lassù il suo ideale di giustizia. È
proprio da lassù, inoltre, - da dove cioè sembra penetrare con lo sguardo un’entità
geografica vissuta solo in parte nella realtà concreta e piuttosto nell’utopia - che Placido
esprime la sofferenza per il suo traguardo irraggiungibile e crea per Lia la struggente
metafora dell’impossibilità umana di afferrare le stelle del cielo: “Ti pare una cosa
possibile?” le domanda e poi aggiunge pensoso: “So che non è una cosa possibile. Ma ci
devo provare lo stesso . . .” Le stelle vagheggiate da Placido sono svariate quante le città
del mondo contemplate da Rosario. L’universo in cui si trovano sparse è lontano e mitico
come il mondo delle “città belle” in cui Rosario vorrebbe vivere. La loro visione si
prospetta allora come un ideale inafferrabile su cui si scaglia, dolorosa, la condizione
negativa del presente. Come le città del mondo vengono avvistate solo dall’alto e sempre
inevitabilmente schivate (loro stesse quasi in evasione), così le stelle di Placido . . .”Le
afferro tutte con ‘sta mano. Solo che poi quando stringo ‘sto pugno non ci trovo niente”.95
Il pastorello Saro, invece, è relegato in una condizione statica, a-politica e asociale. A differenza di Rosario, non esprime nemmeno il desiderio di scendere nelle città
affascinanti e popolate. Se nel suo mondo “altro” gli sono estranee la violenza e la
corruzione mafiose, anche la dimensione sociale dei contadini oppressi gli rimane
sconosciuta, così come l’attività politica portata avanti da Placido in città. Ma - proprio
come il bambino Rousseauiano che ha le potenzialità, anzi, è formato per diventare un
buon cittadino - la dimensione civica e politica di Saro è in un certo senso “in
gestazione”. Sebbene il pastorello sia educato unicamente dal padre e cresciuto in
95
C’è tra l’altro una scena molto simile anche ne I cento passi, quando Peppino e l’amico Salvo osservano
il paesaggio dall’alto di un pendio a picco sul mare e Peppino pronuncia il suo discorso poetico
sull’importanza della “bellezza” (=la verità, la cultura, ecc), mentre ammira utopisticamente l’orizzonte,
oltre i “cento passi” che sta per compiere, oltre le regole e le imposizioni della famiglia.
157
isolamento, non è così rimosso nello stato di natura da non subire gli influssi di ciò che
accade in città. Infatti, il bambino assiste in prima persona, seppur sempre in lontananza,
all’evento cruciale dell’occupazione delle terre da parte dei contadini, durante il quale ha
anche occasione di ascoltare il discorso di Placido alla folla. Ma soprattutto, dopo essere
stato testimone dell’omicidio del sindacalista, Saro scende finalmente in città e va a
bussare alle porte dei corleonesi per avvertirli, un particolare che Scimeca non ha ricavato
(per quanto si sappia) dalla vera storia di Giuseppe Letizia, e che mostra il
raggiungimento di una maturità civica. Saro è cresciuto, è diventato responsabile nel
partecipare attivamente nella società in cui vive. Scimeca insomma non mantiene il
pastorello nella sua dimensione a-sociale distanziata. Anzi, affida proprio a lui il compito
di rompere il muro di omertà costruito intorno alla mafia: benché traumatizzato, Saro è
pronto a riferire agli altri ciò di cui è stato testimone. Il suo stato non è più pre-verbale,
bensì c’è stata una transizione verso il verbale, il che marca anche il passaggio
dall’innocenza all’esperienza, dall’ignoranza alla conoscenza.
Similmente, il regista sceglie di affidare all’altro pastore, il padre di Saro, il
doppio incarico di recare giustizia a Placido Rizzotto e di assicurare la vendetta al
bambino ucciso. È proprio il padre di Saro, infatti, a rintracciare e picchiare a sangue i
responsabili della scomparsa di Rizzotto, Pasquale Criscione e Vincenzo Collura, per
costringerli a testimoniare dai carabinieri. In seguito, mette a soqquadro la casa
dell’assassino del figlio, per poi recarsi fino in Australia (anche questa una licenza
poetica di Scimeca) ad uccidere Dall’Aria e vendicare così la morte del bambino. Nel
film di Scimeca, dunque, come osserva pure Amy Boylan, i due “rozzi” pastori hanno un
comportamento modello, sono più civili dei “più civilizzati” cittadini (316). Non si fanno
158
intimidire dalla mafia, in netto contrasto con i cittadini corleonesi, troppo impauriti per
testimoniare ai carabinieri ciò che è accaduto. Anche le porte a cui bussa disperato Saro
rimangono inesorabilmente sbarrate. Paolo Orvieto ha notato che ne Le città del mondo
Vittorini ha conferito ai pastori una sorta di “funzione sacra e nobilitante” (14) (il legame
sacro-mondo rurale è indissolubile nell’opera vittoriniana) ed è la stessa conclusione a cui
sembra approdare Scimeca in questo film, che mostra chiaramente la presa di coscienza
civica da parte dei protagonisti appartenenti al mondo dei “più umili” fra gli umili.
In un certo senso è tristemente ironico, però, che gli spettatori apprendano la
notizia della vendetta effettuata dal pastore attraverso il giornale letto dal capitano Dalla
Chiesa, mentre quest’ultimo assiste al comizio del nuovo segretario della Camera del
Lavoro, il comunista Pio La Torre. Subito dopo, i due si stringono la mano in un gesto
che, sebbene criticato come retorico e inverosimile, dovrebbe rappresentare il connubio
fra le istituzioni dello stato e l’opposizione nella comune lotta alla mafia.96 In questo
modo, viene creato un ponte ideale tra la giustizia dello stato, l’utopia sociale portata
avanti dai comunisti e la vendetta consumata dal pastore con le proprie mani (Dall’Aria
muore strangolato). La scena sembra suggerire che laddove falliscono le prime due forme
di giustizia: quella istituzionale (retributiva) e quella socialista (distributiva) - sia Dalla
Chiesa sia La Torre, infatti, furono assassinati dalla mafia nel 1982 e gli assassini di
Rizzotto furono assolti per insufficienza di prove - è la vendetta del pastore ad avere
successo: un forma di giustizia primitiva (e punitiva), non lontana da quella messa in atto
dalla mafia stessa, che sembra dar ragione alla logica disumana e primordiale del
96
La stretta di mano finale è “immaginaria” ma “verosimile” come ha dichiarato il figlio di Dalla Chiesa,
Nando, in occasione della prima del film al teatro Argentina di Roma: essa “suggella un’idea di legalità che
unisce un rappresentante delle istituzioni e uno dell’opposizione. Quell’immagine ci rimanda ai sacrifici
pagati per combattere la mafia, e dovrebbe far riflettere e risvegliare tutti” (cit. in Bianconi).
159
fenomeno mafioso. È come se la violenza pre-messianica Girardiana avesse ragione sul
messaggio di pace e amore portato avanti dal profeta Placido, rendendo vano il suo
sacrificio. L’ultima, struggente inquadratura si allarga dalla stretta di mano dipinta sul
quadro del cantastorie a un Carmelo Rizzotto piangente, la testa fra le mani, rimasto solo
con il cartellone a raccontare la storia del figlio alle panchine vuote. Il particolare taglio
dell’inquadratura, un’oggettiva irreale ottenuta con un carrello all’indietro e verso l’alto,
per finire a piombo sul piazzale deserto, aumenta l’effetto di svuotamento e solitudine,
azzerando il punto di vista “corale” e proiettandolo, di fatto, al di fuori e al di sopra della
storia, come di chi guarda l’oggetto da una prospettiva lontana e distaccata.
Il film si chiude quindi con una nota di deludente sconforto: non soltanto il
sindacalista Placido Rizzotto non ha avuto giustizia e tutti i principali protagonisti della
storia sono morti ammazzati, come ricordano le didascalie finali (che mettono l’accento
contemporaneamente sull’autenticità e l’artificialità della ricostruzione storica), ma
nessuno fra il pubblico si è fermato ad ascoltare fino in fondo la vicenda di Placido. “Il
finale è tutto sulla memoria che manca,” così ha detto l’allora Presidente della
Repubblica Azeglio Ciampi dopo la prima al teatro Argentina di Roma, “un uomo rimasto
solo che nessuno ricorda più” (cit. in Bianconi). Deludente è anche l’assenza di una
didascalia finale a ricordo di Giuseppe Letizia, il cui nome è ancora una volta dimenticato
in virtù di nomi più “eccellenti,” come Pio La Torre e Dalla Chiesa. Questa dimenticanza
rende il pur ammirevole recupero della memoria di Giuseppe Letizia effettuato da
Scimeca, purtroppo ancora incompleto e parziale.
Nonostante ciò, resta l’importanza dell’operazione compiuta da Pasquale Scimeca
che ha sollevato il velo dell’oblio su un personaggio come Rizzotto, completamente
160
dimenticato dalla storia ufficiale, e ha recuperato la sua vicenda umana e sociale per
trasmetterla alle nuove generazioni. Lo stesso regista, come riferisce Elio Girlanda, ha
dichiarato che la scena finale “non è un segno di pessimismo quanto un invito a nuovi
spettatori, soprattutto giovani, perché sappiano ascoltare altre storie e testimonianze su
simili misfatti” (152). Da qui la presenza nutrita dei bambini ad ascoltare il cantastorie
sulla piazza all’inizio del racconto, proprio ad evidenziare che il recupero critico della
memoria storica e culturale deve diventare parte integrante di una nuova educazione alla
legalità e che tale educazione va cominciata dai più giovani: “Una strategia che è non
solo individuale o emotiva ma anche collettiva e razionale. Tesa a eliminare ogni rischio
di oblio che, ieri come oggi, fa comodo tanto alla criminalità organizzata quanto ai
politici collusi” (Girlanda 154).
Il cinema, allora, si propone come mezzo di comunicazione fondamentale alla
conservazione della memoria storica e civile di un popolo. Pasquale Scimeca raccoglie
l’eredità dei vecchi cunti dei cantastorie, che lui stesso in un’intervista aveva definito una
forma di cinema, ovvero un “cinema pre-tecnologico” (cit. in Zagarrio 5), e diffonde la
storia di Placido Rizzotto oltre la piazza del paese, oltre Corleone e oltre la Sicilia stessa.
La parola “orale” trasmessa dai cantastorie diventa parola “audio-visiva” e viene estesa
grazie alla macchina da presa al di là dei confini regionali. Il cinema si sostituisce così
alla pietra tombale di Rizzotto che non c’è, diventa il monumento commemorativo delle
vittime di mafia che ancora non è stato eretto e prende il posto del cantastorie che
nessuno ascolta più. Come conclude Amy Boylan “While the wandering storyteller may
no longer have an audience, Scimeca suggests that the filmmaker might take his place as
the agent of commemoration and thus the producer and keeper of memory” (319).
161
III. Alla luce del sole
Il film Alla luce del sole (2005) di Roberto Faenza narra le vicende storiche di
don Giuseppe “Pino” Puglisi, sacerdote palermitano ucciso dalla mafia il 15 settembre
1993. Faenza rende omaggio e riporta alla memoria collettiva il sacrificio di un uomo
coraggioso che si batté per l’affermazione della legalità e per l’educazione dei bambini in
un quartiere, quello di Brancaccio a Palermo, soggiogato dalla presenza della mafia. Il
film - che non vuole fare un’analisi complessa della mafia e non possiede lo stile
investigativo delle pellicole di Francesco Rosi (anche la sceneggiatura è piuttosto
prevedibile) - si pone dunque, come I cento passi e Placido Rizzotto, a ricordo di un
personaggio comune caduto per mano della criminalità organizzata. Faenza ha
confermato in un’intervista di aver “voluto portare sullo schermo la storia di Don Puglisi
per pagare un tributo a un uomo semplice e coraggioso, che ha avuto la sventura di vivere
in un paese melmoso e corrotto, lontano dai riflettori e per questo lasciato solo senza
protezione” (cit. in Ganeri 348). Il regista ritiene che sia un dovere del cinema ricordare i
fatti dimenticati dalla storia e ha piena fiducia nel potere di quest’ultimo di mantenere
viva la memoria per le nuove generazioni. In occasione dell’uscita del film Marianna
Ucrìa (1997) aveva infatti dichiarato:
Penso che il cinema sia oggi il più convincente e appropriato strumento inventato
dall’uomo per scavare dentro la memoria. Cosa, questa, che non può fare la
televisione, destinata a essere sempre più diretta, sempre più contemporanea, e
dunque . . . sempre più priva di memoria. Dico di più: proprio perché la
televisione è diventata così potente e così smemorata, per il cinema diventa un
dovere far riacquistare agli spettatori la memoria. (cit. in Tagliabue 31)
Benché la trama del film ruoti intorno agli ultimi due anni di vita del sacerdote,
ricostruiti grazie alle cronache e alle testimonianze dei collaboratori, i protagonisti di Alla
luce del sole sono però soprattutto i bambini di Palermo, a cui il film è dedicato nei titoli
162
di testa e la cui presenza nella storia è centrale e costante.97 Faenza ha ricostruito in modo
attento e con crudo realismo la situazione di degrado ambientale in cui sono costretti a
vivere questi bambini. Senza ricorrere al facile folclore di pellicole a tema analogo (come
ad esempio Io speriamo che me la cavo di Lina Wertmüller), il regista ha tracciato il
dramma della “violenza formativa” praticata sui bambini che, non solo a Palermo ma in
tutte le periferie degradate del Sud Italia, crescono con l’influenza nefasta della mafia.
Figli di una sub-cultura dell’omertà e dell’intimidazione, questi bambini aderiscono a
modelli di comportamento deviati, senza ricevere un’adeguata educazione né dalle
istituzioni civili (la scuola in primis) né da quelle ecclesiastiche e finiscono per costituire
un vivaio per la manovalanza criminale. Le loro tragiche vicende sono spesso
colpevolmente dimenticate dalle cronache e dalla storia ufficiale.
Ponendosi a memoria della vita di don Puglisi, Alla luce del sole s’impegna allora
anche a dare visibilità alle vittime più deboli e invisibili della mafia: a coloro che, come
sottolinea lo stesso Faenza, “senza potersi difendere, subiscono la più atroce delle
violenze, la negazione dell’infanzia” (9). Il film funziona dunque, proprio come quelli di
Giordana e Scimeca, a strumento di denuncia sociale e punta a spronare le coscienze,
suscitando nel pubblico sentimenti di rabbia e indignazione. Faenza denuncia la crisi dei
normali processi di socializzazione dei giovani, l’abbandono dello Stato, il disinteresse
delle istituzioni, l’assenza della Chiesa e l’inerzia delle amministrazioni locali. E inoltre,
dando espressione all’impegno di don Puglisi, dimostra che è possibile cambiare le cose
e, attraverso un processo di rieducazione civica e morale, sottrarre i bambini al mondo
97
Faenza si è espresso così in un’intervista con Francesco Deliziosi: "Io direi quasi che non sarà un film
sulla mafia. I protagonisti sono i bambini. Ne abbiamo scelto un centinaio nei quartieri degradati di
Palermo, con i loro occhi, con la loro intelligenza. Vorrei far conoscere la loro dignità ai bambini di Roma o
di Milano, quelli che fanno i capricci per una caramella" (“L’Italia oggi è distratta sull’antimafia”).
163
della violenza mafiosa. In sostanza, Faenza non si limita a tracciare il ricordo di don
Puglisi, bensì - ponendosi a erede del testamento neorealista - trasforma la sua memoria
in insegnamento, speranza ed impulso al cambiamento sociale.
Alla pari del protagonista di Placido Rizzotto, dunque, anche don Puglisi è un
simbolo della lotta degli umili contro l’oppressione dei potenti. La sua storia di vita
assurge a modello di riferimento, capace di ispirare gli animi con il suo esempio.98
Inoltre, proprio come Rizzotto, la morte di don Puglisi si configura nei termini del
martirio. E tuttavia, qui il martirio acquisisce maggior significato che in Placido Rizzotto
ed ha implicazioni più radicali e profonde, che derivano dallo stesso ruolo ricoperto da
don Puglisi. Essendo un sacerdote, don Puglisi è l’alter Christus e il suo martirio,
riconosciuto ufficialmente dalla Chiesa cattolica, è paragonabile a quello di Cristo.
Nonostante che, nella rappresentazione del sacerdote, Faenza abbia evitato “l’eccesso
clericale”, come lo chiama Lloyd Baugh - il quale, nella sua acuta analisi del film, ha
notato che don Puglisi non indossa mai la veste talare, non prega con formule canoniche,
non impartisce catechismi e fa della Messa un’occasione per infiammati discorsi di
stampo civile (69) - appare chiaro che il parroco opera a Brancaccio una missione che è
anzitutto di tipo evangelico, fatta di carità cristiana ed impegno per gli umili. In quanto
ecclesiastico, don Puglisi vive fino in fondo la sua vocazione all’imitatio Christi, fino a
patire le sofferenze del calvario, cioè fino a morire “sulla croce” per amore di Dio e del
98
Don Puglisi è un esempio anche per la Chiesa cattolica, che per molto tempo è stata tollerante con la
mafia o addirittura complice. L’assassinio di don Puglisi, preceduto di pochi mesi dalla visita pastorale in
Sicilia di Papa Giovanni Paolo II, ha scosso le coscienze e avuto come effetto l’acquisizione di una nuova
consapevolezza che la mafia è anche un problema religioso, cioè di competenza della Chiesa. In un
documento del 1994 i vescovi siciliani hanno proposto proprio don Puglisi come modello di azione
pastorale per tutti i sacerdoti che operano in contesti mafiosi (Deliziosi, Don Puglisi: vita del prete
palermitano ucciso dalla mafia 128).
164
prossimo.99
Il parallelo fra don Puglisi e Cristo è messo bene in evidenza da Lloyd Baugh
nell’articolo: “Un profeta, un martire, la redenzione”, in cui l’autore osserva che, al di là
del resoconto (letterale) delle vicende storiche del prete-coraggio, esiste un altro livello di
interpretazione (analogico) del film, che va letto come una reduplicazione della storia
cristiana della redenzione: “dietro gli avvenimenti del film,” spiega Baugh, “si intravede,
nella gente del Brancaccio, il popolo di Dio che soffre sotto il peso del male e ha bisogno
di redenzione, e nella persona di don Pino Puglisi, un redentore” (73). La redenzione è da
intendersi non dell’anima, bensì la liberazione dalla schiavitù dalla mafia, il
riconoscimento dei diritti basilari del vivere civile e la conquista di una vita normale, o
quanto meno più tollerabile. In un quartiere dominato dal potere incontrastato dei
mafiosi, in cui intere famiglie sono povere e abbandonate a se stesse, senza servizi o
strutture sociali, dove regnano furti, droga, prostituzione e lavoro nero, e che assume
quindi i contorni di un dantesco girone infernale, don Puglisi è chiamato ad una vera e
propria missione di salvezza. La sua è una descensus ad inferos fra i rappresentanti di
un’umanità derelitta a cui offre la possibilità di un riscatto. Come Placido Rizzotto, don
Puglisi possiede dunque lo status di Salvatore: è colui che si sacrifica - anche alla luce del
modello messianico Girardiano - nella speranza di donare al popolo di Brancaccio una
vita nuova e libera.
L’impostazione cristologica a cui allude Baugh per la rappresentazione di don
99
Non tutta la critica è d’accordo con quest’idea. Ad esempio, Adriano De Carlo ritiene che la motivazione
della fede sia del tutto assente dal protagonista di Alla luce del sole e che Faenza abbia fatto un torto ad
appropriarsi di colui che considera un santo “per trasformarlo in eroe borghese”. Anche Marco D’Avenia,
che è stato allievo di don Puglisi, crede che la fede cristiana e le scelte del sacerdote dettate da essa siano
rimaste inesplorate nel film. Scrive che Faenza “fa di Padre Puglisi un eroe, non nel senso cattolico del
santo e nemmeno nel senso consueto dell'eroe politico dell'antimafia. È un eroe convenzionale, . . . uno
stereotipo di sacerdote che anche prega, è ispirato da una visione . . . religiosa, ma rimane uno stereotipo”.
165
Puglisi è evidentissima nel film. Faenza crea tutto un insieme di riferimenti narrativi e
visivi che affiancano il sacerdote a Gesù Cristo e, allo stesso modo di Scimeca in Placido
Rizzotto, moltiplica le allusioni visive con il crocifisso.100 Come Gesù, che era ebreo e
predicava la Buona Novella fra gli ebrei, così don Puglisi che è originario di Brancaccio
ritorna volontariamente a compiere la propria missione nel quartiere in cui è cresciuto,
lui, “profeta in patria,” in mezzo al suo popolo. Sin dalla scena iniziale, don Puglisi
afferma con forza questa scelta ai bambini del quartiere, che sembrano stupirsi della sua
decisione di ritornare a vivere a Brancaccio. Inoltre, don Puglisi costituisce una comunità
di discepoli, tra cui don Gregorio e suor Carolina, che lo aiutano nella sua missione. Dal
pulpito della chiesa pronuncia profezie di liberazione, annunciando cambiamenti radicali
per l’intera comunità di Brancaccio. Nella sua prima omelia, ad esempio - recitata alle
sedie vuote, ma come se avesse davanti una folla di persone - il parroco proclama in
modo quasi divinatorio l’avvento di “un regno nuovo” caratterizzato da onestà e giustizia
(in fondo è la stessa carica utopica presente nei discorsi “profetici” di Rizzotto). Dice:
Pochi giorni fa, prima di tornare qui come parroco, io ho sognato il futuro di
questo quartiere ed è stato proprio bello. Bello perché ho sognato un posto dove
erano spariti i furti, era sparita la droga, dove non c'erano più violenze,
prepotenze, dove la gente non aveva paura, dove non c'era più la fame perché
c'era lavoro per tutti, dove c'erano delle scuole bellissime, piene di fiori, dove i
bambini giocavano . . . Ebbene io vi dico che non è una pazzia.
I frequenti riferimenti al crocifisso disseminati da Faenza nel film creano un ovvio
collegamento con il martirio di Cristo, ma rivolgono anche l’attenzione alla
consapevolezza di don Puglisi della sua “croce”, che egli accetta di portare con serenità.
100
Faenza mostra anche don Puglisi circondato da una sorta di “aureola” durante l’incontro con le autorità
locali per discutere i dettagli della processione di San Gaetano. Ogni volta che il parroco prende la parola, è
inquadrato a mezzo busto davanti ad una parete sulla quale è colorato un grande sole giallo, che va proprio
a “coronare” la sua testa come una aureola.
166
Alla pari di quella di Gesù, infatti, la morte di don Puglisi è una morte consapevole e preannunciata (come rivela anche l’inserto prolettico all’inizio del film che mostra in
anticipo l’omicidio). Il sacerdote non fa nulla per sottrarsi al martirio; anzi, incoraggia i
collaboratori preoccupati per la sua incolumità ad alzare “ancora più la voce” e va
incontro agli assassini sorridendo (“viene un momento nella vita,” dice a don Gregorio,
“in cui uno deve prendere una decisione. E io l’ho presa”. E agli assassini confessa: “Vi
aspettavo”). Un crocifisso, che si trova sulla parete della canonica, viene pertanto
inquadrato immediatamente all’inizio dell’azione pastorale di don Puglisi a Brancaccio,
quando il parroco rifiuta il tentativo del boss di corromperlo con una cospicua donazione
alla chiesa. L’immagine della croce è riproposta in seguito, durante la feroce aggressione
da parte dei mafiosi come risposta all’apparizione del prete in televisione, in un evidente
riferimento al calvario di Gesù.
Inoltre, in maniera simile a quanto accade nel film di Scimeca - e grazie proprio
all’immagine-simbolo del crocifisso - è creata una forte corrispondenza fra il martirio di
don Puglisi e quello apparentemente secondario di un ragazzino, Domenico, che per
protestare contro la cultura mafiosa impostagli dal padre, decide di compiere l’atto
estremo di togliersi la vita. Come nel film di Scimeca, l’esperienza del martirio
“eccellente” di don Puglisi acquista maggior impatto emotivo e maggior significato sullo
sfondo della storia tragica di un bambino “anonimo” che muore, e in questo caso, anzi, è
costretto a darsi la morte pur di non essere associato alla mafia. Così come la storia del
pastorello Saro rispecchia il sacrificio di Placido Rizzotto, la presenza di Domenico in
Alla luce del sole reduplica l’idea del martirio antimafia personificato da don Puglisi.
Anche Domenico, come Saro, è figura Christi. Anche lui è la vittima innocente caduta
167
sotto il peso di una società corrotta. Faenza sceglie di inserire l’episodio riguardante
Domenico (che, rispetto a Saro, è una figura inventata) proprio per l’effetto di orrore che
suscita sullo spettatore il sacrificio di un bambino. E anche perché nella visione giudeocristiana del peccato, sin da Abramo, la morte di un bambino è un evento simbolico, a cui
è attribuita “una funzione espiatoria per una colpa che non gli appartiene” (De Luca 70).
