L`Evoluzione della Crisi e il Ruolo delle Banche

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L`Evoluzione della Crisi e il Ruolo delle Banche
SCUOLA SUPERIORE PER MEDIATORI LINGUISTICI
(Decreto Ministero dell’Università 31/07/2003)
Via P. S. Mancini, 2 – 00196 – Roma
TESI DI DIPLOMA
DI
MEDIATORE LINGUISTICO
(Curriculum Interprete e Traduttore)
Equipollente ai Diplomi di Laurea rilasciati dalle Università al termine dei Corsi
afferenti alla classe delle
LAUREE UNIVERSITARIE
IN
SCIENZE DELLA MEDIAZIONE LINGUISTICA
TITOLO DELLA TESI: L’evoluzione della crisi e il ruolo delle banche centrali.
RELATORI:
CORRELATORI:
prof.ssa Adriana Bisirri
prof.ssa Claudia Piemonte;
prof. Marco Provvidera;
prof. Kasra Samii.
CANDIDATA:
Simona Luciano
ANNO ACCADEMICO 2014/2015
1
2
INDICE
SEZIONE ITALIANA / ITALIAN SECTION / ITALIANISCHE ABTEILUNG
10
INTRODUZIONE:
12
CAPITOLO 1
15
BREVE INTRODUZIONE
15
1.1 COSA ACCADDE IN AMERICA NEL 2007?
15
1.2 IL LEVERAGE
20
1.3 I MUTUI SUB-PRIME
20
-
22
1.3.1 LA BOLLA IMMOBILIARE
1.4 COLLATERALIZED DEBT OBLIGATION (CDO)
22
-
1.4.1 LA RESPONSABILITÀ DELLE AGENZIE DI RATING
26
-
1.4.2 IL CREDIT DEFAULT SWAP (CDS)
28
-
1.4.3 LO SCOPPIO DELLA BOLLA IMMOBILIARE
29
-
1.4.4 LE CONSEGUENZE
30
1.5 LE RADICI DELLA CRISI
-
34
1.5.1 LE PRECEDENTI CRISI FINANZIARIE: I POLICY-MAKER REAGISCONO AGLI
SQUILIBRI GLOBALI
36
-
39
1.5.2 GLI SQUILIBRI GLOBALI: METÀ DEGLI ANNI '90 FINO AL 2003
1.6 LA CRISI ASIATICA
39
1.7 GLOBAL SAVINGS GLUT: LA TEORIA DELL’ECCESSO DI RISPARMIO GLOBALE
43
-
50
1.7.1 LE CONSIDERAZIONE DI MARTIN WOLF
3
1.8 LA CRISI NEL MONDO
56
-
1.8.1 EUROPA: COME SI È GIUNTI ALLA CRISI?
57
-
1.8.2 PERCHÉ LA CRISI SI È ESTESA?
60
1.9. UN PASSO INDIETRO: LE ORIGINI DELLA CRISI NELL'EUROZONA
62
-
1.9.1 LA DIVERGENZA ECONOMICA E IL “PECCATO ORIGINALE” DELL'EURO.
66
-
1.9.2 LA CRISI IN GRECIA
73
CAPITOLO DUE
76
BREVE INTRODUZIONE
76
2.1 LA GESTIONE DELLA POLITICA MONETARIA IN PERIODI DI CRISI: LA VISIONE
DELLA FED
77
2.2 LA CRISI E LA REAZIONE DELLA FED
81
-
2.2.1 PRIMA DELLA CRISI FINANZIARIA.
81
-
2.2.2 LE PRIME FASI DELLA CRISI E IL LIMITE INFERIORE PARI A ZERO.
83
-
2.2.3 ASSISTENZA DIRETTA DURANTE E DOPO LA CRISI FINANZIARIA.
84
-
2.2.4 ULTERIORI STIMOLI: MISURE NON CONVENZIONALI
87
1)
QUANTITATIVE EASING
87
2)
FORWARD GUIDANCE
91
2.3 “EXIT STRATEGY”: NORMALIZZARE POLITICA MONETARIA DOPO QE
92
2.4 POSSIBILE SCENARIO FUTURO: PREOCCUPAZIONI ED ASPETTATIVE
95
-
2.4.1 ANALISI DELLE VARIABILI:
97
1)
L'ECONOMIA USA
97
2)
IL SUPER DOLLARO
97
4
3)
IL PREZZO DEL PETROLIO
2.5 IL DILEMMA DELLA FED
98
99
CAPITOLO TRE
103
BREVE INTRODUZIONE
103
3.1 GLI EFFETTI DELLA CRISI DEL DEBITO SOVRANO
105
3.2 FUNZIONI ED OBIETTIVI DELLA BCE
106
3.3 RUOLO DELLA BCE NELLA CRISI
108
-
110
3.3.1 LA CRISI DELL'EURO: STRUTTURA DELLA BCE
3.4 GLI STRUMENTI MESSI IN CAMPO DALL'UE PER FRONTEGGIARE LA CRISI
114
-
3.4.1 L'INTERVENTO DELLA BCE
116
-
3.4.2 LA DISCUSSA LEGITTIMITÀ DELL'INTERVENTO DI OMT
119
-
3.4.3 IL RICORSO A MISURE NON CONVENZIONALI
123
3.5 VIA AL QUANTITATIVE EASING IN EUROPA
124
3.6 IL QE DA SOLO NON BASTA
128
3.7 LE RIFORME NECESSARIE: L'ITALIA
130
3.8 LA CRISI IN GRECIA
132
-
3.8.1 LE FASI DELLA CRISI GRECA
132
-
3.8.2 RILEVANZA NEL PANORAMA EUROPEO
136
CONCLUSIONI
137
SEZIONE INGLESE / ENGLISH SECTION / ENGLISCHE ABTEILUNG
141
CHAPTER 1
143
5
INTRODUCTION
143
1.1 WHAT HAPPENED IN AMERICA IN 2007?
143
-
144
1.1.1 UNDERSTANDING THE SUB-PRIME CRISIS
1.2 THE REAL CAUSES BEHIND THE CRISIS
153
-
154
1.2.1 PREVIOUS FINANCIAL CRISES
1.3 “GLOBAL SAVINGS GLUT” THEORY
157
1.4 WHAT HAPPENED WHEN THE CRISIS EXPLODED IN THAILAND?
160
1.5 HOW THE U.S. FINANCIAL CRISIS WENT GLOBAL AND LED TO EUROPEAN
SOVEREIGN DEBT CRISIS?
171
1.6 LOOKING BACK: THE CAUSES OF THE SOVEREIGN DEBT CRISIS
176
BACKGROUND: HOW DID EUROPE GET THERE?
176
1)
CRACKS IN THE FOUNDATION
176
2)
UNSUSATINABLE DEBT
182
3)
THE BANKING SECTOR
184
CHAPTER 2
187
BRIEF INTRODUCTION
187
2.1 FED AND THE FINANCIAL CRISIS OF 2007-08
187
2.2 HOW THE FED RESPONDED THE CRISIS
190
-
2.2.1 BEFORE THE FINANCIAL CRISIS.
190
-
2.2.2 THE EARLY STAGES OF THE CRISIS AND THE ZERO LOWER BOUND
191
-
2.2.3 DIRECT ASSISTANCE DURING AND AFTER THE FINANCIAL CRISIS.
193
6
-
2.2.4 UNCONVENTIONAL POLICY MEASURES AND THE ZERO BOUND AFTER THE
CRISIS.
194
1)
FORWARD GUIDANCE
195
2)
QUANTITATIVE EASING AND THE GROWTH IN THE BALANCE SHEET.
198
2.3 THE "EXIT STRATEGY": NORMALIZATION OF MONETARY POLICY AFTER QE
201
2.4 FUTURE POSSIBLE SCENARIOS: CONCERNS AND EXPECTATIONS
203
CHAPTER 3
206
BRIEF INTRODUCTION
206
3.1 EFFECTS OF THE CRISIS
207
3.2 THE ECB ROLE IN THE EURO-CRISIS
209
-
209
3.2.1 THE EURO AND THE EURO-CRISIS: ECB STRUCTURE
3.3 HOW THE ECB RESPONDED TO CRISIS: NON-STANDARD MEASURES
212
-
215
3.3.1 WILL THIS ECB'S INITIATIVE WORK IN THE EUROZONE?
3.4 QE ALONE CANNOT SOLVE EUROPE'S PROBLEMS
218
-
3.4.1 WHAT IS AUSTERITY FOR?
220
-
3.4.2. A FOCUS ON GREECE: EXPLAINING THE GREEK DEBT CRISIS
221
SEZIONE TEDESCA / GERMAN SECTION / DEUTSCHE ABTEILUNG
227
KAPITEL 1
229
EINLEITUNG
229
1.1 EIN KURZER BLICK ZURÜCK
230
1.2 DIE SUB-PRIME KRISE
232
1.3 URSACHEN DER SUB-PRIME KRISE
235
7
KAPITEL 2
238
2.1 VON DER FINANZKRISE ZUR WELTWIRTSCHAFTSKRISE
238
2.2 AUSWIRKUNGEN UND GEFAHREN DER NIEDRIGZINSPOLITIK
239
2.3 SCHULDENKRISE DER EURO-LÄNDER
241
2.4 DIE FINANZKRISE IN GRIECHENLAND
245
2.5 WEITERE PROBLEMLÄNDER
245
2.6 ZUSAMMENFASSUNG
246
KAPITEL 3
248
3.1 DIE NOTENBANKEN UND DIE KRISE
248
3.2 GELDPOLITISCHE REAKTIONEN DER FED UND DER EZB
249
3.3 HETEROGENE DIFFERENZEN IM EURORAUM
250
3.4 DIE ROLLE VON FED UND EZB IN DER FINANZKRISE
252
-
3.4.1 FEDERAL RESERVE
252
-
3.4.2 EUROPÄISCHE ZENTRALBANK
252
3.5 EZB STARTET DAS ANLEIHEKAUFPROGRAMM
253
-
254
3.5.1 MONATLICH KÄUFE VON 60 MILLIARDEN EURO
RINGRAZIAMENTI
256
BIBLIOGRAFIA
257
SITOGRAFIA
260
8
9
Sezione Italiana
Italian Section
Italianische Abteilung
10
11
INTRODUZIONE:
Questo elaborato ha lo scopo di offrire un quadro della situazione che si
è venuta a creare a causa dello scoppio della crisi economica e finanziaria
che ha colpito negli ultimi anni l’intero mondo, rendendo purtroppo il
futuro delle persone fortemente incerto. Lo scossone finanziario che ha
travolto gli Stati Uniti si è trasferito in tutto il globo provocando una vera e
propria catastrofe: strumenti finanziari “tossici” hanno infettato l’intero
sistema finanziario mondiale, facendo andare in crisi o fallire banche e
istituti finanziari.
Questa crisi finanziaria ha avuto tra le tante
conseguenze anche il blocco del credito da parte delle banche, le quali,
non prestandosi più vicendevolmente il denaro e non erogandolo più
neanche ai cittadini e alle imprese, hanno contribuito alla contrazione della
crescita economica: senza la liquidità assicurata dalle banche, i consumi e
gli investimenti si sono ridotti enormemente fermando di fatto la crescita
nei vari Paesi. Un’altra causa che è alla base del rallentamento dello
sviluppo è la crisi di fiducia da parte dei consumatori, i quali non
acquistano più perché hanno preso atto della reale consistenza della crisi.
Tutto ciò ha l’effetto di provocare una reazione a catena estremamente
negativa: la produzione diminuisce, l’occupazione si riduce e lo stesso vale
per i redditi delle persone. I vari Governi, per salvare le entità finanziarie,
sono costretti ad impiegare ingenti quantità di denaro, innalzando, di
conseguenza, i rispettivi debiti pubblici che sono già di per sé elevati.
12
Questo fatto porta con sé ulteriori implicazioni, tra cui la speculazione.
Negli Stati Uniti, Paese di origine della crisi, tuttavia vi è stata una netta
ripresa: il PIL è cresciuto, nuovi posti di lavoro si sono venuti a creare, il
tasso di disoccupazione è sceso, al contempo la fiducia dei consumatori
è in aumento e quindi si incrementano i consumi. È di fondamentale
importanza per il resto del mondo che la principale economia mondiale
riesca a uscire da questa situazione di impasse che si è venuta a creare:
se gli USA non riescono a risollevarsi neanche gli altri Paesi potranno
farlo. Tutti questi avvenimenti verranno discussi più approfonditamente
nel corso del presente lavoro, il quale è strutturato in tre capitoli:
• Il primo, vuole evidenziare come lo scoppio della crisi dei
mutui sub-prime si sia trasformato in una crisi a livello planetario,
analizzando con attenzione le conseguenze di questo fenomeno.
Verranno discussi più accuratamente gli effetti derivanti dallo
scoppio di questa crisi in Europa, esaminando cause e conseguenze
della crisi del debito pubblico che ancora oggi affligge diversi Paesi
dell'Eurozona, minacciando l'integrità dell'Unione Monetaria nella
sua interezza.
• Il secondo indaga su come gli Stati Uniti si siano risollevati
dalla crisi finanziaria ed economica che li ha colpiti attraverso una
profonda analisi delle politiche monetarie intraprese dalla Federal
Reserve per risollevare l'economia americana, e ipotizza i possibili
13
scenari post-crisi;
• Il terzo è invece incentrato sulla crisi del debito pubblico,
analizzando dapprima le sue origini ed in seguito le azioni messe in atto
dalla Banca Centrale Europea e dai singoli governi allo scopo di uscire da
questa drammatica situazione. In ultimo verranno valutate le politiche (e/o
i cambiamenti relativi alla regolamentazione) da attuare al fine di evitare
in futuro la rigenerazione delle condizioni iniziali che si sono presentate
durante questa crisi economica.
14
CAPITOLO 1
Breve introduzione
Il primo capitolo di questo studio ha lo scopo di fornire una spiegazione
esauriente e storicamente approfondita della Crisi Finanziaria Globale del
2007, facendo riferimento alle sue origini nel mercato immobiliare
americano. Sebbene il mercato sub-prime abbia effettivamente scatenato
la crisi, questa tesi intende dimostrare l'esistenza di cause più profonde,
che hanno origine in secolari squilibri economici mondiali. Quest'ultimi
insieme
con
il
fallimento
del
meccanismo
di
mercato
e
una
regolamentazione finanziaria troppo permissiva sono i responsabili della
drammatica crisi andatasi a creare in America. Inoltre l'elaborato
analizzerà accuratamente il modo in cui determinati Paesi dell'Eurozona
siano stati “contagiati” da tale crisi e come quest'ultima abbia messo in
serie difficoltà la struttura amministrativa europea. Infine, l'ultima sezione
del capitolo offrirà una chiara spiegazione del perché, quella che è iniziata
in Europa come una crisi bancaria, si è poi trasformata in una crisi del
debito pubblico.
1.1 Cosa accadde in America nel 2007?
“Consideriamo naturali, permanenti, sicuri, alcuni dei nostri più singolari e
temporanei vantaggi recenti, e ci regoliamo nei nostri piani di
15
conseguenza. Su questa base precaria e ingannevole progettiamo
miglioramenti sociali e allestiamo piattaforme politiche, coltiviamo le
nostre animosità e le nostre particolari ambizioni, e pensiamo di disporre
di un margine bastante per fomentare, anziché mitigare, il conflitto civile
nella famiglia […]”1.
La crisi finanziaria internazionale ha avuto inizio nell’estate autunno 2007.
Con il trascorrere degli anni la crisi si è trasferita
nell’economia reale di tutti i Paesi sviluppati, con crolli dei consumi e degli
investimenti che a loro volta hanno peggiorato ancora di più la situazione
sui mercati finanziari. La crisi trova le sue origini in una bolla speculativa
finanziaria che è andata ad interagire con: (1) nuovi tipi di innovazioni
finanziare in grado di nascondere i rischi; (2) società che si sono rivelate
incapaci di gestire le proprie procedure di rischio; e (3) autorità di
regolamentazione
e
vigilanza
non
in
grado
di
comprendere
adeguatamente i rischi di questa situazione.
LA CRISI SUB-PRIME
Tutto è iniziato negli Stati Unti in seguito a una crisi finanziaria
provocata da un'enorme bolla edilizia caratterizzata da mutui concessi a
persone con scarse garanzie di solvibilità, cioè non sicure di restituire il
1
“Le conseguenze economiche della pace” di John Maynard Keynes, p. 87
16
capitale e gli interessi (mutui sub-prime). La forte riduzione del mercato
immobiliare statunitense non ha reso possibile per molti proprietari
onorare gli impegni finanziari presi. Per questo motivo una grande
quantità di immobili sono stati pignorati e molti dei principali istituti
finanziari, che concedevano mutui sub-prime, sono stati costretti al
fallimento o a cessare l’attività. Molti investitori stranieri si sono riversati
sul mercato immobiliare statunitense e per questo motivo l’esplosione
della bolla americana ha coinvolto mercati e istituzioni finanziarie di altri
Paesi.
Il sistema finanziario globale non aveva più una sua logica: si era di fronte
ad una spirale dove perdite creavano altre perdite, debiti generavano altri
debiti e le misure di risanamento portavano solo alla recessione. A tutto
questo
ha
contribuito
enormemente
la
“Greenspan
fee”
dell’ex
governatore della Fed che, con il denaro a costo quasi zero e con controlli
sull’erogazione del credito da parte delle banche non sufficientemente
stringenti, ha certamente fatto crescere l’economia statunitense ma ha
anche creato questa “bolla” immobiliare, il cui scoppio ha avuto l’effetto di
provocare il crollo del sistema bancario. Le banche svolgono da sempre tre
semplici
funzioni,
(nonostante
la
recente
super
sofisticazione):
• ricezione dei risparmi da parte di famiglie, aziende e Stati;
• finanziamento di questi soggetti;
17
• introduzione di sostituti della moneta.
Se questi istituti finanziari sono andati in crisi è perché o hanno prestato
troppo denaro o lo hanno fatto malamente.
La crisi è stata causata proprio da un'eccessiva erogazione del credito da
parte delle banche americane. Questo, tuttavia, non è il solo motivo che
ha messo in ginocchio il sistema bancario: bisogna considerare anche la
troppa tolleranza da parte dei regolatori e la richiesta di credito da parte di
cittadini che si sono rivelati incapaci di rimborsare il prestito e di pagare gli
interessi. La conseguenza di questa estrema facilità nel concedere denaro
da parte delle banche è alla base dello scoppio della crisi del credito: in un
contesto macroeconomico si è in presenza di una crisi del credito quando
la domanda di denaro da parte delle aziende è superiore all’offerta da
parte delle banche e degli investitori. Schematicamente è possibile
affermare che essa, ha coinvolto i seguenti termini:
• Mutui sub-prime;
• Collateralized debt obligation (CDO): obbligazioni garantite da crediti,
ossia titoli a reddito fisso derivanti dall’unificazione di attività soggette a
rischio di credito;
• Congelamento del mercato del credito: il mercato del credito resta
congelato perché le banche non intendono prestarsi vicendevolmente
18
denaro;
• Credit default swap (CDS): è uno swap (strumento derivato che consiste
nello scambio di flussi di cassa tra due controparti) che ha la funzione di
trasferire l’esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso tra le parti.
I soggetti che sono stati coinvolti in questa crisi sono: proprietari di
immobili, ossia coloro che richiedono mutui, e investitori. Le interazioni
fra questi soggetti, broker e banche sono avvenuti a Wall Street, tuttavia
per comprendere come essi hanno interagito e per capire il perché della
crisi occorre fare un passo indietro. Anni fa, gli investitori conclusero buoni
affari in modo da ottenere altro denaro che a loro volta investirono nella
banca centrale degli Stati Uniti d’America, acquistando buoni del tesoro
(considerati gli investimenti più sicuri). Tuttavia, dopo l’11 Settembre
2001, con il crollo delle Torri Gemelle e l’attacco al Pentagono a
Washington, il presidente della Federal Reserve, Alan Greenspan, decise di
abbassare i tassi di interesse all’1% per mantenere l’economia forte e più
stabile. Gli investitori considerarono la suddetta percentuale molto bassa e
decisero di non impiegare il loro denaro in questi titoli. Dall'altro lato,
però, l'abbassamento del tasso significò che le banche di Wall Street
potevano chiedere prestiti di denaro alla banca centrale degli Stati Uniti
con un interesse del solo 1%. La conseguenza fu un enorme quantità di
credito erogato a basso costo, per cui le banche iniziarono a prestare
19
denaro con molta facilità.
1.2 Il Leverage
Tutto questo portò ad un problema con il “leverage” (leva finanziaria)
o rapporto di indebitamento. Si tratta di un indice utilizzato in ambito
finanziario, per misurare la proporzione fra il capitale proprio e quello di
terzi impiegato per finanziare le proprie attività. Nel settore bancario la
leva finanziaria si ottiene attraverso il rapporto tra il capitale netto della
banca e il totale delle sue attività. Una leva uguale a uno significa che i
due valori coincidono. Negli ultimi anni prima della crisi l’effetto leva era
cresciuto enormemente e questo perché vennero effettuati investimenti
molto superiori al patrimonio netto. Per permettere ciò furono chiesti dei
prestiti da parte delle banche, mettendo di conseguenza sotto pressione la
capacità di restituire il debito. Ciò significa che gli istituti di credito hanno
finanziato i loro portafogli con sempre meno capitale aumentando così il
tasso di ritorno su quello stesso capitale.
1.3 I mutui sub-prime
Wall Street crebbe moltissimo e le banche continuarono ad emettere
prestiti obbligazionari. I mutui erogati alle famiglie furono acquistati dagli
investitori attraverso una procedura chiamata cartolarizzazione. Il
meccanismo che permise ciò è semplice, occorre però fare una premessa:
20
le finanziarie decisero di concedere mutui per l’acquisto delle case,
attraverso un piano di ammortamento a rate variabili, anche a chi non
poteva permetterselo: in questo modo i clienti riuscivano a corrispondere
le prime rate “basse” mentre per le altre, di maggiore valore, erano
costretti a chiedere un’ulteriore mutuo. L’immobile acquistato garantiva il
prestito: qualora il debitore non riusciva a versare il capitale e l’interesse la
finanziaria gli pignorava la casa. Attraverso questa strategia gli istituti
finanziari guadagnavano il doppio e il rischio non esisteva, poiché i mutui
erano garantiti dalle case il cui valore era in crescita. Le persone
interessate ad acquistare un appartamento anche se con scarse garanzie
di solvibilità, potevano rivolgersi ad un broker per ottenere informazioni su
un prestito. L’intermediario a sua volta individuava la finanziaria disposta a
concedere il mutuo ed “intascava” così la sua commissione. Per il soggetto
creditore (la banca, la società finanziaria) queste operazioni risultavano più
rischiose, poiché vi era la possibilità che la somma erogata non venisse
restituita, ma anche più vantaggiose in quanto più redditizie. Inoltre,
questi mutui coprivano l’intero valore dell'immobile e venivano concessi
senza pretendere anticipi. Per il debitore invece era un doppio svantaggio:
aumentavano sia i costi che i rischi, esso infatti aveva già difficoltà a
sostenere le rate di un prestito accessibile, in più, rischiava di perdere il
bene dato in garanzia.
21
- 1.3.1 La bolla immobiliare
La conseguenza di questa facilità di accesso al credito aumentò
notevolmente sia la domanda di immobili che i loro prezzi.
A ciò si
aggiunse l'afflusso di speculatori che videro nel settore immobiliare enormi
profitti. Da questa situazione si è venuta a creare una “bolla” immobiliare
destinata a scoppiare nel giro di poco tempo.
1.4 Collateralized Debt Obligation (CDO)
A partire dalla metà degli anni 90 fino al 2006, la bolla formatasi nel
mercato immobiliare portò ad un graduale aumento dei prezzi delle case in
tutto il Paese. Come tradizionalmente accade con le bolle speculative, il
timore di futuri aumenti nei prezzi crebbe fino a diventare un fattore
determinante nell'eccessivo rigonfiamento dei prezzi delle case. Dal 2003
in poi, i mercati immobiliari americani si espansero molto rapidamente
grazie a tassi di interesse estremamente bassi. Il rapido aumento dei
prestiti a mutuatari sub-prime2 ha contribuito a gonfiare la bolla dei prezzi
delle abitazioni. Se prima del 2000 i prestiti sub-prime era praticamente
inesistenti, il nuovo scenario economico contribuì ad aumentarli in modo
2
Persone con scarse garanzie di solvibilità Vale a dire non sicure di restituire il capitale e gli
interessi, e quindi considerate più rischiose in termini economici.
22
esponenziale.
I creditori allentarono i controlli ed i prestiti venivano emessi senza
adeguate verifiche e con criteri sempre meno esigenti. In alcuni casi i
prestiti vennero concessi persino ai mutuatari “NINJA” – “No Income, No
Job or Assets”. Il continuo aumento dei prezzi delle case, insieme alle
nuove innovazioni finanziarie, improvvisamente fecero dei mutuatari subprime, inizialmente tenuti fuori dai mercati ipotecari, clienti molto attraenti
agli occhi dei creditori ipotecari. Inoltre, i creditori svilupparono nuovi ed
innovativi mutui a tasso variabile come ad esempio i cosiddetti “teaser
rate”3, ma anche mutui senza anticipo e mutui che permettevano al
mutuatario di rinviare una parte degli interessi dovuti ogni mese e
aggiungerlo al capitale del prestito. Tutte queste nuove modalità di
pagamento per i mutuatari vennero sviluppate in previsione di ulteriori
aumenti nei prezzi delle case. Ma l'innovazione nel “design dei mutui” da
sola non avrebbe permesso a così tanti mutuatari sub-prime l'accesso ai
crediti, senza altre innovazioni nel cosiddetto processo di “cartolarizzazione
dei mutui”.
