“Grandi illusioni”, di Giuliano Amato e Andrea

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“Grandi illusioni”, di Giuliano Amato e Andrea
Introduzione
di Giuliano Amato e Andrea Graziosi
Per più secoli gli europei hanno vissuto un periodo di crescita straordinaria, che ha seguito
percorsi e avuto tempi diversi nelle diverse parti del continente ma ne ha segnato e in parte
accomunato la storia, le aspirazioni e i modi di pensare. Dalla fine del Settecento questa
crescita ha subito una progressiva accelerazione, culminata negli eccezionali decenni del
secondo dopoguerra, che hanno portato, almeno dopo il 1953, a un aumento del benessere
persino nelle deformi economie socialiste dell’Europa orientale. Qui essa ha invertito la rotta
già negli anni Settanta, per poi riprendere in maniera contraddittoria e per motivi particolari
dopo il crollo di quelle economie. In Europa occidentale la crescita è invece continuata per
qualche tempo dopo che le forze che l’avevano nutrita si erano indebolite anche, ma non solo e
non ovunque nella stessa misura, grazie alla dilatazione dei debiti pubblici e privati. Dalla fine
del XX secolo le cose sono però progressivamente diventate sempre più difficili, e il 2007 ha
segnato una decisa svolta verso il peggio.
L’Italia, dove la crescita era cominciata già prima dell’Unità, ha partecipato intensamente a
questo processo, e ne è stata per qualche tempo dopo il 1945 alla testa. Grazie a sempre più
numerosi bambini capaci di sopravvivere ai primi anni di vita, e quindi a più giovani, e a una
diminuzione della mortalità, la sua popolazione è aumentata dai 22 milioni del 1861 ai 45,5 nel
1945 (una crescita che sarebbe stata ancora più veloce senza l’emigrazione), per raggiungere i
55 milioni nel 1975. Dalla metà degli anni Settanta essa ha però cominciato a ristagnare – nel
2001 eravamo ancora meno di 57 milioni – e solo ultimamente si è registrata una timida ripresa
grazie a un’immigrazione che non può tuttavia essere data per scontata.
Anche le nostre città hanno conosciuto un’esperienza simile. Roma è per esempio passata
dai 184.000 abitanti del 1860 ai 463.000 del 1900, ai 691.000 del 1920, a 1.652.000 del 1950 e ai
2.800.000 del 1970 (quasi 15 volte il valore del 1860), prima di invertire la rotta fermandosi –
malgrado l’immigrazione – ai 2.744.000 del 2010. Dal 1860 al 1900 Milano è passata invece da
242.000 a 493.000 abitanti, per superare decisamente Roma con 836.000 abitanti nel 1920, e ha
poi raggiunto la cifra di 1.260.000 nel 1950 e di 1.724.000 nel 1970, per crollare, anche a causa
dell’espansione delle zone residenziali extraurbane, a quella di 1.307.000 di oggi.
In quegli stessi decenni la speranza di vita alla nascita è balzata dai 29 anni del 1861 ai 55
del 1941, ai 69 del 1971 e agli 82 di oggi, mentre il tasso di mortalità infantile crollava dal
228,7‰ del 1861 al 107,1 del 1941, al 42,5 del 1971, al 3,6 dello scorso anno. Anche la
percentuale degli alfabetizzati – sia pure spesso malamente – tra gli abitanti con più di 15 anni
è cresciuta in modo straordinario e, malgrado tutto, omogeneo: nel 1861 era alfabetizzato il
37,1% della popolazione del Centro-Nord e il 14,2% di quella meridionale. Settant’anni dopo,
nel 1931, si era rispettivamente all’87,4 e al 56,2%, anche se si trattava spesso di persone con
una scolarizzazione di soli tre anni; nel 1971 al 97,3 e all’87%, diventati 99,3 e 96,8% nel 2001.
Nello stesso periodo il reddito annuo pro capite passava da 2.022 euro (del 2010) nel 1861 a
3.018 nel 1941, per balzare a 13.650 nel 1971 e raggiungere i 27.647 nel 2007, quando questa
crescita si è arrestata, riportando il dato a 25.668 euro nel 2010.
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Anche la diseguaglianza sociale è diminuita in modo significativo fino ai primi anni Ottanta
del Novecento, quando ha ricominciato a crescere, sia pure in modo incerto. Questa
diminuzione è stata dovuta in parte al progresso economico e in parte al mutato ruolo e alla
mutata natura dello Stato, e quindi alla spesa sociale.
Quest’ultima è aumentata molto velocemente fino agli anni Settanta e ha continuato ad
aumentare, ma a credito, fino agli anni Novanta. La brusca frenata successiva al 1992, che ha
colpito le aspettative di molti, non ha comunque arrestato un aumento in termini reali
continuato almeno fino al 2007, quando anche in questo campo si è verificata un’inversione di
rotta. Il progresso non è stato quindi solo un’illusione, o un’ideologia, ma una realtà concreta,
di sorprendente rapidità e di straordinarie proporzioni. Queste sue caratteristiche hanno
nutrito grandi illusioni e grandi utopie sin dalla fine del XVIII secolo. Nei decenni del secondo
dopoguerra, quando il progresso ha assunto dimensioni tali da far parlare, seriamente e non
solo in Italia, di «miracolo», questo fenomeno si è manifestato in almeno due forme.
La prima, più breve e intensa, risale al ventennio successivo al 1968 ed è stata il frutto di
un’ubriacatura da successi che ha portato a credere che tutto fosse possibile: fu allora chiesto,
se non tutto, molto; e classi dirigenti – essenzialmente filo-popolari – ne concessero buona
parte, senza preoccuparsi di aumentare le entrate, come pure sarebbe stato almeno in parte
possibile, vista la nuova ricchezza del paese. Anche grazie a un senso comune politico ed
economico che riteneva la spesa in deficit un peccato veniale, quando non un bene, si operò
così a spese del futuro. E di quelle illusioni paghiamo ancora il conto, benché esse siano finite
da tempo.
La seconda forma, più profonda e ancora viva, potrebbe essere definita l’illusione delle
aspettative crescenti, della possibilità di una crescita infinita. Essa è naturalmente legata alla
prima, non solo perché è una delle fondamenta dell’appena ricordato senso comune, ma anche
perché ha assunto proprio negli anni Settanta - come ideologia dei «diritti», e in particolare dei
«diritti acquisiti» – quella che è forse la sua forma politica prevalente in Italia.
Negli anni Novanta questa illusione ha nutrito fenomeni apparentemente opposti, come la
fede nel nuovo miracolo berlusconiano o le rivendicazioni che hanno costantemente
attraversato le coalizioni di centrosinistra, mettendo in crisi il primo governo Prodi. E oggi si
manifesta, e non solo in Italia, nella diffusa e insistente rivendicazione di una nuova fase di
«crescita», concepita spesso come un diritto ingiustamente negato, o una condizione normale
cui non si capisce perché non sia possibile tornare.
Estratto da
Grandi illusioni. Ragionando sull’Italia
di Giuliano Amato e Andrea Graziosi
Società editrice il Mulino, Bologna, 2013
http://www.mulino.it/edizioni/volumi/scheda_volume.php?vista=scheda&ISBNART=24437
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