Così, la rappresentazione della morte del bambino, che come abbiamo visto è evento raro
al cinema - giacché simbolizza “la negazione della fede”, “la quintessenza della
disperazione” (Bosetti 87),101 “la morte del futuro” (De Luca 68) - diventa qui invece
redentoria in termini cristiani (e Girardiani). Portando la croce su di sé e dentro di sé,
Domenico offre se stesso come figura di Cristo e il suo sacrificio serve alla salvezza della
società.
Interessante in questo senso è l’uso della catenina col crocifisso che Faenza fa
passare in modo simbolico dalle mani di un personaggio a quelle dell’altro (e viceversa) a
sottolineare il loro comune destino sacrificale. Dopo aver saputo che il padre mafioso ha
vietato a Domenico di frequentare la parrocchia, infatti, don Puglisi gli regala la sua
catenina, in quello che appare come un esplicito invito a sopportare la sua “croce” in
nome di Cristo. La mattina della morte del prete, però, Domenico, che ha visto il padre
fornire ai sicari la pistola per uccidere don Puglisi, gli riconsegna la catenina per
avvertirlo del pericolo imminente e anche per comunicargli tacitamente la sua decisione
101
Gilbert Bosetti ha parlato in questi termini del suicidio di Edmund in Germania anno zero (1948) di
Rossellini, uno dei pochi esempi di rappresentazione del suicidio del bambino al cinema. Il parallelo fra il
disfacimento della società del dopoguerra descritto da Rossellini e dagli altri neorealisti e quello dei
territori della mafia è, come sappiamo, pertinente. Come la Berlino del dopoguerra, anche il quartiere di
Brancaccio appare in rovina, “bombardato”, e svuotato di ogni dimensione umana. E come i bambini di
Rossellini, anche i bambini di Faenza sono abbandonati a se stessi e costretti alla delinquenza, e
soccombono alla disperazione, proprio in quanto più deboli e indifesi. Così come Edmund è vittima della
dottrina nazista che deforma la sua morale, Domenico lo è della squilibrata etica mafiosa e diventa simbolo
di tutti bambini soggetti all’influenza mafiosa a cui si sottrae solo con la morte.
168
di morire.102 Baugh osserva che “Faenza usa il gesto . . . per sottolineare l’identità cristica
del sacerdote nell’accettare la morte per il suo popolo” (77). In questo modo, è tuttavia
anche delineato distintamente il percorso cristologico del ragazzino. Tale percorso si
rivela anche in altri particolari non secondari, primo fra tutti l’atto di “flagellazione” che
sopporta Domenico, preso a frustate dal padre per avergli disobbedito davanti agli occhi
straziati della madre (un’ennesima figura di mater dolorosa). Durante la scena della
“flagellazione”, Faenza inquadra per tre volte in dettaglio di primo piano la mano destra
di Domenico chiusa a pugno. Nella mano il ragazzino tiene forte, senza farlo mai cadere,
il fischietto da arbitro donatogli dal parroco. Faenza mostra così la tenacia di Domenico
che, pur subendo il dolore e l’umiliazione, non si piega al volere del padre, ma si
aggrappa fortemente alla lezione fornitagli dal maestro, che gli aveva insegnato la
necessità di non subire passivamente il suo destino, ma di decidere “da che parte stare”.
Tra l’altro, è interessante che Domenico scelga, come modo di morire, uno schianto
proprio con quel motorino che stava a segnalare la sua affiliazione alla mafia: una scelta
che evidenzia il suo rifiuto categorico, assoluto dei modelli di comportamento mafiosi.103
Il suicidio di Domenico è così un atto di ribellione che richiede altrettanto o più coraggio
della ribellione di don Puglisi e, come scrive Ludovico Bonora, “un atto estremo di
autosacrificio che diventa affermazione della propria personalità, scelta definiva ma
autonoma”.
In Alla luce del sole don Puglisi è raffigurato perciò come un redentore che
102
Per questa scena angosciante, in cui Domenico gira disperatamente intorno a don Puglisi con il motorino
prima di gettargli addosso la catenina senza parlare, Olga di Comite ha parlato giustamente di una “danza
della morte”.
103
Il motorino è uno status symbol per i ragazzini affiliati alla mafia: è fornito loro dai mafiosi stessi che li
sfruttano come corrieri della droga. Inoltre, in una delle prime scene, il padre di Domenico aveva deriso
davanti al figlio l’operato di don Puglisi ricordandogli che se non fosse stato per la mafia, se fosse stato
cioè “per quelli come Puglisi”, lui non avrebbe neanche posseduto un motorino.
169
scende nell’inferno di una terra difficile e abbandonata. Come Gesù e tanti profeti prima
di lui, però, non riceve buona accoglienza da tutti. Si scontra, anzi, con diversi ostacoli
che vanno dalla diffidenza degli stessi abitanti di Brancaccio (non a caso Faenza propone
per ben tre volte l’immagine delle donne impaurite che chiudono le persiane delle finestre
al parroco), alla mancata cooperazione delle autorità civili che lo ignorano o si
oppongono alle sue iniziative. Per finire, ovviamente, con i mafiosi della zona che mal
sopportano la sua presenza scomoda e passano rapidamente dalle intimidazioni
(incendiano un furgone davanti alla chiesa, minacciano lui e i suoi collaboratori) alla
feroce aggressione e infine all’assassinio. Il regista rende evidente “il duello” a distanza
che si combatte fra don Puglisi e i mafiosi locali attraverso diverse tecniche narrative e di
montaggio. Innanzitutto, Faenza basa l’intero impianto iconografico del film su una
chiara opposizione tra Bene e Male che si manifesta anche nelle continue allusioni
all’immagine metaforica della “luce nelle tenebre” – il che funziona bene all’interno del
discorso sulla redenzione suggerito da Baugh. In questa facile dicotomia manichea che
divide i personaggi in “buoni” e “cattivi”, don Puglisi e le figure rappresentanti del Bene,
come don Gregorio e suor Carolina agiscono “alla luce del sole” (da cui ovviamente il
titolo del film) e svolgono un’azione illuminatrice sulle coscienze, mentre i mafiosi
rappresentanti del Male, con i loro collaboratori e le loro connivenze tra le autorità, sono
immersi nelle tenebre, identificate come il buio dell’ignoranza, della violenza, della non
conoscenza dei principi del Vangelo (tra l’altro, don Puglisi riteneva che la mafia fosse
una cultura essenzialmente anti-evangelica).104 Da qui l’invito di don Puglisi ai mafiosi
104
Lo racconta Francesco Deliziosi nella sua accurata bibliografia di don Puglisi, che riporta questo raro
scritto del sacerdote sulla mafia: “Quella mafiosa non è solo una società . . . è a suo modo una cultura,
un’etica, un linguaggio, un costume. Malgrado tutte le sue mimetizzazioni, si tratta di una cultura antievangelica e anti-cristiana, addirittura, per certi aspetti, satanica: essa stravolge termini che indicano valori
170
ad uscire “alla luce del sole,” cioè a trovare il coraggio di mostrare le proprie facce, ma
anche di accettare il dialogo e di aprirsi alla “luce” con la conversione.
Faenza usa spesso un montaggio parallelo e alternato per evidenziare le forze del
Bene e del Male operanti a fianco a fianco nel quartiere. Ad esempio, le scene
dell’appello di don Puglisi alla televisione per liberare i magazzini clandestini dal
controllo della mafia s’intervallano con le immagini dei boss seduti al tavolo di un
ristorante sul mare, intenti a guardare il telegiornale. A montaggio alternato sono
inquadrati i visi attenti del boss immersi in un silenzio glaciale e le immagini televisive
che mostrano la denuncia di don Puglisi. La stessa tecnica è impiegata in occasione della
scena della processione nel giorno di San Gaetano. Don Puglisi organizza una cerimonia
semplice tra la gente povera del quartiere, opposta alla festa sfarzosa voluta dalla mafia e
dalle autorità locali. La statua del patrono, portata in spalla dai ragazzini, sfila lungo le
strade più misere e dimenticate di Brancaccio, mentre contemporaneamente Faenza
mostra la festa finanziata dai boss locali in una lussuosa villa, intrattenuta da un cantante
in smoking bianco e accompagnata dai fuochi d’artificio. La processione di don Puglisi e
la festa alla villa si alternano in sovraimpressioni, la prima caratterizzata da umiltà e
devozione, la seconda dallo sfarzo ostentato. Quando il cantante si esibisce, il volume
degli altoparlanti è così forte che sovrasta i canti dei devoti i quali, però, diretti per
microfono da don Puglisi, non cessano di pregare. “Evento tanto simbolico quanto
concreto,” conclude Baugh, “la festa del patrono della parrocchia diventa per la povera
gente del quartiere un’orgogliosa dichiarazione di indipendenza dal potere tenebroso
della mafia” (64).
positivi e cristiani come famiglia, amicizia, solidarietà, onore, dignità” (Don Puglisi: vita del prete
palermitano ucciso dalla mafia 140).
171
Il montaggio alternato è utilizzato infine da Faenza nella scena finale
dell’assassinio di don Puglisi. Quando i sicari seguono in auto il parroco dal quartiere
dell’Albergheria fino a casa sua per ucciderlo, contemporaneamente Faenza fa vedere i
mandanti dell’omicidio che giungono in Mercedes in un luogo di villeggiatura in
Toscana. Nel momento dell’uccisione di don Puglisi, i boss stanno concordando il prezzo
per affittare una lussuosa villa con piscina, e quando arriva la notizia dell’assassinio, si
fanno il segno della croce. In questa scena, il montaggio alternato ricorda la celebre
tecnica della “resa dei conti” de Il Padrino (1972), in cui Francis Ford Coppola propone
un connubio/contrasto fra l’azione criminale e la celebrazione religiosa. Le sanguinose
esecuzioni
dei
rivali
commissionate
da
Michael
Corleone
avvengono
contemporaneamente al battesimo del nipote e sono montate in parallelo a quelle del
padrino che sta partecipando alla liturgia in chiesa. Il voice-over del prete accompagna in
modo stridente lo svolgimento del massacro organizzato da Michael, mentre quest’ultimo
ripete con freddezza la promessa di credere in Dio e rinnegare Satana. Tale
connubio/contrasto è altrettanto marcato nella scena dell’omicidio di Alla luce del sole,
per via del blasfemo gesto della croce effettuato dai mafiosi e per il fatto che ad essere
assassinato è un ministro di Dio. In Faenza, inoltre, il montaggio parallelo è tanto più
efficace quanto più è caratterizzato da un’ulteriore alternanza di scene parallele girate al
centro di accoglienza in cui i bambini, beatamente innocenti e ignari di quanto sta per
accadere, sono intenti a preparare una torta di compleanno a don Puglisi, mentre altri
ragazzini seguono appassionatamente una partita di calcio in televisione. Anche i sicari e
i mandanti dell’omicidio stanno ascoltando la partita alla radio, cosicché il voice-over del
telecronista accompagna l’intera sequenza, legando ulteriormente le scene parallele fra
172
loro e creando uno stridente contrasto fra il gioioso avvenimento calcistico e la feroce
esecuzione di don Puglisi (la pallottola lo colpisce proprio quando la squadra dell’Italia
segna un gol).
Nella rappresentazione dello scontro fra Bene e Male, Faenza cede
inevitabilmente ad un impulso edificante, insistendo sullo spirito di abnegazione dei
“buoni” che si sacrificano per l’amore del prossimo. Allo stesso modo, il regista
sottolinea la “cattiveria” dei mafiosi che vengono dipinti come personaggi vili e violenti,
privi di qualsiasi elemento di fascinazione tipico dei film hollywoodiani. Anzi, essi sono
rappresentati soprattutto nella noncuranza con cui scelgono il Male e in una caratteristica
che li distingue nettamente dagli altri: la disumanità. Nel film, la resa dell’opposizione fra
Bene e Male funziona perciò anche attraverso il contrasto fra “umanità” e “non-umanità,”
il che rimanda alle riflessioni morali e filosofiche di Elio Vittorini nel romanzo Uomini e
no (1944), ambientato durante la Resistenza. Nel romanzo è notoriamente proposta l’idea
di un genere umano distinto in due categorie: coloro che sono degni dell’appellativo di
“uomini” e coloro che invece offendono e calpestano l’umanità. Gli “uomini” sono il
protagonista Enne 2 e i suoi compagni partigiani impegnati nella lotta di liberazione dal
fascismo, mentre gli assassini fascisti sono definiti, già nel titolo, “non-uomini” e sono la
massima espressione della crudeltà. Ecco quindi che anche in Alla luce del sole si
ritrovano i due poli estremi: da un lato la ferocia disumana dei mafiosi, portatori del
Male, i “non-uomini” (anche se si travestono da “super uomini,” di cui sembrano
possedere i tratti distintivi e da cui in special modo i bambini sono affascinati), dall’altro
la parte della società colpita nei suoi rappresentanti più deboli e indifesi, cioè gli
“uomini”. È proprio nelle parole veementi di don Puglisi che si esprime la condanna di
173
coloro che hanno perso la dimensione umana e che sono degradati al rango di animali. In
un’omelia particolarmente accesa, il parroco si rivolge direttamente ai “cosiddetti uomini
d’onore,” gridando che “chi usa la violenza, non è un uomo! è una bestia!” e chiedendo
loro di riappropriarsi della perduta umanità.105
Tuttavia, anche i poveri abitanti di Brancaccio hanno perso la dimensione umana
perché sono offesi nella propria dignità di persone libere. Lasciati in balia dei “nonuomini”, sono ridotti ad una condizione di “sub-umanità”, inferiore al livello minimo di
un’esistenza dignitosa e accettabile. Nella logica semplice, benché distorta, della gente di
Brancaccio questa condizione di “sub-umanità” è espressa nell’immagine di sé (sono le
parole di Domenico) come “quelli che camminano a testa bassa,” cioè costretti a tenere lo
sguardo a terra in segno di subalternità, mentre gli uomini d’onore, spadroneggiando,
sono “quelli che camminano a testa alta”. Lo scopo primario di don Puglisi quando
ritorna a Brancaccio è proprio quello di restituire agli abitanti la loro dignità umana. Il
prete lo afferma a chiare lettere, e fin dall’inizio quando, riallacciandosi alle parole di
Domenico, sostiene che è venuto “qua per aiutare la gente per bene a camminare a testa
alta”.
Faenza decide dunque di rappresentare la mafia come un potere che toglie
umanità agli altri, oltre che a se stessa, e trasforma la battaglia di don Puglisi in quella per
l’elevazione morale della gente di Brancaccio contro lo svilimento della dignità umana.
La prima scena del film - una sorta di prologo costituito da più sequenze legate fra loro 105
Proprio come per Rizzotto, è possibile tracciare un parallelo tra l’eroismo di don Puglisi, lontano dai
clamori, e quello della gente comune che partecipò alla Resistenza e morì nella lotta contro il nazifascismo. In questo senso, anche un parallelo fra don Puglisi ed Enne 2 è possibile, dal momento che
entrambi vivono come condannati a morte, sapendo che da un momento all’altro giungerà la loro morte
violenta e non la fuggono: è il loro destino. Vincenzo Consolo ha notato che, come don Puglisi aspetta gli
assassini mafiosi, così Enne 2 aspetta Cane Nero e per entrambi i protagonisti affrontare la morte in faccia
porta tranquillità e pace (138).
174
è la metafora appunto di questo svilimento e del pericolo della disumanizzazione a cui
vanno incontro i bambini del quartiere destinati a un futuro di mafiosi, dunque di “nonuomini”. Assoldati dai criminali per catturare dei gattini e gettarli nelle gabbie dei cani
destinati ai combattimenti clandestini, i bambini di Brancaccio, alcuni molto piccoli, si
entusiasmano quando i gattini vengono sbranati e quando, poco dopo, quegli stessi cani si
azzannano con ferocia. In seguito, sempre per ordine dei mafiosi, i ragazzini buttano giù
da un palazzo abbandonato il cane che ha perso il combattimento e ridono divertiti
quando l’animale moribondo tocca terra, senza accorgersi della crudeltà del gesto.
La decisione formale del regista di iniziare il film con queste scene agghiaccianti
è dovuta alla necessità di andare subito al cuore del problema,106 presentando agli
spettatori il mondo bestiale della mafia e la “violenza formativa” esercitata sui bambini
del quartiere. Si tratta di una perversa iniziazione alla violenza, che insegna loro a
considerare normali la crudeltà e lo spettacolo del sangue e a far perdere loro il rispetto
per la vita e la sensibilità di fronte alla morte. La scena, non a caso, ha catturato
l’attenzione della critica che ne ha parlato come di “una fotografia impietosa del quartiere
e del ’sistema’ in cui si trovano a vivere questi ragazzini” (Funagalli and Ramosino) e di
“Una metafora trasparente per alludere alla vita di quegli stessi ragazzini: gettati nel
gorgo della violenza come i gattini dati in pasto ai cani. Bambini cresciuti senza
conoscere tenerezza né pietà, che imparano a infliggere la morte brutalmente e con
noncuranza” (De Simeis). Baugh ha equiparato, invece, il “martirio” del cane moribondo
a quello di don Puglisi dicendo:
In queste terribili scene, emblematiche della vita quotidiana nell’inferno del
Brancaccio e della alta “densità mafiosa” sotto la quale si vive, Faenza dà un
106
Così nota Deborah Young scrivendo: “Stomach-churning opening sequence dives into the heart of the
problem: the bad education received by kids who grow up in Mafia land” (43).
175
preciso senso della feroce illegalità e immoralità dalle quali i ragazzini devono
essere salvati; il cane moribondo, sdraiato sanguinante nella piazza, rappresenta
un’agghiacciante icona del martirio di don Pino, col quale il regista chiuderà il
film. (67)
Le immagini dei cani assassini del prologo è molto forte e significativa: rimanda
alla bestialità dei mafiosi che hanno rinunciato alla loro condizione di “uomini”. E
richiama ancora una volta a Vittorini, e nello specifico, al brutale episodio di Uomini e no
in cui l’“uomo” con le pantofole Giulaj viene sbranato dai cani nazisti, diventando con la
sua morte atroce un simbolo dell'umanità offesa, vittima indifesa della più abbietta
crudeltà. Come il lettore di Vittorini nei confronti dell’“uomo” fragile e terrorizzato, così
lo spettatore di Faenza prova un forte senso di pietà per i bambini indifesi di Brancaccio,
oltre che un sentimento d’indignazione per la freddezza con cui viene loro imposto
questo “gioco” crudele. E come Giulaj, che dai nazisti è colpito non solo fisicamente,
bensì “dentro di lui,” anche i bambini di Brancaccio sono lacerati internamente da una
cultura di oppressione che ne svilisce la dignità in cambio di soldi e potere. Anche
Vincenzo Consolo ha paragonato i cani di Alla luce del sole ai cani-lupo delle SS naziste
in Vittorini e ha tracciato un ulteriore parallelo con le cagne fameliche che inseguono i
dannati nel XIII canto dell’Inferno di Dante (137). L’osservazione di Consolo ci permette
di delineare ulteriormente il percorso di don Puglisi a Brancaccio come una descensus ad
inferos. L’avvio con i feroci cani assassini prepara, infatti, la scena immediatamente
successiva della discesa del sacerdote nel territori desolati del quartiere: quest’ultimo
appare come un mondo Girardianamente in crisi, fatto di caos, disordine e
desertificazione morale, civile e sociale, profondamente segnato dalla disperazione, e in
disperato bisogno di un redentore.
Per tutta la durata del film si avverte il fiato dei cani assassini sul collo dei
176
bambini di Brancaccio, destinati ad andare in pasto agli uomini-lupo della mafia. È bravo
Faenza a moltiplicare gli esempi di “violenza formativa” subita dai bambini, così come
dimostra abilità nel filmare il quartiere di Brancaccio (nonostante la maggior parte delle
scene siano girate a Ballarò e Bagheria) nelle sue ferite più aperte, senza per questo
cadere nel patetismo. Il quadro di degrado che dipinge Faenza è volutamente forte: i
bambini non vanno a scuola, fumano, bevono, dicono parolacce e vivono per la strada, fra
l’immondizia e le case fatiscenti. Trascurati dalle famiglie, con i padri in galera e le madri
prostitute, sono privi di punti di riferimento e si guadagnano da vivere lavorando come
camerieri o garzoni, o ancora, vengono reclutati dalla mafia per il lavoro nero nelle
campagne. A quattro anni, come il piccolo Dino, vogliono comprare una pistola per
“ammazzare gli sbirri che hanno arrestato nostro padre”. A cinque, come Carmelo,
rubano le autoradio dalle macchine e a sei anni non hanno più sogni per il futuro (Marco
scrolla le spalle quando don Puglisi gli chiede cosa vuole fare da grande). A undici anni,
l’età di Saro, vengono arrestati per furto e portati in centri di correzione da cui scappano
per rituffarsi in strada. E infine, un po’ più grandicelli, smistano le cassette d’arance in
cui è nascosto dell’esplosivo (è il caso di Domenico).
Sono bambini incapaci di socializzare e pure di giocare come farebbero i loro
coetanei. Quando i giovani volontari dei quartieri benestanti di Palermo donano dei
giocattoli al centro di accoglienza, per esempio, uno di loro non trova di meglio da fare
che tirare fuori un coltellino e tranciare di netto la testa a un cammello di peluche. Allo
stesso modo, invece di giocare a calcio normalmente, si avventano sulla palla per
conquistarla con botte e spintoni. La scena di don Puglisi in macchina, insieme a tre
bambini in tenera età, è tra quelle più emblematiche della loro cattiva educazione e di
177
come l’“etica” mafiosa abbia distorto i valori umani e cristiani nelle loro coscienze.
Interrogati da don Puglisi sui dieci comandamenti, i bambini rispondono che l’ottavo
consiste nel “non testimoniare” invece che “non dire falsa testimonianza” (chiaramente,
nell’ottica della mafia, dominata dalla cultura dell’omertà, parlare e dire la verità
costituiscono un’infamia), mentre il quinto comandamento è distorto in un violento,
quanto eloquente “non uccidere il padre e la madre”. La scena, che possiede un tono
volutamente leggero e ludico (anche don Puglisi sorride divertito), è però interrotta dalla
tragica notizia della morte di Giovanni Falcone alla radio e seguita dalle immagini
inquietanti, in cui un gruppo di ragazzi in motorino imbrattano i muri con slogan promafia davanti agli occhi addolorati del parroco.
Fig.19
Fig. 20
Si tratta chiaramente di un avvertimento allo spettatore a non cedere all’ilarità,
bensì a riflettere sul retaggio culturale di questi bambini, per i quali è molto breve il
passaggio da un innocuo errore di dottrina catechistica, su cui si può anche sorridere,
all’adesione a modelli comportamentali deviati, che potranno un giorno condurli a gioire
di fronte ai fatti criminali o addirittura a parteciparvi. Allo stesso tempo, accostando
queste due scene fra loro, Faenza mette sullo stesso piano la rievocazione di fatti
gravissimi della storia italiana, dall’impatto emotivo imponente, come gli attentati ai
giudici di Palermo, e la descrizione di una vicenda apparentemente marginale, come la
178
violenza ordinaria e “sommersa” subita quotidianamente da bambini dimenticati. Egli
suggerisce non solo che questi due eventi apparentemente lontani hanno lo stesso peso, la
stessa gravità, ma anche che, essendo proprio lì i germi del comportamento futuro dei
ragazzini, questi ultimi vanno aiutati in chiave soprattutto preventiva. Oltre che per
similitudine, la scena funziona anche per antitesi: ricorda cioè che il problema dei
bambini di mafia ha bisogno di essere vissuto, e affrontato, in maniera costante e non già
come un’emergenza emersa all'improvviso a seguito di fatti eclatanti, vale a dire,
attraverso un impegno quotidiano (in definitiva, proprio come fa don Puglisi).
Nonostante alcuni piccoli protagonisti di Alla luce del sole, tra cui Saro e
Domenico, siano messi in risalto dal regista, per la maggior parte i bambini di Brancaccio
sono una presenza corale nell’impianto filmico e appaiono pressoché indistinguibili gli
uni dagli altri.107 Nel rappresentare l’infanzia, Faenza ha fatto ricorso alla coralità, per
sottolineare come il problema dei bambini a rischio dei quartieri poveri sia un problema
collettivo. Questi bambini non sono importanti come individualità, ossia in quanto Dino,
Marco o Saro, bensì perché rappresentano un’intera generazione di vittime della mafia
destinate a un futuro di violenza e morte. Le loro vicende personali sono assunte a
pretesto per offrire una riflessione universale sulla vulnerabilità stessa dell’infanzia di
fronte al potere oppressivo della mafia. Comprensibile in questo senso è la scelta formale
del regista di rappresentare i bambini sempre in gruppo, in special modo quando
circondano o seguono don Puglisi come un gregge di pecorelle: il parroco sempre
raffigurato con un bambino piccolo in braccio o per mano (Baugh associa appunto
quest’immagine all’iconografia cristiana del Buon Pastore, 64). Significativa, al
107
Questa sensazione di non distinguibilità dei bambini permane anche dopo più visioni del film. La loro
identificazione è molto difficile, tant’è vero che sono risalita ai nomi e all’età anagrafica soltanto dopo aver
consultato le pagine della sceneggiatura del film.