La cartolarizzazione dei mutui implica il loro raggruppamento in un’unica
3
Tassi di interesse ridotti applicati per il primo anno e appositamente concepiti per attirare
clienti
23
“scatola” che poi viene divisa in quote, ossia in molte parti uguali che poi
vengono rivendute. Queste nuove scatole di mutui si chiamano ABS (Asset
Backed Security, ossia cartolarizzazioni coperte da titoli, che in questo
caso sono appunto le case date in garanzia). Ogni quota quindi
corrisponde ad un pezzo di una scatola piena di mutui garantiti dalle case
stesse su cui sono stati accesi i mutui stessi. Le quote a loro volta hanno
un rendimento perché oltre al valore della casa forniscono degli interessi
che corrispondono ad una parte degli interessi pagati da chi ha acceso
questi mutui. A loro volta questi ABS venivano rivenduti a diversi altri
operatori. Nel caso di ABS con dentro dei mutui sub-prime il rendimento è
maggiore perché i mutuatari pagano più interessi della media. A maggiore
rischio, maggiore rendimento. Infatti i contratti di mutuo (anche i subprime) conclusi dai broker furono trasformati dalle finanziarie in titoli
bancari negoziabili sul mercato attraverso, appunto, la cartolarizzazione.
In questo modo furono scaricati su altri soggetti i rischi di possibili
insolvenze da parte dei debitori. Senza la garanzia di un controllo
adeguato da parte del regolatore, i mutui furono cartolarizzati dalle
banche emittenti e successivamente rivenduti, per finanziare le attività
bancarie, sotto forma di Collateralized Debt Obligation (CDO), cioè
obbligazioni strutturate, che furono acquistate dagli investitori (spesso
banche, ma anche risparmiatori) pur sapendo della presenza dei prestiti
sub-prime e del relativo rischio. Questi, furono ottimisti perché l’economia
24
degli Stati Uniti in quel periodo cresceva ad un tasso del 4%. In questo
modo gli investitori incassavano un elevato rendimento con il rimborso
delle rate da parte dei proprietari degli immobili. Poiché i mutui sulle case
sono prestiti ad elevata durata temporale (perché bloccano le risorse delle
banche per molto tempo), per ridurre il rischio di credito, svincolare la
liquidità ed erogare nuovi prestiti, l’ingegneria finanziaria ha creato degli
strumenti appositi: una banca specializzata nell’emissione dei mutui può
chiedere un prestito ad un’altra banca dando in garanzia i mutui stessi e
rimborsando questo prestito negli anni, attraverso le rate incassate. In
questo modo la prima banca ha la liquidità necessaria per fare nuove
operazioni, mentre la seconda trae beneficio guadagnando sul prestito
concesso. Nel dettaglio, i mutui furono ceduti dalla banca erogatrice ad
un altro soggetto chiamato “Special Purpose Vehicle”, il quale unì tutti
questi prestiti e li scompose in tante piccole parti, rappresentate da titoli,
che furono negoziate sui mercati.
Ogni parte costituiva un CDO, (le
cosiddette “salsicce finanziarie”), ciascuna delle quali contenente una
quota di mutui, anche i sub-prime, che erano “nascosti” insieme ad altri
titoli più sicuri. Per agevolare il loro collocamento a questi titoli venne
attribuito un rating, cioè una valutazione del rischio che portavano con sé.
All’interno dei CDO c’erano:
• Debiti “senior”: la parte più buona; le agenzie di rating gli attribuirono la
migliore e più sicura valutazione che si possa trovare sul mercato (AAA);
25
• Debiti “mezzanine”: considerati di buon livello dalle agenzie di rating le
quali gli attribuirono un giudizio intermedio (da AA a BB). Il loro
rendimento era superiore a quello dei senior poiché più rischiosi;
• Debiti “equity”: senza rating (unrated), cioè non venivano considerati
dalle agenzie di rating. Offrivano interessi molto elevati poiché erano più
rischiosi dei senior e delle mezzanine. Il risultato fu la formazione di titoli
che, grazie alla presenza dei prestiti sub-prime, garantivano un tasso
d’interesse elevato. Qualora i flussi di cassa generati dai crediti posti a
garanzia del debito non fossero stati sufficienti a far fronte al pagamento
degli interessi sul CDO o al suo rimborso, sarebbero stati effettuati prima i
pagamenti relativi alle categorie con priorità più alta (senior e mezzanine)
e, solo in via subordinata, quelli relativi alla categoria con minore priorità
(equity).
Questi strumenti finanziari furono i principali protagonisti
dell’indebitamento dei privati e dell’enorme aumento delle capacità delle
banche di erogare credito.
- 1.4.1 La responsabilità delle agenzie di rating
Le agenzie di rating sono enti private che esprimono un giudizio sui
titoli borsistici e sull’attività di Governi e imprese. Si tratta di una
valutazione molto importante perché da essa dipende il costo del denaro
ricercato sui mercati da questi soggetti. Nel 2003, davanti al parlamento
tedesco, l’ex presidente dell’Autorità Federale per la Supervisione
26
Finanziaria le ha definite come “il più grande potere incontrollato del
sistema finanziario internazionale e quindi anche dei sistemi finanziari
nazionali”4. Queste società sono sparse in tutto il mondo, ma quelle più
importanti e più influenti sono tre: Standard&PPoor’s, Moody’s e Fitch. Ma
perché sono coinvolte nella crisi?
Il sospetto è che per nascondere ancora di più i titoli sub-prime, le agenzie
di rating abbiano assegnato ai CDO che li contenevano un giudizio
superiore alla realtà. In questo modo riuscirono a persuadere gli
investitori, i quali furono attratti dall’alto rendimento e dal basso rischio di
questi titoli. Il rischio di insolvenza così non fu più solo della banca che
aveva emesso il mutuo, ma condiviso da tanti altri soggetti.
Perché le agenzie di rating attribuirono un giudizio sbagliato ai CDO
contenenti titoli sub-prime?
La ragione è che per eseguire questa valutazione, le agenzie furono
retribuite dalle banche emittenti questi titoli e per questo motivo
cercarono di favorire i propri “datori di lavoro”. Si è trattato di un classico
conflitto di interesse. Il vicepresidente della Commissione dell’Unione
Europea Olli Rehn ha sostenuto infatti che le agenzie di rating “non sono
4
Ex presidente dell’Autorità Federale per la Supervisione Finanziaria (BaFin) di Germania, citato
dalla Repubblica.
27
istituti di ricerca imparziali” ma “hanno i loro interessi” e svolgono le loro
mansioni “molto in linea con il capitalismo finanziario americano”.5 Le tre
principali agenzie internazionali (Standard&PPoor’s, Moody’s e Fitch) sono
indipendenti e non regolamentate, anche se non sono del tutto autonome
poiché sono controllate dai privati, soprattutto americani. Una possibile
soluzione per evitare che in futuro si ripetano casi simili è la
regolamentazione. Secondo Stefano Caselli, economista dell’Università
Bocconi di Milano, “le agenzie di rating devono essere regolamentate
come una banca. Devono essere vigilate, devono diventare oggetto di
ispezione e sottoposte a regole certe”.
- 1.4.2 Il Credit Default Swap (CDS)
Le banche, al fine di mantenere i debiti senior più sicuri, li assicurarono
per una piccola spesa chiamata Credit Default Swap (CDS), fornita da
compagnie assicurative o dalla banche stesse. Si tratta di uno strumento
appartiene alla dei derivati e consiste nello scambio di flussi di cassa tra
due controparti. Il CDS è uno swap che ha la funzione di trasferire tra le
parti l’esposizione creditizia di prodotti a reddito fisso. Rappresenta un
accordo tra l’acquirente e il venditore di protezione su un rischio di credito.
Il compratore versa al venditore un premio periodico fino a che non si
5
Discorso di Olli Rehn, vice-presidente della Commissione dell’Ue.
28
verifica l’evento creditizio assicurato (credit event), cioè il fallimento del
debitore. Quando tale evento si verifica, il venditore di protezione
corrisponde all’altra parte il valore della perdita.
Per il sottoscrittore,
sostanzialmente, ha la funzione di polizza assicurativa e di copertura per il
mancato pagamento di un'obbligazione. Le banche e gli altri soggetti
finanziari, mediante i CDS, si trasferirono i rischi legati alla possibilità che i
cittadini statunitensi non riuscissero a rimborsare la propria rata del
mutuo. L’ammontare dei CDS è passato tra il 2000 e il 2007 da 2.000 a
55.000 miliardi di dollari, un valore equivalente al PIL mondiale.
- 1.4.3 Lo scoppio della bolla immobiliare
Questo procedimento sembrò far guadagnare chiunque. Nessuno si
preoccupò poiché tramite la vendita del mutuo si trasferiva anche il
problema e in questo modo si facevano milioni.
Le famiglie non
riuscirono a pagare le rate dei loro mutui, le case poste a garanzia dei
prestiti vennero così pignorate dalle banche che cercarono di rivenderle.
La situazione divenne insostenibile quando tutto questo cominciò ad
essere un problema di molte persone. Il mercato immobiliare risultò
saturo di appartamenti in vendita, l’offerta superò la domanda e di
conseguenza i prezzi calarono. Questo, creò ulteriori problemi per le
famiglie ancora alle prese con il pagamento del loro mutuo che videro il
valore delle loro abitazioni continuare a scendere. Perché continuare a
29
pagare le rate per una casa che valeva molto meno? Per questo motivo
decisero di interrompere i pagamenti, pur avendone la possibilità di farlo,
farlo, e abbandonarono le loro case.
- 1.4.4 Le conseguenze
I prezzi continuarono a scendere vertiginosamente e il Paese iniziò a
collassare. Gli investitori si ritrovarono in possesso di troppi CDO, che
nessuno voleva e che diventarono come delle bombe. Cercarono di
rivenderli ma le banche non furono disposte ad acquistarli.
L'intero
sistema finanziario mondiale fu infettato da questi titoli, definiti “tossici”. I
broker persero il lavoro, tutto il mercato finanziario si congelò e la
situazione continuò a peggiorare. Gli investimenti delle famiglie persero il
loro valore. La forte svalutazione di questi strumenti provocò grandissimi
problemi in alcuni fra i più grandi istituti di credito americani. Bear Sterns
e AIG (la più grande compagnia assicurativa USA che garantiva i mutui,
con titoli nei fondi pensione e acquistati dalla Cina) collassarono e in
seguito vennero messi in sicurezza dall'intervento del Tesoro statunitense
in accordo con la FED; la Lehman Brothers fallì, provocando il panico nel
sistema bancario, mentre la Merrill Lynch venne salvata grazie al suo
acquisto, a metà del valore di capitalizzazione, da parte della Banca
d’America. Sulla piazza rimasero, come banche d’affari indipendenti, la
Goldman Sachs e la Morgan Stanley, anche se si trasformarono
30
velocemente in holding bancarie per accedere alle garanzie pubbliche.
Anche le grandi banche europee, come la britannica Northern-Rock
(quinto istituto di credito inglese), la svizzera Ubs, la belga Fortis, la
franco-belga Dexia, la tedesca Hypo Real Estate e l'italiana Unicredit,
furono colpite dalla svalutazione dei titoli immobiliari, venendo in seguito o
nazionalizzati o costretti a ricapitalizzarsi. Dopo diversi mesi di debolezza e
perdita di impieghi, la situazione precipitò tra il 2007 e il 2008 provocando
la bancarotta di istituti di credito ed entità finanziarie, determinando una
caduta dei valori borsistici, dei consumi e dei risparmi della popolazione. Il
rapido crollo del mercato immobiliare fu inoltre accelerato dal graduale
rialzo del tasso di sconto applicato dalla FED negli anni dell'esplosione
della crisi dei mutui. Gli Stati Uniti, l'economia più grande del mondo,
patirono anche la svalutazione del dollaro rispetto all'euro e ad altre
valute. La vendita di un’ingente quantità di titoli del settore bancario causò
un immediato peggioramento delle borse. A provocare tutto ciò fu la crisi
di fiducia degli azionisti verso le banche. L’indice S&P500 di Wall Street,
segnale dello stato di salute della finanza mondiale, tra settembre e
ottobre 2008 segnò una flessione del 25,9%, con momenti di vere e
proprie vendite da panico (panic selling) in alcuni giorni. Se ad oggi è
possibile affermare che l'eccessivo aumento a livello nazionale di prestiti fu
del tutto irresponsabile e destinato a finire in catastrofe, non sconvolge il
fatto che i consumatori, o meglio i futuri proprietari dell’immobile, e le
31
banche a massimo profitto continuarono a prendere ulteriori prestiti
mentre i prezzi dei titoli salivano, anzi questo è piuttosto scontato. Ciò che
è davvero scioccante, è come le istituzioni finanziarie, lungo ogni anello
della catena di cartolarizzazione, abbiano fallito così grossolanamente nel
valutare adeguatamente i rischi dei vari erogatori di MBS e CDO, dei
venditori del CDS, delle agenzie di rating o dell'istituzione in possesso di
tutti quei titoli. Non c'è stato neanche un momento in cui le banche o gli
altri istituti finanziari si sono resi conto di dover fermare la festa e
analizzare scrupolosamente i meccanismi informatici di attribuzione del
grado di rischio, a tutti troppo poco chiari, o interrogarsi sul palesemente
insostenibile deterioramento delle condizioni di prestito dei mutui
sottostanti?
Un punto chiave nella comprensione di questo fallimento nel sistema di
valutazione del rischio è che ogni anello della catena di cartolarizzazione è
soggetto a quella che in economia viene chiamata asimmetria informativa,
condizione che si verifica nel mercato quando uno o più operatori
dispongono di informazioni più precise rispetto ad altri. In situazioni come
questa, una delle due parti è solitamente più attenta a fare affari con
l'altra e si sforza di valutare con precisione i rischi attraverso le
informazioni di cui è a conoscenza. Tuttavia, questo tipo di “due diligence”
o dovuta diligenza che ci si aspetta di riscontrare nei mercati con
asimmetria informativa, è stata quasi del tutto assente negli ultimi anni di
32
cartolarizzazione dei mutui. Il giudizio umano ha lasciato spazio a modelli
computerizzati che hanno portato a valutazioni inadeguate dei rischi.
La totale mancanza di due diligence è in parte dovuta agli incentivi nel
modello della cartolarizzazione stesso. Con la possibilità di passare
immediatamente il rischio di un bene a qualcun altro, le istituzioni
finanziarie non avevano motivo di preoccuparsi del rischio effettivo dei
beni in questione. Ma cosa dire per quanto riguarda i MBS, CDO, CDS e
coloro che possedevano i titoli in ultima analisi e di conseguenza il rischio?
Gli acquirenti di questi strumenti avevano tutto l'interesse a comprendere
il rischio dei titoli sottostanti. Come si spiega allora, la loro negligenza?
Probabilmente gli investitori, così come molti altri, si lasciarono coinvolgere
da questo clima positivo che si era andato a creare durante la formazione
della bolla immobiliare e che ha minato le loro capacità di giudizio. Altri
ancora videro i grandi profitti delle attività legate ai mutui sub-prime e
vollero entrare in azione. Inoltre la complessità e la mancanza di
trasparenza del sistema finanziario cartolarizzato ha fatto sì che molte
persone semplicemente non avessero le giuste informazioni e competenze
per dare il proprio giudizio sui titoli che avevano acquistato, facendo
affidamento solo sulle agenzie di rating e su modelli computerizzati molto
complessi e spesso difettosi. In altre parole, gli scarsi incentivi, la bolla
immobiliare e la mancanza di trasparenza hanno eliminato le remore
derivanti dall'asimmetria informativa, mentre con lo scoppio della crisi nel
33
2007, è andato a verificarsi l'esatto opposto, con il congelamento dei
mercati di credito proprio a causa dell'asimmetria informativa.
Allo scopo di capire meglio come tutto questo sia stato possibile, la
prossima sezione del capitolo fornirà un breve riepilogo di ciò che ha
causato le elevate tensioni che sono sorte in molti mercati finanziari a
partire dall'agosto del 2007, ed analizzerà la situazione economica e le
fragilità degli ultimi 30 anni, che hanno contribuito alla formazione della
crisi finanziaria. Tale analisi è assolutamente necessaria per identificare le
reali condizione che sono state determinanti nella crisi finanziaria del
2007.
1.5 Le radici della crisi
Nel corso degli anni sono state formulate diverse ipotesi con l’intento di
stabilire le reali cause all'origine della crisi finanziaria globale. Si è parlato
di speculazione, frode e soprattutto della fallimentare regolamentazione
delle banche. Alcuni analisti hanno tentato di trovare risposte attraverso
l'ipotesi dell'instabilità finanziaria, altri hanno definito questo choc
finanziario come una semplice crisi strutturale del capitalismo mondiale.
Diversi esperti, invece, hanno visto nella disomogeneità di distribuzione
del reddito nazionale un ulteriore fattore fondamentale, mentre qualcuno
ha sottolineato il coinvolgimento delle grandi banche nel facilitare il crollo
dei mercati immobiliari ipotecari. Indubbiamente, ognuna di queste ipotesi
34
ha alla base dei fondamenti di verità. Tuttavia in pochi sarebbero pronti a
sostenere che all'origine di un collasso finanziario di tale entità vi sia una
singola spiegazione. Sebbene il crollo dei mercati ipotecari negli Stati Uniti
abbia innescato la crisi, ad oggi è universalmente riconosciuto che è stata
la combinazione di più fattori ad alimentare ed in seguito fare esplodere,
la crisi. Tra i fattori chiave vi sono: politiche monetarie espansive nei
principali centri finanziari; innovazioni nei mercati dei mutui sub-prime
degli Stati Uniti; ampio uso della cartolarizzazione, strumenti derivati
complessi e sistema bancario poco chiaro; un eccessivo uso del leverage
nel
sistema
finanziario;
scarsa
valutazione
del
rischio;
una
regolamentazione troppo poco rigorosa; ed ultimo ma non meno
importante
i
profondi
squilibri
macroeconomici
globali.
La presente sezione del lavoro si propone di spiegare come gli squilibri
finanziari globali e la crisi economica siano strettamente connessi.
Entrambi questi fenomeni trovano le loro origini principalmente dalle
politiche economiche intraprese in numerosi Paesi negli anni ʻ2000 (fra cui
gli Stati Uniti) e dalle distorsioni che hanno generato tali politiche nei
mercati finanziari. Sebbene alcuni commentatori abbiano argomentato che
“gli squilibri esterni hanno poco o niente a che fare con la crisi, che invece
è il risultato dei fallimenti della politica regolatoria e degli errori politici,
maggior parte commessi dagli Stati Uniti”, altri sostengono invece che gli
squilibri globali avrebbero avuto un ruolo primario nel collasso finanziario.
35
- 1.5.1 Le precedenti crisi finanziarie: I policy-maker reagiscono agli
squilibri globali
“Gli squilibri globali sono spesso un riflesso e anche una predizione di
squilibri interni.” 6
Secondo la corretta valutazione di Bini Smaghi le politiche
economiche non dovrebbero sottovalutare l'importanza degli squilibri
globali, ipotizzando che si risolveranno da soli. Di seguito, verrà analizzato
come gli squilibri degli anni '2000 siano il riflesso delle cause stanti alla
base della crisi finanziaria. Fra il 1989 e il 1997, la bilancia dei pagamenti
degli Stati Uniti fluttuò in un intervallo inferiore al 2% del PIL. Nel 1998,
con la crisi finanziaria asiatica, il deficit raggiunse il 2,4% del PIL fino a
salire al 4,8 % nel 2003. Guidato maggiormente dagli elevati investimenti
degli Stati Uniti degli anni ʼ90, il deficit USA rispecchiava i bassi risparmi
del 2003. Il debito estero USA stava per raggiungere il 6% del PIL prima
di crollare, gradualmente fra il 2007 ed il 2008, e poi più improvvisamente.
La previsione del Fondo Monetario Internazionale (FMI) dell’aprile del
2009 dava un deficit di circa il 2,8% del PIL nel 2009 e nel 2010, meno del
livello del 2006. Dibattiti ufficiali sui rischi causati dagli squilibri globali si
intensificarono verso la fine del 2003 quando durante il G7 vennero fatte
6
Valutazione di Lorenzo Bini Smaghi, discorso del 2008.
36
pressioni al Giappone ed alla Cina affinché riducessero le loro richieste di
acquisto dollari. Durante l’incontro gli Stati Uniti si impegnarono a
promuovere maggiori risparmi nazionali, mentre l’Europa si impegnava sul
fronte dell’aumento della produttività. Anche in Europa si intravedevano
rischi. La BCE nel dicembre 2004 nel suo Financial Stability Review
evidenziò che livelli elevati di mutui legati ad acquisizione di proprietà
immobiliari, implicava rischi di tasso di interesse troppo alti o la perdita di
lavoro, rischi che alla fine avrebbero avuto ripercussioni sia sulle banche e
che su altri creditori. In una presentazione che accompagnava l’incontro
con la stampa per il Financial Stability Review, Tommaso Padoa-Schioppa
indicò il debito estero degli Stati Uniti e l’aumento del prezzo del petrolio
come due rischi molto seri, e menzionò anche il balzo nei valori del settore
immobiliare e nei tassi di interessi dei mutui in molti Paesi dell’eurozona.
La FED rispose in termini ottimistici. Alan Greenspan opinò nel Febbraio
2005 che “la bilancia dei pagamenti degli Stati Uniti non può allargarsi per
sempre ma fortunatamente, l’aumento della flessibilità dell’economia
americana
conseguenze
faciliterà
probabilmente
significative
per
ogni
aggregare
aggiustamento
l’attività
senza
economica”.
7
In un famoso discorso del 10 Marzo 2005, Ben Bernanke argomentò che le
cause del deficit commerciale americano, e quindi le sue cure, erano
7
Alan Greenspan, ex presidente della Riserva Federale americana, discorso del 2005.
37
principalmente esterne agli USA. Pur non dissentendo con l’aspettativa di
Greenspan di un graduale processo di aggiustamento Bernanke notò che
“il rischio di un aggiustamento disordinato nei mercati finanziari esiste
sempre e l’approccio approssimativamente conservativo dei policy-maker
si basa sul rimanere vigili per qualsiasi sviluppo”.
8
Sfortunatamente, i
politici americani, i regolatori finanziari e le autorità monetarie non diedero
sufficiente peso a questi rischi. Sebbene non fu completamente chiaro in
quel momento, l’economia mondiale stava entrando in una nuova e
pericolosa fase nel 2004. Gli sviluppi iniziali dell’anno portarono ad un
ulteriore ampliamento degli squilibri globali. Allo stesso tempo, tali sviluppi
piantarono i semi della fragilità finanziaria sia negli Stati Uniti che in
Europa, con conseguenze che diventarono evidenti solo nell’estate del
2007. Mentre tali fattori portarono ad un’espansione degli squilibri globali
iniziati nel 2004, le loro radici sono da ricercare nelle politiche degli anni
immediatamente precedenti, i cui effetti sono stati amplificati da alcuni
energici meccanismi di propagazione. Così, il primo passo nella
comprensione delle crescenti forze destabilizzanti che avevano portato agli
squilibri del 2004, è ritornare al periodo seguente la crisi asiatica.
8
L’ex presidente della Fed, Ben Bernanke, in un discorso pronunciato a Washington nel 2008.
38
- 1.5.2 Gli squilibri globali: metà degli anni '90 fino al 2003
Le configurazioni della bilancia dei pagamenti nella metà degli anni ʼ90
non furono eccezionali. Nel 1995 l’Asia in via di sviluppo (che include la
Cina) ed i Paesi dell’emisfero occidentale avevano deficit comparabili, ed i
Paesi del centro ed est Europa erano prestatati in misura inferiore. Altre
regioni erano in surplus, con le economie mature che provvedevano a dar
loro la principale finanza per i Paesi che prendono a prestito.
Nel 1995 gli Stati Uniti stavano incorrendo in un deficit nella bilancia dei
pagamenti che era immenso in termini assoluti, ma come percentuale del
PIL USA era circa metà del deficit nellʼera Reagan (circa 1,5% del PIL). Nel
1997, dopo il colpo della crisi asiatica, Bernanke (2005) fornì una sintesi
eloquente e concisa della sua visione, sostenendo che la crisi contribuì,
attraverso una sequenza di eventi e risposte politiche alle economie dei
Paesi emergenti, ad innescare l'esplosione degli squilibri globali, iniziati
appunto verso la fine degli anni ʼ90.
1.6 LA CRISI ASIATICA
La turbolenza asiatica iniziò con la crisi della moneta tailandese. La
Tailandia ha mantenuto per lungo tempo un tasso di cambio fisso del baht
contro il dollaro americano. Prima del 1996, quando un precedente tasso
di
crescita
“torrido”
rallentò
marcatamente
l’economia,
la
rapida
espansione del credito senza un sistema finanziario liberalizzato alimentò
39
le bolle nel settore immobiliare. Le forti speculazioni sulla moneta contro il
baht esplosero nel maggio del 1997 e il cambio dollaro-baht si interruppe
nel mese di luglio. La crisi si diffuse in modo contagioso negli altri Paesi
asiatici, molti dei quali avevano fondamentali apparentemente più sani
della Tailandia. Sotto le pressioni del mercato, comunque, le debolezze si
rivelarono in gran numero nel sistema bancario asiatico. Molte dei Paesi
contagiati chiesero supporto al Fondo Monetario Internazionale. Le dure
conseguenze della crisi, e in particolare le condizioni imposte dal FMI in
cambio dell’assistenza finanziaria, lasciarono un’aspra memoria. I Paesi
asiatici in via di sviluppo e un gruppo di Paesi industrializzati fra cui Korea,
Singapore e Taiwan, alcuni di essi con monete più deboli di prima della
crisi, andarono in surplus. Mentre il boom del dot-com raggiungeva il
picco, i prezzi delle commodity aumentavano, aiutando a generare surplus
per la produzione di petrolio nel Medio-oriente e nel Commonwealth degli
Stati indipendenti. Le economie avanzate come gruppo incorsero in un
deficit più grande. Il deficit americano crebbe fino al 2,4% del PIL nel
1998. Poi aumentò del 3,2% nel 1999 e al 4,3% nel 2000, con solo una
piccola riduzione nel 2001 (quando gli Stati Uniti erano in recessione)
prima che crescesse ulteriormente. I surplus dei Paesi asiatici e dei
produttori di petrolio si rivelarono persistenti. Nei Paesi asiatici appena
industrializzati, i risparmi lordi rimanevano più o meno ai livelli pre-crisi,
ma gli investimenti crollarono. Nei Paesi asiatici in via di sviluppo, i
40
risparmi ritornarono ai livelli pre-crisi su circa il 33% del PIL solo nel 2002,
dal cui livello continuarono a crescere rapidamente (raggiungendo il 47%
del PIL nel 2007). Gli investimenti lordi ritornarono ai livelli pre-crisi per
circa il 35% del PIL solo nel 2004 e sebbene continuassero a crescere
significativamente, non riuscivano a stare al passo dei risparmi! Con il
tempo, gli investimenti in buona parte dell'Asia tornarono a ricoprire i
risparmi, ma gli sviluppi in Cina continuavano a superare questo
fenomeno.
