leggenda carnica
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LEGGENDA CARNICA Ancora nell'800 la leggenda regnava sovrana sulla Carnia ed essa aveva una sua forza ed una forma. L’allucinazione era facile e vi contribuiva un paesaggio colorito: piante secolari che adombravano i villaggi, inondazioni incontenute, violenti uragani che si scatenavano sulle foreste. Il pensiero delle genti vagava alla ricerca, mancandovi allora una consistente e tranquillizzante verità sui fenomeni naturali. I sentieri e le strade solitarie si percorrevano a cuor sospeso sul calar della notte. Le visioni fantasmiche si ripetevano rinfrancando di valle in valle aspetti di una stessa fantasia. Dalle intricate immaginazioni sono rimaste perciò inconfondibili talune figure e dalla relazione delle stesse v'è misura per stabilirne un giudizio. Questo morbo fantasioso generò in altro senso la credenza e parve, a un certo punto, inquinare le acque del culto religioso; così il concetto della morte, con le frequenti visioni di spiriti dannati, cadde su uno sfondo irreale e mitologico. Contro una minaccia di eresia giovò nel '545 il Concilio di Trento che ristabilì una più chiara luce sugli ideali cattolici. Sembra infatti che oltre alla verticale questione religiosa il Concilio si sia prodigato per sfrondare i misterismi che potevano, in certo senso, favorire l'eresia. Tra i personaggi fantasmici della leggenda trovò consistenza il « macarot », una figura d'uomo, generalmente rosso di capelli, a volte gobbo, che scendeva dai boschi ai casolari, scambiando con le genti dialoghi strani. Improvvisamente abbelliva, si faceva alto ed elegante e se ne andava per rivi adombri d'alti faggi, emettendo allegre voci. Il « macarot » fu la personificazione della burla e dell'ammonimento. La fantasia popolare si reggeva entro determinate possibilità immaginative dove la burla conteneva semplicità. Una diversa visione temuta e contrastata con preghiera e scongiuri era invece il diavolo « diaul » o spirito vagabondo. Il « diaul » scendeva a valle esclusivamente di notte. In silenzio faceva uscire gli armenti ed i greggi dagli stalli, trascinandoli in lunghi viaggi per aspri sentieri dei monti; all'alba le genti li rinvenivano in istato di preoccupante sfinimento. A scongiurare il ripetersi di un tale fenomeno, per suggerimento dei curati le donne cucivano insieme dei mantelli variopinti. « Il diavolo è superbo ! » — era la convinzione dell'epoca, e li posavano, a distanza, intorno agli stalli nelle tarde serate di copiosa rugiada. Il diavolo infatti amava scendere a valle scegliendo un paesaggio sublime: notti stellate, sentieri rinnovati dal temporale. Nel rinvenire il mantello la sua insidia cessava. Se lo poneva addosso con gran slancio, esclamando: « Oh che bell'uomo io sono, non farò più certo il pastore!... ». Le visioni del « diaul » erano frequenti in Val Pesarina; probabilmente a sua dimora si addicevano le forre dolomitiche: « Il Creton di Culzei ». Forse, col suo mantello funereo il « diaul » svolazzava nell'orbita della « Cretata forata » e con un balzo ardito facilmente era giù nel sottostante paesaggio di prati e di pascoli, umidi d'ombra e di torrenti. Sovente la sua insidia prendeva di mira le malghe dove di notte faceva uscire la mandria, né vi era verso per farla rientrare. In questo caso si rendeva necessario l'intervento dei curati che raggiungevano affannosamente la malga e si ponevano, per ore ed ore, in preghiera. Sono rimaste memorabili alla leggenda molte località di quella valle. Così in « Malmauar » e in « Malagar », località quest'ultima che significa rio cattivo, dove ancora vi sono i resti d'un vecchio casolare di carbonai « gli Strazzaboschi », il « diaul », come il « macarot », prediligevano calarvi. Nelle conche erbose di « Truela » e di « Culzei », dove la luna d'estate rischiara le ondeggianti distese d'erba, amavano danzare le streghe. Intorno ai casolari, allorché i prati eran rasati dalle falci, spesso nelle notti d'autunno, i dannati calcavano il loro passo penoso. Più a valle, nell'orrido della « Fuina », dove scrosciano le frigide acque del monte Pleros e balzano irraggiungibili i camosci, s'udiva un agghiacciante strascico di catene: « la rugea », attribuito ai dannati. E comunque nella Carnia tutta, nelle grandi e piccole valli, sui sentieri che filtravano per morbidi prati, i folletti e le streghe si radunavano a concilio soffermandosi forse, come volle la leggenda, ad ascoltare i timidi bisbigli e ad odorare il profumo del ciclamino. La val But si animava preferibilmente di dannati e di terribile streghe. Vi è rimasta memorabile la leggenda di Silverio, il dannato che dimorava nei dintorni della torre Moscarda ove intorpidiva le acque d'un torrente. Un diverso fenomeno di leggenda, misto a credenza che tutt'oggi resiste in val di Lauco, era il malocchio. Le genti cadevano improvvisamente in istato di incoscienza e vagavano per giorni e giorni senza meta, finendo talvolta sopra erte rupi. La leggenda di Carnia non ebbe quindi, in complesso, sfavillanti cavalieri ne candide fate, ma personaggi fantasmici che restavano preferibilmente nel mondo pastorale; personaggi non troppo brillanti, non troppo tristi, anche questi, talvolta, profondamente meditati. Queste scene di leggenda passata, i cui respiri giungono ancora per le forre, queste figure di diavoli che vagavano nelle notti trascinando gli armenti dai casolari e queste genti antiche che preparavano drappi dalle tinte violente, queste immaginazioni di nani arruffati che calavano a valle per umidi rivi e se ne andavano per esili sentieri, tutto ciò è uno spiraglio di luce che sguscia da un'epoca lontana ed arcadica. E tra le pareti dei casolari, nelle solitudini delle valli dove salgono strade ciottolose e diroccate, questo spirito misterioso, non del tutto inabissato, vigila ancora per chi avrà cuore a sentirlo. *** L’asfalto ha penetrato la Carnia: nuove arterie spalancano maggiormente la visuale degli orizzonti. Lungo le strade si affacciano borghi nuovi, ville sparse vibranti di cristalli, ma nelle valli discoste ancora resiste la vecchia Carnia e per sentieri sinuosi si accede a quei borghi coperti di grigiore, di pace, di vecchiaia. Perciò un po' dovunque due mondi si contendono lo spazio e l'atmosfera. Tuttavia il mondo nuovo si arresta ciecamente dove nasce la fatica; le tradizioni persistono tenacemente nel lavoro: in esso si può giungere a scrutare lontano nei secoli, sorprendendo le stesse abitudini, gli stessi colori. Allora si consta veramente che il costume, in questo senso, è mutato di poco. E nella quiete delle alte valli e dimore, dove i torrenti scendono in fretta e dove l'eco ripete lo sperduto latrato di un cane da pastore, vivono ancora genti dallo sguardo fondo e pensoso che rispecchiano un tempo inesplorato e distante. Queste genti scrutano con diffidenza l’incalzare del mondo nuovo, non conoscono la loro storia, ma vivono del patrimonio delle loro abitudini, sinché si spengono nella cerchia del loro spazio vitale, illuminate dalla serenità che posseggono le cose lontane. Dentro ai casolari i bimbi, a sera, s'addormentano ancora nell'illusione di vecchie leggende, mentre le donne sgranano il rosario. D' autunno i frontoni dei casolari si rivestono di dorate pannocchie che spiccano intrecciate in greve tappeto sotto le travi di larice. L'inverno scende afflosciando i grigi borghi nel silenzio bianco. In quel silenzio che ravvicina gli animi, uomini e donne, emigranti che tornano e che ripartono, boscaioli e pastori, ripetono ancora un vecchio canto nostalgico: « benedete l'antigae jere dute buine int... ! »