179
proposito, è la scena in cui tutti i bambini si presentano al confessionale, dopo che don
Puglisi aveva preteso di conoscere il colpevole del furto delle offerte destinate al centro
di accoglienza. Lo spettatore si aspetta che un solo ragazzino si presenti al confessionale,
come aveva immaginato anche don Puglisi, insistendo nel suo discorso edificante sulla
colpevolezza e redenzione del singolo, ma li vede arrivare tutti insieme, in fila indiana, a
triste dimostrazione nessuno di loro è esente dall’influenza della mafia.
Fig. 21
Sulla coralità si basa anche la rappresentazione della “conversione” di questi
bambini. Essi appaiono in massa al centro di accoglienza fondato dal sacerdote, a cantare
e a far festa, a cuocere le pizze in giardino, a giocare a calcio nel campetto sistemato da
don Puglisi, alla processione di San Gaetano, durante l’escursione in montagna e infine
alla marcia della pace per le vie di Brancaccio. Faenza mostra come il processo di controeducazione di don Puglisi avvenga a livello collettivo, attraverso un’azione formativa che
coinvolge tutti i bambini, a cominciare dai più piccoli, nel tentativo di strappare alle
nuove generazioni le radici della violenza e per condurli ad una vita dignitosa e libera di
cittadini consapevoli. Attraverso le scene corali, che vanno ad includere tutti i
parrocchiani, don Puglisi, le suore e i volontari del liceo, Faenza sottolinea come la rieducazione dei bambini sia un fatto di partecipazione collettiva, e non solo l’iniziativa di
un singolo isolato, anzi, anche e soprattutto di competenza delle istituzioni, che brillano sì
180
per la loro assenza, ma che invece sono richiamate da queste immagini al dovere morale
di intervenire per risolvere il problema.
Grazie all’azione del loro “Buon Pastore” i bambini di Brancaccio sono ricondotti
alla loro “umanità”: imparano la possibilità di vivere in sintonia, di crescere insieme con
valori positivi come l’amicizia, la condivisione, il rispetto reciproco, la solidarietà. Don
Puglisi li avvicina a piccole responsabilità, li educa alla legalità, facendo capire loro che
ci sono regole da rispettare, da quelle banali del gioco del calcio a quelle più importanti
del vivere civile. Il suo infaticabile lavoro sociale e il suo esempio di coraggio incapace
di compromessi (dice a Suor Carolina: “io dico sempre che bisogna camminare a testa
alta e poi sono il primo a battere in ritirata? Come potrebbe credermi la gente?”) fanno
capire ai bambini che esiste un’alternativa e che possono vivere facendo delle scelte da
uomini liberi. Messi nelle condizioni di comprendere il sistema di valori perversi in cui
fino allora sono vissuti, i bambini scelgono alla fine la legalità, o se si vuole vedere la
vicenda dal punto di vista proposto da Baugh, decidono di seguire il Bene, la “salvezza”.
Sui loro visi da bambini cresciuti in fretta torna alla fine un sorriso infantile e persino
quelli più ineducati e violenti diventano ubbidienti, in tutto e per tutto “convertiti”
dall’insegnamento del sacerdote.
Il personaggio di Saro è in questo senso rappresentativo della “conversione” di
tutti i bambini di Brancaccio: inizialmente fra lui, vero piccolo boss in erba, e don Puglisi
c’è un rapporto conflittuale, fatto di tensione e confronti accesi. Quando, all’inizio del
film, don Puglisi lo espelle dal campo da calcio per la sua violenza e il mancato rispetto
delle regole di gioco, per esempio, il bambino urla parolacce e tenta una disperata
resistenza per mettere alla prova la forza del sacerdote. Saro sembra incorreggibile e
181
deciso a continuare a imporre la propria autorità sugli altri. Poi, pian piano, don Puglisi
conquista la sua fiducia e nelle scene successive lo vediamo aiutare il parroco con la
raccolta di fondi per il centro e con l’organizzazione della lotteria; inoltre guida la
processione di San Gaetano suonando il tamburo. Il personaggio più rappresentativo della
redenzione è, però, il “signor” Carmelo, cioè il piccolo ladro di autoradio. Inizialmente,
Carmelo non socializza con gli altri bambini al centro di accoglienza e diffida
dell’interessamento di don Puglisi nei suoi confronti, abituato com’è ad essere dagli
adulti soltanto sfruttato. Anche lui esibisce un atteggiamento da piccolo boss - “Pe’
l’amici . . . mi chiamo Carmelo” sfida, ad esempio, con la voce grossa, il prete che gli
domanda il suo nome - e tratta il centro d’accoglienza come se fosse l’ennesima portiera
d’auto da scassinare, entrando di nascosto, dal muretto del giardino, invece che dalla
porta principale, e restando perlopiù sempre in disparte. Dopo quello che Baugh chiama
“il suo iter redemptionis” (76), tuttavia, Carmelo comincia a frequentare la Messa e il
centro d’accoglienza e, alla fine di questo suo percorso di crescita, consegna a don Puglisi
il coltellino che usava per scassinare le macchine in un gesto molto simbolico. Non solo.
Faenza sceglie di affidare proprio a Carmelo, l’ultimo in ordine di tempo dei bambini
“convertiti”, il commiato dagli spettatori e il messaggio finale del film, oltre che una
grazia tutta speciale. In chiesa, dopo aver reso omaggio alla bara di don Puglisi, Carmelo
sente una voce che lo chiama per nome, e voltandosi sorride fra le lacrime perché ha visto
un’apparizione del sacerdote seduto in fondo alla chiesa, sorridergli a sua volta.
Questo epilogo precede la scena del feroce assassinio di don Puglisi, ribaltandone
la nota di pessimismo e cupa malinconia. L’immagine di don Puglisi a terra sanguinante,
senza ricevere soccorso, sembrava, infatti, non lasciare speranze sul destino del suo
182
progetto di salvezza dei bambini di Brancaccio. Faenza mostra il vuoto della piazza
deserta intorno al cadavere: le macchine transitano senza fermarsi e i passanti spaventati
cambiano strada, mentre la gente dai balconi rientra in casa e chiude le finestre fingendo
di non aver visto nulla. Come il vecchio cantastorie di Placido Rizzotto, don Puglisi
rimane solo sulla piazza e si è spenta l’eco della sua voce che prima arrivava fino i vicoli
più bui di Brancaccio: nessuno lo ascolta più. Faenza però, al contrario di Scimeca, non
lascia che il film si concluda così. E cattura prima l’immagine dei bambini che, tutti
insieme in muta processione, circondano la bara del parroco, depositandovi i loro
giocattoli e poi la “poetica immagine finale del monello che sorride a chi l’ha tolto dalla
strada” (Spada 61), offrendo come ultimo fotogramma allo spettatore un sorriso che fa
ben sperare che il sacrificio di quest’uomo coraggioso non è stato vano. Un finale che
l’ex Presidente della Repubblica Oscar Luigi Scalfaro ha definito “armonico” per il
“pensiero filosofico, teologico” che incorpora e Walter Veltroni: “un grande atto di
fiducia” e di “speranza nelle nuove generazioni di questo Paese” (“Alla luce del sole Educare alla legalità”). Lo stesso Faenza ha parlato di un gesto che “dà speranza e
slancio, invita a non smettere di lottare” alla conferenza stampa di presentazione del film.
Per don Puglisi si tratta invece di una metaforica resurrezione, come dimostra
anche la luce abbagliante che proviene dal fondo della chiesa a circondare la figura del
sacerdote mentre si “manifesta” al suo piccolo amico. In maniera evidente, rispetto a
Scimeca che aveva soltanto alluso alla resurrezione di Placido Rizzotto, attraverso il
mancato ritrovamento del corpo, Faenza rende dunque reale la rappresentazione filmica
della resurrezione di don Puglisi. Nella grazia che è conferita a Carmelo, cioè a un
bambino, di vedere l’alter Christus risorto viene ridata anche speranza alla rinascita
183
dell’infanzia (che sembrava morta con il suicidio di Domenico) a cui è garantita la
promessa di una vita nuova e libera. Come conclude Baugh, l’oscuro fallimento proiettato
sul finale dalla morte sacrificale del sacerdote - e aggiungiamo anche da quella di
Domenico - è dunque “trasformato in una grande e gioiosa vittoria, che promette molto
per il piccolo Carmelo e per il futuro della comunità” (78).
Una “vittoria” che però appare oltremodo consolatoria, giacché purtroppo non
riflette la realtà effettiva delle periferie di Palermo, in cui molti bambini sono ancora nelle
stesse condizioni di degrado ambientale, culturale ed emotivo descritte dal film. Lo
dimostra il documentario dal titolo L’uomo che sparava dritto, proposto dallo stesso
Faenza, e girato da Filippo Macelloni fra i ragazzi di Brancaccio durante la lavorazione
del film, vale a dire, dodici anni dopo l’assassinio. Le risposte dei giovani intervistati
sono agghiaccianti e fanno pensare che la situazione a Brancaccio non sia cambiata e che
il sogno di don Puglisi sia rimasto irrealizzato: la mafia “è bella”, i giudici di Palermo
“hanno fatto bene che sono morti” e i mafiosi danno soldi e lavoro alla povera gente.
Inoltre, don Puglisi “se l’è meritato” perché “è stato lui a cercarsi la morte.” Ma per
quanto scoraggiante, il documentario non ha intaccato lo spirito di Faenza, né il suo
desiderio di trasmettere il messaggio di don Puglisi. Anche lui, come Scimeca, si fa in un
certo senso “cantore” di questa straordinaria vicenda umana e attraverso il cinema si
impegna a “resuscitare” la figura di don Puglisi e a portare il suo messaggio alle nuove
generazioni. Forse, come quello di don Puglisi, si tratta di un sogno irrealizzabile. Ma conclude Faenza commentando il documentario - “È proprio questo desiderio di
impossibile che mi ha spinto avanti, perché raccontare l’impossibile è la forza e insieme
al grande sfida del cinema. Il possibile lo troviamo tutti i giorni nella realtà” (11).
184
CAPITOLO QUATTRO: LE BAMBINE E LA MAFIA
Rita: “Siamo rimaste sole. Il vecchio mondo non ci
vuole più, anzi ci odia, e il nuovo non sappiamo se
verrà mai.”
Gabriello Montemagno, dall’opera teatrale
Il sogno spezzato di Rita Atria, 1992
I. Introduzione
Questo capitolo affronta la rappresentazione letteraria e cinematografica della
mafia dal punto di vista femminile e infantile, prendendo in esame due opere che, benché
siano espressione di media diversi e prodotte a quindici anni di distanza l’una dall’altra,
hanno moltissimi punti in comune. Mi riferisco al romanzo Canto al deserto. Storia di
Tina soldato di mafia (1994) della scrittrice e militante femminista Maria Rosa Cutrufelli
e al film La siciliana ribelle (2009) del regista palermitano Marco Amenta, che
propongono entrambi protagoniste di sesso femminile.
Le donne della mafia sono state a lungo vittima di un disinteresse storiografico e
letterario che rifletteva la loro “invisibilità” all’interno dell’organizzazione, frutto a sua
volta della loro esclusione dal potere e dalla sfera pubblica. Nella società mafiosa, una
società che possiamo definire “über-patriarcale”, dove l’identità di genere è molto rigida
e le donne sono costrette a quella che Alessandra Dino ha definito una “doppia
esclusione”,108 la donna è sempre stata un soggetto trascurabile in quanto non agente, non
partecipante. Era assente, come assente, “invisibile” al pubblico, era il suo corpo. Solo
recentemente (dalla metà degli anni ottanta), a causa dei continui fatti di cronaca che
108
Scrive la sociologa giuridica Alessandra Dino che questa “doppia esclusione” porta le donne di mafia ad
essere come “straniere”: “ As women, they are foreigners in virtue of their different gender, even more
exiled because they are women from southern Italy, and finally doubly foreign because they are mafia
women in the South, even more excluded by a society formally only of men, in which male chauvinism is
the ruling force . . . As women, they are also foreign presences in virtue of the roles attributed to them . . .
furthermore, female segregation is configured to the standards of a linguistic and social exclusion and an
exclusion from world and presence” (77-78).
185
hanno rivelato il loro ruolo spesso attivo e complice, e grazie anche al fenomeno del
pentitismo, che le ha viste abbandonare gli spazi domestici in cui erano rinchiuse, le
donne di mafia sono diventate protagoniste, uscendo così anche dall’anonimato
storiografico. Molti recenti studi storici e sociologici109 hanno portato alla luce le storie
vere delle donne di mafia, rimaste a lungo nell’ombra, recuperandole pertanto come
soggetti, dando loro una nuova visibilità anche a livello storiografico e permettendo loro,
di conseguenza, di fare le prime apparizioni al cinema e in letteratura.
Alessandra Dino ha individuato nella tensione tra visibilità e invisibilità uno
strumento fondamentale per leggere il “nuovo” fenomeno sociale delle donne di mafia.
Citando il filosofo irlandese George Berkeley, secondo cui “esse est percepi” (“esistere è
essere percepiti”), Alessandra Dino sostiene appunto che l’esistenza della donna di mafia
è nata solo quando la sua immagine è emersa all’aperto, portando attenzione su di sé.
Quando si è cominciato a vedere queste donne in tv o a sentirle parlare attraverso i
giornali si è cominciata a riconoscere la loro presenza. Una volta “percepite”, sono
diventate “visibili” (73). Renate Siebert, autrice del più importante studio sulle donne e la
mafia, ha discusso a sua volta la relazione fra visibilità ed emancipazione, sostenendo che
la maggiore visibilità della donna nell’ambiente mafioso non va confusa con
l’emancipazione o interpretata come un segno di parità fra uomo e donna. Per la Siebert,
applicare il concetto dell’emancipazione alla mafia è inaccurato perché “una
emancipazione femminile all’interno della mafia rappresenta una contraddizione in
termini” (Le donne, la mafia 187). Se alla donna è concesso di agire in contesti mafiosi,
questo avviene sempre in condizioni di sottomissione. Pertanto: “Mafia ed
emancipazione si escludono a vicenda”. Quella della donna è necessariamente una
109
Mi riferisco in particolare agli studi di Renate Siebert, Liliana Madeo, Anna Puglisi e Clare Longrigg.
186
“visibilità senza potere” (262).
Le protagoniste del romanzo Canto al deserto e del film La siciliana ribelle,
ispirati entrambi a fatti realmente accaduti, sono due bambine cresciute in famiglie
mafiose. La morte traumatica del padre, a cui sono legate in modo viscerale, mette in
moto in entrambe un processo di crescita, il cui punto di partenza è rappresentato dal
desiderio di vendetta. Ma la strada della vendetta prende direzioni diametralmente
opposte. In Canto al deserto, Tina segue le orme del padre e diventa capo di una banda di
minorenni per poi cercare di entrare “da uomo” nell’organizzazione. Rita, ne La siciliana
ribelle diventa collaboratrice di giustizia. Da quel momento in poi, mette in atto un lungo
processo di rielaborazione della figura genitoriale idealizzata, che la porta a giudicare in
maniera critica le sue azioni, ma solo dopo una lunga e dolorosa dissociazione dai valori
del padre e dalla mafia stessa come qualcosa di “altro” da sé.
Il fatto che, in entrambe le opere, le protagoniste della storia siano bambine
suggerisce due chiavi di lettura: una in termini di aderenza allo standard del classico
romanzo di formazione (è mostrato il loro percorso di crescita dall’infanzia all’età
adulta), un’altra, parallela alla prima, in termini del significato del ruolo femminile
all’interno della mafia. Maria Rosa Cutrufelli e Marco Amenta propongono protagoniste
che si ribellano alla storica condizione di esclusione che regola la mafia. La scelta di Tina
di diventare un boss, così come quella di Rita di collaborare con la giustizia, sono segnali
forti di emancipazione, volti ad affermare il proprio diritto all’individualità. Ma si tratta
di una vera emancipazione? L'analisi mostrerà che Rita paga un prezzo altissimo per la
sua decisione di ribellarsi alla legge patriarcale mafiosa. Anche Tina, nel suo desiderio di
ottenere visibilità all’interno di un mondo violento, riceve disapprovazione e
187
incomprensione. Entrambe vengono respinte dal loro ambiente, espulse come “eretiche”
o “pazze”. La stessa Cutrufelli afferma che il suo personaggio è la “figura esemplare di
un’emancipazione impossibile” (“Nascere in un grembo di carta” 246).
Nella scelta di questi autori di mettere in scena personaggi femminili possiamo
vedere però l’emergenza di un discorso sulla questione delle donne e la mafia
all’affacciarsi del nuovo millennio. Le protagoniste sono delle “nuove eroine”, come ha
definito Silvia Contarini le figure femminili dei romanzi della Cutrufelli (119), in un
certo senso, sono figlie della transizione da un vecchio ad un nuovo mondo. Nelle due
ragazzine, in uno stato di crescita dall’infanzia all’età adulta, possiamo vedere, infatti, il
simbolo di una transizione storica della condizione femminile all’interno della società
patriarcale mafiosa. Forti e determinate, esse sono lontane dall’immagine tipica della
femminilità associata alla donna di mafia e predicono un tipo emergente di donna che può
anche diventare rilevante in chiave futura, sia come insider, cioè come aventi potere
all'interno della mafia, che come outsider, cioè come esempi di ribellione alla mafia.
Lo stesso genere-mafia si conferma un genere in trasformazione, a partire dal
contenuto, che recupera casi “sommersi” di donne di mafia, riportandole alla superficie, e
dunque alla visibilità, e trasformandole in soggetti narrativi, fino agli autori, anzi alle
nuove autrici di mafia. Come mostrano le opere di Amelia Crisantino (Cercando Palermo
1990), Maria Occhipinti (Il carrubo ed altri racconti 1993), Silvana La Spina (Scirocco ed
altri racconti 1992 e La bambina pericolosa 2008) e i film di Roberta Torre (Angela 2003,
su tutti) il genere mafia - anche lui genere “maschile” per eccellenza - è pronto ad aprirsi
a nuovi influssi, e a dare espressione a nuove riflessioni socio-culturali, a rivisitarsi, a
rinnovarsi.
188
II. Canto al deserto
Il romanzo Canto al deserto (1994) di Maria Rosa Cutrufelli narra le vicende di
Tina “‘a masculidda”, una baby criminale nata e cresciuta in una famiglia mafiosa
siciliana. Maria Rosa Cutrufelli trae spunto dall’attualità, ispirandosi alla storia di
Emanuela Azzarelli, detta la “Bonnie di Gela”, assurta alle cronache degli anni novanta
perché a capo di una banda di giovanissimi delinquenti al servizio della criminalità
organizzata. La scrittrice immagina che un’anonima narratrice (in cui è ravvisabile la
stessa Cutrufelli) ritorni dopo vent’anni a Gela, sua città natale, per ottenere informazioni
sulla vita di Tina. Il suo intento dichiarato è quello di ricostruire la storia della baby
criminale, di cui è rimasta affascinata leggendone sui giornali, e scriverne un libro. La
narratrice si propone di “entrare dentro la vita di Tina, costruirla pezzo per pezzo” (39),
esplorando dall’interno il contesto sociale in cui si muove la ragazzina, parlando con chi
l’ha conosciuta, e auspicando e temendo al tempo stesso un incontro diretto con lei.
Il libro è perciò autoreferenziale, perché la storia di Tina che si dipana a poco a
poco nel romanzo riflette il dipanarsi del romanzo stesso. Come ha osservato Giada
Fricano, “Canto al deserto si costituisce . . . non tanto, o non solo, come romanzo su
Tina, ma soprattutto come cronistoria di esso: le pagine di questo romanzo altro non sono
che il resoconto dettagliato dei giorni spesi dalla giornalista a cercare il materiale per
scrivere il suo libro”. Di Tina, personaggio sfuggente, sempre inseguito e mai raggiunto,
spuntano fotografie sbiadite, aneddoti, vaghe testimonianze. Pian piano la ragazzina
assume i contorni di un personaggio leggendario, che si cerca, ma non si trova mai.
Graziella Parati scrive che Tina è una “elusive entity” (259). Giada Fricano la definisce
“una chimera” e aggiunge: “La ricostruzione della vita di Tina . . . si basa su ipotesi e
189
supposizioni, proprio perché la protagonista compensa con l’immaginazione l’assenza di
informazioni precise e testimonianze dirette sul carattere e i sentimenti della
‘masculidda’”. Tina diventa allora una figura reale e fittizia insieme, che prende corpo a
poco a poco nella scrittura fra elementi di cronaca e di fantasia. Il suo ritrovamento
finale, vissuto anche dal lettore con ansia anticipatoria, promette una sorta di
“rivelazione” non solo sulla vita di Tina, ma anche sulla narratrice stessa e sul significato
del suo ritorno in Sicilia.
Benché Tina sia il motore del discorso narrativo e l’oggetto principale della quête
della protagonista, Canto al deserto si configura, infatti, per quest’ultima anche come un
viaggio alla riscoperta di sé, attraverso il riconoscimento dei luoghi d’infanzia e della
giovinezza. Nella tradizione del nòstos e di Conversazione in Sicilia, il viaggio
geografico che compie la narratrice dal Nord al Sud Italia è anche un viaggio simbolico a
ritroso nel passato. Il nòstos mette in moto un processo di riconoscimento: benché i suoi
occhi siano “pronti a riconoscere e a ricordare” (12), inizialmente essi fanno fatica. Gela,
ad esempio, non corrisponde più alla sua memoria, bensì è una città insieme “familiare e
sconosciuta” (11). Pian piano però la narratrice si rifamiliarizza con ciò che la circonda.
In un susseguirsi di ricordi, ritrova paesaggi, persone, odori, sapori e, come Silvestro in
Conversazione in Sicilia, il suo percorso include pure un’incursione al cimitero. Anche
gli incontri che fa a Gela si qualificano per lo più come conversazioni, secondo
l’impostazione del romanzo di Vittorini. Durante il soggiorno, non soltanto racconta, ma
conversa con le persone che intervista, e anche con se stessa e con il proprio passato. La
scelta della focalizzazione interna permette un impianto compositivo dal forte carattere
introspettivo e autobiografico. Giada Fricano osserva che le incursioni dell’io narrante
190
per le vie di Gela “offrono anche continui pretesti per una riflessione privata, intimista,
consentono, cioè, che la giornalista ripensi il suo rapporto con l’isola, analizzi in modo
critico il passato e soprattutto indaghi il profondo bisogno di tornare per raccontare la sua
terra”. Come in Vittorini, il ritorno a Gela acquista allora un’importanza fondamentale,
giacché il recupero del passato aiuta la narratrice a recuperare anche il presente. Verso la
fine si rende conto che: “È come se non mi fossi mai mossa da questo luogo. Le emozioni
di un ieri lontano si sono saldate a quelle di oggi, il tempo si è compattato in un unico
blocco . . . L’isola mi tiene saldamente avvinta al suo presente” (220). Nella narratrice,
rispetto a Vittorini, il recupero combinato di passato e presente si concretizza, però,
principalmente in una reiterazione della presa di coscienza femminile, che vent’anni
prima l’aveva fatta partire dall’isola alla ricerca di un proprio spazio nel mondo.
Cercando Tina e rievocando i suoi ricordi sull’isola, un luogo rimasto perlopiù chiuso e
tradizionale come allora, la narratrice ritrova sì nostalgicamente il proprio passato, ma
rimette in atto e ricostruisce, attraverso la storia di Tina, lo stesso percorso di crescita che
l’aveva condotta a fuggire vent’anni prima e finisce inevitabilmente col ripercorrerlo.