La Cina ha registrato dei surplus esteri nel 2000 per oltre metà dell'Asia
sviluppata, ma li ha contabilizzati tutti a partire dal 2005. Da allora, lo
squilibrio della Cina con quei Paesi esportatori di petrolio, è diventato la
maggior
controparte
del
deficit
monetario
globale.
Inoltre, a supporto di queste eccedenze di surplus della bilancia dei
pagamenti, sono state avanzate politiche del cambio che tendevano a
mantenere i tassi a livello competitivo in confronto al livello pre-crisi. Lo
scopo di tali politiche consisteva nel voler dar impulso a strategie di
esportazione al fine di mantenere tassi di crescita dell'economia elevati.
Un altro motivo alla base di tale politiche era l'accumulazione di sufficienti
stock di riserve internazionali come para colpo a future crisi internazionali
che avrebbero potuto costringere alla dipendenza dal FMI. I tassi di
cambio fra dollaro e le monete di sei Paesi asiatici, fra cui la Korea,
mostrarono un deprezzamento reale della moneta contro il dollaro. Tutti i
41
Paesi sono rimasti a livelli di deprezzamento in confronto al 1997 per molti
anni dopo la crisi. Durante gli anni finali del sistema Bretton Woods, la
speculazione contro il dollaro sovra valutato contribuì alla crescita delle
riserve internazionali ed in fine ad una inflazione globale più alta. Negli
anni 2000 fino all’autunno del 2008, la crescita delle riserve causò
simultaneamente pressioni fuori gli Stati Uniti, portando anche all’aumento
del prezzo di materie prime, case e altri beni. L’evoluzione delle riserve
internazionali nei Paesi asiatici, in particolare in Cina, ha generato forti
squilibri nella bilancia dei pagamenti. In generale, vennero fatti grossi
tentativi per sterilizzare gli effetti incipienti nei surplus della moneta
asiatica al fine di smorzare le pressioni inflazionistiche che avrebbero
altrimenti eroso la competitività (mentre avrebbero simultaneamente
compromesso la stabilità macroeconomica). Vi era infatti un forte
contrasto fra la crescita regolare della base monetaria cinese e l’esplosione
delle riserve internazionali. Inoltre le politiche economiche e gli sviluppi del
mercato hanno aiutato a generare tali surplus nella bilancia commerciale,
comportando così una rapida accumulazione di crediti pubblici e privati nei
Paesi industrializzati, in particolare negli Stati Uniti.
Quali aggiustamenti economici hanno permesso tali surplus nei mercati
emergenti, e di controparte i rispettivi deficit dei Paesi avanzati?
Il prossimo paragrafo vuole analizzare il punto di vista dell'ex governatore
42
della Federal Reserve americana, Ben Bernanke, che ha risposto a questo
quesito formulando la teoria del “global savings glut” o eccesso di
risparmio globale.
1.7 GLOBAL SAVINGS GLUT: La teoria dell’eccesso di risparmio
globale
Bernanke (2005) chiarisce sin da subito come non ritenga plausibile
il fatto che il deficit commerciale degli Stati Uniti possa da solo giustificare
l’impennata del deficit di parte corrente registrata durate la crisi: “la
bilancia commerciale non è altro che la coda del cane: per la maggior
parte essa è determinata passivamente dagli introiti domestici ed esteri,
dai prezzi dei beni, dai tassi d’interesse e da quelli di cambio, che sono a
loro volta il prodotto di forze economiche trainanti ad un livello più
basilare”.9
Prima di andare ad approfondire il suo discorso, l’economista intende
spazzare via le teorie “made in USA” avanzate da diversi suoi colleghi per
spiegare il deficit. L’economista americano sostiene che, nonostante le
politiche economiche interne degli Stati Uniti abbiano certamente avuto un
ruolo nell’esplosione del fenomeno, una spiegazione soddisfacente di
9
Ben Bernanke, articolo del 10.03.2005 sul “The Federal Reserve Board”.
43
quest’ultimo necessita di essere contestualizzata all’interno di una
prospettiva globale. In particolar modo, il ex governatore della Federal
Reserve puntava il dito contro l’aumento del risparmio nel mondo,
ipotizzando che vi fosse stata negli ultimi 8-10 anni la formazione di una
vera e propria “global saving glut”, capace di spiegare non solo il deficit
delle partite correnti americane, ma anche il basso tasso d’interesse reale
a lungo termine diffuso nel mondo. Egli spiega la formazioni di questa
bolla globale di risparmio attraverso il rovesciamento che ha avuto luogo
nei tradizionali flussi di credito che avevano come destinazione i Paesi in
via di sviluppo. Questi ultimi si sono paradossalmente trasformati, nel
contesto dei mercati dei capitali, da debitori a finanziatori netti. La
trasformazione è testimoniata dai dati: tra il 1996 ed il 2003, le partite
correnti
degli
USA
sono
crollate
di
410
miliardi
di
dollari.
E siccome la somma delle posizioni di tutti i Paesi del mondo deve essere
zero, dove si sono spostati tutti questi dollari?
I Paesi industrializzati nel loro complesso hanno incamerato soltanto 22
dei 410 miliardi persi dagli Stati Uniti, imitando il trend negativo
americano. Il bilanciamento si è infatti ottenuto con i Paesi in via di
sviluppo, che sono passati da un deficit complessivo di 88 miliardi ad un
surplus di 205. L’allora governatore della FED indicava tra le cause di
questo rovesciamento dei ruoli le varie crisi finanziarie che si sono
succedute nel recente passato, attraversando i Paesi in via di sviluppo nel
44
momento in cui essi erano importatori netti di capitali. In risposta a queste
crisi, le cui radici sono molteplici (Bernanke identifica: mancanza del
necessario consolidamento fiscale, sistemi bancari governati in maniera
non appropriata, mancanza di abitudine al prestito, tassi di cambio
sopravvalutati, debiti spesso a breve termine e denominati in valuta
straniera.), i Paesi coinvolti hanno scelto o sono stati costretti ad adottare
nuove strategie di gestione dei flussi di capitale internazionali. Strategie
che, in generale, implicavano la trasformazione del proprio status, da
quello di importatori netti di capitali finanziari a quello di esportatori netti,
talvolta per quantità anche molto ingenti. Korea del Sud e Tailandia, ad
esempio, sono state costrette ad acquistare ampie riserve costituite da
moneta di scambio straniera, generando un surplus nel loro saldo delle
partite correnti. Anche i Paesi che non sono stati coinvolti direttamente
nelle crisi, come la Cina, hanno preso spunto dagli accadimenti in corso
per costituire “war chests” di valuta-riserva straniera. L’utilità di questa
mossa è indubbia: le riserve possono infatti essere utilizzate come
tampone in caso di potenziali fuoriuscite di capitali, ma anche al fine di
promuovere una crescita guidata dalle esportazioni, evitando così i rischi
derivanti da una rivalutazione monetaria. Quello che i governi dei Paesi in
via di sviluppo hanno fatto, in sostanza, è stato agire da intermediari
finanziari, “veicolando” i risparmi dei privati (con l’espediente di istituire
titoli di debito per i propri cittadini) verso Buoni del Tesoro ed altri asset
45
statunitensi. Infine, altro fattore da tenere in considerazione per spiegare
il mutamento della posizione debitoria dei Paesi in via di sviluppo, è
l’incremento del prezzo del petrolio, che è andato a favorire direttamente i
Paesi “petroliferi” (non solo quelli mediorientali, ma anche Russia, Nigeria
e Venezuela), aumentandone i ricavi che essendo espressi in valuta
straniera (dollari) si riflettono immediatamente sulle partite correnti. Se
dunque i motivi che hanno portato i Paesi in via di sviluppo a trasformarsi
in esportatori netti di capitali sono abbastanza chiari, qual è il motivo per
cui la quantità di risparmio nei Paesi industrializzati, invece che aumentare
come dovrebbe per via di fattori demografici, è drasticamente diminuita?
Bernanke non ritiene soddisfacente esaurire il discorso con una
spiegazione esclusivamente “anagrafica”, ma bensì identifica come forze
trainanti aggiuntive dello spostamento dei risparmi, il tasso di cambio del
dollaro e gli aggiustamenti negli “assets prices”. Nel periodo compreso tra
il 1996 ed il 2000, i prezzi dei titoli azionari hanno giocato un ruolo
“equilibrativo” chiave nel contesto dei mercati finanziari internazionali.
L’adozione di nuove tecnologie e la conseguente produttività crescente
degli USA, unitamente a rilevanti vantaggi sociali (forti diritti della
proprietà, basso rischio politico, ecc.) hanno reso gli Stati Uniti un Paese
estremamente attraente per gli investitori internazionali. I capitali sono
quindi affluiti in maniera copiosa nel sistema americano, alimentando un
ampio apprezzamento dei titoli borsistici e del tasso di cambio del dollaro.
46
Da una prospettiva commerciale interna, gli alti valori dei titoli azionistici
statunitensi hanno fatto aumentare la propensione al consumo dei cittadini
USA, ivi compresa la propensione al consumo di beni d’importazione. I
profitti realizzati sui mercati azionari hanno indotto inoltre un aumento
degli investimenti in beni capitali, migliorando le aspettative di guadagni
futuri e riducendo la necessità percepita di risparmiare nel breve periodo.
Dopo lo scoppio della bolla borsistica, iniziato nel marzo 2000, gli
investimenti in beni capitali e le richieste di finanziamento sono crollate in
tutto il mondo ed il livello globale di risparmio desiderato è tornato ad
essere forte. Ci si sarebbe aspettati che, con un livello di risparmio
desiderato superiore rispetto a quello degli investimenti desiderati, il tasso
d’interesse reale diminuisse per riequilibrare la situazione. Ma i tassi reali
di interesse erano attestati su livelli assoluti piuttosto bassi già da diversi
anni, non solo negli USA ma anche all’estero. Ecco dunque che emerge
un’altra possibile spiegazione del basso livello di risparmio statunitense:
osservando il mercato degli investimenti residenziali, dove i bassi tassi
ipotecari hanno supportato un livello record di nuove costruzioni
residenziali e forti aumenti nei prezzi delle abitazioni, è infatti possibile
trovare un notevole incentivo al consumo ed ai conseguenti “nonrisparmio” e dipendenza degli USA dai flussi di capitali esteri. Secondo
quanto affermato sinora, dunque, eventi accaduti all’esterno dei confini
statunitensi, come le crisi finanziarie che hanno colpito i Paesi emergenti,
47
hanno giocato un ruolo importante nel deficit delle partite correnti
americane, interagendovi in maniera “endogena” con modifiche dei valori
dei titoli azionari, dei prezzi delle case, dei tassi di interesse reali e del
tasso di cambio del dollaro. Ma perché, tra tutti i Paesi industrializzati,
sono stati proprio gli USA a subire maggiormente gli effetti dell’aumento
del livello di risparmio globale desiderato? Innanzitutto Bernanke
attribuisce la “colpa” all’attrattività degli Stati Uniti per gli investitori
stranieri, dovuta anche al boom tecnologico degli anni ’90 ed al livello di
sofisticazione raggiunto dai mercati finanziari. Inoltre vi è da considerare il
ruolo del dollaro quale “moneta internazionale”, spesso utilizzato dai Paesi
in via di sviluppo sia come moneta di riserva, sia come parametro per
fissare il valore della valuta locale. Il prestigio di cui gode la moneta
americana fa dunque sì che gli investitori dei Paesi emergenti si orientino
verso asset emessi in dollari, come ad esempio i buoni del tesoro USA.
Questo ha effetti sia sul tasso di cambio del dollaro, sia sul tasso di
interesse americano ed ha probabilmente causato la sopravalutazione del
dollaro sul finire degli anni ’90, che ha a sua volta peggiorato il saldo delle
partite correnti USA. Bernanke arriva dunque alle conclusioni della sua
analisi, provando a tracciare un bilancio dei fenomeni cui ha fatto
riferimento. Nel breve periodo, sostiene, gli effetti sono stati senz’altro
positivi per i Paesi in via di sviluppo, che sono riusciti a rafforzare i propri
saldi di parte corrente e ridurre i rischi di crisi finanziarie, saldando una
48
parte dei propri debiti internazionali e stabilizzando il tasso di cambio delle
loro valute. Ma per i Paesi emergenti non dovrebbe essere desiderabile
mantenere
nel
internazionali.
lungo
La
periodo
popolazione
questa
dei
posizione
Paesi
di
finanziatori
industrializzati
sta
progressivamente invecchiando e ciò implica, per questi Stati, opportunità
di investimento domestico sempre più ridotte unitamente ad una
crescente propensione al risparmio (necessaria per garantire la pensione
alla ex-forza lavoro). Situazione radicalmente diversa quella dei Paesi in
via di sviluppo, dove la forza lavoro è molto più giovane ed il costo del
lavoro decisamente inferiore. Ne consegue che il ritorno garantito dagli
investimenti effettuati in Paesi emergenti è sicuramente maggiore rispetto
a quello che può offrire un Paese industrializzato. La logica, dunque,
sembrerebbe suggerire che prima o poi i capitali dovranno ristabilire il loro
flusso naturale dai Paesi ricchi verso quelli più poveri. Una seconda
questione riguarda poi l’utilizzo di questo credito internazionale da parte
degli Stati Uniti e dagli altri Paesi industrializzati vittime di deficit esterni.
Data la natura ciclica degli investimenti in beni capitali, attestati negli
ultimi anni su di un livello piuttosto basso, i flussi di capitali verso i Paesi
industrializzati si sono concentrati nella direzione dell’edilizia residenziale,
con l’aumento dei tassi di crescita del settore e dei prezzi delle abitazioni.
Gli alti prezzi delle abitazioni hanno incoraggiato l’aumento dei consumi;
tassi crescenti di proprietà residenziale e consumi sono sicuramente dati
49
positivi per un’economia, ma nel lungo periodo i miglioramenti di
produttività
dovranno
presumibilmente
essere
guidati
anche
da
investimenti non residenziali. Il discorso di Bernanke appare ragionevole,
ma risulta troppo benevolo nei confronti degli enti monetari statunitensi,
esentati di fatto da qualsiasi responsabilità diretta per l’attuale situazione
finanziaria. Come diversi esperti gli faranno poi notare, questa posizione
che tende a minimizzare il ruolo degli Stati Uniti (e soprattutto del dollaro
americano) è suscettibile di una moltitudine di critiche.
- 1.7.1 LE CONSIDERAZIONE DI MARTIN WOLF
Tra le varie critiche che vennero mosse alle dichiarazioni del sig.
Bernanke durante la crisi, è interessante analizzare il punto di vista di
Martin Wolf, giornalista inglese che lavora come commentatore ed
editorialista economico al prestigioso quotidiano economico internazionale
Financial Times. Martin Wolf in realtà sostenne quasi in toto la tesi di
Bernanke, dichiarando: “I cinesi e molti altri in effetti, prestarono ingenti
somme a bassissimo interesse alle economie avanzate, ed in particolare
agli Stati Uniti. In un influente discorso, Ben Bernanke chiamò questo
fenomeno “eccesso di risparmio globale” A quel tempo (2005), questa
analisi è stata pensata affinché fosse rassicurante: Bernanke stava dicendo
al suo pubblico di non preoccuparsi troppo della grande quantità con cui
50
l’America prendesse prestiti dall’estero.”10 Ma alla visione di Bernanke,
Wolf aggiunse che l'eccesso di risparmio interagì con una finanza malsana,
facendo sì che l'America fosse ancora più vulnerabile alla crisi. “Gli eccessi
finanziari – dichiarò infatti Wolf – nascondevano loro stessi, ed anzi erano
una risposta a debolezze strutturali preesistenti”. L’eccesso di risparmio
accumulato in giro per il pianeta, “che può essere anche ribattezzato come
una penuria d’investimenti”, era invece il problema fondamentale:
“C’erano più risparmi in cerca di investimenti produttivi di quanti non
fossero gli investimenti produttivi pronti a veicolare quei risparmi.” 11 Wolf
spiegò che il fatto che per anni le economie asiatiche, in compagnia di
quella tedesca, avessero registrato enormi surplus delle partite correnti e
quindi esportato capitali nel resto del mondo, andrebbe a confermare
quella tendenza. Negli Stati Uniti, poi, tutti questi risparmi furono investiti
in qualche modo, certo, ma alimentarono bolle immobiliari e finanziarie
piuttosto che finire nelle mani di capitalisti con una idea precisa di
sviluppo.
Nel 2007-08, però, la bolla esplode. A quel punto si congelarono i mutui e
10
Martin Wolf “The Shifts and the Shocks: What We’ve Learned—and Have Still to Learn—from
the Financial Crisis”, p.477-479
51
i prestiti facili che fino a quel momento erano stati foraggiati dai risparmi
abbondanti, quegli stessi risparmi che il capitalismo più produttivo aveva
snobbato.
Così
il
problema
divenne
perfino
peggiore:
“La bolla del risparmio, allora, ha agito come un vincolo alla domanda
aggregata. Ma poiché quella bolla era anche connessa ad un tasso di
investimento debole, essa implicava pure prospettive di crescita lenta. Tale
difficoltà viene prima della crisi ma ha avuto l'effetto di aggravarla ancora
di più.” 12
Rimaneva, dunque, l’eccedenza di risparmio globale rispetto agli
investimenti a cui si aggiunse la mancanza di domanda ed offerta. Le
Banche centrali, ed in alcuni casi gli stati, si svenarono e continuano a
svenarsi per evitare crolli nel settore finanziario, per attutire il crollo della
domanda e per rilanciare la crescita, con risultati abbastanza soddisfacenti
nei più vitali Stati Uniti rispetto all’Eurozona. In America i banchieri centrali
rivendicarono di avere altre frecce nei loro archi, tra cui la fissazione di
obiettivi più audaci del mero controllo dell’inflazione, l’acquisto di asset più
disparati o anche l’imposizione di tassi negativi sui depositi delle banche
presso gli Istituti centrali, proprio per cercare di “punire” l’eccesso di
risparmio immobile e convincere così a prestare e ad investire. Wolf era
12
Martin Wolf, articolo del 20.11.13 sul “Financial Times”.
52
d’accordo con le Banche centrali interventiste ma era altrettanto convinto
che l’analisi e le soluzioni di Bernanke non bastassero. Il giornalista,
infatti, sosteneva che lo stato attivista dovesse fare quello che
l’imprenditore loffio aveva paura di fare: cioè decidere dove e come
dirottare la massa di risparmi a disposizione. In un articolo uscito sul
"Financial Times" il 24 aprile 2014 con il titolo "Spogliare le banche private
del potere di creare denaro", Martin Wolf sottolinea un ulteriore chiave
nella comprensione della crisi finanziaria globale. Secondo l'economista
inglese è necessario aggiungere alle cause della crisi un altro fattore ossia
la capacità delle banche private di creare denaro dal nulla. Da anni vari
gruppi di studiosi e associazioni in Usa come in Europa sostengono che se
non si limita il potere delle banche private di creare denaro dal nulla la
prossima crisi potrebbe essere anche più devastante della precedente. I
chiodi su cui batte Martin Wolf sono tre. Il primo è che la stragrande
maggioranza del denaro in circolo viene creato dal nulla – perché lo stato
lo consente – dalle banche private nel momento in cui concedono prestiti,
accreditando l’ammontare sul deposito del richiedente. Quando Mr. Jones
o la Sig.ra Bianchi si vedono accreditare 100.000 sterline o euro sul
proprio conto di deposito, grazie ai quali stipuleranno un mutuo, non un
solo euro è stato tolto da altri depositi o dal capitale della banca. La
somma è stata creata da un contabile con pochi tocchi sulla tastiera.
Specifica Wolf: “Le banche creano depositi come sottoprodotto dei prestiti
53
che concedono." Tanto per cominciare: “In pratica la creazione di denaro
differisce
da
vari
malintesi
popolari:
le
banche
non
agiscono
semplicemente da intermediari, dando in prestito i depositi effettuati
presso di loro… Ogni qualvolta una banca fa un prestito, crea
simultaneamente un corrispondente deposito sul conto del mutuatario,
creando in tal modo nuovo denaro.”13
Il secondo chiodo su cui batte Wolf è il pesante ruolo negativo che la
suddetta creazione di denaro svolge a danno dell’intera economia. “ Il
nostro sistema finanziario è palesemente instabile perché lo stato prima gli
ha concesso di creare quasi tutto il denaro che circola nell’economia, poi si
è visto costretto a sostenerlo nello svolgimento di tale funzione. Questo è
un buco gigantesco nel cuore delle nostre economie di mercato.”
14
L’autore avrebbe potuto aggiungere che oltre ai trilioni di dollari, sterline
ed euro creati dal nulla dalle banche sotto forma di depositi, circolano nel
mondo, al di fuori delle piattaforme regolamentate, centinaia di trilioni di
derivati dalle denominazioni (ABCP, ABS, CDO, CLO, CDS, MBS…), pure
essi creati dalle banche private. Poiché questi titoli hanno un valore di
13
14
Bank of England, “Quarterly Bulletin”, n. 1, 2014
“Spogliare le banche private del potere di creare denaro", Articolo 24.04.15 Martin Wolf,
Financial Times
54
mercato, ciascuno può venire istantaneamente commutando i titoli in
denaro contante, oppure versato come collaterale per garantire un
prestito, od altro.
Infine c’è la fondamentale proposta dell’autore, che va ben al di là di
quanto sintetizzato nel titolo. Il potere di creare denaro dovrebbe essere
riservato esclusivamente allo stato. La funzione delle banche dovrebbe
venire circoscritta alla intermediazione tra risparmiatori e investitori o
mutuatari, alla effettuazione dei flussi di pagamento, e alla custodia dei
depositi. Per appoggiare la sua proposta, che rientra nel quadro delle
riforme le quali postulano un’attività delle banche “ristretta” o “limitata”,
Wolf si richiama brevemente a studi degli anni 30 quale l’illustre Piano di
Chicago. Esso prevedeva che una banca dovrebbe sempre disporre del
100 per cento di riserve per ogni soldo che ha in deposito e che presta a
qualcuno, il che porrebbe definitivamente fine al suo potere di creare
denaro dal nulla. Un piano rivisitato di recente da ricercatori del FMI, i
quali arrivano a concludere che esso potrebbe funzionare bene anche
oggi. Agli oppositori i quali temono che in questo modo rischierebbe di
sparire il credito alle imprese, l’autore ricorda che le banche finanziano
l’investimento produttivo in misura pari appena al 10 per cento dei loro
prestiti.
Nel caso dell'Unione Europa questo articolo vale a ricordare ai governi
dell’Ue che una riforma finanziaria la quale in qualche modo riduca
55
drasticamente il potere delle banche private di creare denaro è la
maggiore riforma politica di cui essi dovrebbero occuparsi per salvare
l’Unione e i propri stessi Paesi. Non importa se oggi questi appaiano far
parte del gruppo dei più forti, oppure di quello dei più deboli. Soltanto una
forte riduzione del potere “creativo” delle banche può fare uscire i governi
Ue dal ruolo di burattini del potere finanziario che attualmente svolgono.
“Quando arriva la prossima crisi – e di sicuro arriverà – abbiamo bisogno
di essere pronti.”15
La prossima sezione del lavoro ha lo scopo di individuare le ragioni che
hanno portato alla diffusione della crisi finanziaria americana nel resto del
mondo, analizzando con particolare attenzione le ripercussioni che tale
crisi ha avuto e continua ad avere in Europa.
1.8 La crisi nel mondo
Alla domanda “come mai questa crisi ha avuto e continua ad avere
forti ripercussioni anche nel resto del mondo”, la risposta risulta
abbastanza semplice. Considerando che i mercati finanziari globali sono
collegati tra loro: il rischio di credito, cioè il rischio di una possibile
insolvenza del debitore, è in possesso dell’istituto finanziario che ha
15
“Spogliare le banche private del potere di creare denaro", Articolo 24.04.15 Martin Wolf,
Financial Times.
56
erogato il mutuo. Attraverso la cartolarizzazione il rischio di credito viene
trasferito ai mercati finanziari globali e quindi anche agli investitori di tutto
il mondo. Il fatto che nessuno conosca la reale collocazione dei titoli,
collegati ai prestiti sub-prime, ha fatto sì che in ogni parte del globo ci
siano persone che hanno investito in questi titoli. Di conseguenza la crisi
non può essere circoscritta solo agli Stati Uniti, ovvero al Paese di origine,
ma è diventata un tragico “fenomeno” a livello planetario, anche se alcuni
Stati ne hanno risentito in modo minore. Questa crisi ha colpito tutti i
settori sia finanziari che economici, oltre ad aver aumentato i debiti
pubblici dei vari Paesi.
- 1.8.1 EUROPA: Come si è giunti alla crisi?
La crisi del debito in Europa è stata innescata da eventi del sistema
bancario americano. Quando il rallentamento dell'economia degli USA ha
impedito ai proprietari americani di immobili di ripagare prestiti ipotecari
troppo elevati, le banche di tutto il mondo che avevano effettuato
investimenti connessi a quei prestiti hanno iniziato a perdere soldi.