Inoltre, nonostante l’evidente richiamo a Vittorini, il viaggio della protagonista in
Sicilia non assume mai una dimensione simbolica. Non si tratta in questo caso di un
luogo che è “solo per avventura Sicilia”. Anche se la Cutrufelli crea personaggi e luoghi
“tipici”, cioè rappresentanti di un determinato ruolo e funzione sociale (il brigadiere, il
medico, il prete, l’avvocatessa, la caserma, la scuola, il tribunale ecc.), Canto al deserto
non è un romanzo allegorico. Anzi, esso è profondamente radicato nella dimensione
storico-sociale del tempo. Sullo sfondo della storia di Tina “‘a masculidda”, la Cutrufelli
dipinge un ritratto preciso e non edulcorato della Sicilia degli anni novanta, facendola
191
apparire come un luogo contaminato dai rifiuti, l’industrializzazione selvaggia,
l’abusivismo, la corruzione e la violenza. Il romanzo inoltre è un interessante studio
storico-sociale sulla mafia. Attraverso le testimonianze dei personaggi che la narratrice
incontra, la Cutrufelli fornisce informazioni dettagliate (e spesso documentate) sulle
famiglie mafiose di Gela, sulle faide e le stragi che hanno insanguinato la cittadina e
riflette su questioni complesse come il reclutamento dei giovani e la condizione
femminile, facendo considerazioni degne di un trattato di antropologia culturale. Il
risultato è quello di un “romanzo impuro” come l’ha definito ancora Giada Fricano,
poiché si basa su un “abile innesto della finzione narrativa su una materia realistica
accuratamente investigata”. Per la portata sociologica e la presenza di un forte Io
narrante, che è sia giornalista, sia testimone interno, sia commentatore, senza essere il
vero protagonista della storia, questo romanzo pare in un certo senso anticipare le
tecniche che userà Roberto Saviano dieci anni dopo per il suo Gomorra.
Canto al deserto ha dunque numerosi registri di lettura. Il libro ci permette insieme alla scrittrice femminista - di esplorare anche la questione dell’identità
femminile, resa più complessa dalle dinamiche socio-culturali presenti nella mafia. Il
romanzo mette in scena un soggetto di sesso femminile in un contesto “über-patriarcale”
che la esclude dallo spazio pubblico, costringendola ad un ruolo passivo e secondario.
Tina lotta per diventare visibile nel gruppo di maschi violenti da cui è emarginata per il
solo fatto di essere donna.110 Per far ciò, trasforma se stessa in un uomo e in un mafioso:
110
Il desiderio di visibilità si manifesta anche nell’apprezzamento che Tina mostra di avere per la notorietà.
La ragazzina sfugge ai giornalisti che scendono fin dall’Italia settentrionale ad intervistarla e finge
disprezzo per i media, mentre in realtà si compiace degli articoli in prima pagina che parlano di lei. Il suo
esibizionismo, insolito secondo la narratrice per la consueta discrezione mafiosa, è però esemplare del
bisogno di Tina di rivendicare il suo essere protagonista, con tutti gli strumenti che ha a disposizione. La
“vanità” di cui parla la narratrice, cioè “quella inconfessabile fantasia di vedersi sopra un giornale con
l’Alfa e la giacca di pelle nera” (105) non è altro che un modo per esigere il diritto ad essere visibile.
192
indossa vestiti maschili, impara a sparare con la pistola e si fa largo con la forza nello
spazio pubblico della mafia. La sua lotta è per l’autoaffermazione, ma anche per il
conseguimento del potere. Proprio per questo motivo, la narratrice la qualifica ad un certo
punto come “Tina, l’eretica” (81), poiché trasgredisce alla sottomissione prevista per la
donna nell’ambiente mafioso e nella società patriarcale. Come scrive Silvia Contarini, la
scelta di Tina “è una trasgressione sociale e familiare, pubblica e privata” (120).
Maria Rosa Cutrufelli mostra però che la questione dell’emancipazione femminile
all’interno della mafia è molto più ambivalente di quanto appaia prima vista, tant’è vero
che la definisce una falsa emancipazione o un’“emancipazione perversa” (“In the
Kingdom of Persephone” 105). Infatti, Tina è attratta in modo perverso dalla violenza
mafiosa, benché ne conosca molto bene le conseguenze nefaste. Per lei, la liberazione è
ravvisabile paradossalmente proprio nella violenza e nei valori negativi della mafia:
l’intimidazione, la prepotenza, la brutalità, comportamenti “maschili” che reclama a gran
voce il diritto di esercitare. Come tutte le donne che scelgono il coinvolgimento attivo
con la mafia, Tina è vittima di quello che la Cutrufelli stessa definisce un “machismo
femminile, che nel mondo sommerso dell’illegalità si sostituisce al desiderio di esistere,
alla fame di cittadinanza che è comune a tutte le donne del nostro tempo” (“Nascere in un
grembo di carta” 245). Tina confonde insomma l’esercizio della violenza con la libertà.
Per questo motivo, la Cutrufelli fa dire a un certo punto alla narratrice che per Tina, come
in generale per tutte le donne di mafia, “le strade dell’emancipazione portano dritte
all’inferno” (121).
La storia di Tina è dunque quella dell’affermazione di sé e della ricerca di
un’identità soggettiva in un mondo esclusivamente maschile, dove la soggettività della
193
donna è sempre negata.111 Non sorprende, allora, che per plasmare la sua identità, Tina
faccia riferimento unicamente ad un modello maschile, cioè il proprio padre. Il padre, un
piccolo boss mafioso, fa crescere Tina accanto a sé, lontana dalla figura materna e dalle
normali esperienze femminili (la porta al bar, dal barbiere e per le campagne, le insegna a
giocare a biliardo ecc). Come Michele in Io non ho paura, anche Tina idealizza la figura
paterna, percepita come modello positivo e da emulare. Ai suoi occhi il padre è “l’uomo
onorato e cercato da tutti, che tutti salutavano e riconoscevano nei bar, per strada, in
piazza. Meglio di un divo della tivù” (66). A differenza di Michele, però, Tina non arriva
mai a percepire il padre in modo negativo. Anche nel ricordo di lui che affiora dopo la
morte, è rappresentato sempre come una figura ideale. Il padre si pone come una sorta di
specchio interno di affetti e di valori (o, per meglio dire, dis-valori), in cui Tina si riflette
e s’identifica. Poiché nel padre si rispecchia anche l’identità mafiosa della bambina, alla
sua morte Tina tenta quasi di sostituirsi a lui, mettendosi a capo di una banda di
minorenni (il travestitismo può essere indicativo anche di un desiderio nostalgico di
ritrovare il padre perduto). E poi cerca di scalare la vetta dell’organizzazione per
diventare un boss.
La morte violenta del padre, ucciso da un clan rivale quando Tina ha appena otto
anni, assume un’importanza fondamentale per il suo processo di crescita e
trasformazione. Non a caso, l’omicidio è raccontato interamente dalla prospettiva della
bambina. È lei che vede il padre aprire la porta ai suoi assassini e balzare in aria quando è
111
L’esclusività del maschile è riaffermata nel romanzo dal fatto che tutti i principali luoghi in cui la
protagonista si muove sono di esclusiva presenza maschile. Non solo la società mafiosa, ma anche il motel
in cui alloggia la narratrice (e che, proprio come lei è situato ai margini della cittadina) è popolato
esclusivamente da uomini, così come la scuola gestita dall’oratorio salesiano e la piazza principale di Gela,
dove la narratrice stessa si reca a passeggiare, notando di ritrovarsi, unica donna, fra una “folla di masculi
affaccendati” (137).
194
colpito a fuoco. Lo vede cadere pesantemente in terra: la ripetizione martellante del verbo
“cadere” nel paragrafo è a riprova che l’intero mondo di Tina si frantuma, andando in
mille pezzi.112 Nonostante dentro di lei si apra “un vuoto profondo e doloroso” (25), Tina
reagisce con prontezza: si appropria delle armi del padre: un fucile e una beretta calibro
nove, ed esce di casa. Ma per farlo deve scavalcare il corpo del genitore morto sdraiato
sulla soglia, che le blocca il passaggio: un gesto altamente simbolico che appare come
l’attraversamento di una soglia liminale verso l’età adulta; “un’operazione terribilmente
difficile”, dice, infatti, la narratrice, come attraversare “una strada piena di fango” e
cercare col piede “Piccole oasi dove posare il passo” (26-27). In sostanza, la morte del
padre fa della bambina un adulto precoce. Messa di fronte alla violenza della società, è
come se la piccola orfana si facesse padre del padre morto, mostrandosi forte laddove suo
padre era stato debole.113 La soglia rappresenta anche simbolicamente il confine fra
femminile e maschile. Come per i piccoli protagonisti di Gomorra e Certi bambini,
superarla è per Tina un passare oltre che significa non solo l’ingresso nel mondo adulto,
ma al tempo stesso la sua rinascita come maschio: è in questo momento, infatti, che a
Tina viene l’“idea strana e prodigiosa” di cambiare nome e identità, ripromettendosi che
una volta fuori: “nessuno mi dovrà più chiamare Cettina” (27).114
112
Così scrive la narratrice: “Suo padre cadde riverso. Insieme a lui cadde il tavolino con l’inutile telefono
e si rovesciò sul pavimento. Cadde il vaso di vetro. Caddero gli animaletti di ceramica comprati al mercato.
Cadde la foto del matrimonio appoggiata a una pesante cornice di metallo, vuota. Cadde la cornice. Cadde
la casa intera. E tremò, nella testa di Cettina, fino alle fondamenta, fin dentro la terra che a sua volta
tremava sgretolandosi, franando, e ogni frana ne metteva in moto un’altra che si rovesciava sempre più a
fondo, nelle sue stesse viscere” (25, corsivo mio).
113
Questo punto trova conferma più avanti nel romanzo, quando un bambino confessa a Tina che da grande
vorrebbe diventare come suo padre. La narratrice commenta: “Quello era un sogno che riconosceva. Anche
se lei non aveva mai voluto, non voleva essere come suo padre. Non voleva finire ammazzata da uno
sconosciuto. Più di lui, voleva essere. E vincere, a qualsiasi costo. Vincere sulla morte di suo padre” (176).
114
Cettina era il diminutivo che era usato per lei fino a quel momento e che detestava perché era: “Un nome
da bambina piccola, da femminuccia, che proprio non le stava addosso, le cadeva da tutte le parti come
certi vestitini a balze che sua madre s’era rassegnata a non metterle più e a sostituire con pantaloni e
maglietta” (19).
195
Graziella Parati osserva che Tina “reacts to her father’s murder by . . . redefining
herself as her father’s daughter” (259). In realtà, alla morte del padre, Tina ridefinisce se
stessa come il figlio di suo padre. All’ingresso del mondo adulto, la bambina rifiuta di
essere connotata sessualmente come una donna, bensì entra “da uomo” nel dominio
maschile della mafia. D’altra parte, l’unica maniera che ha Tina per essere protagonista in
quel mondo riservato ai maschi è di lasciare dietro di sé le caratteristiche tradizionali di
femminilità: solo così può avere un ruolo attivo nel mondo in cui gli uomini comandano
ed uccidono. Si tratta ovviamente di più di un semplice cambiamento di vestiario: è un
gesto con cui la bambina intende crearsi una nuova identità sessuale. È sostanzialmente
un atto di ri(gener)azione in una forma che dovrebbe garantirle autorità di soggetto ed
evitarle di venire relegata, in assenza del padre, ad un ruolo di oggetto marginale e
passivo.
Nel momento traumatico della morte del padre, infatti, Tina intuisce
all’improvviso il suo destino di donna. Si rende conto, come per un’illuminazione, che
senza il padre dovrebbe adeguarsi alla femminilità passiva rappresentata dalla madre,
seguendo i canoni tradizionali previsti dalla società e dalla mafia. La narratrice racconta
che, davanti al cadavere, la bambina urla inspiegabilmente il nome della madre,
“nonostante fosse il corpo del padre quello che giaceva di traverso nel corridoio.
Nonostante . . . fosse sicura che tutto il suo amore era per il padre che la portava al bar e
le comprava le scarpe di gomma” (25). E poi, guardando la madre che era accorsa in
salotto, ma “Stava immobile e rigida in mezzo alla stanza” (26), capisce che non può
identificarsi con lei. E non solo perché il paradigma materno è uno di distanza e
inaffettività, ma anche perché l’immobilità della madre è emblematica del ruolo passivo
196
che ricopre nella società e che Tina si rifiuta di emulare. Afferrando le armi e
allontanandosi da casa, la bambina ridefinisce se stessa come radicalmente diversa dalla
madre, lontana dallo spazio domestico, e, appunto, in qualità di figlio maschio. Il suo
impadronirsi delle armi del padre appare allora come un indiretto passaggio di consegne,
da padre mafioso a figlio mafioso, che le assicura l’entrata nel sistema “per anomala
investitura paterna” (70).
Nel tentativo di ri(gener)are il proprio corpo, quindi, Tina cerca di rimodellarlo al
maschile. Al sopraggiungere della pubertà copre il seno sotto bende strettissime, curva le
spalle e tiene le braccia lungo i fianchi. Inoltre si taglia i capelli cortissimi, indossa
pantaloni larghi, magliette unisex e un giubbetto di pelle, occultando così il corpo
femminile sotto il vestiario maschile e insieme ad esso tutta la sua “odiosa vulnerabilità”
(44). Il travestimento assume presto una realtà corporea e Tina finisce per diventare
indistinguibile da un vero uomo. Ignazio, l’amico d’infanzia della narratrice, ammette che
a quattordici anni Tina è “Un maschio, perfettamente” (46) e come maschio è, infatti,
percepita dai gelesi che le affibbiano il soprannome di “’a masculidda” (“la maschietta”).
Il travestimento acquista però anche una realtà psichica, perché il vestiario ha su di lei un
effetto mascolinizzante che la conduce ad esprimere sentimenti lontani da qualsiasi
sensibilità femminile (e persino ad esplorare l’omosessualità). Non è perciò ovviamente
solo l’atto di indossare vestiti maschili che ha importanza di per sé, bensì la metamorfosi
che si crea attraverso i vestiti, la quale le fornisce le condizioni necessarie per potersi
riasessuare come un uomo. Contrariamente alla protagonista travestita da maschio di un
altro romanzo della Cutrufelli, La briganta (1990), che pian piano prova ribrezzo per le
brutalità del mondo maschile (la sua sensibilità femminile mai sopita la fa inorridire di
197
fronte alla violenza della guerra), Tina non si tira mai indietro dal suo essere un “vero
uomo” e dall’esercizio della violenza. Il suo è – come descrive ancora l’amico Ignazio –
un “attaccamento maniacale e morboso ai simboli della mascolinità”: quelli esteriori,
innanzitutto, ma anche quelli psichici interni che la designano come mafioso, ovvero
l’“ossessione del comando e del rispetto. Non il rispetto che può pretendere una femmina
da un maschio . . . ma il rispetto come lo intendono gli uomini. E che significa timore”
(46).
L’indefinitezza sessuale e il travestitismo di Tina ci consentono un’analisi
femminista e queer del romanzo della Cutrufelli. Non solo, come nella tradizione
femminista, il corpo è un luogo di profondo disagio per Tina, anzi, le dona un senso di
disgusto, perché è un corpo da cui si sente completamente estraniata (Hélène Cixous lo
chiama “nasty companion”, 419). Ma la sua stessa identità di genere non è un’identità
stabile. Tina è nata femmina, ma si traveste e si comporta da maschio. La sua
indeterminatezza sessuale corrisponde all’idea postmoderna d’identità di genere proposta
dai teorici queer, i quali affermano che la dicotomia maschio-femmina è arbitraria, effetto
di una costruzione sociale, e che il genere stesso è un artificio. Secondo queste teorie non
solo il corpo, ma anche la stilizzazione del corpo, quindi gesti, linguaggio, movimenti e,
appunto, i vestiti e il nome, vanno a costituire un’illusione di genere, creando la finzione
che esista qualcosa di predeterminatamente maschile o femminile nel corpo umano. I
gesti, gli atteggiamenti e l’abbigliamento stesso sono, invece, “signifier” arbitrari
dell’identità di genere (Thurer 15).115
115
Shari Thurer ha fatto una rassegna completa ed accuratissima delle teorie post-moderne gender e queer
nel suo studio The End of Gender: A Psychological Autopsy (2005).
198
In Gender Trouble: Feminism and the Subversion of Identity, Judith Butler, la
principale teorica queer, sostiene che ogni espressione di genere è una mascherata (“all
gender is drag”), e dunque non un’espressione di sé, bensì una “performance”, portata
avanti per mezzo di atti esteriori riconosciuti culturalmente, che, se ripetuti, producono
l’identità di genere. Butler scrive, appunto: “the outward appearance of gender, as
communicated by dress and behavior, is always performed, consciously or
unconsciously” (viii). Alla morte del padre, quando Tina attraversa la soglia e scavalca il
suo corpo che blocca la porta, il cambiarsi il nome e i vestiti è come un “atto
performativo” che esemplifica il suo desiderio postmoderno di cancellare il corpo come
categoria biologica, e di liberarsi di tutte le sue costrizioni e attributi ornamentali.116
La stessa Cutrufelli riconosce che i personaggi femminili dei suoi romanzi (si
pensi proprio a La briganta):
hanno tutte una caratteristica comune che non può essere casuale: il corpo, per
loro, non è il luogo di un’identità sessuale certa e immutabile, ma un campo di
sperimentazione dove, in un gioco di maschere e di travestimenti, il confine tra
maschile e femminile sfuma e deve essere continuamente rinegoziato. E se il
corpo stesso è per loro una veste, l’abbigliamento, gli abiti, il trucco non sono che
un passaporto per entrare e uscire da mondi diversi. Sono personaggi in transito,
aperti alla mutazione, nomadi perché non accettano punti fermi e conclusivi.
(“Travestimenti di carta e sangue” 36)
“L’indeterminatezza sessuale di Tina,” continua la Cutrufelli, “è così un continuo
gioco tra interno ed esterno, identità profonda e identità di superficie, un andare e venire
116
A Tina fanno rabbrividire gli orpelli femminili. La narratrice descrive così il disgusto della ragazzina al
cospetto di una delle clienti dell’amica parrucchiera Giovanna (si noti il discorso indiretto libero con cui
vengono espressi i pensieri di Tina): “Rosso sulle labbra, rosso sulle unghie, rosso sulle guance. Per non
parlare di tutte le protesi che si mettevano addosso: e i tacchi e il reggicalze e il reggiseno. Una malattia, un
male oscuro delle donne, giovani o vecchie, che cos’altro poteva essere quella fissazione di nascondere,
correggere, inventare altezze e misure e colori?” (105).
199
di convenzioni e maschere di genere, tra l’inganno degli abiti maschili e la seduttività
dell’artificio femminile” (37).
Più che la “maschera” da uomo di Tina, è quella da donna a rendere
maggiormente evidente la natura artificiale del genere esemplificata dal romanzo e la
continua rinegoziazione dei generi. In una fotografia che a un certo punto lo zio
omosessuale di Tina mostra alla narratrice, la ragazzina è vestita da donna, ma non una
donna qualsiasi, bensì una iper-femminile, con minigonna, tacchi alti e trucco pesante. La
narratrice stessa ammette di far fatica a riconoscerla, poiché il costume di iperfemminilità la rende eccessiva, quasi deforme. Nella foto, Tina sembra eseguire una
parodia del sé femminile, suggerendo a chi la guarda che l’unico modo in cui può essere
donna è con una farsa (lei stessa la definisce “una mascherata”). In pratica, nella foto, è
come se Tina si prendesse gioco del modello di genere, esemplificando l’idea della Butler
che l’uomo e la donna sono solo attori di una “performance”, in cui il genere è
continuamente messo in scena perché imposto dalle convenzioni sociali. Portando
attenzione sull’artificialità del costume, il travestimento di Tina espone la natura falsa del
genere e ne svela la costruzione fittizia (dice la Butler: “In imitating gender, drag
implicitly reveals the imitative structure of gender itself”, 187). Non è un caso, tra l’altro,
che sia proprio lo zio di Tina - omosessuale e rappresentante del “cross-gender” - a
mostrare la foto alla narratrice.
Ma c’è di più. Nella fotografia, Tina è una donna mascherata da uomo che si
maschera da donna. Il suo travestimento non è solo un’inversione, bensì è una doppia
inversione, essendo quella di Tina una maschera femminile del suo aspetto esteriore
maschile, che nasconde in realtà una natura interiore femminile (o, se vogliamo, nella
200
foto, Tina indossa una maschera iper-femminile del suo sesso anatomico femminile,
mentre la sua essenza interiorizzata è maschile). Parafrasando le riflessioni della Butler
sull’esperienza “drag” e “cross-gender” in Gender Trouble, possiamo arguire che la foto
presenta tre dimensioni contingenti della corporalità di Tina: il suo sesso anatomico
(femminile), la sua identità di genere (maschile) e la sua “performance” di genere (di
nuovo femminile). Come scrive la Butler, se l’anatomia sessuale di colui che esegue la
“performance” è già diversa dalla sua identità di genere, e tutte e due sono diverse dal
genere della “performance” stessa, allora la “performance” suggerisce una dissonanza
estrema, non solo tra il sesso anatomico e la “performance”, ma tra il sesso e il genere, e
tra il genere e la “performance”. Per quanto la foto rappresenti una donna all’apparenza
unitaria e fissa nella sua identità di genere femminile, la doppia inversione rivela
drammaticamente la distinzione di questi aspetti di esperienza di genere che - sempre
secondo la Butler - sono dunque solo falsamente naturalizzati a rappresentare un’unità
identitaria femminile (187).
Tina, però, è una portavoce inconsapevole dello smascheramento della falsità del
binarismo maschile-femminile. All’inizio del suo percorso vive nell’illusione di poter
raggiungere un’unità identitaria maschile, attraverso il mutamento di nome e di vestiario.
L’accesso alla sua nuova identità sessuale passa inoltre per un altro “atto performativo”
importante: l’appropriazione della pistola appartenuta al padre. Com’era accaduto per
Rosario in Certi bambini, e come vedremo per Rita ne La siciliana ribelle, la presa di
possesso della pistola ha il significato simbolico dell’acquisizione del potere maschile. La
pistola è un segno di autorità, a maggior ragione nel contesto mafioso, perché suggerisce
la virilità dell’individuo e implica che il suo valore di uomo coincide con la sua capacità
201
di usare l’arma per imporsi agli altri e, all’occorrenza, anche per uccidere. Ma attraverso
l’equazione arma = organo maschile, la pistola assume anche importanza come sostituto
del pene. Il fatto che Tina si appropri della pistola alla morte del padre si configura
palesemente come un’espressione Freudiana dell’invidia del pene: un’interpretazione
plausibile se si tiene conto anche delle innumerevoli scene in cui la pistola appare alla
bambina come un oggetto del desiderio, che custodisce gelosamente, smontandola,
lucidandola, lubrificandola. Il bambino maschio, secondo Lacan (che riprende Freud)
s’identifica col padre perché come lui possiede un pene: un potente “signifier” di genere
in grado di fornirgli l’identità maschile. La bambina non ha il pene, e neppure altre parti
del corpo su cui costruire un “signifier” fallico, quindi è in una posizione di mancanza.
La bambina, nel sistema Freudiano-Lacaniano, non può entrare nell’ordine simbolico
assumendo il Nome del Padre, perché non ha il pene, ossia non ha quello che serve per
essere un sé determinato e attivo; è un essere incompleto, un “signfier” vuoto (Thurer
128).
Cresciuta nella società fallocentrica mafiosa, in cui il potere e il comando spettano
a chi ha l’organo maschile e ben consapevole di non averne uno, è ovvio che Tina
desideri possedere un pene. Avvertendone l'assenza come una castrazione, Tina cerca di
compensarlo impadronendosi dell’oggetto appartenuto al padre, che è il simbolo supremo
della potenza maschile e anche il segno tangibile della sua autorevolezza nella società
come uomo e come mafioso. La pistola, la cui presenza ingombrante nei pantaloni di
Tina è costantemente rimarcata nel romanzo, si sostituisce pertanto al pene mancante: da
usare, da sfoggiare, da esibire (ovviamente Tina desidera che sia ben visibile, così da non
essere più castrata in quanto donna). Grazie a quest’oggetto quasi magico, Tina può
202
trasformarsi da bambina potenzialmente indifesa in un uomo che è in perfetto controllo di
sé e degli eventi circostanti. Possederla le dà coraggio, fiducia e un senso
d’invulnerabilità e Tina passa giornate intere ad esercitarsi nel tentativo di acquisirne una
padronanza perfetta.117
In quanto detentrice della pistola, Tina guadagna inoltre il comando su una banda
di ragazzini più grandi di lei, tutti maschi. Insieme compiono scorribande e piccoli furti
nei dintorni di Gela e si riuniscono in un bunker abbandonato sulla spiaggia. In questo
luogo, che la narratrice descrive come “adatto a battesimi occulti e cerimonie iniziatiche,
a spedizioni notturne che stordivano più di cento giri in giostra, e colmavano lo sbalzo
intollerabile tra la realtà e il desiderio” (83), essi eseguono una specie di rito iniziatico
che coinvolge proprio la pistola. In una notte di luna piena, i ragazzini della banda, tra cui
il fratellino Francesco, seduti in semicerchio intorno ad una candela accesa, si passano di
mano in mano la pistola di Tina e, ammirati, la toccano, la lisciano, ne provano
l’impugnatura, finché alla fine del giro la pistola ritorna saldamente nelle mani di Tina. È
come un rito autocelebrativo che sancisce il comando di Tina e le fornisce ufficialmente
il pene mancante, che la ragazzina tra l’altro dimostra subito di meritare, sparando con
precisione millimetrica alla fiammella della candela accesa. Questo “atto performativo” è
solo uno dei tanti atti che Tina esegue per ridefinirsi come maschio e come mafioso. E
tutti, non a caso, presuppongono l’uso della pistola.
117
La Cutrufelli rende in realtà ancora più evidente l’invidia del pene che caratterizza il personaggio. Tina
vive l’assenza dell’organo maschile come una vera mutilazione e pertanto si fabbrica un pene fittizio con
un pugno di stracci che infila nel costume da bagno, quando va in spiaggia. Poi lo sbircia con orgoglio
quando è sdraiata sulla sabbia e rinuncia anche a fare il bagno per non farlo inumidire e sgonfiare.
L’“immaginario turgore” (91) però si sgonfia per effetto del sudore che finisce per bagnare gli stracci e lo fa
diventare “una piccola bozza pietosa” (92), lasciando la ragazzina mortificata.
203
A undici anni, ad esempio, Tina organizza insieme al resto della banda una
spedizione punitiva contro la maestra di Francesco, colpevole di averlo sgridato e
schernito. Anche questo è un atto che serve a ridefinire pubblicamente la sua mascolinità
e con il quale Tina dà libero sfogo all’aggressività inconscia che le deriva dal trauma di
non possedere un pene. Infatti, entrando armata nella scuola elementare, la sua intenzione
principale è quella di esibire trionfalmente la pistola. Facendosi largo fra i corridoi, scrive
la narratrice, Tina è “consapevole del peso che le gravava in cintura . . . quel peso
divenuto familiare, mentre un lieve residuo di lubrificante sull’impugnatura inumidiva la
maglietta, e scivolando le solleticava le natiche”. E poi aggiunge, “Anche le camicie del
padre le ricordava sempre macchiate, un alone di unto sulla schiena” (41), sancendo, di
fatto, l’equazione pistola = membro maschile = figura paterna. Anche in questo caso, si
tratta per Tina di una sorta di autocelebrazione, destinata a darle potere come soggetto
maschio. Quando punta la pistola alla maestra, Tina trema di paura. Il rischio della
punizione però è un ingrediente fondamentale dell’azione e la paura che sente è in un
certo senso “virilizzante”. Per Tina è più tollerabile la paura maschile della punizione
della vergogna femminile di essere solo una bambina fragile e passiva; meglio, insomma,
dell’umiliazione di essere riconosciuta come una “senza pene”. È interessante, tuttavia,
che mentre Tina punta la pistola verso la maestra, compiacendosi del fatto di somigliare
in tutto e per tutto ad un bambino maschio, i compagni della banda fanno ad un suo cenno
d’intesa la pipì contro la cattedra. Lei non lo può fare. L’appropriazione del ruolo di
comando attraverso la pistola dunque non funziona fino in fondo, perché la bambina,
vestita da maschio, comanda sì sugli altri maschi e partecipa all’azione dimostrativa, ma
204
rimane in sostanza, e in questo caso in maniera anche piuttosto visibile, “quella senza
pene”.
Anche gli altri “atti performativi” che Tina compie ottengono il medesimo effetto
di incompletezza. Quando le è affidato l’incarico di far saltare in aria un supermercato il
cui proprietario si rifiuta di pagare il pizzo, ad esempio, Tina non riceve la gratificazione
sperata. Per festeggiare il successo dell’impresa, la ragazzina decide di portare dei
dolcetti alla madre, da cui si aspetta un riconoscimento dell’atto, o perlomeno un gesto di
approvazione. La madre, però, non la considera. Anzi mostra chiaramente di non
approvare il suo aspetto fisico, dicendo che non la vuole vedere “in giro, così combinata”
(60). La madre è descritta come una “figura informe”, con una “voce apatica”, e
confinata in uno spazio ristretto, immobile nel letto e avvolta in “un odore di malattia, di
abbandono, di depressione” (60), tutti elementi che non fanno che rafforzare il ruolo
passivo della donna e rendono marcato il confronto fra l’opprimente e claustrofobica
sfera e l’avventuroso mondo maschile esterno. Tina reagisce alle parole della madre con
un sentimento di abbandono e di tradimento, che la narratrice descrive in questi termini:
“L’assaliva un terrificante senso di perdita, come se il suo corpo la dovesse abbandonare
d’un tratto, disintegrandosi a una rapidità sconvolgente” (61). Non è solo il fatto di non
aver ricevuto la gratificazione sperata che ferisce Tina, bensì la delusione di non essere
stata riconosciuta come figlio maschio, che la fa desiderare addirittura di non avere un
corpo.
Il rifiuto del riconoscimento da parte della madre è un primo indizio che il sistema
patriarcale non può accettare il suo atto di ribellione. Il travestimento da maschio è,
infatti, possibile solamente fino a che è percepito come una messa in scena, “(u)n gioco
205
facile, finché era stata bambina” (61), a cui i concorrenti potevano partecipare senza
sentirsi a disagio. Da piccola, la minaccia che Tina rappresentava come androgino si
annullava con la giustificazione della simulazione infantile e lei era accettata come il
maschio che fingeva di essere. Ma con l’ingresso nella pubertà e nello spazio pubblico
riservato all’uomo, la legittimazione esterna non è più possibile, poiché il “gioco” diventa
destabilizzante. Coprirsi da uomo e dotarsi di tutti i simboli esteriori della mascolinità
(inclusa la pistola) non è più sufficiente per Tina, perché sono gli altri che devono
accettare o negare la sua presenza. Mancando tale riconoscimento esterno, si crea per
Tina una situazione d’inquietudine, il che prelude alla sua futura, inevitabile
marginalizzazione.
La rapina alla gioielleria finisce con lo stesso risultato di bruciante delusione.
Infatti, non è Tina, bensì il fratello Francesco a sparare un colpo di pistola al gioielliere,
uccidendolo. In altre parole, il suo consanguineo, colui che ha “ereditato” il pene dal
padre, usa al posto suo l’oggetto simbolo del potere e compie l’“atto performativo” che lo
qualifica come uomo e come mafioso. Uccidere un altro uomo, infatti, è l’attività
maschile per eccellenza all’interno dell’ambiente criminale mafioso. Tuttavia non è Tina
a premere il grilletto. E così, dopo la rapina, quando la banda di ragazzini si ritrova in
pizzeria, Tina è giustamente “irritata, nervosa” ma - precisa la narratrice - “Non per
quello che era accaduto, ma perché era accaduto a Francesco. C’era nel suo nervosismo
. . . un’ambigua impazienza, come se in qualche modo il ragazzo avesse indebitamente
invaso il suo spazio” (116).
Tutti questi atti non fanno che riaffermare l’inadeguatezza di Tina come maschio
e come mafioso. Pur vestita da uomo e in possesso di una pistola, Tina non è mai
206
percepita come donna fallica, cioè in possesso del potere, ma come una donna castrata.
Gli “atti performativi” che dovrebbero garantirle la trasformazione di genere falliscono
tutti e persino il fratello, che è di natura debole e insicura, finisce per avere più autorità di
lei, compiendo un omicidio e morendo ammazzato come un vero mafioso. Anche in
quell’occasione, tra l’altro, Tina si dimostra inadeguata, poiché sono i mafiosi della cosca
rivale ad uccidere l’assassino del fratello, mentre lei resta immobile, incapace di
vendicarlo come avrebbe voluto e dovuto. Viene perciò riaffermato nel romanzo che,
nella società, gli unici a portare il fallo sono gli uomini mafiosi, mentre lei continua a
rimanere “quella senza pene”.
Allora, l’abbigliamento maschile, la pistola e l’azione violenta danno a Tina
soltanto l’illusione di potersi fabbricare quell’identità sessuale che tanto desidera. I
“signifier” maschili non le garantiscono un’associazione di genere con la mascolinità.
Anzi, il suo travestimento è percepito solo come una goffa imitazione di ciò che la società
accetta come normale, allo stesso modo in cui l’abbigliamento da donna iper-femminile
era stato percepito (anche da Tina stessa) come “una mascherata” della femminilità. Il
ruolo dell’oggetto sessuale iper-femminilizzato sarebbe tuttavia sempre più accettabile di
quello che ha ora. Invece, avendo rifiutato tale ruolo pre-costruito, Tina non ha più posto
nella società patriarcale e mafiosa. Per la società, rimane una donna travestita da uomo,
un essere imperfetto, ambiguo che, in fin dei conti, non è né femmina né maschio e
soprattutto non è un boss mafioso. La difficoltà di essere classificata sessualmente, messa
in evidenza dal soprannome (“’a masculidda” sottolinea appunto la sua androginia) e
specialmente dalla fotografia (è femmina? È maschio? È maschio travestito da femmina?)
dimostra in realtà che Tina non è nessuno dei due. È finita in uno spazio fisico e
207
metafisico che Ann Heilmann definisce “the no (wo)man’s land of cross-gender
masquerade” (“Neither Man nor Woman” 249) e che rispecchia l’anonimato della sua
identità sessuale. È intrappolata fra i due generi, “in-between”.
La pistola diventa allora il simbolo della sua impossibilità di ridefinirsi come
maschio. Originariamente era un simbolo gioioso, che coincideva con il momento
esaltante, in cui aveva deciso di farsi uomo ed era diventata una parte di sé. Ma pian
piano diviene un’immagine di debolezza e disperazione. Se prima le dava sostegno e
sicurezza, grazie anche all'identificazione con un tratto paterno, alla fine le ricorda la sua
mutilazione, il suo bisogno di supporto esterno, la sua mancanza di unità come un essere
umano maschio. Comincia man mano a pesare sempre più, finché appare sciupata come
emblema del maschile, un’appendice inorganica, aliena, umiliante, insomma un oggetto
vuoto che rimanda al corpo castrato di Tina, e che “ha un che di estraneo, di
misteriosamente ostile . . . è un peso inevitabile di cui Tina non può più disfarsi” (224225). L’eccitazione iniziale è diventata disagio nel rendersi conto che la pistola non è un
oggetto magico che la trasformerà in uomo, così come non potevano farlo gli stracci
infilati nel costume da bagno. È diventata evidente la fragilità di queste sostituzioni:
crearsi un pene fittizio non è ovviamente abbastanza per fabbricarsi un’identità maschile.
E, oltretutto, anche il pene - secondo una spiegazione postmoderna - è un “signifier”
sfuggente perché non è sufficiente, neppure all’uomo, per avere un’identità di genere
certa.
La posizione di “in-betweenness” di Tina si riflette nella sua condizione di
latitanza. Infatti, una volta violati gli arresti domiciliari (ottenuti in conseguenza di un
furto) e datasi alla macchia, Tina si ritrova senza casa, e allo stesso tempo è esclusa dalla
208
società civile, così come da quella mafiosa. Ha perso l’autorità sui ragazzini della banda,
entrati da adulti nel sistema, mentre lei deve dipendere da un piccolo criminale, Nele, per
nascondersi
in
campagna
e
continuare
sognare
quell’ingresso
trionfale
nell’organizzazione, quel potere e quel riconoscimento che non arriveranno mai. Braccata
dalla cosca rivale dopo uno scontro a fuoco, marginalizzata, sola, Tina può soltanto
scappare. Ma in realtà non c’è più un luogo in cui rifugiarsi per lei. Non può tornare
indietro, né andare avanti, ma solo restare in attesa, immobile nel suo stato di "inbetweenness”. Come avviene per La briganta, allora, la Cutrufelli nega un risultato
positivo alla ricerca dell’eroina di un’identità di genere alternativa, suggerendo che
l’androginia non è una soluzione legittima a tale ricerca (Rossi 210). Il romanzo ribadisce
che nella cultura patriarcale, e a maggior ragione in quella mafiosa, è possibile solo
tenere conto di due ruoli sessuali rigidamente marcati. L’ambiguità non è tollerata perché
la mascolinità dipende anche dalla presenza della donna come “altro” castrato, mancante
del pene. E l’invasione nello spazio riservato all’uomo deve essere disciplinata (“ancor
meno dei codici istituzionali, i codici d’onore della mafia non tollerano scarti dalla
norma,” ci ricorda Silvia Contarini, 120).
L’unico modo che ha Tina per sopravvivere è quello di rientrare nel sistema
convenzionale di valori, come fa appunto donna Margherita ne La briganta, ritornando a
vestire gli abiti femminili. Indietreggiare di fronte alla reticenza che il mondo esterno ha
nei suoi confronti, non è tuttavia possibile per Tina. Al tempo stesso, Tina non può
riconvertirsi alla femminilità decisa dalla società patriarcale perché, a differenza di donna
Margherita, ha completamente interiorizzato il ruolo maschile. Ha negato tutto quanto
aveva di femminile per essere esclusivamente un uomo ed ora l’ingresso nella norma
209
femminile le è precluso per sempre. Non a caso, poco prima del dénouement, ricompare
nel romanzo l’immagine simbolica della soglia, la quale è diventata inaccessibile.
“Fuggire è impossibile”, scrive la narratrice: “È riattraversare la soglia sbarrata dal corpo
del padre. Una volta si può attraversare, non più di una volta” (214). Anche Tina pian
piano capisce che non c’è soluzione al suo dualismo e preferisce darsi la morte piuttosto
che tornare indietro o arrendersi.
Canto al deserto non si configura quindi come “[an example] of contemporary
narratives by women, in which gender-bending helps to liberate the inhibited self and acts
as a catalyst of personal growth, even in the case of comical characters like Woolf’s
amorous Archduchess/duke in Orlando” (Heilmann “Neither Man nor Woman” 256). La
ribellione di Tina porta soltanto a un continuo rinvio della conquista della libertà, ma mai
del tutto ad una vera liberazione. La struttura narrativa sembra riflettere l’impossibilità di
Tina di emanciparsi. Così come Tina rimane intrappolata nel suo corpo, e braccata dalla
stessa gente a cui vuole appartenere, così la sua storia è mantenuta entro i confini di una
cornice di voci (maschili, ma non solo) che la definiscono. Sono gli interlocutori della
narratrice, infatti, a ricostruire pezzo per pezzo la vita di Tina, finché, attraverso i loro
sguardi curiosi che la scrutinano e la dissezionano, la ragazzina diventa l’oggetto del
desiderio voyeuristico del lettore. In questo modo, l’egemonia patriarcale non è
destabilizzata neanche a livello narrativo, perché, nonostante la sua storia sia recuperata
dalla narratrice che si reca fino in Sicilia per scriverla, Tina non diventa mai quel
soggetto attivo che così disperatamente desidera essere; invece, rimane sempre vittima
dello sguardo altrui, un “altro” oggettivato. Rispetto alla protagonista de La briganta, che
alla fine trova la libertà di espressione nella scrittura e, nella fattispecie, nello scrivere le
210
proprie memorie (è lei l’Io narrante), e rispetto anche alla narratrice, che è essa stessa una
scrittrice, Tina sopravvive solo nel racconto di qualcun altro.118 La Cutrufelli ammette in
un’intervista di aver voluto dare alla protagonista de La briganta il diritto alla scrittura per
una forma di redenzione:
Redemption comes throught the possibility of writing her memoirs. It is an
invention of my imagination: I am the one who offers my protagonist her
redemption . . . I wanted one of these women to have the right to write, to narrate
their side of the story. (cit. in Rossi 216)
Il fatto che a una figura femminile che agisce nel Risorgimento, come donna
Margherita, sia data la possibilità di far sentire la propria voce, rispetto a Tina, donna di
mafia dal sogno “perverso”, la dice lunga sulla legittimità della ribellione di Tina.
Quest’ultima, al contrario di donna Margherita, non viene riabilitata dalla scrittrice. Forse
la sua voce è troppo debole perché sia ascoltata? Oppure Tina non merita di essere
ascoltata? La soluzione stilistica e narrativa impiegata dalla Cutrufelli, ricacciando Tina
negli spazi angusti dell’oggettivazione esterna, sembra avvalorare l’idea che
l’emancipazione femminile nel mondo mafioso sia qualcosa di “perverso”, una strada
dritta “verso l’inferno”. Il tentativo di liberazione di Tina, benché segnale forte ed
anticonvenzionale, resta inaccettabile, illegittimo anche a livello narrativo e letterario.
Un altro aspetto fallimentare della ribellione di Tina è da ricercare nel fatto che
essa avviene all’interno della dimensione accettata della gerarchia di potere, basata sulla
distinzione di genere. Tina sfida la società patriarcale travestendosi da uomo, però il suo
travestimento attraverso i “signifier” del maschio indica, di fatto, la sua accettazione degli
schemi patriarcali. Anzi, desiderando fortemente essere un uomo, Tina ammette la
118
Graziella Parati osserva: “Tina is dramatically obliterated and can only survive in a story told by another
woman” (259).
211
superiorità maschile, perché s’identifica nell’immagine del maschio veicolata dalla
società, implicando che “portare i pantaloni” ha ancora un significato importante per lei.
Il suo travestitismo non fa pertanto che rinforzare il sistema di dominazione, che è poi lo
stesso che le impedisce di realizzare le proprie aspirazioni di mafiosa. Pina Mandolfo
parla, infatti, della sua scelta di entrare nella mafia come di una decisione
“contraddittoriamente logica” (59). Tina non cancella consapevolmente le categorie di
genere secondo una teoria postmoderna, giacché non sfida il binarismo maschilefemminile, bensì lo riafferma. “Nient’altro le è concesso”, continua la Mandolfo,
“nient’altro conosce sulla strada dell’autoaffermazione” (59).
Un’autentica presa di posizione femminista o queer, invece, sarebbe stata per lei
arrivare a giudicare tutti i tipi di abbigliamento come una mascherata e tutte le
mascherate (inclusa quella maschile) come farsa. Tina, invece, prende la sua maschera
maschile molto sul serio. Per lei non è qualcosa di cui servirsi per deridere il sistema,
bensì è un rafforzamento del sistema stesso, da cui lei stessa finisce per essere derisa e
cacciata. Il suo travestimento appare, tra l’altro, privo di senso in un mondo in cui
significativamente alcuni rappresentanti dell’autorità si stanno spogliando della loro
divisa. Infatti, nessuno la indossa fra i personaggi che dovrebbero farlo per svolgere le
proprie funzioni. Anche il prete e il capitano dei carabinieri sono in borghese e la
narratrice osserva: “[è] un segno dei tempi: . . . Niente più emblemi esterni dell’autorità,
uniformi messe a dividere e distinguere” (71). Come suggeriscono implicitamente questi
personaggi, una ribellione autenticamente femminista o queer avrebbe dovuto condurre
Tina alla riflessione che né uomini né donne devono essere costretti a indossare
un’uniforme (e per estensione ad avere una uni-forme = “una unica forma”). Tina
212
avrebbe dovuto provare a lottare per una realtà neutra, “gender-free”, rivendicando
un’essenza ontologica totalmente pura e libera di scegliere qualsiasi forma assumere.119
Tale essenza è incarnata, a mio avviso, nel romanzo da colei che la narratrice
chiama la donna nuda, ossia la statua della dea Cerere che troneggia in mezzo alla piazza
principale di Gela. È possibile vedere nella donna nuda la rappresentante dell’essenza
autentica di sé, che oppone a ogni falso costume, il costume naturale: la nudità (e che
significativamente durante le feste viene rivestita di lampade rosse e blu, quasi a volerle
conferire per forza una connotazione sessuale, non accettando la sua essenza neutra).
Proprio sotto la statua della dea Cerere, Tina si reca spesso a passeggiare. Sente su di sé
“lo sguardo indulgente della donna nuda” (137), mentre cerca di camminare fra gli
uomini come un uomo, incurvando le spalle e con le braccia strette sotto i fianchi.
Durante queste passeggiate silenziose e solitarie, Tina alza gli occhi verso la statua, e non
può far altro che rammentare amaramente a se stessa “che Cosa Nostra è cosa di uomini”
(138). La donna nuda le ricorda insomma la sua esclusione in quanto donna, invece di
rappresentare un universo di nuove possibilità di trasformazione. Essa è ai suoi occhi il
simbolo di una limitazione invece di essere la portavoce della realtà “gender-free” in cui,
volendo, si potrebbe rimodellare.
Un’osservazione fatta da Pina Mandolfo potrebbe far riconsiderare questo punto.
Secondo lei è significativo il fatto che Tina si spogli nuda e si guardi a lungo nello
specchio prima di andare ad incontrare la narratrice e verso la morte. Pina Mandolfo ha
visto in questo gesto un atto che rivela una “Tina sicura, artefice di quella identità che ha
119
È un’osservazione ispirata a quanto scrive Sandra Gilbert in “Costumes of the Mind: Transvestism as
Metaphor in Modern Literature,” parlando a proposito della lotta intrapresa dalle letterate femministe del
XX secolo: “many twentieth-century women have struggled – sometimes exuberantly, sometimes anxiously
– to define a gender-free reality behind or beneath myth, an ontological essence so pure, so free that ‘it’ can
‘inhabit’ any self, any costume” (394).
213
costruito da sé e per sé e che può [quasi] accarezzare” (60). Nel suo “corpo
essenzializzato e sicuro”, muscoloso, forte, androgino, aggiunge la Mandolfo: “Non vi è
mascheramento. Interno ed esterno, identità profonda e superficiale coincidono” (60).
Sembrerebbe, infatti, che davanti allo specchio Tina non si spogli solo dei vestiti (quelli
maschili), ma anche finalmente della maschera di genere, rifiutando di essere definita
dalle norme consuete, anche quelle della mascolinità, conquistando “una autonoma
armonia” (60). Quest’apparente nuova consapevolezza è però solo una vaga intuizione
della possibilità di trasformazione “gender-free” suggerita dalla donna nuda. Tina non
esplora alternative possibili al suo stato di “in-betweenness”, contempla il suo corpo
androgino, valuta la possibilità di indossare i vestiti femminili dell’amica Giovanna, ma
finisce col rimettersi gli abiti maschili, e indossare la pistola, per andare a morire (ed
essere sepolta) come un uomo.
Alla luce di tutto ciò, il suicidio di Tina è da intendersi come un’ammissione di
sconfitta? È un’(auto)punizione per la doppia colpa di aver rinnegato la sua natura
femminile ed aver tentato di sconfinare in un mondo maschile? Tina si uccide gettandosi
con la moto dal cavalcavia di un’autostrada interrotta: “lanciata verso il nulla” (110),
“troncata di netto sul vuoto” (111). In questo posto, amputato come la sua identità
sessuale, e incompleto come la sua ribellione, Tina ha fissato un appuntamento alla
narratrice: un luogo che quest’ultima aveva già percorso all’inizio del suo viaggio,
riflettendo con intuizione anticipatoria sul significato simbolico di quel “cavalcavia
grandioso e superfluo. Monumento all’impossibilità di fuga, al blocco di ogni sviluppo”
(111). L’ultima fotografia di Tina è quella che la narratrice vede sui giornali prima di
214
partire dalla Sicilia: la foto di un telo bianco che ricopre il corpo morto di Tina accanto ai
fichi d’india e ad un cumulo di terra sullo sfondo delle raffinerie di Gela.
Nonostante l’abbondanza di simboli negativi di cui la Cutrufelli riempie il finale
del libro, il suicidio di Tina va interpretato come un ultimo, estremo, gesto di
autoaffermazione. Tina sceglie di uscire di scena con un’azione spettacolare, “una grande
interpretazione” (230) davanti agli occhi della narratrice. Proprio a lei, prima di lanciarsi
nel vuoto, chiede specificatamente di scrivere la sua storia, affidandole in pratica la sua
sopravvivenza oltre la morte: una richiesta esemplare della sua “smodata e impossibile
sete di affermazione” (46), della sua “sete di esistere” (195). L’incontro fra le due
protagoniste femminili è importante anche perché permette di collegare le due storie di
donna intrecciate nel libro e chiude il cerchio intorno alla quête della protagonista. È
ovvio che la narratrice è attratta da Tina perché si rispecchia nel personaggio e si
identifica nelle sue sfide. Sono – come afferma la stessa Cutrufelli – “due modi diversi
d’essere donna, due opposti destini, un'identica ansia di imprimere nel mondo il proprio
segno, una potente volontà di esserci che rende pericolosamente labile il confine fra bene
e male, fra emancipazione positiva ed emancipazione negativa, fra potere e libertà”
(“Nascere in un grembo di carta” 245). La mise-en-abîme all’interno del testo (la
narratrice che scrive su come scrivere di Tina) reduplica immagini e concetti narrativi che
si riferiscono non solo al testo stesso ma alla storia di donna a cui fa da cornice: il subtesto rispecchia se stesso, come le due protagoniste si rispecchiano l’una nell’altra.