La Lehman Brothers, quarta banca d'affari per importanza degli Stati Uniti,
è crollata sotto il peso degli investimenti sbagliati che aveva effettuato,
allarmando altre banche ed investitori con cui aveva concluso operazioni
commerciali. Il timore che altre banche potessero fallire ha spinto
investitori e banche ad adottare precauzioni estreme. Le banche hanno
57
smesso di prestarsi denaro a vicenda, mettendo in gravi difficoltà tutti
coloro che dipendevano dai prestiti. Le banche europee che avevano
effettuato ingenti investimenti sul mercato ipotecario americano sono state
colpite pesantemente. Cercando di evitare il fallimento di alcune banche, i
governi di molti Paesi dell'Ue sono corsi in aiuto: Germania, Francia,
Regno Unito, Irlanda, Danimarca, Paesi Bassi e Belgio. Salvare le banche
ha comportato costi elevatissimi. In Irlanda, il governo ha rischiato la
bancarotta finché non sono intervenuti gli altri Paesi dell'Ue offrendo
assistenza finanziaria. Quando nel 2009 l'Europa è entrata in recessione,
un problema che inizialmente riguardava solo le banche ha cominciato a
coinvolgere sempre più i governi, mentre sui mercati circolava il timore
che alcuni Paesi non sarebbero riusciti a salvare le loro banche in
difficoltà.
Gli
investitori
hanno
cominciato
ad
esaminare
più
scrupolosamente le finanze pubbliche. L'attenzione si è concentrata
soprattutto sulla Grecia: la sua economia era in pessime condizioni e i
governi che si erano succeduti avevano accumulato debiti pari quasi al
doppio del valore dell'economia. Vista la minaccia di fallimento delle
banche, le condizioni di salute delle finanze pubbliche erano diventate più
importanti che mai. All'improvviso, i governi che ogni anno erano abituati
a prendere in prestito ingenti somme di denaro per finanziarie i bilanci e
che, così facendo, avevano accumulato debiti massicci, si sono trovati di
fronte a mercati decisamente meno propensi a concedere prestiti. Quella
58
che era nata come crisi del sistema bancario si è così trasformata in crisi
del debito sovrano. La crisi ha evidenziato diverse lacune nel sistema di
governance economica dell’Ue:
-Troppa attenzione al disavanzo: il controllo delle finanze pubbliche era
concentrato sul disavanzo di bilancio su base annua e non abbastanza sul
debito pubblico. Diversi Paesi che rispettavano le norme dell’Ue
presentando un disavanzo di bilancio annuo ridotto o addirittura segnando
un surplus di bilancio nel corso della crisi finanziaria hanno dovuto far
fronte a difficoltà economiche dovute ad un elevato debito pubblico.
Pertanto si è reso necessario un controllo più rigoroso di quest’ultimo
indicatore.
-Sorveglianza
insufficiente
della
competitività
e
degli
squilibri
macroeconomici: la sorveglianza delle economie dell’Ue non è stata
sufficientemente attenta agli sviluppi non sostenibili della competitività e
della crescita del credito, che hanno condotto ad un crescente
indebitamento del settore privato, ad un indebolimento degli enti finanziari
ed a bolle immobiliari.
-Applicazione delle norme non abbastanza rigorosa: i Paesi dell’area euro
che non hanno rispettato le regole non sono stati oggetto di
provvedimenti adeguati: sarebbe stato necessario un sistema di sanzioni
più severo e più credibile.
59
-Processo decisionale lento: troppo spesso la debolezza delle istituzioni ha
comportato risposte tardive a sviluppi macroeconomici preoccupanti. Ciò
vuol dire anche che nell’approccio alla situazione economica non si è
tenuto sufficientemente conto della prospettiva dell’area euro nel suo
insieme.
-Finanziamenti di emergenza: quando è subentrata la crisi non vi era
nessun meccanismo in grado di fornire un sostegno finanziario ai Paesi
dell’area euro che si sono improvvisamente trovati in difficoltà. Il sostegno
finanziario era necessario non solo per risolvere problemi specifici dei
singoli Paesi, ma anche per fornire una forma di protezione (firewall) per
evitare che i problemi si estendessero ad altri Paesi a rischio.
Di conseguenza la Grecia e, successivamente, l’Irlanda, il Portogallo, la
Spagna e Cipro non sono stati in grado di contrarre prestiti sui mercati
finanziari a tassi d’interesse ragionevoli. È stato pertanto richiesto un
intervento dell’Ue, che è sfociato nella creazione di un meccanismo di
risoluzione della crisi e di meccanismi finanziari di protezione, ossia
cospicui fondi di emergenza a disposizione di Paesi dell’area euro che
affrontano difficoltà economiche.
- 1.8.2 Perché la crisi si è estesa?
I governi di diversi Paesi si sono ritrovati alle prese con i problemi del
sistema bancario quando le banche in difficoltà hanno iniziato a chiedere il
60
loro aiuto. Considerando il costo elevato del salvataggio delle banche, i
mercati finanziari hanno cominciato a domandarsi se i governi avessero
effettivamente i mezzi necessari per soccorrerle. Quando poi la recessione
ha iniziato a farsi sentire in Europa, l'attenta analisi delle condizioni di
salute delle finanze pubbliche ha rivelato che da diversi anni alcuni governi
dell'area euro contraevano ingenti prestiti per finanziare i bilanci,
accumulando così debiti enormi. I fondi erano facilmente accessibili perché
gli investitori chiudevano un occhio sui segnali di allarme riguardanti la
salute dell'economia e non prestavano sufficiente attenzione ai rischi
connessi a prestiti sempre più consistenti. La dipendenza di alcuni governi
dal debito era in parte dovuta al fatto che le loro economie stavano da
tempo perdendo competitività perché non riuscivano a tenere il passo con
le riforme economiche in altri Paesi. In alcuni Stati membri i governi non
avevano arrestato lo sviluppo di bolle immobiliari e di altri squilibri
economici nocivi ed infine avevano ignorato le regole elaborate per il
funzionamento dell'euro, tralasciando di fare di più per coordinare le loro
politiche economiche, una volta concordato di condividere una moneta
comune con una politica monetaria comune. In un numero crescente di
Paesi si è sviluppato un circolo vizioso: l'instabilità finanziaria soffocava la
crescita economica, che a sua volta faceva calare le entrate fiscali ed
aumentare il debito pubblico, e l'aumento del debito faceva innalzare il
costo dei prestiti per i governi, alimentando l'instabilità finanziaria. Tale
61
situazione ha sollevato interrogativi sull'adeguatezza della struttura
istituzionale dell'Unione economica e monetaria e dell'euro in tempi di
crisi.
1.9. UN PASSO INDIETRO: Le origini della crisi nell'eurozona
La costituzione nel 2001 dell’Unione monetaria ed economica
europea (UME), con l’introduzione di una moneta comune, rispondeva a
logiche tanto politiche quanto economiche strettamente intrecciate le une
con le altre. Secondo la posizione ufficiale fatta propria da BCE, Unione
europea e FMI, non vi è dubbio che dall’integrazione economica europea
gli Stati membri avrebbero dovuto trarre dei benefici significativi. Tuttavia
la partecipazione ad un’unione doganale, e successivamente, anche ad
una valuta comune, limita l’autonomia politica del singolo Stato membro e
la sua capacità di correggere gli squilibri macroeconomici nei confronti di
altri Stati membri e del resto del mondo. Senza una politica in grado di
influire sul commercio estero, sul tasso di cambio o sugli aggregati
monetari, tali squilibri possono essere gestiti solo attraverso un
aggiustamento dei salari e dei costi in grado di tradursi in corrispondenti
variazioni dei prezzi, a condizione che i mercati dei fattori produttivi siano
flessibili attraverso i Paesi che partecipano all’Unione valutaria e che i costi
del processo di specializzazione e integrazione siano contenuti.
distribuzione
dei
guadagni
complessivi
derivanti
La
dall’integrazione
62
economica e dall’adozione della valuta comune potrebbero essere
distribuiti in modo ineguale, ma vi sarebbe comunque un incremento di
benessere complessivo. In senso diametralmente contrario si pongono
altre posizioni che evidenziano, come l’operare degli stessi meccanismi del
libero
mercato
più
accentuare,
attraverso
l’innesco
di
“processi
cumulativi”, la divaricazione tra regioni e Paesi tanto diversi dal punto di
vista della struttura economica e sociale, rafforzandone alcuni a
svantaggio di altri.
Per quanto concerne la critica alla visione liberista secondo cui l’operare
dei meccanismi di mercato dovrebbe ridurre gli squilibri tra regioni e Paesi
e assicurare la convergenza delle dinamiche di sviluppo, si rinvia a Myrdal
(1957; 1958). L’economista svedese conia l’espressione “causazione
circolare e cumulativa” per spiegare perché il tasso di sviluppo dei diversi
Paesi non tende ad una situazione di equilibrio uniforme ma, al contrario,
tende a cristallizzarsi in un numero limitato di aree ad elevata crescita il
cui successo ha l’effetto di inibire lo sviluppo di altre. Questa tendenza non
potrebbe operare se le variazioni dei salari monetari fossero sempre tali da
compensare la differenza nei tassi di incremento della produttività.
Tuttavia non è questo il caso che si verifica in Europa: la dispersione nei
tassi di aumento dei salari tra le diverse aree o Paesi tende sempre ad
essere considerevolmente più piccola di quella relativa alle variazioni della
produttività. È per questa ragione che in un’area valutaria comune, o in un
63
sistema di valute convertibili con cambi fissi, le aree che crescono di più
tendono ad acquisire un vantaggio competitivo cumulativo rispetto alle
aree che crescono a tassi inferiori. È interessante fare anche riferimento a
Nicholas Kaldor che nel 1971 nel suo scritto “Effetti Dinamici del Mercato
Comune” individuava lucidamente i limiti di un’unione monetaria priva di
unione politica in cui gli squilibri dei saldi delle partite correnti erano
amplificati da un regime di cambi irrevocabili in assenza di regole sui
salari, di un fisco centralizzato e di un sistema di stabilizzatori automatici.
Trent’anni prima che l’euro nascesse erano quindi perfettamente chiare le
criticità che l’UME fondata sull’euro avrebbe evidenziato trent’anni dopo.
Fino allo scoppio della crisi finanziaria i Paesi centrali dell’eurozona
avevano tratto ampi vantaggi dall’introduzione della moneta unica poiché
le loro esportazioni erano diventate più competitive sui mercati mondiali,
in quanto il valore dell’euro rispetto alle altre valute era inferiore al valore
delle loro valute nazionali; l’effetto contrario si è verificato nei Paesi
periferici i quali hanno sperimentato un valore dell’euro superiore a quello
delle loro precedenti valute. Nei Paesi centrali gli effetti positivi sulla
competitività derivanti dall’adozione dell’euro si sono sommati ai guadagni
di produttività dando luogo a un circolo virtuoso con risultati positivi su
produzione industriale, occupazione, investimenti ed esportazioni. La
Germania in particolare ha beneficiato, tra l’altro, dei suoi rapporti di
subfornitura con i Paesi dell’Europa Orientale che le ha consentito di
64
ridurre
i
costi
di
produzione
unitamente
alle
politiche
di
deregolamentazione del suo mercato del lavoro e di contenimento della
dinamica salariale. Tuttavia, nonostante la loro situazione di svantaggio
competitivo crescente nel commercio internazionale, molti dei membri
periferici dell’eurozona nello stesso periodo hanno beneficiato della
disponibilità di credito a tassi di interesse prossimi a quelli vigenti nei Paesi
centrali; l’afflusso di capitali privati sui mercati finanziari liberalizzati ha
alimentato una crescita basata sulla domanda interna e su bolle
speculative nel settore immobiliare, soprattutto in Spagna ed Irlanda,
determinando tuttavia anche un aumento dei prezzi e dei costi che ha
ulteriormente
eroso
la
competitività
dei
settori
esportatori.
Contemporaneamente i governi sono stati anche in grado di indebitarsi a
tassi relativamente contenuti per finanziare l’aumento della spesa
pubblica, mentre le crescenti entrate fiscali generate dalla crescita
economica hanno attenuato i vincoli dal lato dei bilanci pubblici. Queste
dinamiche intrinsecamente instabili sono entrate in crisi con il divampare
della crisi finanziaria globale del 2008 quando questa si è diffusa in seguito
anche in Europa compromettendo la stabilità dell’UME e l’esistenza stessa
dell’euro.
L’opinione prevalente sulle origini della crisi europea che ha dominato le
scelte di politica economica in Europa negli ultimi anni è che la crisi sia di
natura fiscale e che derivi dalla “dissolutezza” finanziaria dei governi dei
65
Paesi periferici; essendo, quindi, la loro irresponsabilità ad avere creato i
problemi, su di essi deve ricadere l’onere dell’aggiustamento attraverso
azioni di consolidamento fiscale. Inoltre, poiché gli stimoli fiscali sono
ritenuti
responsabili
di
pressioni
inflazionistiche
ed
il
crescente
indebitamento pubblico può “preoccupare” i mercati finanziari, l’unica
strada
percorribile
è
l’austerità
fiscale,
nonostante
ciò
aggravi
ulteriormente la recessione. Il requisito fondamentale è visto nell’equilibrio
dei bilanci pubblici e nel taglio dei debiti sovrani in modo da ridurre il
rischio di default, tranquillizzare i mercati finanziari consentendone il loro
ordinato funzionamento. L'attuale crisi del debito dell'Eurozona, dunque,
non è solo figlia della crisi del 2007-2008 che è nata negli USA per poi
propagarsi in tutto il mondo, ma è anche il risultato di debolezze interne
all’Unione Europea ed in particolare, di quelle debolezze legate ad uno dei
maggiori risultati dell’Ue stessa, ovvero l’euro.
- 1.9.1 La divergenza economica e il “peccato originale” dell'euro.
Già dalla fine degli anni ‘80, quando il Rapporto Delors aprì la strada
alla creazione della moneta unica, alcuni economisti avevano criticato il
progetto basandosi su una ricca letteratura riguardante le “aree monetarie
ottimali”. L’Unione Europea non sembrava presentare quelle caratteristiche
che avrebbero reso l’introduzione di una moneta unica un immediato
successo. In effetti, l’euro rappresentava una grande scommessa per il
66
futuro; il suo successo non si sarebbe basato sulla lettura delle condizioni
economiche di quel periodo ma sui guadagni che un progetto così ampio e
ambizioso avrebbe creato negli anni a venire. Si era dunque certi che
l’eterogeneità dei fondamentali macroeconomici dei Paesi membri si
sarebbe gradualmente ridotta sotto la spinta dell’introduzione della
moneta unica. In altri termini, si supponeva che l’euro, in maniera quasi
automatica, avrebbe avviato un processo di graduale convergenza
economica all’interno dell’Eurozona. Non si escludevano a priori possibili
scostamenti da parte di alcuni Paesi, soprattutto quelli economicamente
meno maturi, ma ad ogni caso tali squilibri avrebbero assunto una natura
benigna e temporanea in quanto, in un regime di mobilità di capitali,
avrebbero dato luogo a flussi finanziari verso i Paesi periferici,
contribuendo così alla riduzione del loro gap rispetto alle maggiori
economie dell’eurozona. In effetti, nei primi 10 anni dall’introduzione
dell’euro queste previsioni sulla convergenza si sono, almeno in parte,
realizzate. L’esempio probabilmente più lampante è rappresentato dai tassi
di interesse. Nel 1995 il tasso di interesse medio sui titoli governativi a 10
anni di Italia, Portogallo, Irlanda, Grecia e Spagna era il 12,1%, ovvero
circa il 40% più alto dell’equivalente tasso medio di Francia e Germania,
mentre tale differenza si è ridotta al 2,1% nel 2003. Negli ultimi anni il
differenziale è tuttavia aumentato notevolmente fino a portarsi al 10,4%
nel 2008. L’esplosione della crisi del debito ha poi amplificato in maniera
67
esponenziale tale tendenza. Ma anche la dinamica dei prezzi ha fatto
registrare risultati più che ragguardevoli, soprattutto se si guarda all’intera
eurozona (inflazione pari al 2,3%, in media, tra il 2000 e il 2008) e se si
procede ad un confronto con altre aree del mondo (ad iniziare dagli USA)
e ad altri periodi (ad esempio il decennio precedente). Tali ottimi risultati a
livello dell’intera eurozona hanno però oscurato troppo a lungo divergenze
all’interno dell’eurozona stessa, anzi le hanno in un certo senso anche
alimentate perché hanno offerto ai Paesi periferici una protezione verso
politiche di bilancio ed economiche che non hanno saputo spronare la
crescita e arginare una sempre più marcata perdita di competitività. A tal
proposito può essere utile soffermarsi sull’analisi della produttività del
lavoro in Germania e nei PIIGS (Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia,
Spagna). Se si pone pari a 100 la produttività media nell’eurozona per il
periodo 2000-2008, essa è risultata pari a 68,9 per la Grecia, 53,1 per il
Portogallo, 89,6 per la Spagna. L’Italia ha registrato un valore pari a 92,4
che rappresenta un dato particolarmente negativo perché sintomatico di
un calo tra i più vistosi dell’intera Ue (nel decennio precedente superava
100). La Germania ha invece fatto registrare un ottimo risultato,
assestandosi su 109,7. Altrettanti risultati divergenti si possono rinvenire
in merito alla dinamica dei prezzi tra gli stati. La Germania è riuscita a
tenere sotto controllo le spinte inflazionistiche realizzando riforme del
mondo del lavoro che hanno rimodellato le negoziazioni sindacali e
68
generato politiche di moderazione salariale. Tale strategia non è invece
stata perseguita con successo nei Paesi periferici dell’eurozona che hanno
registrato tassi di inflazione più elevati. Il risultato di una lettura congiunta
delle dinamiche legate alla produttività ed all’inflazione è stato un salto
competitivo della Germania che si è tradotto in un impressionante surplus
commerciale, contrapposto, in modo quasi speculare, all’ingente deficit dei
PIIGS. Quindi la divergenza all’interno dell’Eurozona non è stata né
temporanea né benigna e ha condotto ad una situazione che lo scoppio
della crisi del 2008-2009 ha reso insostenibile. In altri termini l’euro si
trova a pagare oggi il suo “peccato originale”, che consiste nell’aver
erroneamente creduto che attraverso la mera introduzione di una moneta
unica si sarebbe potuta creare convergenza economica senza procedere al
contempo ad uno strettissimo coordinamento delle politiche economiche
dei Paesi membri. L’obiettivo della convergenza è particolarmente
importante anche perché la BCE persegue un’unica politica monetaria per
l’intera eurozona e, malgrado abbia più volte dimostrato la propria
indipendenza dai singoli stati membri, non può non tener conto nella
propria politica dei tassi di quella che è di gran lunga la maggiore
economia europea, ovvero la Germania, che proprio per il suo peso
relativo può fungere da punto di riferimento (“benchmark”). Se dunque le
performance dei Paesi periferici divergessero dalla Germania, la politica
monetaria della BCE potrebbe risultare pro-ciclica, ad esempio, la
69
decisione di aumentare i tassi per tenere a freno un’economia tedesca che
cresce in fretta (e lascia intravedere spinte inflazionistiche), potrebbe
rendere più lunga e difficile l’uscita dalla crisi di uno stato periferico che
necessiterebbe invece di un abbassamento dei tassi. Gli effetti negativi
della divergenza sono inoltre amplificati dal fatto che l’Ue non è uno stato
federale e non presenta quindi significativi meccanismi di trasferimento di
risorse tra stati prosperi e stati in difficoltà da attivare in caso di shock
asimmetrici16, o comunque in presenza di perduranti differenze all’interno
dell’area euro. Certamente il modesto bilancio dell’Unione Europea (pari a
circa l’1% del PIL europeo) non può assolvere a tale compito (come
avviene invece negli USA con il bilancio federale), né tanto meno si può
contare su altri meccanismi “privati”, come ad esempio la spontanea
mobilità dei lavoratori da uno stato all’altro (ancora una volta si pensi agli
Stati Uniti), stanti i limiti derivanti dalle diverse lingue e tradizioni in
Europa, aggravati dal mancato completamento del Mercato Unico che
ancora oggi impone forti restrizioni alla libera circolazione dei lavoratori
(soprattutto, ma non solo, nel comparto dei servizi). I problemi legati
quindi alla solidarietà europea e allo stretto coordinamento delle politiche
economiche, erano stati trascurati sin dall’avvio dell’euro nella speranza
che si sarebbero automaticamente attenuati proprio grazie alle spinte
16
Shock che colpiscono in maniera diseguale i Paesi membri.
70
integrazioniste che la stessa introduzione dell’euro avrebbe generato. I
primi dieci anni di vita dell’euro ci hanno mostrato che ciò in realtà non è
avvenuto, se non parzialmente, e che invece la presenza di una moneta
unica ha svolto il ruolo di incentivo – soprattutto per alcuni Paesi membri –
verso politiche economiche inadeguate e conti pubblici fuori controllo. In
realtà questo pericolo era stato già previsto, ma lo si era evidentemente
sottovalutato. Si era infatti ritenuto sufficiente un controllo ex ante ed ex
post delle politiche fiscali dei Paesi membri attraverso meccanismi di
monitoraggio ed eventuali sanzioni che si sono rivelati tutt’altro che
efficaci. In particolare sin dal 1997 sono stati introdotti degli strumenti che
avrebbero permesso proprio un maggior monitoraggio di eventuali
comportamenti scorretti. Il primo è rappresentato da uno strumento di
controllo ex ante che obbliga gli stati membri a presentare dei
Programmi di Stabilità (PS) alla Commissione e al Consiglio. I PS
devono fornire informazioni non solo sul rapporto deficit/PIL e debito/PIL
ma anche su tutta una serie di ulteriori variabili che includono le spese di
investimento dei governi, il tasso di crescita del PIL reale, l’andamento
dell’inflazione, le dinamiche occupazionali eccetera. Viene anche richiesta
una valutazione qualitativa degli effetti che le politiche di bilancio possono
avere sull’economia reale. Questo strumento è stato dunque pensato per
evitare ex ante deficit eccessivi in capo agli stati membri, ovvero squilibri
all’interno dell’eurozona. Tuttavia tale procedura presenta due forti
71
limitazioni. La prima riguarda l’insieme degli indicatori presi ad esame che
risulta eccessivamente ridotto e non presta sufficiente attenzione a
variabili quali i risparmi privati, altri indicatori di performance dei settori
privati, quota di debito pubblico posseduta all’estero ed altri ancora. La
seconda è determinata invece dalla qualità dell’informazione raccolta
tramite i PS, in quanto i poteri e gli strumenti di monitoraggio della
Commissione sono abbastanza ridotti, limitandosi soprattutto alla raccolta
di quanto viene fornito dagli stati membri, con poche possibilità di
richiedere informazioni più dettagliate ad esempio su singole operazioni
realizzate dai governi con operatori finanziari internazionali. A questo
braccio preventivo si aggiunge il braccio correttivo e, in particolare, la
procedura per deficit eccessivo che mira ad identificare eventuali disavanzi
pubblici eccessivi in capo ai governi ex post, ovvero dopo che si sono
realizzati, e ad avviare meccanismi correttivi che possono sfociare in
sanzioni in caso di mancata ottemperanza da parte dei Paesi interessati.
Anche in questo caso si possono rintracciare forti elementi di debolezza
legati al fatto che l’attenzione viene dedicata soprattutto al deficit, mentre
sarebbe necessario rivolgerla ad un quadro più ampio che includa, tra
l’altro, anche lo stock di debito accumulato, scomposto a sua volte nelle
sue componenti (pubblico e privato) e per tipologia di creditori (ad
esempio nazionali e stranieri). A ciò si aggiunga che la decisione su
un’eventuale sanzione spetta al Consiglio, ovvero agli Stati membri. In un
72
contesto come quello del Consiglio in cui ha luogo una costante
negoziazione (e relativo scambio di “favori”) su molteplici decisioni, è
piuttosto difficile che una vera e propria sanzione ad uno stato membro
venga votata dagli altri stati. Non è un caso che mai nessun Paese sia
stato sanzionato, anzi nel 2005 il Patto di Stabilità e Crescita (PSC) è stato
riformato con l’intento di renderlo meno “stupido”, ovvero meno
dipendente dal rigoroso rispetto del 3% nel rapporto deficit/PIL. È
importante al riguardo ricordare che dietro alla richiesta, poi esaudita, di
un’interpretazione più morbida del PSC ci fossero principalmente Francia e
Germania che avevano sforato gli obiettivi e rischiavano una sanzione.
Alcuni anni dopo sono proprio questi Paesi – la Germania in particolare – a
richiedere a gran voce un’interpretazione quanto mai rigorosa dei criteri.
- 1.9.2 La crisi in Grecia
La crisi greca è emblematica di tutti i limiti sopra esposti sia in merito
al controllo ex ante che a quello ex post, riassumibili in questo modo:
poteri e strumenti insufficienti in capo alle Istituzioni europee (e, in
particolare, alla Commissione europea) e focus eccessivo sul deficit
piuttosto che sull’intero quadro macroeconomico dei Paesi e sul loro
posizionamento competitivo. Lo scoppio della crisi del debito ha dunque
reso manifeste delle debolezze che esistevano sin dall’introduzione
dell’euro e necessarie delle profonde riforme della governance economica
73
dell’Unione europea e, in particolare, dell’eurozona. Nello specifico tali
riforme devono fornire tempestive risposte alle tre seguenti sfide:

Salvataggio dei Paesi in difficoltà, se non addirittura sull’orlo del
default, come nel
caso greco.

Revisione e il rafforzamento del PSC.

Attivazione di meccanismi di stretto coordinamento delle politiche
economiche.
Se ci si limitasse ad affrontare solo una o due di esse, non sarebbe
possibile assicurare all’area euro e all’Ue nel suo complesso, un futuro in
cui non si ripresenteranno crisi come quelle recenti. In particolare, se ci si
limitasse alla creazione di un fondo “salva Stati” e ad un PSC più efficace e
credibile, si potrebbe probabilmente evitare in futuro una crisi come quella
greca che nasce dalla manipolazione dei bilanci pubblici e da conti fuori
controllo. Non si potrebbero invece evitare crisi come quella spagnola o
irlandese che in realtà non originano da deficit eccessivi, né quella italiana
che non nasce tanto dall’esorbitante debito pubblico (con cui l’Italia è
ormai abituata a convivere da molti anni), quanto piuttosto da una perdita
di competitività del Paese sia nei confronti dei partner europei che degli
74
altri grandi competitori a livello internazionale che, a sua volta, si è
tradotta in un decennio di crescita bassa o moderata. Tuttavia la
situazione greca verrà approfondita con maggiore attenzione nel terzo
capitolo dell’elaborato.