L’incontro fra Tina e la narratrice rappresenta inoltre la fusione fra il personale e
il collettivo. Tina affida alla narratrice il compito di trasformare la propria storia privata
in storia pubblica. Riflettendoci, mentre viaggia in macchina verso l’aeroporto da cui
215
ripartirà per il Nord, la narratrice mette proprio l’accento su questo punto, pensando che
la ragazzina “Anche se per poco . . . ha saputo, nel suo delirio di orgoglio, inventarsi un
modo . . . per entrare nell’immaginario collettivo” (231). Non è più dunque solo la storia
di Tina quella che la narratrice racconterà, bensì la “nostra” (216) – dice – quella di tutte
le donne oppresse dalla cultura patriarcale, esiliate, marginalizzate, “sconfitte”. Non è
allora neppure la foto del telo bianco steso sul corpo di Tina che sopravvivrà agli occhi
del lettore, bensì il romanzo che racconterà la sua vita e che il lettore potrà prendere in
mano ogni volta che vorrà rileggerlo e ri-raccontarlo. E che per il messaggio di forza e
coraggio che contiene - così conclude la narratrice mentre viaggia via dalla Sicilia - non
potrà altro che essere “in qualche sua contorta e disperata maniera”, assolutamente “a
lieto fine” (231).
216
III. La siciliana ribelle
La siciliana ribelle (2009), il primo lungometraggio del regista palermitano Marco
Amenta, racconta anch’esso la storia di una difficile emancipazione femminile. Ispirato
liberamente alle vicende di Rita Atria, detta “’a picciridda”, una collaboratrice di giustizia
morta suicida a diciassette anni nel 1992, il film mette in scena la ribellione di una
giovane donna al sistema patriarcale mafioso. Benché Rita prenda una strada opposta a
quella di Tina (si rivolge alla giustizia per vendicare la morte del padre), anche lei
trasgredisce alle leggi della comunità mafiosa, compiendo un gesto coraggioso e
anticonvenzionale che, similmente a Tina, la qualifica agli occhi della società come una
“eretica”, una “pazza”. Il suo percorso è di una doppia emancipazione, o meglio di
un’emancipazione in due tempi. Dapprima Rita insegue la visibilità all’interno
dell’organizzazione e cerca di intervenire “da uomo” nella storia maschile della mafia,
reclamando la vendetta nel più classico dei copioni mafiosi. Rivolgendosi alla giustizia
per attuare la propria ritorsione personale, Rita viola non solo la regola dell’omertà ma
anche i confini di differenza sessuale, giacché compie un atto maschile all’interno del
mondo maschile della mafia. L’allontanamento dalla sfera domestica e dalla Sicilia,
tuttavia, le dà per la prima volta la sensazione di avere controllo sulla sua vita. Pian
piano, Rita si affranca dalla mentalità mafiosa, giungendo all’amara accettazione di una
realtà scandalosa riguardo ai propri familiari e al capovolgimento del suo sistema di
valori. La ragazzina si emancipa dalla sottomissione anche psicologica della mafia, sente
crescere la fiducia in sé, scopre l’amore e la sessualità e si riappropria poco a poco della
sua femminilità. Il film di Amenta, pertanto, pur situandosi pienamente nella tradizione
del genere mafia, è anche un esempio di bildungsroman femminile, in cui la protagonista
217
compie un percorso che le consente di conquistare faticosamente la propria libertà di
donna.
Anche per Rita si tratta però di una falsa emancipazione. Similmente a Tina,
anche lei all’inizio è attratta in modo ossessivo dai dis-valori mafiosi. Anche lei identifica
la liberazione con l’esercizio perverso del potere maschile. La ragazzina aderisce
incondizionatamente alla logica mafiosa, in primo luogo proprio a quella della vendetta,
che reclama a gran voce il diritto di esercitare. Il carattere illusorio della sua
emancipazione, però, diventa evidente in modo più drammatico nella seconda parte del
film, quando è trasferita a Roma sotto il programma di protezione dello Stato. Pur
modificando poco a poco il suo modus pensandi e arrivando finalmente a rinnegare la
mafia, Rita non trova una nuova vita. Il programma di protezione si rivela una prigione e
la collaborazione con la giustizia una scelta di grande solitudine, perché le impone una
rottura totale con le proprie radici. Inoltre, la ricerca di una nuova identità si
problematizza, per il fatto che Rita deve passare attraverso un cambiamento continuo di
identità che si qualifica quasi come un annullamento della stessa. La visibilità e
l’emancipazione non sono possibili a queste condizioni. Anzi, alla fine, Rita diventa
addirittura “invisibile”. Esiliata e sola, rimane come bloccata all’interno dei confini di
libertà faticosamente raggiunti. E l’uscita dall’impasse è possibile soltanto con la morte.
Liliana Madeo parla della sua ribellione come di “una trasgressione senza ritorno” (185).
Al pari del romanzo della Cutrufelli, il film di Amenta sembra denunciare allora il
carattere fragile ed illusorio del processo di emancipazione femminile nel sistema
patriarcale mafioso.
218
Il personaggio di Rita rimane, però, una figura unica nel genere dei film di mafia,
come unica è d’altronde la vicenda della “picciridda” nella storiografia mafiosa italiana.
Il caso di Rita Atria è un caso raro, perché a ribellarsi all’organizzazione fu una donna,
anzi praticamente una bambina, che si rese protagonista di un gesto di grandissimo
coraggio. A loro volta, sono rari i film di mafia incentrati su protagoniste femminili. I
recenti Angela di Roberta Torre (2003) e Galantuomini di Edoardo Winspeare (2008),
pur mettendo in scena figure femminili, ne tracciano un ritratto perlopiù in negativo (sono
donne criminali o complici di criminali). Marco Amenta - che aveva già realizzato un
documentario sulla vita di Rita Atria120 - ci presenta invece un personaggio femminile
positivo, dotato di grande determinazione, che non si arrende di fronte a un sistema
all’apparenza impossibile da sconfiggere. Contrariamente a quanto accade nella maggior
parte dei film di questo genere, concentrati sull’eroe maschio, ne La siciliana ribelle è la
donna il centro intorno a cui ruota l’intero impianto narrativo. Rita è presente in ogni
scena e anche quando non c’è, il suo nome compare nei discorsi degli altri personaggi.
Non esiste, tra l’altro, una posizione voyeuristica da parte dello spettatore, come accade
nei confronti di Tina in Canto al deserto: Rita non è oggetto dello sguardo altrui, bensì è
il soggetto della storia. E la storia è raccontata tutta dal suo punto di vista. Ciò trova
riscontro, anzi, è reso evidente dall’uso sistematico del voice-over. Il filo narrativo del
120
Il documentario s’intitola: Una ragazza contro la mafia. Il diario di una siciliana ribelle ed è uscito nel
1997. Marco Amenta ha spiegato in diverse interviste i motivi per cui ha deciso di passare dal
documentario alla fiction. Motivi riassunti principalmente con la necessità di mostrare il dramma
psicologico di Rita e la sua sofferta trasformazione interiore, di modo che gli spettatori potessero staccarsi
dall’”intellettualismo” prodotto dalla semplice esposizione dei fatti di cronaca ed identificarsi
emotivamente nel personaggio: “The response to a narrative film is more emotional” spiega il regista: “the
cinematic experience of the fiction film involves a different, more emotional level of reception” (cit. in
Wade 7). In un’altra intervista aggiunge: “Il primo genere è più adatto a descrivere la cronaca dei fatti,
mentre la forma della fiction è quella ideale per raccontare il percorso interiore di una ragazza che accetta
un ribaltamento totale dei valori nei quali finora aveva creduto positivi: è un processo che in psicanalisi,
quando ha successo, richiede circa 10 anni e che Rita invece riesce a compiere in pochi mesi. Il film mi ha
permesso di approfondire meglio questo aspetto” (cit. in Lombardi A.).
219
film è costituito, infatti, dalle parole di Rita, estrapolate dai veri diari di Rita Atria, e
pronunciate dalla voce narrante femminile lungo tutto il film. Il voice-over indica sin
dall’inizio che la donna controlla anche la narrazione, e non è da essa controllata.
L’intento dichiarato di Amenta nel dare un ruolo di primo piano a un personaggio
femminile (e per di più a una bambina) è principalmente quello di demistificare la mafia,
rivelandola in tutta la sua malvagità. Essendo siciliano e conoscendo bene la situazione
della criminalità organizzata in Sicilia, il regista mal sopporta le mitizzazioni del cinema
hollywoodiano e di un certo tipo di televisione nazionale. Pertanto, decide di adottare il
punto di osservazione della donna-bambina per operare una decostruzione dell'immagine
mitica dei mafiosi: “It is interesting to see the Mafia from a completely different
perspective,” afferma in un’intervista: “When the Mafia boss is the protagonist, he is
romanticized and we sympathize with him, but in this case we see the difference” . . . “By
changing the point of view to the little girl, you see in the end that those in the Mafia are
not so courageous, not so handsome (cit. in Wade 6). “In questo film,” precisa poi
Amenta:
i valori e gli stereotipi veicolati fino ad oggi nei film di mafia sono invertiti. Il
boss mafioso non sarà l’eroe, il protagonista coraggioso . . . Tutto il contrario: il
racconto in prima persona di Rita, ragazza siciliana cresciuta in una famiglia
mafiosa, ci mostrerà la realtà: le brutture, la vigliaccheria, la tristezza di questi
“uomini d’onore” o meglio del “disonore”. L’unica veramente coraggiosa è Rita
. . . [che], attraverso il suo esempio, mostra che è sempre possibile opporsi a un
nemico che sembra invincibile e inattaccabile. (“Note di regia”)
L’importanza dell’operazione di recupero della storia di Rita Atria si può notare
anche nell’inversione dei ruoli fra figura “anonima” e figura “eccellente”. Rita è messa in
primo piano dal regista rispetto al personaggio illustre della storia, il giudice Paolo
Borsellino. Ucciso in un attentato dinamitardo nel 1992, Paolo Borsellino è una delle
220
personalità più popolari e riconoscibili della storia antimafia, mentre la figura di Rita
Atria e il suo ruolo di testimone al maxi-processo di Palermo non sono noti al grande
pubblico (tant’è vero che Rita non compare in alcun documentario su quest’argomento:
Marco Turco non la menziona neanche nel suo pur esaustivo In un altro paese (2005) come ricorda Diana Wade). Eppure, ne La siciliana ribelle il nome di Borsellino non
viene mai rivelato e l’attore scelto per interpretarlo è persino poco somigliante
all’originale. Amenta l’ha volutamente reso non identificabile. Per tutta la durata del film,
il giudice rimane solo una “spalla” del personaggio di Rita e completamente anonimo.
Rispetto a Placido Rizzotto e Alla luce del sole: film in cui, come abbiamo visto, la morte
del bambino funzionava come un’eco di amplificazione al sacrificio dell’eroe, ne La
siciliana ribelle, il martirio “eccellente” del giudice fa solo da sfondo a quello della
“picciridda” e diventa importante soltanto in quanto movente indiretto della sua tragica
morte.121
La siciliana ribelle si divide in due parti e contiene tutti gli elementi caratteristici
del più classico racconto di formazione (l’innocenza del bambino, la svolta, la
maturazione ecc.). Centrale è, infatti, la rappresentazione del percorso interiore compiuto
da Rita, che passa dall’idealizzazione dei propri familiari durante l’infanzia alla scoperta
della loro vera natura criminale, e da una concezione arcaica e “tribale” ad una ordinaria
della giustizia. La struttura filmica rispecchia questa evoluzione perché, come aveva già
fatto Giordana ne I cento passi, anche Amenta fa ricorso ad un andamento cronologico
che segue lo sviluppo della protagonista dall’infanzia all’età adulta. Come il piccolo
121
Il ribaltamento dei ruoli è esemplificato nel film anche dal breve colloquio che si svolge fra i due
personaggi poco prima della morte del giudice, quando Rita, che ha appena appreso che il giudice ha una
figlia adolescente, confessa un po’ sconsolata: “Lei sa tutto di me. Io di lei non so niente”. E il giudice
risponde pronto: “Io non ne scrivo diari. . .”, come a suggerire che Rita è il personaggio più importante
della vicenda e che il proprio ruolo non è in realtà così fondamentale.
221
Impastato all’inizio del film, Rita non vede dove stia la verità, aiutata in questo anche dal
padre, che tiene la sua “picciridda” all’oscuro del ruolo che ricopre nell’organizzazione.
Pian piano, però, grazie anche all’apporto del giudice, Rita apre gli occhi di fronte alla
realtà delle cose e raggiunge un’amara consapevolezza sui fatti criminali di cui è stata
testimone da bambina, prendendo finalmente coscienza del coinvolgimento attivo dei
suoi familiari.
Metafora della visione limitata della bambina sono i suoi occhi che, in una delle
prime scene, vengono coperti prontamente dalla mano del padre per nasconderle la vista
di un uomo morto ammazzato. L’efficacia della scena è aumentata dal fatto che le dita
dell’attore sono appoggiate sulla lente dell’obiettivo, a chiudere parzialmente la visione
allo spettatore.
Fig. 22
Questa immagine suggestiva (scelta non a caso anche per la locandina del film)
rende bene l’idea del sostrato di violenza che si nasconde dietro l’infanzia
apparentemente felice e spensierata di Rita. La bambina, che era andata tranquillamente
in campagna con il papà, si trova esposta in pochi istanti agli aspetti più crudi e terribili
del suo “lavoro”. Eppure Rita non vede (o non capisce) interamente ciò che la circonda.
Come la mano del padre sugli occhi la lascia all’oscuro degli orrori della sua attività,
222
permettendole, attraverso le fessure, di coglierne solo gli aspetti positivi, così le dita
sull’obiettivo costringono lo spettatore ad una visione soltanto parziale delle cose. Non
vedendo tutto, anche noi non sappiamo tutto. E non siamo sicuri di quello che vediamo.
Solo quando il giudice comincia a fare emergere la verità, ripercorriamo a ritroso gli
avvenimenti iniziali e simbolicamente, come fa Rita, ci togliamo il velo dagli occhi.
Questo processo in atto è ben visibile quando, nella seconda parte del film, un flashback
di Rita ci riporta all’episodio della violenza subita da una giovane donna, di cui Rita è
testimone involontaria attraverso una grata (ancora un simbolo della sua visione parziale).
Nel flashback sono rivelati nuovi dettagli e si scopre che il padre di Rita era presente, o
addirittura aveva partecipato alla violenza. A differenza del pastorello Saro in Placido
Rizzotto, la cui purezza dello sguardo non aveva retto alla violenza di ciò di cui era stato
testimone, però, Rita non sembra essere particolarmente toccata dalla scena e torna a
giocare senza che sia scalfito il suo affetto per il padre. Rita vede le cose per
compartimenti stagni, e anche quando assiste in prima persona agli orrori compiuti dal
padre, non vi si sofferma o li dimentica.122
Proprio per rendere l’idealizzazione dell’infanzia di Rita, tutta la prima parte del
film è narrata dalla visuale limitata della bambina. Amenta mostra agli spettatori una
Sicilia bella, calda ed assolata che ricorda quella di Giordana nelle prime scene de I cento
passi, e che si inserisce sia nella tradizione dei film italiani ambientati in Sicilia come
“terra di bellezza mitica”, sia nel filone degli episodi siciliani dei “mafia-movie” (e in
122
Scrive Anna Puglisi: “Agli occhi di chi condivide questo codice e questa cultura, la mafia è “innocente”
. . . non solo e non tanto perché nega che siano stati commessi fatti delittuosi, quanto perché soprusi,
estorsioni, violenze, omicidi, stragi non sono sentiti come fatti delittuosi ma come atti “normali”, cioè
conformi alle norme del codice mafioso” (73). E Liliana Madeo aggiunge: “Lei in realtà sa come si sono
svolti fatti e circostanze, ma li elabora a modo suo secondo un’ottica che per un verso è quella
dell’indulgenza e dell’amore filiale, per un altro, è quella dell’orgoglio di appartenenza, il vecchio senso del
clan. Il suo metro di misura non è diametralmente opposto a quello del mondo da cui viene” (197).
223
special modo anche qui Il padrino). La particolare intimità delle scene iniziali è giocata
quasi interamente sulle soggettive della bambina e si realizza anche grazie ad alcune
scene girate con la macchina da presa all’altezza degli occhi di Rita. Di speciale effetto
sono, ad esempio, le immagini della festa del patrono di Balata, dove la processione con
gli incappucciati è osservata dai buchi ricavati nel lenzuolo che corrispondono agli occhi
di Rita: anche questa una visione parziale, o meglio, "a tunnel", che la fa guardare solo
davanti a sé impedendole di scorgere i dettagli periferici. Ancora più significativo è il
ritratto del padre che emerge durante la processione. Mentre la famiglia cammina per la
strada principale del paese e la gente si avvicina per salutare don Michele e baciargli le
mani, la macchina da presa è situata all’altezza degli occhi di Rita, cosicché gli uomini
che lo riveriscono sembrano inchinarsi quasi al livello della sua statura, amplificando
l’effetto di regale importanza conferito al loro passaggio. La voce narrante di Rita rivela
la presa soggettiva della scena, quando dice: “A mio padre lo rispettavano tutti a Balata.
Risolveva i problemi alle persone e loro gli mandavano un sacco di regali . . . La nostra
famiglia era la più importante del paese”. Le parole di Rita riflettono sì ciò che la
bambina vede in quel momento, eppure esse plasmano la sua esperienza fisica ed emotiva
delle cose in un modo che corrisponde alla sua prospettiva necessariamente distorta e
limitata (Fuchs).
La venerazione di Rita per il padre mafioso è un altro punto in comune con il
personaggio di Tina in Canto al deserto. Anche Rita cresce attaccata al padre e lontana
dalla normale esperienza femminile. Non segue, infatti, l’abituale processo di crescita
delle bambine a cui vengono inculcati sentimenti di debolezza ed imposti movimenti
circoscritti alla sfera domestica. Il padre la porta con sé ovunque e la incoraggia ad essere
224
fiera e indipendente (la vediamo spesso fuori casa a giocare insieme al fidanzatino Vito).
La speciale complicità tra padre e figlia, a dispetto della madre, è resa con una serie di
sequenze che direttamente o simbolicamente esplorano il loro universo personale ed
esclusivo (bella in tal senso la scena in motocicletta, con la bimba aggrappata al papà sul
sellino). Amenta usa, inoltre, corrispondenze visive basate sul contrasto fra il rosso e il
bianco per mettere in evidenza il loro legame di sangue, corporeo e viscerale. Nella scena
di apertura del film, per esempio, Rita imbratta con la salsa di pomodoro le lenzuola stese
ad asciugare in terrazza, scrivendoci un saluto al padre: una scena che tra l’altro è
premonitrice della sua morte, quando ad essere imbrattato di sangue sarà l’abito della
comunione di Rita. A livello figurativo il continuo ritorno del colore bianco (le lenzuola
stese, il cappuccio della processione, il vestito della prima comunione, il selciato della
piazza) ci rammenta l’innocenza dell’infanzia di Rita, mentre il contrasto con il rosso (la
salsa di pomodoro, la bicicletta, i collant e la giacchetta di Rita, il sangue dei morti
ammazzati) crea uno spunto da cui partire per cogliere gli aspetti più feroci della vicenda.
Quella di Rita con il padre è una vera storia d’amore, piena di momenti intimi. Tant’è
vero che quando indossa l’abito della comunione accanto al padre, Rita è in pratica come
una piccola sposa: l’abito bianco è appunto metaforico del loro “matrimonio”.
Nella rappresentazione di don Michele c’è molto della raffigurazione del
tradizionale uomo d’onore che protegge i deboli secondo una visione antica della mafia
“buona” e rispettabile. È una romantizzazione del personaggio che si può criticare, poiché
lontana dagli intenti dichiarati da Amenta, ma che è efficace perché indica in realtà la
visione soggettiva di Rita. Non può essere altrimenti che così dal punto di vista della
bambina, che è totalmente incantata dal padre e lo vede come un eroe buono e infallibile.
225
Anche nel ricordo di lui che affiora dopo la morte, e a cui Rita si aggrappa con forza,
difendendolo strenuamente davanti al giudice, il padre è sempre investito da una forte
carica d’idealizzazione: è forte, coraggioso, nobile e affascinante e, soprattutto, non si
può tradire. Com’era già per Tina, il padre costituisce per Rita il modello principale
d’identificazione. Nel mito paterno la bambina proietta il suo il senso di sé, il proprio
valore di figlia e quelli dell’intera famiglia. Poiché Rita è così fortemente identificata al
padre e al mondo che lui impersona, si atteggia, fin da piccola, a vera “donna d’onore”.
“Continua così, che sei sulla buona strada!” le dice, infatti, ironicamente il giudice in
occasione del loro primo incontro, quando la bambina lo affronta sfacciatamente
chiamandolo “cornuto e sbirro”.123
Anche per Rita, come per Tina, la morte violenta del padre quando ha appena otto
anni mette in moto un processo di crescita e di autoaffermazione, vendetta ed emulazione.
Non a caso, anche qui l’omicidio avviene davanti agli occhi della bambina ed è mostrato
interamente dalla sua prospettiva. Al momento degli spari, Rita è in compagnia del padre
sulla piazza di Balata ed è lei che si getta disperata sul suo corpo sanguinante gridando
aiuto (l’abito bianco della comunione in contrasto con il rosso del sangue e il nero della
pistola in mano alla bambina vanno a costituire un’immagine dal forte impatto visivo):
123
Non soltanto Rita è fin da bambina perfettamente inserita nell’ambiente circostante, ma si può dire che è
un prodotto della mafia, una “mafiosa in gonnella”: così definì Rita Atria il magistrato Angela Camassa
(cit. in Longrigg 235 e in Rizza 12) e così l’apostrofava scherzosamente anche l’amica e cognata Piera
Aiello.
226
Fig. 23
Similmente a quanto accade a Tina, anche per Rita questo evento drammatico
segnala la fine dell’infanzia. Il corpo martoriato del padre, steso a terra in una pozza di
sangue, è una simbolica soglia da oltrepassare per fare il proprio ingresso nel mondo
adulto. Inoltre, anche Rita entra da maschio nel territorio maschile adulto della mafia,
perché il suo primo pensiero è di rintracciare gli assassini del padre, e lei tenta di
sostituirsi al fratello reclamando vendetta (ruolo che spetta al figlio maschio). È proprio
la bambina, infatti, che, pistola alla mano e con ancora indosso l’abito della comunione,
piomba a casa di don Salvo, boss del suo stesso clan, per pretendere la vendetta. E
quando il fratello le rivela che don Salvo è il vero responsabile dell’omicidio, Rita fa
quasi per precipitarsi impetuosamente da lui per ucciderlo, senza preoccuparsi di
“scavalcare” il fratello in quello che è un diritto, oltre che un dovere del maschio di
famiglia.
Alla morte del padre, perciò, Rita non solo oltrepassa i limiti del protetto mondo
infantile in cui aveva vissuto fin allora, bensì trascende anche i confini dello spazio
femminile per ridefinirsi, al pari di Tina, come figlio di suo padre. Rita vuole farsi cattiva
e vendicativa, e quindi potente, e quindi maschio. Benché, a differenza di Tina, non si
travesta da uomo, la morte del padre ha comunque su di lei un effetto mascolinizzante,
227
simboleggiato anche in questo caso dalla presa di possesso della pistola. Rita ha tratti
caratteriali che possiamo tranquillamente definire maschili: la sua arroganza e
sfrontatezza non la rendono dissimile da quelle donne di mafia che la Cutrufelli definiva
succubi di una sorta di “machismo femminile”. La mascolinità di Rita è marcata, inoltre,
dal linguaggio del corpo e dall’abbigliamento sobrio, ed è ulteriormente favorita dalla
scelta dell’attrice che la impersona, Veronica D’Agostino, dai tratti somatici duri e
sgraziati e lontani dalle immagini stereotipate di bellezza femminile. Se per Rita il
processo che prende avvio alla morte del padre non si configura, come per Tina, nei
termini di una ri(gener)azione, si tratta, tuttavia, di una sorta di de-femminilizzazione, di
cui la bambina ha bisogno per sfidare divieti e pregiudizi e per evitare di doversi
conformare alle nozioni di femminilità veicolate dalla figura materna. Al pari di Tina,
infatti, Rita non rivolge la propria attenzione alla madre quando perde il punto di
riferimento paterno. Anzi, la bambina rimodella la propria identità direttamente in
opposizione alla madre, che lei identifica con una femminilità passiva e rassegnata. Rita
rifiuta di essere, come lei, confinata in spazi limitati, considerata come oggetto passivo da
possedere, proteggere o controllare, e pretende invece un ruolo attivo nel mondo in cui è
ammesso uccidere e vendicarsi. Anche lei, come Tina, cerca con la pistola un ideale
passaggio di consegne, di padre in figlio, che le assicuri l’accesso al potere e alla
vendetta.