Analizzate e spiegate entrambe le crisi, i prossimi due capitoli sono volti ad
esaminare il modo attraverso cui le banche centrali, la Fed in America e la
BCE in Europa, siano intervenute per risolvere i problemi creati
dall'esplosione di queste crisi, mettendo a confronto: struttura, obiettivi e
strumenti di ambedue le banche, che hanno condotto a risultati differenti
nelle due zone.
75
CAPITOLO DUE
Breve introduzione
Lo shock del mercato finanziario globale iniziato ad Agosto del 2007
in America, è stato seguito da un periodo di durissima recessione
economica, che ha colpito dapprima gli Stati Uniti, per poi diffondersi
anche in altri Paesi del mondo. Questo capitolo descrive la risposta
politico-monetaria della Federal Reserve americana di fronte ad una crisi
economico-finanziaria di tali proporzioni. Durante il periodo di crollo
economico, la Fed è ricorsa all'utilizzo di numerosi strumenti di politica
monetaria convenzionale e non, con l'intento di ripristinare il corretto
funzionamento del mercato interbancario e contribuire alla ripresa
dell'economia reale, raggiungendo gli obiettivi che per mandato è
vincolata a perseguire, ossia assicurare massimo livello di impiego e
stabilità dei prezzi. Di conseguenza, questo intero capitolo ruoterà intorno
all'analisi di ciò che la Fed ha fatto per incoraggiare la crescita economica
rimanendo sempre molto attenta a mantenere un basso livello d'inflazione.
Verrà inoltre esaminato in che modo l'espansione e poi la frenata della
bolla immobiliare abbiano contribuito a far cadere il Paese in un periodo di
profonda recessione.
76
2.1 La gestione della politica monetaria in periodi di crisi: La
visione della Fed
La politica adottata dalla Banca Centrale americana nell’affrontare i
problemi finanziari derivanti dalla crisi dei mutui sub-prime, ha seguito una
particolare impostazione determinata dall’eccezionalità dell’evento. Le crisi
finanziarie infatti, oltre a creare problemi per gli intermediari direttamente
coinvolti,
determinano
effetti
sull’intero
sistema
economico,
con
conseguenze negative per la produzione e l’occupazione. D’altra parte la
Fed ha il compito istituzionale di perseguire, oltre agli obiettivi finali di
crescita e stabilità dei prezzi, anche degli obiettivi finanziari, in particolare
un basso livello dei tassi a lungo termine, che a sua volta, richiede bassa
inflazione e stabilità finanziaria. In assenza di appropriati interventi di
politica economica, una crisi come quella del 2007-2008 rischia però di
innescare una spirale perversa in cui il minor valore delle attività
(finanziarie e reali) possedute da famiglie ed imprese riduce il valore del
loro collaterale rendendo più difficile l'ottenimento del credito. In questo
modo consumi e investimenti si riducono, contribuendo a far diminuire il
prodotto e con esso il valore degli asset. In questa situazione, l’usuale
condotta della Fed (e più in generale di tutte le Banche Centrali) con
interventi graduali, mono-direzionali e ripetuti per lunghi periodi di tempo,
77
sui tassi ufficiali, diventa del tutto inappropriata. Questo atteggiamento
“prudenziale” ha lo scopo di eliminare la possibilità di iper-reazione da
parte della Banca Centrale, che determinerebbe volatilità nei mercati e
richiederebbe successivi provvedimenti compensativi di segno opposto.
Un’eventuale iper-reazione viene infatti considerata controproducente sia
per gli errori di previsione in cui potrebbero essere indotti gli operatori di
mercato che per gli eventuali danni arrecati alla reputazione della stessa
autorità monetaria. Secondo importati esponenti della Fed, davanti
all'eccezionalità delle crisi finanziarie, l'atteggiamento corretto che la
Banca Centrale deve assumere è completamente diverso. In tali
circostanze infatti, le notizie che giungono al mercato riguardo la
situazione economica dei debitori (o emettitori) – che sono essenziali per
una corretta valutazione dei rischi di insolvenza – diventano quanto mai
incerte, determinando una fortissima asimmetria informativa fra debitori e
possessori delle attività. Per i secondi diventa pertanto molto difficile
valutare la solvibilità dei primi, con la conseguenza di vedere ridotta buona
parte della loro capacità di discriminare tra debitori “rischiosi” e debitori
“sani”. Queste difficoltà determinano un generale aumento del rischio
percepito dagli investitori che causa un’ulteriore perdita di valore delle
attività a rischio e che tende ad allargarsi anche ai soggetti ed ai settori
non direttamente coinvolti nella crisi. Buona parte del collaterale fornito
come garanzia è infatti costituito da quelle attività il cui valore si sta
78
riducendo e la cui la valutazione da parte del mercato sta diventando
sempre più difficile. La politica monetaria, secondo gli esponenti della Fed,
deve quindi mutare impostazione. In periodi di incertezza e di crisi
finanziaria, le azioni della Banca Centrale devono essere rapide, decise e
sufficientemente elastiche. Vengono quindi considerate ammissibili sia
operazioni condotte con un’ottica di breve e brevissimo periodo che il
ricorso a strumenti ad hoc. Tale mutata impostazione conta la possibilità
che il costo per la società nel suo complesso sia più alto nel caso di
interventi
non
sufficientemente
espansivi
(che
potrebbero
lasciar
precipitare la crisi) rispetto al caso opposto di interventi decisamente
espansivi, i quali avrebbero invece la capacità di arrestare la crisi. In
particolare, dal punto di vista sociale una politica troppo lenta e graduale
può risultare più costosa di una caratterizzata da interventi decisi e
tempestivi, in grado anche di influenzare le aspettative degli operatori
rispetto all’impegno che l’autorità monetaria metterebbe in atto per
risolvere la crisi stessa. Peraltro, nel caso in cui si rendessero
successivamente necessarie misure correttive di segno opposto, queste
potranno essere introdotte con meno pericolo una volta che la crisi sia
stata risolta. Non è superfluo ritornare su questi ultimi due punti. In
primis, va sottolineata l’importanza attribuita dalla Fed alla sua capacità di
incidere, in condizioni eccezionali, sulle aspettative degli operatori in tempi
brevi e nella direzione desiderata. È infatti nell’opinione della Banca
79
Centrale USA che senza una significativa iniezione di fiducia agli investitori
la crisi non potrà mai essere superata. La strategia migliore per l’autorità
monetaria è quindi quella di eseguire interventi “forti”, accompagnati da
dichiarazioni ufficiali riguardanti la sua determinazione a combattere quasi
ad ogni costo la crisi. Una politica di “non intervento” (no bail-out) –
condotta con l’intento di far ricadere sugli operatori (presunti) responsabili
della crisi i costi generati dalla mancanza di liquidità – rischia di diventare
estremamente penalizzante per l’intero sistema economico anche per via
delle conseguenze indotte dal generale deterioramento delle aspettative.
In secondo luogo, la Fed sembra essere molto risoluta anche nei confronti
di chi sottolinea il rischio che interventi eccessivamente espansivi possano
indurre futuri atteggiamenti di moral hazard basati sulla convinzione che,
comunque, la Banca Centrale sarà ancora pronta a intervenire. Anche con
riferimento a questo aspetto la Fed non ha esitato a rimarcare che, una
volta superata la crisi, sia possibile introdurre nuove norme che de facto
limitino o addirittura impediscano l’insorgere di tali atteggiamenti.
È assolutamente scontato che l’eccezionalità degli interventi, giustificata
dai rischi indotti dallo scoppio della crisi, non deve far perdere di vista alla
Banca Centrale i suoi obiettivi finali. La politica monetaria ancorché
decisamente espansiva non deve generare aspettative inflazionistiche, che
aggiungerebbero ulteriore disordine ed incertezza agli elementi negativi di
rischio già presenti nei mercati finanziari. I mercati vanno quindi
80
costantemente informati e avvisati che gli interventi in atto sono la
conseguenza della particolare fase di emergenza (che comporta il ricorso a
ciò che a tutti gli effetti è una clausola di salvaguardia) e non il risultato di
una posizione permanentemente più morbida su crescita e, soprattutto,
inflazione.
2.2 La crisi e la reazione della Fed
- 2.2.1 Prima della crisi finanziaria.
Mentre l'economia statunitense usciva dalla breve recessione del 2001,
il tasso di disoccupazione continuò a salire fino a metà del 2003.
Spaventata all'idea che l'economia potesse ricadere in recessione, la Fed
mantenne il tasso sui fondi Federali17 estremamente basso. La Fed,
attraverso il FOMC (Comitato Federale del Mercato Aperto), interviene
fissando un tasso di interesse di riferimento sui fondi Federali per questo
tipo di operazioni. La finalità è ovviamente quella che il mercato si allinei a
17
Tasso d’interesse a brevissimo termine sul mercato statunitense dei Federal funds in cui si
scambiano le riserve in eccesso detenute dalle aziende di credito presso la Federal Reserve.
Sebbene si tratti di un tasso negoziato sul mercato, costituisce un riferimento per l’azione della
Riserva federale; di conseguenza è da considerarsi un importante indicatore dell’orientamento
della politica monetaria statunitense.
81
questo tasso. Il tasso di interesse di riferimento sui Federal Funds
raggiunse, nella metà del 2003, un bassissimo 1%. Quando l'attività
cominciò a riprendersi ed i prezzi tornarono a salire, il tasso di interesse
sui fondi Federali venne gradualmente alzato fino a raggiungere nella
metà del 2006, una percentuale del 5,25%. Alcuni economisti, ad oggi,
accusano la Fed di aver tenuto i tassi a breve termine troppo bassi troppo
a lungo dopo che la recessione del 2001 era terminata, per fare in modo
che il momento d'espansione non si arrestasse. Questo avrebbe causato,
secondo alcuni critici, una domanda sempre crescente nel settore
immobiliare che portò alla formazione di una bolla, bolla che, come
spiegato nel capitolo precedente, era dovuta anche ad altri fattori
importanti tra cui ad esempio condizioni di credito troppo permissive da
parte degli istituti finanziari. Il passaggio nel finanziamento immobiliare da
mutui a tasso fisso a mutui a tasso variabile ha reso questo settore ancora
più vulnerabile. Una conseguenza della stretta finanziaria che seguì questo
periodo, fu proprio l'esplosione di questa bolla dei prezzi. Si noti però, che
nel primo capitolo di tale elaborato, viene fornita un'alternativa a questo
punto di vista, formulata principalmente dall’ex presidente della Fed Ben
Bernanke, il quale sosteneva che i bassi tassi di interesse sui mutui che
hanno causato l'esplosione della bolla immobiliare, furono in realtà a loro
volta causati da un “eccesso di risparmio globale”, sul quale la Fed aveva
ben poco controllo.
82
- 2.2.2 Le prime fasi della crisi e il limite inferiore pari a zero.
L'esplosione della bolla immobiliare portò all'inizio della crisi finanziaria
che colpì sia le banche che altri segmenti del campo finanziario coinvolti
con il settore immobiliare. Mentre il tasso di inadempienza sui mutui
immobiliare cresceva fino a raggiungere numeri record, gli istituti finanziari
esposti al mercato dei mutui subirono enormi perdite di capitale e persero
l'accesso alla liquidità. La natura contagiosa di questa situazione fu subito
chiara e di conseguenza anche altri tipi di prestiti e crediti vennero colpiti
negativamente. Tutto questo non poté che riflettersi a sua volta
sull'economia reale, e la mancanza di credito ebbe presto effetti
drammatici anche sulla produzione e sulla domanda. Nel dicembre del
2007, l'America era in recessione. Mentre gli effetti dell'esplosione della
bolla immobiliare si facevano sembra più palesi e drammatici, la Fed
rispose abbassando sia il tasso di interesse di riferimento sui fondi Federali
che il tasso di sconto (discount rate), ossia il tasso di interesse al quale un
istituto di credito, ad esempio una banca, paga i fondi monetari di breve
durata direttamente alla banca centrale. A partire dal 18 settembre 2007,
fino al 16 dicembre 2008, il tasso di interesse sui fondi Federali passò dal
5,25% ad una percentuale variabile tra 0% e 0,25%, dove è fermo ancora
oggi. Fu presto chiaro che con il livello dei tassi di interesse a zero o quasi,
83
ulteriori operazioni convenzionali di mercato aperto non potevano essere
intraprese per fornire maggiori stimoli all'economia. La decisione di
mantenere i tassi di interesse ad un livello prossimo allo zero, fu senza
precedenti. In primo luogo, i tassi di interesse a breve termine non erano
mai stati ridotti a zero nella storia della Federal Reserve. In secondo
luogo, la Fed ha aspettato molto più del solito prima di intraprendere una
politica monetaria di restringimento dopo la ripresa economica americana.
Difatti, nelle due crisi precedenti questa, la Fed aveva iniziato a rialzare i
tassi di interesse meno di tre anni dopo che la recessione era terminata.
- 2.2.3 Assistenza diretta durante e dopo la crisi finanziaria.
Nonostante l'enorme riduzione dei tassi di interesse, i problemi di
liquidità erano ancora ben lontani da una risoluzione. Divenne chiaro che il
tradizionale meccanismo di trasmissione che collegava la politica
monetaria alle attività nell'economia reale, non stava funzionando. Le
autorità monetarie iniziarono a temere che la liquidità fornita dal sistema
bancario non raggiungesse altri parti del sistema finanziario. La Fed,
dunque, ha svolto un ruolo importante, fornendo liquidità e assicurandosi
che il panico fosse sotto controllo.
La Fed dispone infatti di uno strumento chiamato sportello di sconto, che
utilizza regolarmente per erogare prestiti a breve termine agli istituti
bancari. Una banca che si ritrovi improvvisamente a corto di fondi ed
84
abbia un collaterale adeguato, presso la Fed può contrarre un prestito
overnight pagando il tasso di sconto, ossia il tasso applicato a questo tipo
di finanziamenti. La finestra di sconto è sempre operativa; alla Fed non
servono misure straordinarie per fare credito alle banche. Tuttavia,
durante la crisi vennero apportate alcune modifiche a questo meccanismo,
per rassicurare le banche in merito alla disponibilità di credito. Inoltre, al
fine di immettere maggiore liquidità nel sistema, venne estesa la scadenza
dei prestiti erogati attraverso lo sportello di sconto, che hanno di norma
una durata di ventiquattr'ore. In sintesi quindi, la Fed ha usato con
determinazione lo sportello di sconto - il meccanismo attraverso cui di
solito eroga prestiti di ultima istanza alle banche - per fare in modo che gli
istituti di credito avessero accesso ai fondi e placare in questo modo il
panico generatosi. Ma il sistema finanziario statunitense è molto più
complesso di quello esistente nel 1913, quando fu creata la Fed. A
differenza di allora, oggi vi sono molte tipologie diverse di istituzioni
finanziarie. Inoltre la crisi finanziaria ha avuto i connotati di una crisi
bancaria, ma ha interessato società di varia natura in diversi contesti
istituzionali. Di conseguenza, una volta che il tasso di interesse sui fondi
Federali aveva raggiunto quota zero, il solo utilizzo di strumenti tradizionali
non consentiva di aggiungere ulteriori stimoli all'economia. Per eludere
questo problema, la Fed decise di adottare una serie di misure non
tradizionali sperando di rinvigorire l'attività economica del Paese. Sembrò
85
quindi necessario, attivare altri meccanismi oltre allo sportello di sconto,
varando molteplici programmi, come speciali linee di credito e di liquidità,
per erogare prestiti ad altre categorie di istituzioni finanziarie, in
ottemperanza alla regola di Bagehot18 secondo cui il modo migliore per
fermare il panico è fare credito alle società finanziarie a corto di fondi.
Dunque la liquidità è andata non solo alle banche, ma al sistema
finanziario più in generale, con l'obiettivo di favorire la stabilità e rimettere
in moto la macchina del credito. La Fed, quindi, ha esercitato la classica
funzione di prestatore di ultima istanza che le banche centrali svolgono da
qualche centinaio di anni. Diversamente da quanto accaduto in passato
però, questa azione si è svolta in un contesto istituzionale differente dal
tradizionale sistema bancario. A differenza dei prestiti erogati alle banche
attraverso lo sportello di sconto, gli altri finanziamenti concessi dalla Fed
erano forme di credito straordinarie, per attivare le quali è stato
necessario ricorrere a poteri eccezionali. Infatti, secondo quanto stabilito
dalla sezione 13(3) del Federal Reserve Act, in circostanza inusuali ed
urgenti la Fed può fare credito a soggetti diversi dalle banche. La Federal
Reserve, introdusse un numero di linee di credito d'emergenza per fornire
18
Walter Bagehot è stato un giornalista britannico che scrisse di politica, affari economici ed
argomenti correlati. Scrisse per svariati giornali, ma acquistò fama come iniziale direttore del
quotidiano “The Economist”.
86
maggiore liquidità direttamente ai mercati e alle imprese finanziarie. La
prima linea fu introdotta nel dicembre 2007, e diverse altre furono
aggiunte col peggiorare della crisi a settembre 2008. In sostanza la Fed
fornì assistenza attraverso iniezioni di liquidità in maniera tradizionale con
lo sportello di sconto, ma anche con le nuove linee di credito appena
menzionate. La quantità d'assistenza fornita fu di gran lunga maggiore
rispetto
alle
normali
capacità
di
prestito
della
Fed.
Questi furono dunque i provvedimenti messi in campo per riattivare la
macchina del credito bancario. I programmi varati dalla Fed nel suo ruolo
di prestatore di ultima istanza, in un certo qual senso sortirono gli effetti
sperati: fermarono le corse ai disinvestimenti nei confronti di diverse
istituzioni finanziarie e rimisero in moto i mercati finanziari. La maggior
parte di tali programmi, introdotti perlopiù nell'autunno del 2008, giunse a
conclusione nell'arco di circa diciotto mesi.
- 2.2.4 Ulteriori stimoli: Misure non convenzionali
1) Quantitative Easing
A dicembre del 2008 la politica monetaria convenzionale aveva
esaurito la sua efficacia. Non era possibile tagliare nuovamente il tasso sui
Federal Funds, eppure l'economia necessitava di ulteriore sostegno, poiché
nel 2009 era in atto una rapida contrazione. Nuove misure erano
necessarie per favorire la ripresa, perciò la Fed fece ricorso ad una politica
87
monetaria meno convenzionale. Lo strumento principale che venne
utilizzato fu l'acquisto di titoli su larga scala (Large-Scale Asset Purchases,
o LSAP, nel gergo della Fed), più comunemente noto come “Quantitative
Easing” o “Allentamento Quantitativo”. Il Quantitative Easing non è che un
altro modo per attuare una politica monetaria espansiva sostenere
l'economia.
-Come funziona questo meccanismo?
Per influenzare i tassi di interesse a lungo termine, la Fed ha iniziato ad
acquistare volumi molto consistenti di buoni del Tesoro statunitense
(Treasury) e di Mortgage-Backed securities (MBS)19 di Fannie Mae e
Freddie Mac. Tutti questi titoli erano garantiti dal governo degli Stati Uniti,
o perché rappresentativi del debito Federale (nel caso dei Treasury) o
perché emessi da due agenzie di cui il governo si era fatto garante dopo
averle poste in amministrazione controllata. La Fed ha condotto tre
tornate di Quantitative Easing, la prima annunciata nel marzo del 2009
(nota come QE1), la seconda nel novembre 2010 (QE2) e la terza nel
settembre 2012 (QE3). Questi sono stati i tre maggiori programmi in
termini di volume e di impatto sul bilancio della Fed. Nel loro insieme le tre
tornate di QE hanno incrementato gli attivi della Fed di oltre 4500 miliardi
19
Titoli obbligazionari rivenienti da operazioni di cartolarizzazione di prestiti ipotecari.
88
di dollari. Ricapitolando, prima della crisi la Fed deteneva buoni del Tesoro
per un valore di 800 miliardi di dollari. Al termine degli acquisti, il 29
ottobre 2014, la Fed aveva accumulato 4500 miliardi dollari in asset.
- Perché acquistare tutti questi titoli?
L'idea di fondo è semplice: con l'acquisto di beni del Tesoro o MBS di
agenzie, la Fed riduce la disponibilità di questi titoli sul mercato,
costringendo gli investitori ad accontentarsi di un rendimento più basso.
Per dirla in altro modo, se l'offerta di questi titoli diminuisce, gli investitori
sono disposti a pagare un prezzo più alto per acquistarli. Difatti il prezzo
ed
il
rendimento
di
un
titolo
sono
inversamente
correlati.
Quindi, acquistando buoni del Tesoro, iscrivendoli a bilancio e riducendone
la disponibilità sul mercato, la Fed ha di fatto ridotto i tassi dei Treasury a
lunga scadenza, come pure quelli degli MBS. Inoltre, la minore offerta di
titoli di stato e MBS ha indotto molti investitori a privilegiare altri tipi di
titoli, come le obbligazioni societarie, spingendo al rialzo il prezzo e al
ribasso il rendimento anche di queste emissioni. Per effetto complessivo di
tali dinamiche, si è registrata una diminuzione dei rendimenti di una vasta
gamma di titoli. Ovviamente, un calo dei tassi di interesse produce un
effetto stimolo sull'economia. Questa non è altro che la solita politica
monetaria sotto mentite spoglie: anziché agire sui tassi a breve termine, la
Fed è intervenuta su quelli a lungo termine, obbedendo però alla stessa
89
logica di fondo che consiste nel ridurre i tassi per dare impulso
all'economia.
- Come sono stati pagati i 4500 miliardi di dollari per l'acquisto dei titoli?
La risposta è semplice: attraverso l'accredito delle somme corrispondenti
sui conti bancari degli investitori che li hanno venduti. Questi conti bancari
figurano come riserve che le banche detengono presso la Fed in appositi
conti di deposito, detti conti di riserva. La Fed infatti, funge da banca per i
normali istituti bancari. Quindi, in sostanza, la Fed ha pagato l'acquisto dei
titoli incrementando le riserve che le banche detenevano nei propri conti
presso la Fed stessa. Bisogna inoltre sottolineare che molti tendono a
confondere la politica fiscale e la politica monetaria. La prima viene
attuata dal governo attraverso la gestione della spesa pubblica e della
tassazione, mentre la seconda viene condotta dalla banca centrale
attraverso la manipolazione dei tassi di interesse. Si tratta di strumenti
molto diversi fra loro. In particolare, gli acquisti dei titoli effettuati dalla
Fed nell'ambito dei programmi QE non costituiscono una forma di spesa
pubblica, perché non comportano un esborso monetario definitivo. I titoli
acquistati presto o tardi vengono rivenduti sul mercato, con il ricavo del
valore corrispondente. A ben vedere, la Fed guadagna un interesse sui
titoli che detiene in portafoglio e quindi realizza un profitto sulle operazioni
di QE. Negli ultimi anni circa 450 miliardi di dollari di tali profitti sono stati
trasferiti al dipartimento del Tesoro, che li ha impiegati per ridurre il
90
deficit. Pertanto queste operazioni non provocano un aumento del
disavanzo pubblico, ma piuttosto una sua diminuzione.
2) Forward Guidance
Oltre agli acquisti di titoli, l'altro strumento che la Fed ha deciso di
utilizzare dopo aver esaurito la possibilità di ridurre i tassi di interesse a
breve termine, è la comunicazione sulla politica monetaria. La Fed,
spiegando chiaramente i suoi movimenti, ha permesso agli investitori di
comprendere meglio i suoi obiettivi ed i suoi piani, e la politica monetaria
in questo modo è divenuta molto più efficace. La Fed ha preso diversi
provvedimenti per favorire una maggiore trasparenza sulla politica
monetaria e fare in modo che gli investitori capissero le finalità delle sue
decisioni. Si tratta di un approccio innovativo con il quale la Fed tenta di
spiegare la natura dei suoi provvedimenti. Un'altra recente novità sul
fronte della comunicazione, è stata la pubblicazione di un documento in
cui viene descritto l'approccio fondamentale della politica monetaria,
quantificando per la prima volta il concetto di stabilità dei prezzi, che
secondo la Fed consiste in un tasso di inflazione del 2%. Infine, la Fed ha
iniziato a fornire agli investitori ed al pubblico anche una “forward
guidance” sul futuro andamento del tasso sui Federal funds, una serie di
indicazioni che rispecchiano la sua lettura delle condizioni economiche. In
altre parole, data la sua interpretazione del quadro macroeconomico, la
91
Fed suggerisce al mercato quale potrebbe essere la traiettoria futura dei
tassi di interesse. Quanto più gli investitori hanno chiara visione dei
programmi intrapresi dalla Fed, tanto più l'incertezza sui mercati finanziari
diminuisce.
2.3 “Exit Strategy”: Normalizzare politica monetaria dopo QE
Il 29 ottobre 2014 la Fed ha annunciato la fine della terza tranche di
Quantitative Easing, il programma di acquisto titoli del Tesoro e bond
garantiti da mutui, iniziato nel lontano 2008.
La Borsa alla vigilia,
attendeva di sapere se insieme alla fine del QE sarebbe arrivato anche un
rialzo dei tassi. La decisione della Fed fu di portare avanti politiche
espansive, lasciando i tassi prossimi allo zero ancora per “un considerevole
periodo di tempo.”20
Ad ottobre 2014, quindi, si è conclusa un’epoca, durata sei anni, durante
cui la Fed ha lanciato ben tre Quantitative Easing. Dal novembre 2008 ad
oggi la banca centrale americana ha accumulato un portafoglio titoli
valutabile in circa 4mila miliardi di dollari. La Fed è giunta alla decisione di
chiudere i rubinetti alla luce di “un sostanziale miglioramento nell’outlook
del mercato del lavoro dall’inizio dell’attuale programma di acquisto di
20
Dichiarazione del FOMC del 28.10.14
92
asset.”