Il rifiuto della passività femminile rappresentata dalla madre e il suo aggrapparsi
ai simboli della mascolinità veicolati dal padre sono evidenti nella scena che apre il film
– e che Amenta inserisce a far da prologo in un racconto altrimenti sempre lineare. In
questa scena Rita, ormai fuggita da Balata ed entrata nel programma di protezione, rifiuta
228
di consegnare al carabiniere la pistola che aveva custodito gelosamente fino allora.124 La
pistola rappresenta – come afferma Rita stessa – il suo unico ricordo del padre. E dunque
è un simbolo d'affetto, quasi un sostituto dell’amato genitore. Non sfugga, tuttavia, il
significato simbolico del tentativo di Rita di trattenere la pistola. Esso rivela il suo
desiderio di restare aggrappata al potere maschile che l’arma rappresenta nella società
mafiosa. Rivela inoltre il suo attaccamento morboso ai propositi di vendetta (lei e il
fratello avevano baciato a turno la pistola, facendo un giuramento sacro di vendetta).
Certo, Rita non ha intenzione di usare la pistola per uccidere, né la vediamo esercitarsi a
sparare come fa Tina. La pistola rimane importante, però, come emblema di mascolinità
ed è una sorta di talismano che la protegge e le dona la sensazione di avere tutto sotto
controllo (ce l’ha con sé nella scena dell’agguato al cimitero ed è sempre nel cassetto
durante il soggiorno a Roma). L’oggetto appartenuto al padre le conferisce autorità e le fa
cullare l’illusione di essere in grado di portare avanti i suoi piani di vendetta come figlio
maschio, cioè in possesso del potere, e non come figlia femmina: cioè debole, impotente,
castrata. Anche per Rita si può suggerire pertanto un’equazione arma = membro
maschile, sebbene il suo sentimento si configuri meno apertamente come un’espressione
dell’invidia del pene in senso Freudiano. L’invidia, se è presente in Rita, è un desiderio di
avere il ruolo del maschio, i suoi privilegi, la sua autorevolezza e dunque, più in termini
Adleriani, inserita in un contesto sociale, non una semplice invidia dell’organo maschile.
Come accade a Tina, Rita non mette mai in discussione la predominanza dell’uomo
maschio, così come l’idea della superiorità maschile permane viva in lei. Quando decide
124
Questa scena propone fin da subito le dicotomie principali del film e il dramma personale di Rita, divisa
fra la brutalità della mafia e la legge dello Stato, la fedeltà per la famiglia e la vita libera che si prospetta
all’orizzonte, la vecchia identità di figlia di mafioso e la nuova identità di collaboratrice di giustizia.
Iniziare con questa scena invece che, eventualmente, con la nascita di Rita permette al regista di conferire
anche una maggiore importanza al momento della svolta nella vita di Rita, alla sua ri-nascita.
229
di collaborare, si rivolge non a caso ad un giudice uomo; e soltanto con lui pretende di
parlare, perché identifica in lui l’autorità maschile.125
Marco Amenta riconosce come la de-femminilizzazione di Rita sia un aspetto
importante dell’evoluzione del personaggio e suggerisce che la chiave di volta della sua
maturazione sarà la sua ri-femminilizzazione. In un’intervista con Diana Wade, il regista
spiega che “in the beginning, Rita behaves as a man because she wants to get revenge.
She is the adored daughter of her father . . . and she tries to act like a man, because she is
much closer to her father than her mother” (6). Questo le dà un senso di estrema libertà e
Rita si comporta quasi come un animale selvatico, impetuoso, istintivo. “It’s only when
she goes to Rome that she discovers her feminine side, her sexuality” (6) - continua il
regista. Infatti, non appena trasferita a Roma, Rita è ridefinita come donna. Le viene dato
un nuovo nome più armonioso, Silvia, e subito le vengono offerti degli abiti diversi, più
femminili e colorati, che lei rifiuta preferendo i colori smorti (certo, anche per la
necessità di portare il lutto familiare). Anche il nome più femminile non le aggrada (“non
mi piace Silvia!” dice sfacciatamente ai carabinieri). Piano piano però, grazie anche alla
relazione che sviluppa col giudice e all’incontro con Lorenzo, le cose cambiano. Rita
riscopre il suo corpo e in occasione di un appuntamento con Lorenzo si veste per la prima
volta con un abito colorato, si acconcia i capelli e si trucca, mettendosi il rossetto, come
in una scena da bambina. Da bambina, però, era stato un gesto di sfrontatezza rivolto alla
madre oppressiva, stavolta è un modo di accettare ed affermare la propria femminilità.
Se, infatti, la femminilità consiste anche nel riconoscersi come oggetto passivo di
125
Ricordiamo a questo proposito quanto scritto da Liliana Madeo secondo cui Rita Atria: “Non accetta
sino in fondo la sua parte femminile, che sente come debolezza, destino dei perdenti . . . L’uomo le appare
il protagonista del mondo e dentro di lei c’è troppa confusione per poter pensare a relazioni con gli altri in
cui non contino la dipendenza e le gerarchie” (200-201).
230
contemplazione e desiderio, Rita si riscopre donna proprio nel risvegliare le attenzioni dei
nuovi uomini della sua vita. Non solo. È proprio la sua ritrovata femminilità a permetterle
di trovare il coraggio di ammettere davanti a tutti che anche suo padre era un criminale.
Spiega così il regista questo punto importante: “her growing femininity allowed her to
put aside her pride and to accept emotionally the fact that her father was guilty. This is
something that a man, with a big sense of honor, couldn’t do” (6). È insomma quasi come
se la femminilità la trasformasse in un essere umano razionale in grado di riconoscere le
atrocità compiute dal padre. Come se solo questa trasformazione le permettesse di
lasciare il passato e gli orrori della mafia dietro di sé.
Veicolo della ritrovata femminilità di Rita è il rapporto con le nuove figure
maschili della sua esistenza, soprattutto il giudice. La seconda parte del film esplora
appunto la relazione complessa tra Rita e l’anonimo giudice siciliano. Il loro rapporto è
coltivato con lentezza e il regista si sofferma a mostrarne gradualmente i passaggi, che
vanno dall’iniziale ostilità alla mutua comprensione e infine all’affetto reciproco. Con il
giudice, Rita adotta inizialmente un comportamento mascolino e aggressivo: gli resiste,
gli tiene testa in ogni incontro e tra i due c’è un confronto quasi da pari a pari. Persino le
tecniche di ripresa non rispecchiano le dinamiche di potere che ci aspetteremmo di
trovare fra una ragazzina e un adulto, per di più maschio, e investito ufficialmente
dell’autorità. Non predominano angolazioni dall’alto della macchina da presa che
suggeriscono che l’adulto si piega verso il bambino per intimidirlo (e ciò, nonostante il
giudice faccia sempre sedere Rita, parlandole restando in piedi). Queste si alternano con
riprese ad angolo basso che mostrano che la ragazzina non è intimidita dalla’autorità che
sta di fronte a lei. Ma la maggior parte delle scene sono campo-controcampo a
231
sottolineare cioè il loro rapporto di (quasi) parità. Il conflitto fra i personaggi è pian piano
stemperato e i due raggiungono un’alleanza molto simile a quella che Rita aveva con il
proprio padre. Il giudice diventa, infatti, una nuova figura paterna. Anche lui è buono e
protettivo, forte e carismatico. Incoraggia Rita ad affrontare la realtà, sostenendola nel
suo difficile percorso di crescita e demitizza a poco a poco davanti ai suoi occhi
l’immagine buona del padre, fino a sostituirsi a lui. Ma la loro relazione è più complessa
di quella padre-figlia. Si potrebbe dire che per Rita il giudice diventa il “père souverain”
(“il padre sovrano”), la figura descritta da Simone de Beauvoir nel Deuxième sexe: una
combinazione di padre e amante in una sola figura simbolica che influenza la
maturazione fisica ed emotiva della bambina, aiutandola a trasformare quelle che de
Beauvoir chiama le “tendenze viriloidi”, presenti in ogni bambina, in tendenze e
atteggiamenti femminili.126
C’è un ulteriore aspetto da considerare che riguarda la ritrovata femminilità di
Rita. L’accesso alla femminilità (e l’accettazione di essa) le consente di sostituire la
pistola del padre con un’altra arma che si rivela altrettanto potente: i suoi diari, ossia i
quaderni su cui ha annotato sin da bambina i pensieri più intimi, ma anche tutte le attività
illecite della cosca di don Salvo. Essi vengono consegnati al giudice e poi acquisiti come
elemento di prova durante il processo e sono uno dei principali artefici della condanna di
don Salvo. La scrittura femminile, intima, privata, si rivela dunque nelle mani di Rita
un’arma di lotta efficace, che inizialmente si affianca, e poi si sostituisce, alla pistola e
126
Tutti gli psicanalisti, ricorda de Beauvoir, conferiscono alla donna lo stesso tipo di destino: quello di
essere al centro di un conflitto fra le proprie tendenze viriloidi e quelle femminili. Da bambina, la donna
s’identifica col padre, poi è posseduta da un sentimento d’inferiorità verso l’uomo e deve affrontare il
dilemma: o affermare la sua indipendenza e diventare virilizzata, o cercare una felice soddisfazione nella
sottomissione amorosa, una soluzione che è facilitata dall’amore per il “père souverain” (84).
232
che le permette di portare avanti la sua battaglia e di ridefinire la propria soggettività e il
proprio potere. Sebbene Amenta decida di dare poco spazio ai diari (almeno rispetto al
documentario, in cui era presente la riproduzione visiva delle parole di Rita sovraimposte
alle immagini), non per questo il ruolo della scrittura va sottovalutato come veicolo di
ricerca di un’identità soggettiva, e come strumento di conoscenza e cambiamento.
Di per sé, scrivere il proprio Io significa sempre identificare e ridefinire se stessi,
cogliere “la possibilità di riscoprirsi decostruendo modelli imposti e ricostruendo, senza
pretese definitive e definitorie, nuove immagini di soggettività” (Pace 195-196). È un atto
attraverso cui si cerca di esprimere il sé più autentico e che può indicare la strada per la
libertà e l’autonomia di pensiero. “Writing is precisely the very possibility of change, the
space that can serve as a springboard for subversive thought, the precursory movement of
a transformation of social and cultural structures,” (419) afferma Hélène Cixous, che poi
profetizza: “An act which will not only ‘realize’ the decensored relation of the woman to
her sexuality, to her womanly being, giving her access to her native strength; it will give
her back her goods, her pleasures, her organs, her immense bodily territories which have
been kept under seal; it will tear her away from the superegoized structure in which she
has always occupied the place reserved for the guilty” (419-420). Nel caso di Rita, la
scrittura diventa anche un’arma sovversiva in grado di destabilizzare la cultura patriarcale
mafiosa. Al pari di quella dell’autore-narratore Saviano in Gomorra, la sua penna parla e
denuncia. E fa condannare.
D’altra parte, fin dalla morte del padre Rita aveva trovato proprio nella scrittura
uno stimolo per andare avanti e per esorcizzare i suoi demoni e i suoi lutti. Ma ancora
prima, la scrittura era già servita ad indicarle un diverso significato di appartenenza e,
233
forse, anche una via per trascendere i limiti imposti di genere. Mi riferisco al commento
che aveva fatto don Michele quando la madre si era lamentata con lui delle lenzuola
imbrattate di salsa. Rita si era difesa dicendo che stava imparando a scrivere. “Imparare a
scrivere è cosa santa. Deve restare ignorante come noi?”, l’aveva spalleggiata
prontamente don Michele, identificando in tal senso nella scrittura uno strumento
privilegiato di affermazione e forse anche l’arma con cui combattere il loro mondo
arcaico e tradizionale. Il padre, suo idolo e modello, le aveva pertanto indicato, seppur
indirettamente, che tramite l’accesso alla scrittura, e quindi all’istruzione, Rita può
irrompere nello spazio pubblico come soggetto e agire in prima persona, invece di essere
confinata all’interno della sfera familiare (non a caso, la madre, rimasta ancorata a quel
mondo, la vuole “tenere chiusa a casa” e in una scena le strappa anche i diari di mano).
Per tornare brevemente alla concezione Freudiana-Lacaniana dello sviluppo della
bambina, se Rita non entra nell’ordine simbolico fallocentrico in posizione di soggetto
attraverso l’acquisizione della pistola (= pene), vi accede tuttavia attraverso il linguaggio.
Non già, però, attraverso il linguaggio maschile, né da una posizione maschile allineata
alla posizione del fallo, bensì attraverso il linguaggio femminile, la parola intima, la
confessione privata.
Proprio perché più lontana dall’ordine simbolico fallocentrico, la scrittura intima
è però considerata instabile e le parole di Rita vengono per questo tacciate di “isteria”,
“fantasticherie di una ragazzina esaltata” (non a caso da un avvocato uomo, mentre la
procuratrice che rappresenta Rita al processo è donna). Anche il giudice, quando vede per
la prima volta i quaderni di Rita, è dubbioso e la informa che andranno fatti dei riscontri
su quanto vi è scritto per attestarne la veridicità. Rita però reagisce in maniera molto
234
seccata, esclamando: “Io unn’ iscrivo minchiate!” La ragazza rivendica l’autenticità della
scrittura e la sua energica difesa davanti al giudice stabilisce il tono con cui saranno da lì
a poco valutate le sue parole scritte: al processo la procuratrice parlerà di “perfetta
corrispondenza” tra parola e realtà e i diari saranno acquisiti come elemento di prova,
andando a rappresentare, anche in modo tangibile, la verità (“Io so. E ho le prove”, aveva
detto Saviano). Allo stesso modo, con la sua autodifesa, Rita si ri-definisce come
portatrice assoluta della verità (lei è, infatti, seppur poco verosimilmente, l’unica
testimone del processo).
L’autorità di cui Rita è investita in qualità di unica testimone è riscontrabile anche
nella scena in cui esegue la deposizione ufficiale davanti ai carabinieri, poco prima del
processo: una scena importante giacché, come afferma Robin Pickering-Iazzi parlando
del documentario (ma applicabile anche al film), “[it] establishes her visual and verbal
identity as a collaboratrice della giustizia” (“Spatial Productions” 102). Questa scena è
ripresa con tecniche audiovisive interessanti che includono una particolare luce blu posta
sull’obiettivo e il sottofondo del suono ritmico della macchina da scrivere che riproduce
le parole di Rita (rimettendole dunque per iscritto). Amenta inquadra in primo piano la
ragazza che esegue la deposizione tutto d’un fiato, senza esitazioni, in una stanza buia,
mentre con un montaggio alternato e parallelo, sono mostrati gli arresti dei boss mafiosi,
man mano che vengono da lei denunciati. Il montaggio parallelo permette di considerare
la parola di Rita come un “atto performativo” (Pickering-Iazzi parla appunto di
“performative act of giving legal testimony”, in “Re-membering Rita Atria”): non appena
Rita parla e denuncia, le sue parole portano all’arresto dei mafiosi. Si formalizza pertanto
l’autorità di Rita come testimone di giustizia, non solo perché lei è l’unica portatrice di
235
verità, ma perché le sue parole conducono a un cambiamento immediato. Rita non smette
di parlare anche quando le cose si fanno difficili. Anzi, la sua voce si alza potente
nell’aula di tribunale. La ragazza non solo porta avanti una “crociata” di giustizia - come
hanno osservato molti critici. Rita è lei stessa la giustizia.
Dall’atto di ri-considerazione delle armi in suo possesso nasce in Rita la
consapevolezza che impugnare la penna ha altrettanto o più valore che impugnare la
pistola appartenuta al padre. Il suo percorso ricorda chiaramente quello del narratoreSaviano in Gomorra e di Peppino ne I cento passi e ridefinisce il valore sovversivo della
parola in quanto arma da contrapporre alla violenza perpetuata con le armi dei mafiosi.
Giustificabile in tal senso, anche se un po’ melodrammatica, è la scena della definitiva
rinuncia della pistola, portata da Rita in tribunale e consegnata pubblicamente al giudice,
perché non più necessaria come segno di potere.127
Fig 24
L’attaccamento morboso alla pistola e al mondo che essa rappresenta può essere
messo da parte, adesso che Rita ha forgiato una nuova alleanza con un uomo e ha capito
che le sue altre armi, quelle della femminilità, sono altrettanto efficaci di quelle della
mascolinità. Quando Rita riconsegna la pistola, il gesto sancisce la sua maturità e la sua
127
In realtà il film complica questo passaggio, giacché Rita consegna la pistola come prova concreta di ciò
che è raccontato nei diari, e dunque si ha l’idea che il simbolo del potere (e dell’organo) maschile sia
comunque necessario per validare in qualche modo le pagine di scrittura femminile.
236
conquistata autonomia dalla mentalità mafiosa. Con quest’atto, Rita abbandona
definitivamente anche il comportamento mascolino e ritrova la femminilità. Ha imparato
ad essere una donna con l’aiuto e la guida di un uomo. Non a caso, subito dopo questa
scena ci viene mostrato il primo e unico abbraccio fra lei e il giudice, il suo “père
souverain”, che lei è contenta di non aver deluso, rendendo evidente che è la complicità
con l’uomo ad averla introdotta e quindi inserita nel mondo adulto.
Il fatto che Rita rinunci alla mascolinità per una versione femminile di sé,
veicolata dall’incontro e l’approvazione del “père souverain” sembrerebbe puntare verso
una visione conservativa di Amenta della condizione femminile. Il film problematizza
però la semplice traiettoria di Rita dal maschile al femminile. Malgrado, come la
protagonista de La briganta, Rita rientri, in un certo senso, negli schemi predeterminati di
genere, la sua identità di donna si complica e si contraddice. Innanzitutto, Rita non
diventa la classica donna femminile, né l’archetipica donna di mafia che piange i suoi
morti in silenzio impersonata dalla madre. In secondo luogo, l’apertura al femminile non
le assicura automaticamente il passaggio alla vita normale o il reinserimento nella
società. Rita si appropria di una versione non domestica della femminilità. Ritrovare le
caratteristiche femminili non significa per lei accettare un ruolo di ragazzina paurosa e
passiva. Rita resta determinata e ardita, fiera e prepotente, forte e pericolosa. Al processo
si allontana persino dalle guardie per andare a fissare negli occhi, con aria di sfida, i boss
rinchiusi nelle celle dell’aula bunker che la minacciano e la insultano. Rita non è tornata
come femmina castrata, bensì fallica.128
128
Interessante è anche il particolare rivelato dal magistrato Angela Camassa, secondo cui Rita Atria voleva
essere seppellita vestita da uomo, con giacca e pantaloni neri e papillon: un chiaro desiderio di essere
ricordata “al maschile” (124). Ne parla anche Liliana Madeo (201) ricordando che Rita aveva lasciato
queste istruzioni scritte nei diari.
237
Ma a indirizzarci verso conclusioni ambivalenti della ritrovata femminilità di Rita
è soprattutto il fatto che la ragazza non risolve la sua condizione iniziale, anzi la
peggiora. Proprio come Tina, anche lei alla fine si ritrova in una posizione di “inbetweenness” che si rispecchia nel suo stato di collaborante. Una volta arrivata a Roma
nel programma di protezione, Rita deve cambiare spesso casa (“mi trattate come una
valigia” si lamenta, infatti, col giudice). Non può parlare con nessuno, né aprire la porta.
Deve restare chiusa a chiave e uscire solo per fare la spesa. Rita si è emancipata come
tanto desiderava, andando via dalla Sicilia e da una madre oppressiva, ma non è libera di
vivere come le pare (“sono come prigioniera” scrive appunto al fidanzato Vito). La sua è
una vita caratterizzata dalla clandestinità e dalla totale solitudine.129 Proprio la madre è la
veicolante del carattere illusorio della sua libertà. Prima che andasse via da Balata,
l’aveva chiamata “povera illusa” e le aveva predetto un futuro di solitudine e di morte.
Anche quando la rivede dopo qualche tempo, la madre le ripete di essere un’ingenua e al
disperato grido d’indipendenza di Rita (“Guardami: io sono libera!”), risponde amara:
“Accussì libera sei? Ancora non ti sei accorta che sei nascosta come un topo intu nu
purtusu (in un buco)?”. Parole crudeli che rivelano però tutto il carattere ingannevole
della sua emancipazione.
Per trasmettere il senso di oppressione di Rita, Amenta usa tecniche di ripresa
completamente diverse da quelle iniziali. Le belle scene di apertura e serenità dell'inizio
lasciano il posto a scene più cupe e scure. Come spiega lo stesso regista in un’intervista:
129
Amenta amplifica la solitudine di Rita tagliando completamente fuori dal film il personaggio della
cognata, la moglie del fratello di Rita, Piera Aiello, anche lei collaboratrice di giustizia, con cui la ragazza
aveva vissuto per tutto il suo periodo romano. Forse Amenta ha voluto che l’unica altra versione di
femminilità adulta del film fosse la madre di Rita, l’archetipo della donna di mafia ancorata ai vecchi valori
mafiosi, per dare ancora più risalto alla ribellione di Rita e per lasciare a lei, nel contempo, l’unico ruolo di
eroina.
238
C’è una grossa divisione tra la prima parte della vita di Rita, quella felice che è
resa a livello estetico grazie all’uso della pellicola 35mm, grazie a movimenti di
macchina stabili, alla luce del sole [le riprese larghe e fisse] ecc. ecc. E poi la
seconda parte, quando gli omicidi distruggono il suo mondo e tutto cambia.
Quella parte l’abbiamo girata in super16 con una grana più grossa, inquadrature
strette, macchina a mano e ambienti chiusi per dare l’idea dell’instabilità che
mette in discussione il suo mondo e come sia costretta ad affrontarne uno nuovo.
(cit. in Niola)
Anche l’ambiente cambia e diventa più piccolo. A Roma, Rita vive in piccoli
appartamenti claustrofobici, in squallidi palazzi di periferia e con la paura costante di
essere spiata dietro ogni angolo e di essere trovata, inseguita e uccisa. La macchina da
presa manipola lo spazio e usa angoli obliqui che danno un senso di oppressione,
insistendo su un’iconografia visiva fatta per lo più da corridoi bui e spazi lunghi e stretti.
Anche le passeggiate sotto l’architettura imponente aumentano il senso d’oppressione di
Rita e, in una sequenza in cui la ragazza sospetta di essere pedinata, la macchina da presa
inizia a seguirla tra le ombre, con movimenti convulsi e traballanti che rispecchiano
l’inquietudine del suo animo.
Oltre al sentimento di solitudine e di abbandono, a Roma Rita deve anche
affrontare la progressiva perdita dell’identità. La sua identità prima era stabile perché era
assimilata al mondo culturale della mafia e all’importante status di figlia di mafioso.
Rompendo con le proprie radici, Rita perde a poco a poco il senso di sé e
dell’appartenenza familiare. La ragazza cerca una rinascita, ma è difficoltoso “diventare
la persona nuova che la sua mutata condizione richiede” (Madeo 200) e il passaggio alla
nuova identità e pieno di dolore e soprattutto incerto.130 La scena più rappresentativa del
130
In La mafia dentro, lo psicologo Franco Di Maria, parlando della difficile situazione psicologica dei
pentiti di mafia, la definisce una “nevrosi da disidentità” e fa delle osservazioni che si applicano bene al
caso di Rita: “collaborare significa, dal punto di vista emozionale, tranciare di netto un cordone ombelicale
che fino a quel momento ha garantito un’identità forte e robusta ancorché dogmatica e ripetitiva. Significa
239
dramma identitario vissuto da Rita è quella in cui uno dei carabinieri straccia e butta via
la sua carta d’identità. Rita deve dimenticare chi è, e da dove proviene. Inizialmente,
quest’instabilità le permette di crearsi un’identità alternativa – ovviamente più bella. Con
Lorenzo inventa di essere l’erede di una famiglia nobile siciliana fuggita da un
matrimonio combinato (da notare, inoltre, la costante idealizzazione del padre, che nella
sua fantasia diventa addirittura un conte, il che corrisponde alla fantasia Freudiana della
“romance family” che le permette di rivivere il periodo felice e rimpianto in cui il padre
era nobile, forte e senza peccati). Ma pian piano questa instabilità diventa una gabbia.
Rita deve cambiare nome diverse volte. Deve imparare ogni volta “il suo nuovo passato”.
E questo finisce col frammentare la sua identità. Finché si ritrova in una posizione “inbetween” anche a livello identitario, intrappolata proprio “come un topo in un buco” fra i
vari volti delle sue diverse identità: “io non so più chi sono” scrive, infatti, al fidanzato
Vito. La sua è un’esistenza che non si può più definire tale, anzi è praticamente una inesistenza.