21
L’economia statunitense mostra, secondo i vertici della sua
banca centrale, “sufficiente forza per sostenere progressi verso la massima
occupazione nel contesto di una stabilità dei prezzi.”
21
Si considera
“relativamente diminuita” la probabilità di un’inflazione “persistentemente
sotto il 2%” sintomo di fragilità della crescita. La chiusura del rubinetto
erogante denaro, stampato dalla Fed per drogare i mercati non ha causato
il panico in borsa come qualcuno prevedeva. Ciò è dovuto principalmente
al fatto che Janet Yellen, la prima donna a ricoprire il ruolo di governatrice
della Federal Reserve, ed i governatori dei distaccamenti regionali della
Fed hanno deciso di mantenere i tassi di interesse vicini allo zero fino a
quando il livello di inflazione negli USA non tornerà ad avvicinarsi al 2%.
In questo modo, banche e investitori continueranno ad avere accesso al
denaro a costo zero per proseguire con le proprie operazioni speculative.
Inoltre, la Fed non intende disfarsi a breve dei titoli che ha in portafoglio,
piuttosto inizierà a farlo in maniera graduale sempre in concomitanza con
il rialzo del livello di inflazione e dei tassi di interesse, secondo gli analisti
non prima della metà del 2015. Inoltre, dal punto di vista della Fed, una
rapida vendita dei titoli, specialmente quelli di stato, potrebbe causare
volatilità nei mercati, mentre una vendita graduale e calcolata non
esporrebbe la banca a tale rischio. Infatti, piuttosto che vendere titoli, la
21
Dichiarazione del FOMC del 28.10.14
93
Fed ha in programma di aumentare i tassi di interesse del mercato in
primo luogo attraverso un aumento del tasso di interesse che paga alle
banche sulle riserve tenute presso la Riserva Federale, ma anche
attraverso l'uso su larga scala di “reverse repos”. Tuttavia, nonostante le
schiarite del ciclo economico, la cautela sull'evoluzione dei tassi resta un
punto fermo per la banca centrale USA guidata da Janet Yellen. La Fed
considera infatti appropriato un livello del costo del denaro basso per un
considerevole lasso di tempo. I governatori hanno sottolineato, nei mesi
che sono seguiti alla fine del terzo QE, di poter essere pazienti nell'iniziare
a normalizzare la politica monetaria. Con il tasso di disoccupazione al
5,5%, il mercato del lavoro statunitense in forte espansione e l’economia
che cresce ad un tasso di circa il 3%, la Federal Reserve non ha
motivazioni reali per mantenere i tassi di interesse al livello zero ancora a
lungo.
In un comunicato senza sorprese, e senza dissensi, il FOMC
segnala che almeno fino a giugno 2015 i tassi saranno fermi, mentre si
valutano l’evoluzione dei dati e gli sviluppi finanziari e internazionali. La
Fed prende tempo per valutare i rischi sui propri obiettivi: aspettare
troppo ad alzare può portare ad un surriscaldamento nel mercato del
lavoro, ormai alla soglia della piena occupazione; d’altra parte alzare
troppo presto, con l’inflazione addirittura in territorio negativo, potrebbe
innescare una spirale disinflazionistica. La Fed prende tempo per valutare i
rischi sui propri obiettivi: aspettare troppo a lungo prima di rialzare i tassi
94
può portare ad un surriscaldamento nel mercato del lavoro, ormai alla
soglia della piena occupazione; d’altra parte alzarli troppo presto, con
l’inflazione addirittura in territorio negativo, potrebbe innescare una spirale
disinflazionistica. La Federal Reserve non ha fretta di alzare il costo del
denaro negli Stati Uniti. In una riunione tenutasi a gennaio 2015, molti
governatori hanno fatto notare che un rialzo prematuro dei tassi potrebbe
frenare la ripresa apparentemente solida dell’attività economica e delle
condizioni del mercato del lavoro, mettendo a repentaglio i progressi per il
raggiungimento degli obiettivi per la massima occupazione ed un’inflazione
al 2%.
2.4 Possibile scenario futuro: Preoccupazioni ed aspettative
La fine del Quantitative Easing, avvenuta ad ottobre 2014, ha
rappresentato il primo passo verso una fase di normalizzazione della
politica monetaria, che, come appena spiegato, verrà attuata attraverso
l’incremento dei tassi di interesse. Nonostante la lentezza e la cautela
dimostrata dalla Fed in questi ultimi mesi, il percorso verso il rialzo dei
tassi sembra probabile ed imminente. La Fed potrebbe decidere di
aumentare di un +0,25% i tassi di interesse, tra giugno e settembre 2015,
dal momento che i dati relativi alla ripresa economica sono abbastanza
solidi, sebbene l'inflazione rimanga ancora lontana dalla soglia del 2%.
Dunque, sembrerebbe intravedersi all’orizzonte la concreta possibilità di un
95
rialzo dei tassi di interesse americani da parte della Fed. Tuttavia il costo
del denaro resta per ora stabile allo 0-0,25%, infatti la Federal Reserve, in
uno dei suoi più recenti comunicati (marzo 2015) evita l’utilizzo del
termine “paziente” a proposito delle scelte e di politica monetaria che la
banca centrale americana metterà in atto nei prossimi mesi. Con un
arguto gioco di parole Janet Yellen ha però affermato nel suo discorso che
anche se il termine “paziente” è stato eliminato dal comunicato stampa
diffuso dalla Fed ciò non significa che la banca centrale americana sarà
impaziente sul rialzo dei tassi. Si tratta di un modo sibillino per dire che un
rialzo dei tassi è ormai molto probabile nel medio termine ma che molto
dipenderà dalle variabili in gioco nell’economia americana e nello scenario
internazionale. Le ipotesi in campo sono quelle di giugno, luglio, settembre
ed ottobre. In ogni caso la politica economica della Fed rimarrà comunque
accomodante ancora per qualche tempo. Le variabili più importanti da
considerare per mettere in campo un reale rialzo dei tassi, che la Fed
vorrebbe riportare ad un livello normale tra il 3,5 %e il 4%, sono i
miglioramenti
del
mercato
del
lavoro
americano
e
l’andamento
dell’inflazione, di cui si dovrebbe poter presumere un ritorno ad un livello
prossimo al 2% nel medio termine.
96
- 2.4.1 ANALISI DELLE VARIABILI:
1) L'economia USA
La prima variabile è sicuramente quella meno preoccupante, dal
momento
che
secondo
le
stime
degli
operatori
finanziari,
la
disoccupazione americana scenderà nel 2015 al 4,9%-5,1% ossia ad un
livello inferiore a quello che caratterizza la disoccupazione di lungo
periodo (5,2%-5,5%). L’inflazione americana invece, potrebbe rimanere a
lungo più bassa dei livelli auspicati dal momento che le previsioni la
danno, per il 2015, ferma tra lo 0,6% e lo 0,8%. A tal proposito occorre
segnalare che la Fed ha rivisto a ribasso tutte le sue stime relative
all’andamento dell’economia americana nel 2015 non solo riguardo
all’inflazione (stimata a dicembre 2014 ad un livello dell’1%-1,6% nel
2015) ma anche riguardo alla crescita (attualmente stimata ad un livello
del 2.3%-2.7% per il 2015 e il 2016, contro il 2,5% - 3% stimato a
dicembre 2014).
2) Il super dollaro
A questi dati macroeconomici occorre aggiungere un altro elemento
che non farà altro che rallentare la crescita USA perché frenerà le
esportazioni americane: il dollaro forte. Un rialzo dei tassi troppo forte o
troppo rapido creerebbe solo le condizioni per uno shock sull’economia
americana dal momento che, sebbene gli USA siano in chiara ripresa
97
economica, il dollaro è salito del 27% da maggio 2014 a marzo 2015 e
probabilmente l’andamento del dollaro resterà tale ancora a lungo, con il
Quantitative Easing in atto nell'eurozona. Quel che occorre specificare è
che un dollaro forte costituisce un freno sia alla ripresa economica USA,
evidente ma non fortissima, come anche all’inflazione, dal momento che il
super dollaro frena le esportazioni statunitensi. Sfidare i tassi e non
tenere conto dell’andamento del mercato valutario sarebbe una mossa
sconsiderata da parte della Fed che proprio per questo ha deciso di
adottare un atteggiamento “data dependent”, vale a dire che, in ogni sua
riunione, la Fed valuterà i dati macroeconomici e deciderà poi di
conseguenza, sempre guidata da un atteggiamento complessivo di
prudenza e cautela.
3) Il prezzo del petrolio
Ultima variabile da considerare è il prezzo del petrolio. Le decisioni
della Fed hanno determinato una chiara inversione delle quotazioni di
Brent e WTI. Il recente crollo del prezzo del petrolio non solo non sarà
fermato dagli annunci della Fed ma potrebbe addirittura continuare
invariato nei prossimi mesi, secondo quanto riportato in un rapporto
pubblicato recentemente dalla Banca dei regolamenti internazionali (BRI).
Il documento rileva che oltre all’aumento delle scorte di greggio
americane, le compagnie petrolifere maggiori potrebbero lasciare invariati
98
produzione e prezzo del petrolio per aumentare i volumi di vendita. Tale
strategia sarebbe determinata dalla grande quantità di debiti accumulati
da questo settore pari a circa 2.500 miliardi di dollari nel 2014 a livello
globale, contro i 1000 miliardi stimati nel 2006. Si tratterebbe di un
fattore che potrebbe determinare gravi rischi per tutta l’economia
mondiale e per il quale occorrerebbe una politica condivisa a livello
internazionale, dal momento che negli Stati Uniti le compagnie petrolifere
continuano ad estrarre greggio e a produrre shale oil, per pagare gli
interessi sui debiti contratti, pur senza rendersi conto che questa strategia
innesca un circolo vizioso che continuerà a far calare le quotazioni del
greggio.
2.5 Il dilemma della Fed
Le tante variabili in gioco dimostrano perché, per la Federal
Reserve, decidere come procedere non sia affatto facile. Negli ultimo
incontri della banca centrale americana alcuni dei governatori si sono
dichiarati contrari ad un immediato rialzo dei tassi sostenendo che
l’apprezzamento del dollaro deve portare a tenere bassi i tassi di interesse
per più tempo; altri invece ritengono che il dollaro forte rappresenti uno
stimolo all’economia e che sia quindi giunto il momento di rialzare i tassi.
Gary Cohn, presidente e direttore operativo di Goldman Sachs, osserva
che la Fed “continuerà a trovarsi in questo arduo dilemma in cui vorrebbe
99
alzare i tassi di interesse ma è frenata dalle circostanze e preoccupata
dalla forza del dollaro, mentre altri Paesi nel mondo continueranno a
svalutare.”22 La crescita economica, con il rapido miglioramento del
mercato del lavoro, giustificherebbe infatti un aumento dei tassi di
interesse; d’altro canto, l’indebolimento dell’inflazione previsto per metà
2015 potrebbe esigere di rimandare la misura per permettere all’economia
di spingere ancora più forte sull’acceleratore. Janet Yellen, in alcune
dichiarazioni rilasciate a Febbraio 2015, ha ammesso che il calo del prezzo
del petrolio ed il rafforzamento del dollaro stanno allontanando l’inflazione
dai valori previsti dalla banca centrale. Ma finora la Fed non ha dato
indicazioni su come si comporterà a giugno. “Non sarebbe positivo per i
mercati se la Fed volesse alzare comunque il costo del denaro quando
l’inflazione non dà segni di ripresa”, afferma Thomas Costerg, economista
della Standard Chartered Bank a New York. Gli economisti, dunque, si
dividono tra coloro che sono a favore di un aumento dei tassi e quelli che
invece si dichiarano contrari. Alcuni, tra cui Nouriel Roubini, Professore alla
New York University e noto economista di origini iraniane, ritengono che la
Fed farebbe meglio a non iniziare troppo presto la stretta monetaria, che
potrebbe condurre ad un “atterraggio duro” o “hard landing” dell'economia
americana, costringendo successivamente la banca centrale a tornare sui
22
Dichiarazione rilasciata al “New York Times” l’11.05.2015
100
propri passi, perdendo di credibilità. Proprio per questo, in un'intervista
alla trasmissione “Fast Money” Roubini spiega che la Fed dovrebbe
prendersi del tempo, magari monitorando attentamente le variazioni del
dollaro sul mercato valutario, prima di intraprendere un politica monetaria
restrittiva. Se il dollaro dovesse apprezzarsi ancora nei prossimi mesi,
questo si tradurrebbe in un contraccolpo per l'economia USA, sia in termini
di minore competitività delle sue aziende, sia di impatto negativo
sull'inflazione. Lo scenario non sembra così improbabile, dato che altre
banche centrali del pianeta, come per esempio la BCE, si stanno
muovendo nella direzione opposta a quella intrapresa dalla Fed, che ha
interrotto ad ottobre 2014 il piano di allentamento monetario. Dunque
secondo Roubini, la Fed non dovrebbe alzare troppo presto i tassi sebbene
i fondamentali su crescita, occupazione ed inflazione la indicherebbero
come la mossa più saggia. Molti economisti e gestori hanno infatti evocato
il precedente storico del 1937, quando la banca centrale americana
sovrastimò la robustezza della ripresa che seguì alla Grande Depressione e
mosse al rialzo con troppo anticipo, provocando il ritorno dell’economia
americana in una recessione che solo il riarmo della Seconda Guerra
Mondiale interruppe. Tra coloro che sono a favore di un rapido aumento
dei tassi di interesse vi sono molti tecnici della Banca dei Regolamenti
Internazionali (BRI) secondo cui è necessario invertire la tendenza degli
ultimi anni e tornare ad alzare i tassi d’interesse che sono in modalità
101
espansiva da troppi anni. La BRI ha quindi ricordato lo studio di due dei
suoi economisti, Claudio Borio e William White, che nel 2003 avevano
denunciato l’eccesso di liquidità e chiesto la fine della politica monetaria
accomodante. Nessuno li prese sul serio e nel 2007 la crisi esplose. La BRI
ha lanciato un allarme sulla troppa liquidità in giro e ha già richiamato i
suoi vigilati in un rapporto: con la fine della crisi bisogna abbandonare le
politiche monetarie compiacenti, quindi bisogna alzare i tassi d’interesse
per evitare il rischio che scoppi una bolla di proporzioni bibliche. Secondo
l'opinione di questi economisti, le politiche monetarie espansive sono in
atto da troppo tempo, ed inoltre, da quando il periodo di recessione
economica è terminato a giugno 2009, l'economia americana ha
continuato a crescere in maniera più o meno stabile. A tali osservazioni
aggiungono anche il fatto che il tasso di disoccupazione si aggira a livelli
piuttosto bassi e che prosegue su una traiettoria al ribasso dal 2011.
In conclusione, sostengono che, sebbene l'inflazione si aggiri ancora
intorno a livelli troppo bassi, la politica monetaria non convenzionale ha
condotto ad una crescita di liquidità sopra la media, minacciando così la
stabilità dei prezzi. Agli occhi di questi critici, l'economia ha ormai ripreso a
funzionare quasi del tutto normalmente, al punto tale che i rischi dettati
dal prolungamento di una politica stimolativa andrebbero a superare i
benefici.
102
CAPITOLO TRE
Breve introduzione
A partire dal 2010 i Paesi dell’eurozona hanno varato misure senza
precedenti per far fronte alla crisi finanziaria internazionale: per la prima
volta sistemi economici avanzati e interconnessi hanno avviato un
processo di aggiustamento macroeconomico nel contesto dell’unione
monetaria. A maggio 2010 la Grecia fu il primo Paese dell’eurozona a
ricevere assistenza finanziaria internazionale da parte delle istituzioni
europee e del Fondo Monetario Internazionale (FMI). Nel giro di pochi
mesi altri tre Stati furono destinatari dello stesso intervento: l’Irlanda nel
novembre 2010, il Portogallo nell’aprile 2011 e Cipro nel marzo 2013. In
ognuno di questi casi, i programmi di assistenza finanziaria vennero varati
a seguito di una serie di accordi che prevedevano riforme da attuare da
parte dei Paesi in questione. All’esplosione della crisi dell’euro, l’Unione
Europea non era dotata di uno strumento capace di affrontare la difficile
congiuntura: una crisi che interessava allo stesso tempo il sistema
bancario, la bilancia dei pagamenti e il debito sovrano. L’iniziale incertezza
nella scelta delle politiche e l’intervento del FMI resero necessario il ricorso
a nuovi programmi di aggiustamento strutturale. Con il precipitare della
situazione in Grecia all’inizio del 2010, i Capi di Stato e di Governo si
trovarono
a
dover
fronteggiare
nell’immediato
il
rischio
di
una
103
destabilizzazione finanziaria in tutta la zona euro. Il 3 maggio 2010 fu così
approvato il primo programma di assistenza finanziaria, attraverso il quale
la Grecia riceveva un prestito di 110 miliardi da parte degli Stati della zona
euro e dal FMI. Il prestito era condizionato ad una serie di riforme
strutturali che la Grecia si impegnava ad attuare. Le conseguenze del
salvataggio greco si ripercossero velocemente in tutta Europa: altri Stati,
che si trovavano in condizioni simili, dovettero ricorrere all’assistenza
finanziaria internazionale, sempre in subordine alle riforme condizionali. A
novembre l’Irlanda ricevette un prestito di 85 miliardi, mentre l’8 aprile
2011 un prestito di 78 miliardi di euro fu accordato al Portogallo.
L’attuazione
e
la
negoziazione
dei
programmi
di
aggiustamento
macroeconomico furono affidate ad un organo tripartito composto da
Commissione Europea, Banca Centrale Europea (BCE) e FMI, la cosiddetta
Troika. Come i programmi di aggiustamento concordati con il FMI, i
programmi
dell’eurozona
contengono
una
serie
di
provvedimenti
economici formulati dal Paese richiedente e negoziati con la Troika.
L’attuazione delle riforme viene valutata attraverso attività di monitoraggio
e revisioni a cadenza trimestrale. Anche in questo caso i programmi
includono politiche molto simili tra loro, tra cui riforme della politica fiscale
volte alla riduzione del deficit, tagli alla spesa pubblica, liberalizzazione del
commercio e di settori come quello dei trasporti, oltre alla privatizzazione
delle imprese a partecipazione statale. Si osserva dunque una somiglianza
104
tra i programmi di aggiustamento del FMI e quelli varati dalla Troika, sia
per quanto riguarda le modalità di negoziazione ed attuazione, sia per il
contenuto del programma di riforme.
3.1 Gli effetti della crisi del debito sovrano
La crisi economica e finanziaria internazionale ha coinvolto tutti i
Paesi dell’Unione europea con ripercussioni negative nelle economie
nazionali. I suoi effetti sono ancora in atto e non dipendono solo ed
esclusivamente dalla crisi americana dei mutui sub-prime. Certamente
questa ha inciso ed anche parecchio, ma il fenomeno in corso merita una
più ampia riflessione sulle economie troppo diverse tra i Paesi dell’Unione
europea ed alle situazioni di debito pubblico maggiori in alcuni Stati
rispetto ad altri. Il momento di difficoltà economica che l’Europa sta
vivendo ha reso evidente l’inadeguatezza degli strumenti europei per
gestire una governance economica e monetaria. È stato necessario correre
ai ripari attraverso la creazione di strumenti più appropriati come il “Fondo
salva Stati” o il “Fiscal compact”, per far fronte alla complessa e difficile
situazione. Tali strumenti sono stati creati da trattati ad hoc per dare
stabilità ai mercati e soprattutto alle economie dei Paesi che hanno
adottato la moneta unica. Trattati che vista l’urgenza sono stati negoziati e
discussi solo in sede intergovernativa cioè a livello di riunioni di Consiglio
dell’Unione europea dove siedono Capi di Stato e di governo, e pertanto
105
non hanno modificato il Trattato di Lisbona ma sono in un certo senso
paralleli a questo. Volendo guardare il bicchiere mezzo pieno, è possibile
dire che le misure adottate hanno dato rigore e l’innovazione principale del
Fiscal compact consiste nell’impegno da parte dei Parlamenti nazionali ad
inserire
nella
loro
legislazione
interna
(preferibilmente
a
livello
costituzionale) dei meccanismi che assicurino il rispetto dei vincoli di
bilancio nazionali, prevedendo inoltre un meccanismo sanzionatorio ed un
ruolo più forte della Corte di giustizia con un trasferimento a livello
europeo di parte della sovranità nazionale. Il rigore di bilancio con il quale
le economie nazionali dovranno confrontarsi avrà senso solo se gli Stati
sapranno affiancare alle politiche di rigore strumenti per la crescita, gli
investimenti e la coesione sociale e territoriale.
3.2 Funzioni ed obiettivi della BCE
La Banca centrale europea e le banche centrali nazionali
costituiscono l’Euro-sistema, il sistema di banche centrali dell’area-euro. Il
principale obiettivo dell’Euro-sistema è mantenere la stabilità dei prezzi,
ossia salvaguardare il valore dell’euro. Nell’ambito del Meccanismo di
Vigilanza Unico, che comprende anche le autorità nazionali competenti, la
Banca centrale europea è preposta alla vigilanza prudenziale sugli enti
creditizi insediati nell’area-euro e negli Stati membri partecipanti non
appartenenti all’area. Essa contribuisce in tal modo alla sicurezza e alla
106
solidità del sistema bancario nonché alla stabilità del sistema finanziario
nell’Ue ed in ogni Stato membro partecipante.
Le funzioni del Sistema europeo di banche centrali (SEBC) e dell’Eurosistema sono definite dal Trattato sul funzionamento dell’Unione europea
e specificate dallo Statuto del SEBC e della BCE. Lo Statuto figura come
protocollo allegato al Trattato. In generale, il Trattato sul funzionamento
dell’Unione europea fa riferimento al SEBC e non all’Euro-sistema, essendo
stato redatto in base all’assunto che tutti gli Stati membri dell’Ue
avrebbero adottato l’euro. L’Euro-sistema è formato dalla BCE e dalle
banche centrali nazionali (BCN) degli Stati membri dell’Ue la cui moneta è
l’euro, mentre il SEBC comprende la BCE e le BCN di tutti i Paesi dell’Ue.
Tale distinzione continuerà ad essere necessaria finché vi saranno Stati
membri dell’Ue che non hanno adottato l’euro. “L’obiettivo principale del
Sistema europeo di banche centrali [...] è il mantenimento della stabilità
dei prezzi.”
23
Inoltre, fatto salvo l’obiettivo della stabilità dei prezzi, il
SEBC sostiene le politiche economiche generali dell’Unione al fine di
contribuire alla realizzazione degli obiettivi dell’Unione. L’Ue si pone diversi
obiettivi, fra i quali lo sviluppo sostenibile dell’Europa, basato su una
crescita economica equilibrata e sulla stabilità dei prezzi, su un’economia
23
Articolo 127, Paragrafo 1 del Trattato sull'Unione europea.
107
sociale orientata alla competitività che mira alla piena occupazione ed al
progresso sociale. Pertanto, la stabilità dei prezzi non è solo l’obiettivo
primario della politica monetaria della BCE, ma anche un obiettivo
dell’intera Unione europea. Il Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea ed il Trattato sull’Unione europea stabiliscono una chiara
gerarchia di obiettivi per l’Euro-sistema, rimarcando come la stabilità dei
prezzi sia il contributo più importante che la politica monetaria può dare al
conseguimento di un contesto economico favorevole e di un elevato livello
di occupazione.
I compiti fondamentali da assolvere tramite l’Euro-sistema sono:
I.
Definire ed attuare la politica monetaria per l’area-euro;
II.
Svolgere le operazioni sui cambi;
III.
Detenere e gestire le riserve ufficiali dei Paesi dell’area-euro
(gestione di portafoglio);
IV.
Promuovere il regolare funzionamento dei sistemi di pagamento.
3.3 Ruolo della BCE nella crisi
L’esplosione dell’ultima crisi finanziaria ha spinto la BCE ad interventi
senza precedenti che hanno forzato i limiti tradizionali del suo perimetro
d’azione. Le carenze di un’Unione europea basata sulla moneta e priva di
politiche fiscali integrate hanno infatti rischiato di disarticolare l’eurozona
108
chiamando in causa la stessa Banca centrale. Il fallimento della grande
banca d’affari Lehman Brothers, il 15 settembre 2008, è stato il momento
di maggiore visibilità nel progressivo aggravarsi negli Stati Uniti della crisi
finanziaria che ha dato origine ad un perverso effetto domino che ha
colpito anche molti Paesi dell’Unione europea. Questa crisi ha generato
tanto un incremento della spesa pubblica finalizzata a compensare la
riduzione del consumo privato, quanto una riduzione delle entrate fiscali
venendo così ad incidere gravemente su situazioni preesistenti di già
scarsa sostenibilità delle finanze pubbliche. Tali drammatiche conseguenze
si sono rivelate ben più vistose nell’area-euro in cui gli Stati erano
sottoposti ai vincoli imposti dal Patto di stabilità e non disponevano più
della leva monetaria per fare fronte alle situazioni di crisi. Questo spiega la
nuova ondata di crisi dilagata nel 2010, definibile come crisi dei debiti
sovrani, che ha colpito particolarmente alcuni Paesi dell’area-euro
(Spagna, Portogallo, Irlanda, Grecia, Italia), accompagnata, sia pure con
diversa intensità, dalla crisi di liquidità che ha colpito il settore bancario.
Ad oggi solo l'Irlanda ed in parte la Spagna sono uscite dal tunnel, Cipro vi
è drammaticamente entrata e nubi minacciose oscurano anche il cielo
della Slovenia. Capire perché una crisi, per quanto severa e globale, abbia
avuto ripercussioni particolarmente gravi proprio nell’area-euro, fuori dal
proprio epicentro, è importante per la tenuta dell’Unione monetaria.
All’interno di questo ambito di analisi è particolarmente interessante per il
109
diritto dell’Unione europea studiare l’evoluzione del ruolo degli attori
istituzionali interessati. Uno di questi, è stato portato in piena luce dalla
crisi, si tratta della Banca centrale europea (BCE).
- 3.3.1 La crisi dell'Euro: Struttura della BCE
Al fine di comprendere pienamente il problema è necessario fare un
passo indietro.
Il Trattato di Maastricht che nel 1992 ha istituito l’Unione economica e
monetaria (UEM) poi realizzatasi nel 1999 non ha messo la Comunità – poi
divenuta Unione – in condizione di gestire efficacemente le crisi
economiche che fossero insorte. Analisi fatte in tempi non sospetti
dimostrano come quanto avvenuto fosse di fatto un (rischio di) disastro
annunciato. Si potrebbe essere severi con gli autori del Trattato, accusarli
di poca capacità di previsione o di scarsa lungimiranza, ma probabilmente
sarebbe ingeneroso. Agendo secondo quanto ritenevano fosse il meglio
per lo sviluppo progressivo dell’Unione hanno sbagliato, lasciandosi
guidare da un eccessivo ottimismo. Infatti, prendendo atto di una chiara
volontà politica a supporto dell’adozione di una moneta unica e di una
altrettanto chiara assenza della stessa nei confronti di una maggiore
integrazione politica ed economica, hanno costruito un compromesso
delicato che consentiva l’introduzione di una moneta unica senza
accentrare la politica di bilancio, ma a patto di scongiurare le crisi
110
economiche e finanziarie. Era purtroppo ben chiara la difficoltà che la crisi
di un singolo Stato avrebbe rappresentato per l’intera area-euro, a
maggior ragione in quest’ultima non era definibile come area valutaria
ottimale. La soluzione a questa difficile quadratura fu trovata ponendo
l’attenzione sulla prevenzione dei deficit e dei debiti eccessivi, con l’idea,
appunto ottimistica, che ciò sarebbe bastato a prevenire le crisi nei singoli
Paesi membri. Il Patto di stabilità tuttavia, si è rivelato fallimentare ben
oltre le più pessimistiche previsioni. Infatti, se l’obiettivo era prevenire
irrisolvibili crisi minacciando sanzioni in caso di cattiva gestione delle
politiche economiche nazionali, non si erano fatti i conti né con il rischio
che ad aggravare ulteriormente le situazioni cattive o non propriamente
buone intervenissero crisi economiche e finanziarie esterne – come quella
generatasi negli USA – né con la difficoltà politica oltre che economica di
imporre sanzioni pecuniarie ad uno Stato già pesantemente indebitato. Il
Patto di stabilità, azionato numerose volte nel decennio passato non è mai
giunto alla fase della sanzione, arrestandosi sempre un attimo prima,
nonostante dopo ogni clamoroso fallimento venisse riformato con grandi
promesse di accresciuta efficacia, per rinnovarne l’effetto deterrente.
Prevenire era così importante poiché, nel caso dell'eurozona, la difficoltà di
intervenire
è
inscritta
nel
Trattato
e
non
può
essere
spiegata
semplicisticamente con una scarsa solidarietà o coesione, quanto proprio
con l'esistenza di ostacoli oggettivi. Le competenze dell’Unione in campo
111
macroeconomico sono scarse, limitandosi all’adozione di un atto di
indirizzo annuale, assistito da un meccanismo di coordinamento e da
alcuni divieti finalizzati a garantire la sana gestione da parte degli Stati. Gli
strumenti di intervento sono anch’essi scarsi, poiché vanno dimensionati
nel volume complessivo del bilancio dell’Unione, pari a poco meno dell’1%
del PIL della stessa, che non consente di fatto interventi di salvataggio di
Paesi membri i cui bilanci pubblici superano spesso il 40% dei rispettivi PIL
(in Italia il 50%), neanche negli stretti margini oggi previsti dai Trattati.
Questo spiega la presenza nel Trattato sul funzionamento dell’Unione
europea (TFUE) dell’art. 125, noto come clausola di “no bailout”,
finalizzata a scoraggiare aspettative di soccorso difficili da soddisfare come
pure a prevenire quel “moral hazard” che porta il livello di governo
sottostante ad indebitarsi nella speranza di poter essere comunque
salvato.
“L’Unione non risponde né si fa carico degli impegni assunti dalle
amministrazioni statali, dagli enti regionali, locali, o altri enti pubblici, da
altri organismi di diritto pubblico o da imprese pubbliche di qualsiasi Stato
membro, fatte salve le garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione
in comune di un progetto economico specifico. Gli Stati membri non sono
responsabili né subentrano agli impegni dell'amministrazione statale, degli
enti regionali, locali o degli altri enti pubblici, di altri organismi di diritto
pubblico o di imprese pubbliche di un altro Stato membro, fatte salve le
112
garanzie finanziarie reciproche per la realizzazione in comune di un
progetto specifico. (…)”
24
L’obiettivo di questa disposizione era dunque quello di indurre gli Stati ad
una sana gestione delle finanze pubbliche. Al di là delle sanzioni
espressamente previste, in caso di cattiva gestione avrebbero scontato la
cosiddetta sanzione del mercato, ovvero l’aumento degli oneri corrisposti
sul debito. La scommessa degli estensori del Trattato è stata persa nel
momento in cui i mercati hanno effettivamente creduto che uno Stato in
crisi sarebbe stato lasciato al proprio destino. Infatti, una cosa è apparsa
subito chiara ai governi dell’area-euro: se si è parte di un’area monetaria
integrata si appartiene ad una comunità di destino. La solidarietà reciproca
è un elemento strutturale per la tenuta del sistema. Per questo motivo,
all’interpretazione corrente – e stringente – per cui all’Unione (come agli
altri Stati) sarebbe vietato intervenire, è preferibile quella restrittiva per
cui essi non sono tenuti ad intervenire (non essendo, appunto,
responsabili) e dunque non ci può essere da parte dello Stato in crisi
nessuna legittima aspettativa in tal senso. Possono tuttavia scegliere di
intervenire. Le modalità di un ipotetico intervento sono state la grande
domanda sin dall’insorgere delle prime situazioni di sofferenza dei bilanci
24
Ex articolo 103 del TCE
113
statali.
3.4 Gli strumenti messi in campo dall'Ue per fronteggiare la
crisi
Dunque, le origini della crisi nell’eurozona risalgono a prima del 2008,
anno in cui è esplosa. Difatti, nei Paesi della zona euro le radici vanno
ricercate nelle debolezze interne dell’Ue dovute alle differenze economiche
dei Paesi che hanno adottato l’euro (tassi d’interesse, produttività del
lavoro e non ultimo profonde differenze del debito pubblico). È certamente
mancata nella zona euro una convergenza economica che si pensava
potesse avvenire per effetto dall’introduzione dell’euro. A differenza degli
USA, l’UE non è uno Stato federale ma ha una moneta unica. È
un’anomalia che rende difficile intervenire nel momento in cui si
manifestano crisi economico-finanziarie tra gli Stati membri perché i
meccanismi di trasferimento di risorse tra Stati in difficoltà e Stati con
indici finanziari positivi non sono automatici, ma devono prima passare da
decisioni politiche assunte in sede intergovernativa, vale a dire dal
Consiglio dell’Unione europea all’interno del quale siedono capi di stato e
di governo. Come accennato nella sezione precedente, nel concepimento
della moneta unica in realtà erano state prese delle misure per controllare
ex ante ed ex post le politiche fiscali degli Stati membri attraverso
l’introduzione dei Programmi di Stabilità con lo scopo di monitorare non
114
solo il rapporto deficit/PIL e debito/PIL ma anche e forse soprattutto gli
investimenti, le politiche per lo sviluppo e per l’occupazione che avrebbero
dovuto mettere in atto. A posteriori è chiaro come il Patto di stabilità non
sia stato da solo sufficiente a mettere i Paesi della zona euro, soprattutto
quelli più deboli, al riparo dal contagio della crisi mondiale. La crisi greca,
ha rivelato che gli strumenti previsti non erano in grado di fronteggiare
una crisi di così ampie proporzioni e soprattutto ha messo in evidenza la
mancanza di analisi macroeconomico dei Paesi e del loro posizionamento
competitivo. In alcuni Paesi della zona euro la crisi internazionale ha avuto
effetti ancora più gravi anche a causa delle manipolazioni apportate nei
bilanci nazionali al momento dell’adesione alla moneta unica nonché dalla
perdita di competitività nazionale. Per contrastare la crisi l'Ue ha agito su
due fronti distinti: da un lato si è agito sugli assetti istituzionali dell’UEM,
ovvero la creazione di strumenti e di soggetti atti a fornire sostegno
finanziario agli Stati in crisi (EFSM, EFSF, MES). L’EFSM o Meccanismo
europeo di stabilizzazione finanziaria è stato istituito dal regolamento del
Consiglio dell’11 maggio 2010. L’EFSF o European Financial Stability
Facility è una società anonima di diritto lussemburghese, creata nel giugno
dello stesso anno dagli Stati dell’area euro con l’obiettivo di reperire
risorse sui mercati finanziari per intervenire a sostegno degli Stati in crisi.
Infine il Meccanismo europeo di stabilità o MES è un’organizzazione
internazionale creata dagli stessi Stati che opera analogamente al FMI ma
115
su scala regionale ed è finalizzato al reperimento di risorse ed
all’intervento in soccorso degli Stati sulla base di stretta condizionalità. Il
Trattato istitutivo è stato firmato il 2 febbraio 2012, la nuova istituzione è
entrata in vigore nell’ottobre dello stesso anno, ereditando le funzioni
precedentemente esercitate dall’EFSF. Dall'altro si è intervenuti nei
meccanismi di trasmissione della politica monetaria e quindi sui mercati
finanziari. Protagonista di questa seconda serie di interventi è stata la
BCE.
- 3.4.1 L'intervento della BCE
Nella situazione di crisi, aggravata dall’approccio emergenziale con cui
si studiavano ed introducevano nuovi strumenti di intervento, si è inserita
la BCE, la prima banca centrale a doversi confrontare con un necessario
antecedente logico rispetto alle proprie scelte di politica monetaria:
assicurarsi che la moneta che gestiva continuasse ad esistere. In questo
quadro, evitare il default degli Stati membri si poneva come un imperativo
categorico. La domanda che ne scaturisce direttamente è: questa missione
risponde all’obiettivo di garantire la stabilità della moneta che il Trattato le
assegna?
Il ruolo svolto dall’Istituto europeo di emissione nella gestione della crisi
finanziaria è stato determinante tanto a fronte della crisi dei debiti sovrani,
116
nell’impedire che lo spread25 raggiungesse nell’area euro livelli di
insostenibilità, quanto nel fronteggiare la crisi di liquidità che ha colpito le
istituzioni creditizie. Si tratta in realtà di due situazioni di sofferenza
collegate, poiché sono le banche il primo acquirente dei titoli di debito
statali. Già nel dicembre 2007 la BCE, in collaborazione con l’americana
Federal Reserve, ha iniziato ad offrire finanziamento in dollari alle banche
dell’area euro. Per ovviare alla carenza di liquidità in tale valuta, l’anno
successivo la banca ha varato misure straordinarie di sostegno alla
liquidità mediante aste a tasso fisso. Con una decisione del 4 giugno 2009,
la BCE ha varato poi un programma di acquisto di obbligazioni garantite,
sul mercato primario e secondario da parte delle banche centrali nazionali
(Covered Bond Purchase Program o CBPP). Successivamente, nel maggio
2010, ha deliberato il Securities Markets Program (SMP), che comportava
l’acquisto di titoli di debito dell’area euro sul mercato secondario. Si
trattava di misure non convenzionali, come lo stesso istituto di emissione
ha ritenuto di qualificarle, finalizzate a ripristinare i normali canali di
trasmissione della politica monetaria. Tali operazioni, sebbene non fossero
mosse da finalità di investimento, si sono rivelate a conti fatti operazioni
tutt’altro che in perdita. Il 16 dicembre 2010, parallelamente alla riunione
del Consiglio europeo, la BCE rendeva nota la sua decisione di aumentare
25
Il differenziale tra i tassi di rendimento dei titoli di debito sovrano degli Stati.
117
di 5 miliardi di euro il proprio capitale e dunque i propri margini di
manovra. A fine novembre 2011 le banche centrali statunitense, europea,
canadese, svizzera, giapponese ed inglese annunciavano azioni coordinate
allo scopo di migliorare la loro capacità di fornire liquidità al sistema
finanziario globale in caso d'emergenza, un intervento di forte impatto
anche simbolico che lasciava intendere la volontà degli istituti di emissione
di
partecipare
attivamente
al
ripristino
della
stabilità
finanziaria.
L’intervento della BCE a beneficio degli Stati in crisi è poi cresciuto
progressivamente con le operazioni di rifinanziamento a lungo termine del
dicembre 2011 e del febbraio 2012 (Long-term Refinancing Operations
LTRO), a vantaggio soprattutto del debito italiano e spagnolo, sia pure in
modo indiretto. Infatti in quell’occasione si trattò di un intervento sulla
crisi di liquidità in soccorso delle banche commerciali in questi Paesi,
intervento che immise un volume di liquidità a 3 anni per un valore
complessivo di 1.030 miliardi di euro – adesso già in corso di rimborso.
Fino alla metà del 2012 la motivazione ufficiale per l’acquisto di titoli di
debito pubblico è stata la necessità di mantenere o ripristinare il
funzionamento efficiente del mercato dei titoli di debito sovrani.
L’intervento a vantaggio del settore bancario veniva invece motivato con
l’esigenza di rimediare alla crisi di liquidità che lo colpiva. L’una e l’altra
attività dunque, venivano in rilievo in quanto canali di trasmissione dei
meccanismi di politica monetaria attraverso i tassi di interesse. Tuttavia si
118
può ritenere che la BCE si sia di fatto riconosciuta un ampio ruolo nella
gestione delle crisi, attraverso strumenti di politica monetaria. Più di
qualche stimato economista si è spinto a qualificare la BCE come
prestatore di ultima istanza dell’area euro, di fatto l’unico possibile.
L’ultimo strumento deliberato dalla BCE sembra muoversi ancor più dei
precedenti sul filo dei divieti, proprio per questo la sua analisi è
particolarmente interessante. Si tratta del programma noto come OMT
(Outright Monetary Transactions), ovvero operazioni definitive monetarie.
Si tratta di operazioni di acquisto, potenzialmente illimitato, di titoli di
debito pubblico di Paesi dell’area euro in difficoltà.
- 3.4.2 La discussa legittimità dell'intervento di OMT
La BCE è un’istituzione di natura tecnocratica, fornita di ampi strumenti
di intervento e caratterizzata da un mandato chiaro e circoscritto, che in
linea di principio escluderebbe la discrezionalità politica. Per il diritto
internazionale, ogni norma pattizia va interpretata in buona fede seguendo
il senso ordinario da attribuire ai termini del trattato nel loro contesto e
alla luce del suo oggetto e del suo scopo, dunque secondo principi non
dissimili da quelli che – scritti o non scritti – si applicano normalmente
negli ordinamenti nazionali. Particolarmente rilevante è l’attribuzione di
una precisa gerarchia tra i due obiettivi attribuiti all’istituto di emissione
europeo e dunque la priorità assoluta assegnata all’obiettivo della stabilità
119
dei prezzi rispetto al sostegno delle politiche economiche generali.
Tuttavia questo obiettivo non è definito e dunque è nella competenza della
BCE stessa interpretarlo e darne una definizione. A circoscrivere il già
stretto margine di manovra interviene inoltre il divieto di finanziamento
monetario del debito di cui all’art. 123 TFUE:
“Sono vietati la concessione di scoperti di conto o qualsiasi altra forma di
facilitazione creditizia, da parte della Banca centrale europea o da parte
delle banche centrali degli Stati membri (in appresso denominate ‘banche
centrali nazionali’), ad istituzioni, organi od organismi dell’Unione, alle
amministrazioni statali, agli enti regionali, locali o ad altri enti pubblici, ad
altri organismi di diritto pubblico o ad imprese pubbliche degli Stati
membri, così come l’acquisto diretto presso di essi di titoli di debito da
parte della Banca centrale europea o delle banche centrali nazionali.”
26
Come autorevolmente evidenziato, tale disposizione ha lo scopo di evitare
che l’istituto di emissione sia oggetto di pressioni politiche da parte degli
Stati in difficoltà finanziarie e che, per il tramite dell’istituto di emissione
tali difficoltà possano essere trasmesse ad altri Stati. Infine, vi è il già
menzionato principio del no bailout. Non è tutto, a fronte di un'assenza di
previsioni normative per un intervento a sostegno dei bilanci nazionali da
26
Art. 123 del TFUE.
120
parte della BCE in caso di crisi, vi è nel TFUE una chiara opzione di
principio a favore della competenza delle istituzioni politiche – Consiglio in
primis – tanto nella gestione delle crisi, quanto nella sorveglianza sui
bilanci nazionali. L’istituto di emissione ha dunque un margine d’azione
precisamente circoscritto e gli si richiede di motivare la propria attività
come funzionale all’obiettivo della stabilità dei prezzi. La prassi dimostra
come essa l’abbia sfruttato al massimo, interpretando in senso estensivo
le norme che ne precisavano la portata.
Tra queste, vi è anzitutto l’art. 12 dello Statuto del Sistema europeo di
banche centrali, che attribuisce al Consiglio direttivo “la competenza ad
adottare gli indirizzi e prendere le decisioni necessarie ad assicurare
l’assolvimento dei compiti affidati al Sistema, come anche a formulare la
politica monetaria dell’Unione, adottando a seconda dei casi, le decisioni
relative agli obiettivi monetari intermedi.”
attribuzione
di
un
potere
27
discrezionale
Vi è dunque, una chiara
alla
BCE
nel
tradurre
operativamente l’obiettivo della stabilità dei prezzi, tanto più degno di nota
in quanto l’indipendenza della Banca è costituzionalmente garantita. Ai fini
della traduzione in pratica dei suoi obiettivi, la BCE utilizza un metodo
basato su due pilastri, ovvero due prospettive analitiche complementari:
27
Art. 12 dello Statuto del Sistema europeo di banche centrali.
121
l’analisi economica e l’analisi monetaria.
L’analisi economica in particolare, implica che si valutino una serie di
indicatori atti a riflettere la situazione economica e finanziaria della zona
euro come pure i possibili fattori di squilibrio atti a minacciare la stabilità
dei prezzi. In un sistema che funziona, vi è una relazione stabile tra le
variazioni dei tassi della banca centrale ed il costo dei prestiti bancari. In
questo modo le banche centrali possono supportare la situazione
economica generale e mantenere la stabilità dei prezzi. Tuttavia nell’area
euro, a seguito della crisi finanziaria, si è verificata una frammentazione
che ha sia acuito le differenze tra i costi del finanziamento bancario, sia
ridotto l’accesso al mercato interbancario dell’area per numerose banche,
mentre l’aumento dei tassi di interesse sui titoli di debito pubblici incideva
sui costi di provvista delle banche nazionali. La crisi di liquidità
conseguitane rendeva difficile la trasmissione degli impulsi che venivano
dalla politica monetaria della BCE. Meno liquidità veniva messa in circolo
dalle banche, più l’economia continuava a contrarsi, aggravando le
posizioni dei bilanci nazionali e facendo salire ancor più gli interessi sui
titoli di Stato, una spirale perversa. Dunque la BCE, per correggere la
situazione e mantenere in ultima analisi la stabilità dei prezzi, doveva
intervenire nelle crisi nazionali. In termini più generali ed astratti
analizzare le crisi, potenziali ed in atto, si rendeva assolutamente
necessario ed intervenire con dei correttivi atti a mantenere la stabilità
122
finanziaria ai fini della stabilità dei prezzi rientrava nel mandato dell’istituto
di emissione, così come da essa stessa definito. La BCE si inserisce ormai
normalmente in questi processi, come anche nelle dinamiche politiche
nazionali, sebbene non siano mancate in alcuni casi contestazioni e
polemiche.
- 3.4.3 Il ricorso a misure non convenzionali
Di fronte ai timori di una frantumazione dell’eurozona a seguito di una
serie di default disordinati tra i suoi Paesi “periferici”, il presidente della
BCE Mario Draghi precisa il 26 luglio che “la Bce è pronta a fare tutto
quello che è necessario per difendere l’euro”.28
L’intervento deciso della Banca centrale respinge le spinte speculative sul
crollo dell’euro e costruisce una forte barriera anti-crisi che dà un nuovo
orientamento
a
tutto
il
dibattito
sulla
crisi
del
debito
sovrano
nell’Eurozona. Il 6 settembre del 2012 la BCE articola il proprio intervento
annunciando le Outright Monetary Transactions (OMT), degli interventi
mirati sui titoli del debito pubblico Ue fino a tre anni, potenzialmente
illimitati ma sottoposti a condizioni dettate da un programma di recupero
economico deciso su scala europea. Nel bollettino mensile di settembre
2012 il Consiglio direttivo ha deciso le modalità di attuazione delle
28
Conferenza Stampa BCE tenuta da Mario Draghi il 26.07.2014
123
operazioni definitive monetarie nei mercati secondari dei titoli di Stato
dell’area euro. Tali operazioni sono finalizzate a salvaguardare il
meccanismo di trasmissione in tutti i Paesi dell’area e l’unicità della politica
monetaria. A due anni e più di distanza, nel gennaio 2015, la Corte di
Giustizia dell'Unione europea ha dato il via libera al piano OMT della BCE,
lanciato per contrastare la crisi degli spread nell'agosto del 2012 che,
come detto, prevede l'acquisto di titoli di Stato a breve termine per i Paesi
in crisi conclamata. Infatti, la Corte di Giustizia Ue, bocciando un ricorso
presentato da esponenti tedeschi ostili all' interventismo dell'Eurotower, ha
promosso il programma di 'Outright Monetary Transactions' annunciato nel
settembre 2012 dalla BCE. Si tratta di un piano di acquisti sul mercato
secondario definito oramai compatibile, in linea di principio, con i Trattati
dell'Unione. Una compatibilità che tuttavia dipenderà, dal rispetto di
determinate condizioni. Infatti, l’acquisto diretto da parte della Bce di titoli
di stato a breve termine emessi da Paesi in difficoltà macroeconomica
grave e conclamata, procederà solo nel caso in cui il Paese in questione
abbia prima avviato un programma di risanamento sotto l’egida del Mes,
ossia il Meccanismo europeo di stabilità (detto anche fondo salva-Stati).
3.5 Via al Quantitative Easing in Europa
Inoltre il 22 gennaio Mario Draghi, presidente della Banca Centrale
Europea, ha annunciato l’avvio del programma di Quantitative Easing
124
(QE). Si tratta di una misura straordinaria che ha lo scopo di rilanciare
l'economia dell'eurozona, facendo scendere i tassi di interesse e il costo
del debito degli stati, rilanciando il mercato del credito e fermando la
deflazione, cioè il calo dei prezzi al consumo che si registra oggi in diversi
Paesi del Vecchio Continente. La Banca Centrale Europea interviene per
evitare la deflazione in Europa. Il QE, ovvero l’acquisto di titoli di Stato,
durerà fino a settembre 2016 e comunque “finché – dice Draghi - non
vedremo un sostenuto adeguamento del ritmo dell'inflazione”.29 Le misure
di politica monetaria adottate tra giugno e settembre 2014, dunque, non
sono state sufficienti così oggi l'adozione di ulteriori misure di bilancio è
diventata una garanzia per raggiungere l’obiettivo di stabilità dei prezzi,
dato che i tassi di riferimento della Bce sono ai minimi. Una decisione
presa a larghissima maggioranza. L'acquisto di titoli di Stato operato dalla
Bce avrà come limite, oltre che il 25% per ciascuna emissione, il 33% del
debito di ciascun Paese emittente. A marzo 2015 la BCE ha dato l'avvio al
piano di QE e ha iniziato a comprare titoli di Stato tedeschi. Le maxi
iniezioni di liquidità procederanno ad un ritmo di 60 miliardi di euro al
mese, almeno fino alla fine di settembre 2016 o comunque fino a quando
l'inflazione invertirà la rotta e si riavvicinerà all'obiettivo del 2%. Il
Presidente Mario Draghi ha comunicato che i tassi d'interesse resteranno
29
Discorso di Mario Draghi durante la conferenza stampa del 22.01.2015
125
ancora al minimo storico dello 0,05%. Attraverso il Public Sector Purchase
Programme (Pspp), questo il nome tecnico del piano, l'Istituto guidato da
Mario Draghi comprerà oltre 1.000 miliardi di euro di titoli (1.140),
compresi bond sovrani con rendimento negativo, ma non al di sotto del
tasso Bce sui depositi che al momento è pari a -0,20%. Inoltre se una
banca centrale nazionale non è in grado di acquistare abbastanza titoli per
soddisfare la propria dotazione, Francoforte permetterà acquisti alternativi.
Questi acquisti sostitutivi dovrebbero quindi permettere all'Istituto centrale
di raggiungere l'obiettivo dei 60 miliardi di acquisti al mese. Tuttavia la
Bce non comprerà più del 25% di ogni emissione, per evitare di avere un
ruolo predominante e quindi un diritto di veto nel caso di ristrutturazione
di un debito sovrano ed inoltre gli acquisti di titoli dello stesso Paese si
fermeranno al 33% per salvaguardare il funzionamento del mercato e
arginare i rischi che la stessa Bce diventi il principale creditore
nell'eurozona. Questa montagna di acquisti non avverrà sul mercato
primario, ossia partecipando ad aste di collocamento, ma solo sul mercato
secondario per non violare il divieto di finanziamento monetario. E
Francoforte acquisterà solo titoli che hanno una scadenza tra due e 30
anni e con un rating di “investment grade”. Gli effetti immediati sul
mercato sono stati senza dubbio positivi. La BCE, attraverso l'acquisto
delle obbligazioni, ha fatto salire la domanda sul mercato di quest'ultime.