La sensazione d’in-esistenza diventa lacerante per Rita quando la madre le
confessa che non voleva farla nascere (e rimpiange anzi di non avere abortito, perché la
figlia si è scoperta una traditrice). Non solo la madre nega a Rita l’evidenza della sua
rinascita come donna libera ed emancipata, ma la ricaccia indietro al momento della sua
nascita, che si rivela fortuita, occasionale, sbagliata. È il rinnegamento assoluto. In quel
affrontare la solitudine e la drammatica separazione da ciò che è noto, familiare, consueto, rassicurante per
entrare nell’incertezza e forse nella dimensione inconscia della colpa e della vergogna. ... Il collaborante
viola dei tabù. Innanzitutto, il tabù dell’omertà. Come sottovalutare le cadute emozionali di una tale
trasgressione? Come non capire che il tradimento dell’oggetto d’amore primario può produrre
sconvolgimenti psicologici?” (44). Gianluca Lo Coco osserva a sua volta: “La struttura della famiglia
mafiosa e l’universo simbolico-culturale che garantisce la sua esistenza, non prevede che un uomo d’onore
possa ‘dissociarsi’ dal suo clan, se non a prezzo della sua vita. Dal nostro punto di vista la morte cui va
incontro il pentito è anche quella psichica di chi, tradita la famiglia mafiosa, si trova ad essere solo,
abbandonato da quell’unica istituzione che potesse garantire affettivamente il proprio senso di sicurezza”
(65).
240
momento, Rita è cancellata come individuo. La confusione sulla propria identità si palesa
in tutta la sua drammaticità poco prima del suicidio, quando Rita chiama al telefono
Lorenzo e si autoidentifica ancora come Silvia (è così che la conosce Lorenzo), benché
poco prima il carabiniere le avesse assegnato un nuovo nome, Elena. Confusa e sconfitta,
Rita telefona anche alla madre, ma quest’ultima, pur avendo sollevato la cornetta e
sentito la voce della figlia, non dice una parola, sancendo, di fatto, la definitiva
eliminazione di Rita dalla sua vita, la sua in-esistenza. Rita è stata “pusata”, che nel gergo
della malavita siciliana significa abbandonata, lasciata al suo destino. Essere “pusato”
equivale metaforicamente a morire. La morte metaforica di Rita non è tuttavia che un
preludio alla sua morte reale, che avverrà, infatti, da lì a breve.131
Perduti padre e fratello, ripudiata dalla madre, trattata come traditrice dai
compaesani, e infine perduta anche la presenza rassicurante del “père souverain”, morto
in un’esplosione davanti ai suoi occhi (una licenza poetica di Amenta, che intendeva forse
reduplicare l’esperienza traumatica della morte del padre), Rita resta sola e senza
speranza. Come spiega Renate Siebert, con la morte del giudice “è venuto meno quel
legame tra mondo di prima e mondo di dopo, tra appartenenza alla famiglia e al paese e
nuove forme di libertà . . . Lui rappresentava la garanzia che il passaggio da un mondo
all’altro sarebbe stato possibile” (Le donne, la mafia 151). Ma non è così. Ancora più di
Tina, Rita è bloccata fra i due mondi e non può tornare indietro, né andare avanti. L’unico
modo che ha per sopravvivere è quello di rientrare nel sistema convenzionale di valori,
rinnegare la propria ribellione e perdere la libertà. Parlando con il fidanzato Vito, andato
131
È molto drammatico il fatto che la madre di Rita desideri annullare la presenza di Rita come individuo al
di là e oltre la sua vita terrena, da “prima” del suo concepimento fino a “dopo” la sua morte. Dopo averle
negato simbolicamente il diritto alla nascita, dicendole che intendeva abortire, la madre le nega anche il
diritto alla morte, quando va a dissacrare la sua tomba, prendendo a martellate la sua fotografia, quasi un
volerla rendere inesistente anche oltre la morte.
241
a trovarla a Roma, Rita capisce che la sola via verso una vita normale sarebbe quella di
ritrattare le sue dichiarazioni in modo da fare scarcerare i mafiosi (un atto di
sottomissione sarebbe, infatti, premiato). Vito parla di “salvarla” e si offre di riportarla al
paese come sua moglie per darle una vita ricca e rispettabile, “come una vera signora”.
Ha anche la parola d’onore di don Salvo che non le succederà niente di brutto e
sopravvivrà. Rita però rifiuta di essere ridefinita dalle regole maschili della mafia, e che
le sue opzioni di vita o di morte debbano dipendere dalla parola di un uomo, per di più lo
stesso uomo che ha distrutto la sua famiglia e la sua vita. “Stavolta la mafia perde”,
mormora a Vito, pochi istanti prima di gettarsi dal balcone di casa davanti a lui: “Stavolta
vinco io”.132
“Stavolta vinco io”: Marco Amenta si assicura di mettere in bocca a Rita queste
ultime parole come segno inequivocabile del messaggio positivo che intende trasmettere
recuperando la storia di Rita Atria. Come per Tina in Canto al deserto, il suicidio di Rita
non è una sconfitta ma una vittoria, perché è un gesto estremo di libertà. Rita non si
uccide solo per solitudine o per paura, ma anche perché sa che con la sua morte le prove
resteranno valide e nessuno potrà intaccare la sua storia: la sua deposizione rimarrà a
garanzia suprema e tangibile di verità. Rita è consapevole del sacrificio che sta
compiendo e proprio da questa raggiunta consapevolezza scaturisce il suo eroismo.
Com’è stato rimarcato da diversi critici, la sua è quasi un’auto-immolazione, un modo di
immortalare se stessa per una causa più alta, il che la conduce inevitabilmente al martirio:
quel martirio che, come abbiamo visto tante volte, è il simbolo stesso della lotta
132
Siccome non si sa nulla dei momenti che precedettero il suicidio di Rita Atria, Marco Amenta ritiene che
si debba essere aperti a tutte le possibilità (cit. in Wade 8) e si prende la libertà di rappresentarla col vecchio
fidanzato, un’interpretazione, insieme a tante altre, che non è piaciuta ai parenti di Rita Atria: la nipote di
Rita, infatti, ha preso le distanze dal film scrivendo una lettera aperta al regista.
242
antimafia. Che Rita sia consapevole di essere investita di una specie missione, lo capiamo
anche dalla citazione prolettica, tratta dal suo diario, che Amenta inserisce come primo
voice-over del film e che dice:
Nel cielo ci sono milioni di stelle: ognuna nasconde un piccolo segreto, ognuna ha
un lungo viaggio da compiere. E una di esse, proprio la più piccola, la più lucente,
la più lontana, sta compiendo per me il più lungo dei viaggi, per arrivare in un
luogo chiamato infinito.
Ovvero, Rita vede se stessa imbarcata su una strada che va incontro a un destino
di morte e di sacrificio, ma avviata anche verso un “infinito” che le promette un posto
nella memoria collettiva. Rita Atria, come Peppino Impastato, Placido Rizzotto e don
Puglisi, diventa allora una figura esemplare, la cui vita è importante al di là della storia
singola, intima e personalissima, di una ragazzina siciliana di diciassette anni morta
suicida. Diventa la rappresentante di tutti i testimoni di giustizia morti o costretti alla
clandestinità, e più in generale di tutte le vittime della lotta alla mafia.
Il suicidio di Rita è anche un gesto di autoaffermazione femminile, perché Rita
non si arrende sottomettendosi all’ordine maschile precostituito di cui Vito si fa
portavoce. Sebbene il finale del film, come quello del romanzo della Cutrufelli, sembri
negare un risultato positivo alla ribellione femminile, Amenta si rifiuta di mostrare Rita
come una donna vittima, punita per la sua disubbidienza all’ordine patriarcale. E benché,
come nota Robin Pickering-Iazzi, il ridurre la storia di Rita ad una storia “universale”
sembri diminuire in qualche modo la portata della sua emancipazione femminile,
rendendola la storia di ogni “uomo” che lotta per la libertà, la figura di Rita rimane
tuttavia un’alternativa importante alla consueta immagine della donna di mafia. La
ragazzina, che, come ricorda Renate Siebert, “non aveva esempi . . . a cui ispirarsi. Era lei
243
stessa l’esempio” (Le donne, La mafia 140) diventa, in questo senso, “pioniera” di tutte le
donne che da quel momento in poi si batteranno per la propria individualità e per la
liberazione dalla mafia. Non a caso, il film si conclude con le immagini di repertorio del
funerale di Rita Atria e delle marce celebrative, a cui parteciparono principalmente le
donne. Amenta decide di mostrare come la morte di Rita Atria abbia segnato una svolta
per le altre donne, ispirandole a lottare. All’asse matrilineare, cronologico, verticale,
tipico della mafia sostituisce un asse orizzontale, composto dalla solidarietà femminile.
“Moving from the particular to the collective,” nota infatti Pickering-Iazzi:
Amenta’s shots of the funeral procession first represent female-gendered verbal
and visual forms of witnessing, of demonstrating the sense of responsibility and
solidarity with Rita Atria and the ideals for which she comes to stand” . . . “Thus, Rita
Atria is crafted as a symbol of truth, courage, and practices designed to create
solidarity among women opposing illegality. (“Spatial Productions” 107-8)
Come per Tina in Canto al deserto, allora, non è la fine atroce di Rita che sopravvivrà
agli occhi dello spettatore, bensì la sua storia e il film che la racconta. Storia che, per il
messaggio di forza e coraggio che contiene, è da considerarsi altrettanto “a lieto fine” di
quella di Tina, e che trova nel cinema di Marco Amenta, erede del cinema
“memorialistico” neorealista e del cinema d’impegno degli anni Settanta, uno strumento
privilegiato di diffusione e di cambiamento.
244
CONCLUSIONI
Come abbiamo visto, il tema dell’infanzia è stato e continua ad essere una
costante fonte di ispirazione per i romanzi e film sulla mafia, sia per quelli considerati
“minori”, sia per i casi eclatanti e conosciuti a livello internazionale, come l’ormai
celebratissimo Gomorra. Per la straordinarietà del fenomeno della mafia, per
l’universalità dell’esperienza dell’infanzia, e perché l’intreccio tra l’infanzia e la mafia è
un soggetto che sfiora più discipline e colpisce anche a livello etico-morale, l’interesse
per i bambini e la mafia è rimasto costante nel tempo, coprendo in letteratura l’arco di un
intero secolo a partire, come abbiamo visto, dai Racconti della Conca d’Oro del 1911 ed
emergendo più recentemente come soggetto cinematografico, soprattutto in seguito ai
fatti di cronaca e alla scia emotiva lasciata dai tragici eventi del 1992. Così come i
romanzi e i film che le accolgono, le rappresentazioni dei bambini e la devianza hanno
cambiato registro estetico nel tempo, passando da quello mitico e folcloristico degli
“scugnizzi” napoletani tardo-ottocenteschi a quello socialmente e civilmente impegnato
del periodo neorealista, fino ad arrivare nel nuovo millennio al registro documentaristico
di Gomorra, il primo romanzo a proporre una riflessione socio-antropologica
sull’infanzia e la mafia, prendendo spunto dai fatti veri della cronaca italiana. In ogni
caso, le rappresentazioni artistiche dell’infanzia “deviata” continuano oggi, così come
facevano ai primi del Novecento e nel secondo dopoguerra, a funzionare come atto
d’accusa verso una società incapace di tutelare e difendere i suoi rappresentanti più
indifesi, richiamando i lettori e gli spettatori adulti alle proprie responsabilità e incitando
al cambiamento sociale.
Abbiamo notato come quasi tutte le opere analizzate in questo studio, anche
245
quelle che non si concentrano direttamente sull’evoluzione del bambino, uniscano alle
convenzioni del genere-mafia elementi del classico racconto di formazione e si rifacciano
ai modelli estetici del cinema neorealista. Ho proposto l’idea che i piccoli protagonisti dei
film di mafia siano gli eredi del “bambino-testimone” teorizzato da Gilles Deleuze, cioè
che siano osservatori muti e impassibili del mondo che li circonda e incapaci di incidere
in maniera efficace sulla società. In particolare, ho notato come Totò in Gomorra e
Rosario in Certi bambini, ma questo discorso vale anche per i ragazzini di Alla luce del
sole, vivano le atrocità della mafia con l’atteggiamento freddo e distaccato di spettatori
impassibili, perché abituati all’orrore, quasi come se la tragedia fosse - così recita il
celebre prologo di Germania anno zero - “il loro elemento naturale”. Quella del
“bambino-testimone”, non è però una tendenza che ho definito assoluta della
rappresentazione dell’infanzia nei film di mafia. Ho mostrato, invece, che in molti casi i
bambini raffigurati si distanziano dal modello della “veggenza/erranza” Deleuziana,
perché non svolgono un ruolo unicamente testimoniale. Anzi, Michele in Io non ho paura
e Peppino ne I cento passi trovano la capacità di reagire di fronte all’orrore di cui sono
testimoni. Anche il pastorello Saro in Placido Rizzotto, ovvero l’emblema stesso del
bambino-testimone, risponde all’omicidio del sindacalista non rimanendo inerte, bensì
correndo ad avvertire i cittadini di Corleone. Nel caso dei film del terzo capitolo, poi, è
interessante che benché l’attenzione sia posta perlopiù sull’immagine iconografica del
bambino-martire, siano comunque presenti elementi del bildungsroman, in quanto Saro
evolve dall’innocenza e ignoranza infantili alla consapevolezza adulta e da una
condizione a-sociale ad una nuova maturità civica. A loro volta, anche i bambini di Alla
luce del sole compiono un percorso di formazione, anzi, come abbiamo visto, sono
246
soggetti ad un “iter redemptionis” che li trasforma da teppistelli e potenziali mafiosi a
ragazzini onesti e rispettosi.
Nel mio studio, ho notato altresì come in molte delle opere analizzate la
formazione dei bambini in adulti preveda un percorso di “mascolinizzazione”, inteso
come un processo di adesione e d’inserimento del bambino nella cultura paterna (e iperfallicizzata) della mafia. Se ha successo, questo percorso di formazione - che in tal caso
ho definito “perverso” - è inteso come una vittoria della potente legge paterna mafiosa e
coincide con l’abbandono della debole e difettosa legge materna (che a volte, ma non
sempre, s’identifica con la legalità). Questo processo di “mascolinizzazione” è mostrato
non solo nel caso dei bambini maschi, ma anche quando si tratta di protagoniste
femminili, come nelle opere analizzate nel quarto capitolo, in cui le bambine Tina e Rita,
volendo far parte del mondo della mafia, compiono almeno inizialmente un processo di
rifiuto del femminile ed interiorizzano i valori maschili tipici dell’“uomo d’onore”. Ho
analizzato anche il percorso inverso che può fare il bambino, cioè quello di non
conformità alla legge patriarcale della mafia, il che rappresenta una sconfitta della cultura
mafiosa paterna, ma porta il bambino all’indipendenza e al pieno sviluppo individuale. È
ciò che accade all’autore-narratore di Gomorra, a Peppino ne I cento passi, a Michele in
Io non ho paura e infine a Rita ne La siciliana ribelle, tutte opere che propongono
racconti di formazione non più “perversa”, ma di tipo edificante.
È una formazione che, nei primi due casi, porta i protagonisti a sostituire la
cultura paterna con quella di altri “padri” culturali, politici e soprattutto letterari. In
Gomorra Pasolini diventa “il padre autorizzante” della denuncia fatta da Saviano e ne I
cento passi lo stesso Pasolini, ma soprattutto Dante, sono un exemplum d’impegno civile
247
per il giovane Peppino. Per lui, per l’autore-narratore di Gomorra e per Rita, la parola
(alla radio, per strada, su un foglio di giornale o su un diario) diventa un atto di ribellione
all’oppressiva legge paterna, da usare al posto della violenza e come potente arma
d’accusa e di promozione al cambiamento. Possiamo anche allargare questo paradigma
per includervi Michele di Io non ho paura che, grazie all’apertura verso Filippo, si
affaccia ad un nuovo sapere soggettivo, staccato dalla cultura paterna, e perché anche lui
è “imbevuto” di parole, come si capisce dall’avida lettura dei giornaletti e dal fatto che
scrive delle storie per affrontare le sue paure. Anche Saro in Placido Rizzotto sceglie la
parola per comunicare l’orrore che ha visto, passando da una condizione pre-verbale ad
una verbale di esistenza e lo stesso padre di Rizzotto usa la parola, sotto forma di cunto
mitico-popolare, per divulgare la storia del figlio. In Alla luce del sole, infine, l’opera di
redenzione dell’infanzia perduta portata avanti da don Puglisi passa attraverso
l’evangelizzazione: anche questo un atto di parola.
Sembra, in sostanza, che emerga da queste opere una certa fiducia nel potere della
parola come strumento di opposizione alla mafia: un aspetto, questo, che, come abbiamo
visto, accomuna alcuni romanzi apparsi in Italia non a caso dopo il 1993 e che il critico
Wu Ming I ha definito parte di una “nuova epica italiana”, caratterizzata, tra le altre cose,
da un forte senso di responsabilità civica e, appunto, da una rinnovata fiducia nella parola
come arma di sovversione. Attraverso la parola, e inoltre la parola che diventa immagine,
la letteratura e il cinema si propongono, infatti, come mezzi di comunicazione atti a
denunciare le anomalie della società, alla divulgazione delle idee e alla conservazione
della memoria. Tutto ciò si riallaccia all’idea della funzione sociale dell’arte, che era
anch’esso un elemento tipico del Neorealismo. Nelle intenzioni dei registi qui affrontati,
248
a dire il vero, non c’è quasi mai, come abbiamo visto, un dichiarato intento di denuncia
sociale o l’ammissione di aver cercato altre funzioni oltre a quella puramente estetica o
documentativa. È anche interessante che la maggior parte dei registi (è il caso, ad
esempio, di Giordana, Faenza e Scimeca) abbia negato persino di aver voluto fare un
prodotto sulla mafia: l’Ur-text della mafia è preso cioè a pretesto per fornire allo
spettatore un prodotto estetico di qualità e soprattutto una visione personale della mafia
(emblematico, come abbiamo visto, il caso di Garrone per Gomorra). E tuttavia, nel
mostrare gli orrori della società mafiosa è dato anche immancabilmente un giudizio su di
essa, così come sulla comunità di adulti che permette la corruzione dell’infanzia: lo
spettatore è incoraggiato a venire a patti con il mondo violento rappresentato e con le
ferite inflitte dalla mafia sulla società e sull’infanzia, aspetti, questi, che anche se messi in
secondo piano, non vengono sicuramente cancellati.
Infine, ho messo in evidenza come i paralleli con il Neorealismo non si
esauriscano a quelli con la celebre corrente cinematografica. Le opere ambientate in
Sicilia, in particolare, si rifanno anche a Vittorini per la rappresentazione della gente
siciliana come genere umano “offeso”. In particolare, i bambini, sono i più “offesi” di
tutti, perché sono in balia dell’ideologia mafiosa, come la gente di Vittorini lo era di
quella fascista. Questo è evidente non solo nelle opere del terzo capitolo, che pure fanno
a Vittorini un richiamo aperto, ma anche in opere che con la Sicilia non hanno molto a
che fare, come Gomorra e Certi bambini, i cui fanciulli rappresentati sono ugualmente
agnelli in pasto ai lupi della mafia (l’“uomo” vittoriniano vs. i “non-uomini” della mafia)
e perché mostrano la cultura della mafia come una cultura di oppressione che, oltre ad
uccidere l’innocenza dei bambini, ne svilisce anche la dignità umana per denaro e potere.
249
In ogni caso, per tutte queste opere, il richiamo al Neorealismo funziona come un
campanello d’allarme che richiama agli orrori del fascismo e della guerra. Funziona
inoltre come un invito alla resistenza e alla lotta. A questi aspetti di denuncia, non si
affianca, però, per tutti, quell’atteggiamento di fiducia negli uomini e nel futuro che era
anche un tratto tipico del Neorealismo e i bambini raffigurati non sempre sono portatori
dello “sguardo rigenerante della ricostruzione” (De Luca 51) che ricordava ai lettori e
agli spettatori che la speranza di ricostruire una nuova Italia era ancora possibile. Anzi,
nel corso della mia analisi, ho notato che alla fiduciosa unione simbolica fra Michele e
Filippo in Io non ho paura, al sorriso di speranza del “signor” Carmelo nell’epilogo di
Alla luce del sole e alle beneauguranti manifestazioni di piazza alla fine de I cento passi e
La siciliana ribelle, si affiancano la “visione cattivista” di Certi bambini e la “retorica
dell’apocalisse” di Gomorra, film che non prevedono una via di scampo, né per questi
bambini né per la società ormai corrotta dalla mafia, il che riflette un’oscillazione
comprensibile da parte degli autori e dell’opinione pubblica fra ottimismo e pessimismo,
fiducia e disillusione, nei confronti del fenomeno-mafia e della possibilità di sradicarlo.
C’è da immaginare, ad ogni modo, che le opere sulla mafia continueranno ad attingere
alla tradizione letteraria e cinematografica neorealista, così come continueranno a
proporre l’infanzia come potente soggetto iconografico, per portare avanti la loro
denuncia sociale.
Con questo studio ho offerto un quadro il più possibile esaustivo del tema dei
bambini e la mafia nella letteratura e nel cinema italiani all’affacciarsi del nuovo
millennio, pur restando ben conscia delle innumerevoli possibilità di amplificazione e di
approfondimento del tema stesso. Penso inoltre che la classificazione dei quattro modi di
250
rappresentazione dei bambini e la mafia da me proposta, così come l’accoppiamento delle
opere in ciascuno capitolo per comunanza di tematiche e situazioni narrative, possano
costituire un utile strumento di analisi per ogni studioso che si voglia confrontare con le
opere letterarie e cinematografiche sulla mafia, sia presenti che future, e che tenga conto
del contesto culturale e storico in cui tali opere sono state prodotte o a cui fanno
riferimento.
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Lara Santoro
EDUCATION
Ph.D., Italian Literature, Rutgers University, October 2011
M.A., Foreign Languages (French, Italian), University of Delaware, 2004
B.A., Foreign Languages (English, German), University of Turin, 1999
International Education
Exchange student year, Free University of Berlin, Germany, 1997-1998
German language course, University of Essen-Duisburg, Germany, Summer 1995
PUBLICATIONS
Book Chapters
“’Nothing romantic about it’: Gender and the Legacy of Crime in Abel Ferrara’s The
Funeral”. In: Mafia Movies: A Reader, ed. by Dana Renga, Toronto and New York:
Toronto University Press, 2011
Book Reviews
Rinaldo Caddeo, “Siren’s Song, Selected Poetry and Prose 1989-2009”, tradotto
dall’italiano da Adria Bernardi. Journal of Italian Translations, Volume V, Number 1,
Spring 2010
Translations
Giuseppe Impastato, “Lunga è la Notte” – Selected Poetry. Journal of Italian
Translations, Volume V, Number 2, Fall 2010
TEACHING
EXPERIENCE
2009-2011
Italian Instructor, Rutgers University
Elementary Italian I – 305 Introduction to Italian Literature
2008- 2009
Adjunct Italian Instructor, Columbia University
Elementary Italian Conversation II, Intermediate Italian I, Advanced Italian I
2004-2007
Teaching Assistant, Rutgers University
Elementary Italian I, Intermediate Italian I, Elementary Italian II, Intermediate
Italian II, Elementary Italian II Lab, Intensive Intermediate Italian II
250 Italian Composition and Stylistics, 306 Advance Language and Literature
2002-2004
Teaching Assistant, University of Delaware
Elementary French I and II, Elementary Italian I, Intermediate Italian I
2002
Teacher of English and German, Language School Wall Street Institute, Cuneo, Italy
2001
Teacher of Italian, Language School La Cité des Langues, Chamonix, France
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Summer / Summer Abroad teaching experience
Summer 2007
Italian Instructor, Rutgers University, Summer Abroad Program Urbino, Italy
321-322 Advanced Conversation and Civilization I and II
Summer 2005
Italian Language Assistant, Rutgers University, Rutgers Language Institute
Languages Across the Curriculum (K-12)
Summer 2003
Italian instructor, America-Italy Society of Philadelphia, Philadelphia, PA
Elementary Italian I and II
Summer 1999
Teacher of English and Animator, EF Education Language Travel Courses, UK
ACADEMIC
SERVICE
Registration desk staff member, NeMLA Conference, Rutgers University, NJ, 2011
Co-editor, La Fusta: Journal of Italian Literature and Culture, Vol XVIII, Spring 2010
Registration desk staff member, AAIS Conference, St. John's University, NY, 2009
Collaborator with the University of Turin on a research study on Italian as a second
language (published as VALICO: Studi di Linguistica e Didattica, ed. by Carla Marello
and Elisa Corino, Perugia, Guerra Edizioni, 2009)
Collaborator and Panel Moderator in the graduate students’ conference: (P)ages of Youth:
Images of Youth in Italian and American Culture, Rutgers University, Eagleton Institute,
2007
Collaborator on the graduate students’ conference: Mythamorphosis: Collective Myth in
Italian Literature, Rutgers University, Eagleton Institute, 2005