Di conseguenza, anche i prezzi dei titoli sono cresciuti mentre i loro
126
rendimenti sono scesi. Se infatti il valore di un'obbligazione (che dà un
interesse prestabilito) è più alto rispetto al passato, chi la acquista oggi
porta a casa ovviamente un rendimento netto inferiore, rispetto a quello
incassato da chi se l’ha messa nel portafoglio qualche mese fa. Dunque,
acquistando la BCE delle obbligazioni governative, cioè dei buoni del
tesoro dell'area euro, i rendimenti dei titoli si abbassano e i Paesi che li
hanno emessi ottengono subito un vantaggio: devono pagare un po' meno
interessi per finanziare il proprio debito pubblico. Oltre a dare beneficio ai
conti pubblici dei governi, che hanno così un po' più di risorse per
sostenere la crescita economica, il quantitative easing può avere però
effetti positivi anche sul sistema creditizio. La banca centrale, infatti,
compra i titoli di stato anche e soprattutto dagli istituti di credito del
Vecchio Continente, che hanno le casse piene di bond governativi. Con i
soldi ricevuti da Francoforte, le banche dovrebbero in teoria essere
stimolate ad allargare i prestiti concessi alle famiglie ed alle imprese. Il
governatore della BCE, Mario Draghi, ha infatti dichiarato che: “La
reazione riscontrata sui mercati all'avvio del piano di allentamento
quantitativo della Bce dimostra che il piano di acquisti funziona.”30 In
effetti, sui mercati l'influsso si vede ampiamente con l'euro che si svaluta
verso il dollaro - dando competitività inattesa alle imprese esportatrici - ed
30
Articolo su “R.it Economia & Finanza” dell’11.03.2015
127
i rendimenti dei titoli di Stato che registrano minimi su minimi storici.
Draghi ha inoltre spiegato che la politica monetaria condotta dalla BCE,
che ha abbassato i tassi al minimo storico, sta sostenendo la ripresa
dell'area euro. Per il governatore è stato uno dei fattori che hanno portato
alla revisione al rialzo delle stime di crescita per l'eurozona. Insieme ha
operato anche il calo del prezzo del petrolio, che ha portato ad una
revisione delle stime del PIL, anche grazie al calo dell'euro. Alla luce di
questi segnali "la ripresa economica può gradualmente ampliarsi e
probabilmente rafforzarsi, fino a stabilizzare le attese dell'inflazione"31.
Non manca da Draghi il solito avvertimento alla politica, sostenendo che le
recenti revisioni al rialzo della BCE sono condizionate alla piena
applicazione delle misure annunciate.
3.6 Il QE da solo non basta
Gli stimoli della BCE, anche sotto forma di QE, potrebbero non
essere sufficienti, da soli, a salvare il “sogno europeo” di unità politica ed
economica. Il progetto europeo è una grande idea, è un sogno, ma ora ha
bisogno di una ulteriore spinta e questa ulteriore spinta deve arrivare dai
politici e dalle istituzioni. Se le autorità non agiranno il rischio è che la
gente diventerà sempre più scoraggiata, fino a convincersi che questo
31
Articolo su “R.it Economia & Finanza” dell’11.03.2015
128
grande sogno potrebbe non svilupparsi mai come dovrebbe. Insomma, ciò
di cui si ha bisogno in Europa sono le riforme della politica, le riforme
strutturali. La BCE sta nutrendo l'economia europea con liquidità e fiducia
e sta fornendo una guida, ma se il sistema politico e la società non la
seguiranno, qualunque cosa faccia la BCE si rivelerà inutile. Una cosa è
sicura, acquistare bond non basterà. Senza riforme strutturali (degli Stati
membri), la liquidità immessa dalla BCE non avrà alcun effetto sulla
crescita e l'occupazione. Il problema più grande andando avanti per i Paesi
dell’eurozona sono le riforme strutturali dal momento che la mancanza di
queste ultime è una minaccia per il QE e per la trasmissione all’economia
reale. Il QE da solo potrebbe aumentare l'inflazione di uno 0,4/0,5%,
riportandola a livelli quasi normali ma non la riporterà sicuramente al 2%.
Questo perché il QE in Europa è arrivato con più di un anno di ritardo e
funzionando attraverso il deprezzamento della valuta non arriverà a
riattivare il credito alle imprese, e quindi l'economia reale non trarrà dal
QE gli stessi benefici che ne ha tratto l'America. Inoltre il QE da solo non
basta perché rende l'Europa un trade ma non un investimento. Da quando
la crisi è iniziata l'Europa ha perso il 18% degli investimenti. Per attrarre
investimenti sono necessarie riforme politiche, fiscali ed economiche a
lungo termine, oltre che tasse più basse per le aziende. In alcuni Paesi
europei, tra cui Irlanda e Spagna, tutto questo ha funzionato. L'Italia,
purtroppo, è ancora indietro: il livello fiscale è ancora molto alto,
129
persistono i problemi dal punto di vista giudiziario (la giustizia italiana è
infatti la più lenta di tutti i Paesi occidentali) di conseguenza fare business
in Italia rimane molto difficile.
3.7 Le riforme necessarie: L'Italia
Ad oggi l'Europa è impegnata a fronteggiare una delle più gravi crisi
economiche ed occupazionali degli ultimi decenni in un quadro mondiale di
grande instabilità anche politica. Mai come ora sono necessarie non solo
nuove e coraggiose politiche per rilanciare la crescita ma anche riforme
importanti per le istituzioni politiche e sociali. Per questo occorre
un’Europa più forte, più unita e più competitiva. Più forte nelle istituzioni,
più unita sul piano politico e più competitiva dal punto di vista economico.
Nella costruzione di questa nuova fase europea c’è bisogno di un’Italia che
sappia svolgere un ruolo da protagonista. Questo non solo perché l'Italia è
uno dei grandi Paesi fondatori dell'Europa, ma anche per la sua storia, per
il suo patrimonio culturale, per le risorse imprenditoriali e per la sua
capacità di lavoro che la rendono ancora oggi una delle più grandi
economie manifatturiere del mondo occidentale. Per rendere credibile ed
autorevole
lo
sforzo
che
il
Governo Italiano
sta
compiendo, è
assolutamente indifferibile ed urgente realizzare quelle riforme strutturali
sul piano economico, sociale ed istituzionale di cui si discute invano da
trent'anni. Tali riforme sono necessarie al fine di rendere l'Italia più
130
moderna, rimettere in moto gli investimenti e l'occupazione, invertire la
rotta in un Paese che, nonostante le sue grandi potenzialità, sembra
essere condannato ad un ineluttabile declino. Cinque sono le riforme
indifferibili per recuperare competitività e fiducia: la riforma del mercato
del lavoro; un fisco favorevole alla crescita, non nemico dell’impresa ma
allineato ai migliori standard europei; certezza del diritto e celerità della
giustizia civile e tributaria; drastica semplificazione amministrativa e
istituzionale; potenziamento della cultura e dell’istruzione.
Queste riforme non bastono certo a risollevare completamente il Paese,
ma senza di esse non sarà possibile avere neanche le risorse per
affrontare le emergenze del presente e costruire il futuro. Le riforme del
mercato del lavoro e del fisco sono indispensabili per attrarre investimenti
e ridare competitività, mobilità ed equità sociale al Paese. La riforma della
giustizia è indispensabile per restituire diritto di cittadinanza a chiunque
voglia vivere ed operare in Italia. La semplificazione è indispensabile non
solo per assicurare funzionalità ed efficacia ma anche garantire
trasparenza e ripristinare il rapporto di fiducia tra cittadini, imprese e
pubblica amministrazione. La cultura e l’istruzione sono il patrimonio della
storia italiana ma anche la garanzia del suo futuro.
131
3.8 La crisi in Grecia
Breve introduzione
La saga greca comincia nell'autunno 2009, quando l'allora premier
George Papandreou, in carica da due mesi, rivela che il deficit greco è
nettamente superiore a quello stimato dal governo precedente. I mercati
reagiscono male, anzi malissimo. I titoli di Stato ellenici iniziano ad
impennarsi fino al punto in cui diventa evidente che il Governo greco non
è più in grado di far fronte ai suoi impegni. Dopo molti tentennamenti, Ue
e Fondo Monetario Internazionale (FMI) approvano un piano di
salvataggio (bailout appunto) da 110 miliardi di euro, il primo per un
Paese dell'eurozona. In cambio Atene si impegna con Bruxelles ad
approvare riforme molto severe per rimettere i conti pubblici in ordine.
Una stretta che inizia a strozzare la debole economia greca. E non è finita:
Atene si avvita in una spirale di austerity e recessione che rende
necessario, nel 2012, un secondo bailout da 130 miliardi. Nel pacchetto
finisce anche un drastico taglio di 100 miliardi al debito greco in mano a
investitori privati, che subiscono perdite superiori al 70% del capitale.
- 3.8.1 Le fasi della crisi greca
All'inizio del 2010, in seguito al downgrading da parte delle agenzie di
rating internazionali, iniziano a diffondersi timori di una crisi del debito
132
pubblico relativamente ad alcuni Paesi della zona euro, ed in particolare:
la Grecia, la Spagna, l'Italia, l'Irlanda, il Portogallo e Cipro. La crisi
economica della Grecia è parte della crisi del debito sovrano europeo.
A partire dalla fine del 2009 tra gli investitori crescono dubbi sulle capacità
della Grecia di rispettare gli obblighi di debito, a causa della forte crescita
del debito pubblico. Questo porta ad una crisi di fiducia, indicata da un
allargamento dello spread di rendimento delle obbligazioni e del costo
dell'assicurazione contro i rischi su credit default swap rispetto agli altri
Paesi della zona euro, soprattutto la Germania. Il declassamento del
debito pubblico greco a junk bond nell'aprile 2010, crea allarme nei
mercati finanziari. Il 2 maggio 2010 i Paesi dell'eurozona e il FMI
approvano il primo dei due prestiti di salvataggio per la Grecia, da 110
miliardi di euro, subordinato alla realizzazione di severe misure di
austerità. Prestito che in realtà nasconde un parziale e già avvenuto
default dello stato greco, non più in grado di vendere agli investitori a
condizioni di mercato i propri titoli di debito. Nell'ottobre 2011 i leader
dell'eurozona decidono di offrire un secondo prestito di salvataggio da 130
miliardi di euro per la Grecia, condizionato non solo dall'attuazione di un
altro duro pacchetto di austerità, dall'applicazione di nuovi tagli per 6,5
miliardi di euro e nuove privatizzazioni, ma anche dalla decisione di tutti i
creditori privati per una ristrutturazione del debito greco, riducendo il peso
del debito previsto da un 198% del PIL nel 2012 a solo 120,5% del PIL
133
entro il 2020. La crisi ha avuto forti ripercussioni anche sulla situazione
occupazionale del Paese, con un tasso di disoccupazione che a febbraio
2011 raggiunge il 15,9%. Dopo l'approvazione da parte del Parlamento
greco di un nuovo piano di austerità che imponeva al Paese ellenico tagli
per ben 28 miliardi di euro entro il 2015, l'Unione europea dà il via libera
alle ulteriori tranche di aiuti per tutto il 2011. Nel settembre 2011 il
governo greco vara un'ulteriore manovra tassando gli immobili allo scopo
di recuperare 2,5 miliardi di euro, utili a raggiungere un'ulteriore tranche
di aiuti pari a 8 miliardi di euro. La finanziaria sull'immobile non è
sufficiente ed il governo ellenico si vede costretto a formulare una
drammatica manovra che prevede un ulteriore taglio alle pensioni, la
messa in mobilità di 30.000 dipendenti statali già dal 2011 ed il
prolungamento della precedente tassa sugli immobili fino al 2014. A
questo punto viene istituita la cosiddetta “Troika”, formata da FMI, BCE ed
Ue, e grazie al suo verdetto sulla situazione della Grecia riesce a
convincere la Germania ad attivare il fondo salva-stati, che garantisce alla
Grecia ulteriore ossigeno economico. Nel frattempo il presidente
Papandreou, dopo il tentativo reso vano di sottoporre a referendum il
piano di salvataggio, annuncia le dimissioni e si passa ad un governo di
unità nazionale guidato da Papademos, pianificando le elezioni ad aprile
2012. La crisi comincia ad accentuarsi nel febbraio 2012 quando i partiti
politici non trovano un accordo per attuare nuovi tagli alla spesa pubblica,
134
resi necessari per avere l'aiuto economico dalla Troika (FMI, BCE, Ue) di
130 miliardi di euro e poter far fronte così al rimborso dei bond (in
scadenza a marzo) di quasi 15 miliardi di euro. Il 12 febbraio 2012 il
Parlamento greco vota un nuovo piano di austerità, nel quale spicca la
proposta/pretesa di ridurre del 22% i salari minimi. Parte dell'opinione
pubblica è contraria a tale finanziaria e numerosi sono gli scontri ad Atene
tra manifestanti e forze dell'ordine. Dopo l'approvazione, infatti, sono
subito scattate le proteste del popolo greco, che si sono trasformate in
una vera e propria guerriglia contro la polizia, al punto che alcuni
manifestanti hanno dato fuoco a numerosi edifici tra cui banche e negozi.
Il 20 febbraio l'Eurogruppo approva la seconda tranche di aiuti alla Grecia
di
130
miliardi
rimandando
così
il
default
di
qualche
tempo.
A marzo si verifica il tanto temuto haircut del debito: i detentori privati di
titoli di stato greci si sono visti ristrutturare il debito riducendo il valore
nominale di più del 50% e allungando la scadenza. Verso la fine del 2012,
per ridurre il proprio debito, il ministero del tesoro ellenico effettua
un'operazione di buy-back sul debito stesso, riuscendo a riacquistare titoli
di stato per un valore di 45 miliardi al prezzo di soli 15, riducendo così il
debito pubblico di 30 miliardi. Dopo diversi anni di recessione, nel 3º
trimestre del 2014 l'economia greca torna a crescere dello 0,7% sul PIL.
135
- 3.8.2 Rilevanza nel panorama europeo
Il caso greco è considerato dall'Unione europea una questione molto
importante vista la possibilità che tale situazione si ripercuota sugli altri
mercati della zona euro. Per tale motivo, al fine di scongiurare il default
della stessa, l'Ue, assieme al FMI ha intrapreso tali misure di salvataggio. I
prestiti sono stati concessi a seguito di un piano economico approvato dal
governo ellenico, volto a ridurre il proprio debito pubblico attraverso tagli
significativi della spesa. Quindi, senza mezzi termini la Troika di creditori
pone come condizione per sbloccare il pacchetto di aiuti internazionali,
l’attuazione da parte del governo greco di nuove misure strutturali e di
austerità.
La crisi in Grecia è quindi il riassunto del fallimento di uno Stato o più in
generale del fallimento dell'architettura comunitaria. Ma è anche il
riassunto del fallimento della classe politica, di un sistema basato sulla
corruzione, sullo scambio di favori che annienta lo spirito d'impresa e
blocca qualsiasi sviluppo in ambito finanziario. I problemi della Grecia,
oltre quelli strettamente di natura finanziaria, sono da ricercare nel
clientelarismo, nella corruzione e nell'impotenza della giustizia. La
Costituzione greca limita considerevolmente la possibilità di incriminare i
leader politici. Nessuno di loro, infatti, è mai stato oggetto di un’azione
giudiziaria, neppure in casi eclatanti come gli scandali Siemens e Vatopedi.
136
Anche per le cause più semplici occorre attendere almeno cinque anni
prima che si svolga il processo. Questa non è giustizia ma la sua
negazione. Fino a qualche anno fa la vita che il popolo greco conduceva
era nettamente superiore al limite di ogni reale possibilità. Se da una parte
la classe politica ha sbagliato, dall'altra il popolo greco ha comunque le
sue responsabilità, essendosi approfittato della leggerezza dei propri
amministratori.
CONCLUSIONI
In conclusione, come accennato nell’introduzione ed approfondito
nel corso dei tre capitoli, questo lavoro ha voluto descrivere la situazione
generale che il mondo ha dovuto e continua ad affrontare a causa dello
scoppio della crisi finanziaria ed economica, incluse tutte le implicazioni
sfociate nei vari mercati. Si è visto come le tensioni dei mercati finanziari
iniziate nell’agosto 2007, abbiano richiesto interventi straordinari da parte
delle autorità di tutto il mondo. Le banche centrali, in particolare, hanno
affrontato sfide senza precedenti. Lo scopo di questa analisi era quello di
individuare le differenze tra la politica monetaria attuata negli Stati Uniti
dalla Fed e quella intrapresa nell’area euro dalla BCE. Tali differenze sono
lo specchio della diversa evoluzione della crisi, sviluppatasi dapprima in
America come crisi finanziaria sub-prime e presto estesasi in Europa come
crisi del debito pubblico. Dunque, la reazione dei policy-maker alla crisi
137
mondiale è stata sin dai suoi inizi orientata rapidamente verso una drastica
riduzione dei tassi d’interesse, a conferma che questi hanno imparato la
lezione data dai fatti accaduti nel 1930 e della situazione giapponese nel
1990. Questa azione oltre a portare una consistenza dei tassi d’interesse
oramai prossima allo zero, ha anche dato corso a nuove politiche fiscali
espansive in diversi Paesi. L’intervento delle banche centrali è stato
massiccio. Infatti, oltre ad una riduzione marcata dei tassi d’interesse di
riferimento, la Fed e la BCE hanno effettuato numerose e cospicue
immissioni di liquidità. La Fed ha ampliato la gamma dei suoi interventi. La
BCE ha allungato la scadenza media delle operazioni di rifinanziamento, ed
ha inoltre lanciato a marzo 2015 la prima fase del suo programma di
acquisto dei titoli di stato (QE). Se l’America è ormai definitivamente uscita
dalla crisi, grazie anche alle nuove politiche monetarie messe in atto dalla
Fed, l’insieme delle manovre intraprese dalla BCE si è dimostrato, almeno
finora, insufficiente a contrastare una tale crisi, tanto che nel 2010 la
Grecia ha sfiorato il default ed i timori verso un possibile contagio di
questa situazione ad altri Paesi vicini ha obbligato i policy-maker di tutto il
modo a cambiare le misure di stimolo fiscale in misure di austerità. Gli
eventi che si sono succeduti hanno messo in luce come non sia sufficiente
soltanto il rispetto di alcuni indicatori di finanza pubblica per poter far
entrare un Paese europeo nell’area euro, specie se anche questi pochi
indicatori richiesti vengono sistematicamente disattesi dai Paesi, né
138
possono essere ancora tollerati in futuro comportamenti di alcuni stati
membri, i quali pur effettuando delle drastiche riforme nel senso del
raggiungimento degli obiettivi fissati, hanno finito per occultare alcuni dati
negativi per ottenere comunque l’ammissione con la complicità di qualche
importante istituzione finanziaria. Guardando ad indicatori come gli indici
azionari ed il livello degli spread sovrano nell’area euro è comunque
evidente come dal momento di maggior intensità della crisi la situazione
abbia iniziato a migliorare ad inizio 2013. Si può affermare che la fase di
maggior criticità della crisi finanziaria sia passata, gli spread sovrani non
sono più da allarme rosso e diversi Paesi hanno intrapreso un percorso di
riforme che dovrebbe portare a bilanci meno dissestati e ad aumentare la
competitività della loro economia. Tuttavia l’immissione di liquidità non ha,
al momento, sortito tutti gli effetti desiderati: i problemi sul mercato
monetario continuano e non sembrano ancora risolti. Presumibilmente
l’aumento dei finanziamenti concessi dalle banche centrali sono riusciti a
ridurre il rischio di liquidità, ma hanno avuto scarso impatto sul rischio di
credito. L’inadeguatezza degli strumenti tradizionali del prestito d’ultima
istanza pone difficili interrogativi sulle modalità di gestione della crisi da
parte delle autorità monetarie. Dunque, sebbene sia possibile affermare
che il peggio della recessione è probabilmente alle spalle, la situazione
attuale è ancora molto rischiosa, per cui la stabilità del processo di crescita
nell’area euro non è affatto garantita.
139
140
Sezione Inglese
English Section
Englische Abteilung
141
142
CHAPTER 1
INTRODUCTION:
The first chapter of this study aims to provide a comprehensive and
historical explanation of the 2007 Global Financial Crisis (GFC) focusing on
its origination in the U.S. housing market. Although subprime market
triggered GFC, the thesis purports to show that deeper causes of crisis
have roots in the economic global imbalances and that both failure of
market mechanism and lax regulation played a very important role too.
Furthermore, the study will present an in-depth analysis of the impact of
GFC on the so-called “Euro-zone” (the EU countries which share the Euro
as a common currency), elaborating on how GFC may have contributed to
jeopardize, or at least re-discuss the European governance structure, and
why it affected the entire global banking system. Lastly, in the last section
of this chapter, I will try to articulate how what started, in the Euro-zone,
as a banking crisis, translated soon into the so-called “sovereign debt
crisis.”
1.1 What happened in America in 2007?
The financial disruption, incepted by the U.S. "subprime mortgage"
crisis spread to a number of other advanced economies in the summer of
2007. Such crisis originated from a “bubble” (increased prices of one or
143
more asset classes which become disconnected from fair market
evaluation, ultimately spiralling out of control and conducive to a possible
real value-destructive blow), exacerbated by: (1) new kinds of financial
innovations that arguably disguised real risk; (2) widespread failure by
market operators to comply with their own internal or corporate risk
management procedures; and (3) regulatory as well as market operators’
failure to prevent assumption of excessive financial risk exposure.
- 1.1.1 UNDERSTANDING THE SUB-PRIME CRISIS
This type of asset bubble formed in the U.S. housing market, leading
to increases in home prices across the country each single year from the
mid 1990s to 2006, not in line with fundamentals like household income.
As in historical asset price bubble scenarios, expectations of further price
increases developed in both market operators and general public, resulting
in a significant factor in yet more inflation of house prices. As people
realized that prices kept rising in their neighbourhood and across the
country, they began to expect those prices to continue to rise, even in the
late years of the bubble when it had nearly peaked. Starting in 2003, one
of the main causes of U.S. housing market rapid expansion was that
interest rates were extremely low. The rapid rise of lending to subprime
borrowers - people considered higher-than-normal credit risk, typically
having a below-average credit history and thus penalized for their poor
144
credit with higher interest rates - helped inflate the housing price bubble.
Before 2000, subprime lending was virtually non-existent, but thereafter it
took off exponentially. Lenders relaxed their lending criteria for borrowers:
loans (mainly mortgages) were extended with insufficient if any
verification of income and/or other proper due diligence. In some
instances, even 'NINJA', or 'No Income, No Job or Assets' borrowers were
given access to this type of loans. The sustained rise in housing prices,
along with financial innovations, suddenly made subprime borrowers previously with no significant access to mortgage markets - attractive
customers for mortgage lenders. Furthermore, lenders devised innovative
Adjustable Rate Mortgages ( ARMs) - with low 'teaser rates', no downpayments, and some even allowing the borrower to postpone some of the
interest due each month and add it to the principal of the loan – clauses
predicated on the expectation that home prices would continue to rise.
But innovation in mortgage design alone would not have enabled so many
subprime borrowers to access credit without other innovations in the socalled process of 'securitizing' mortgages - that is the pooling of
mortgages into packages in order to sell securities backed by those
packages to investors who receive pro rata payments of principal interest
by the borrowers. In other words ‘securitization’ is the process of taking
an illiquid asset, or group of assets, and through the financial engineering,
transforming them into a security. A typical example of securitization is a
145
Mortgage-Backed Security (MBS), which is a type of Asset-Backed Security
(ABS) that is secured by a collection of mortgages. Through this process
loans, originated by banks were all the more and more directed to the
balance sheets of institutions. These institutions grouped loans with
similar characteristics (mortgage loans, credit cart debt, student loans and
the like), and issued securities packages backed by these pools of loans.
This portfolio diversification resulted in a reduced risk for the ABS
investors, and borrowers were able to access credit they otherwise would
not have had. The two main GSEs engaged in mortgage lending, Fannie
Mae and Freddie Mac, developed this financing technique in the 1970s,
adding their guarantees to these MBS to ensure their marketability. For
roughly three decades, Fannie and Freddie confined their guarantees to
"prime" borrowers who took out 'conforming' loans, or loans with a
principal below a certain dollar threshold and to borrowers with a credit
score above a set standards. Along the way, the private sector developed
MBS backed by non-conforming loans following other means of 'credit
enhancement', but this market stayed relatively small until the late 1990s.
The securitization process enabled mortgage lenders to pass on to others
the credit risk of the sub-prime borrowers within days of the mortgages
being taken out. With the risks removed so rapidly from their balance
sheets, mortgage lenders had little incentive to verify borrowers’ credit
history. Securitization also helped lenders free up capital for more lending,
146
as they no longer had to put money aside to cover the risks of default on
these mortgages. Once the risks disappeared from their balance sheets,
the original lending institutions knew that a default instantly had become
someone else’s problem. Hence, banks, thrifts and a new industry of
mortgage brokers originated the loans but did not keep the related risk,
which was the 'old' way of financing home ownership. It is important to
remember that MBS are only one aspect of the securitization trend. Over
the past decade, private sector commercial and investment banks
developed new ways of securitizing subprime mortgages. Other loans, in
fact, were recombined in pools that backed ABS, named 'Collateralized
Debt Obligations' (CDOs). These obligations are structured financial
products that pool together cash flow-generating assets and repackages
these asset pools into tranches that can be sold to different classes of
investors with different degrees of risk aversion. The CDO definition itself
indicates the function of these pooled assets – such as mortgages, bonds
and loans – as essentially debt obligations which act as collateral of the
structured security issued.
By doing this, developers of CDOs - and subsequently other securities built
on this model - , were able to convince the credit rating agencies to grant
high ratings to the securities in the highest tranche, or risk class. In some
cases, so-called ‘monoline’ bond insurers - which had previously
concentrated on insuring municipal bonds - sold protection insurance to
147
CDO investors covering the event of default. In other cases insurance
companies, investment banks and other parties did the near equivalent by
selling 'Credit Default Swaps' (CDS), which were similar to monoline
insurance in principle but different in risk, as CDS sellers put up very little
capital to back their transactions. These innovations enabled Wall Street to
do for subprime mortgages what it had already done for conforming
mortgages, and they facilitated the boom in subprime lending that
occurred after 2000. By channelling funds of institutional investors to
support the origination of subprime mortgages, many households
previously unable to qualify for mortgage credit, became eligible for loans.
This new group of eligible borrowers increased housing demand in the real
estate marketplace, thus helping inflate home prices. Those new financial
innovations thrived in an environment of easy monetary policy by the
Federal Reserve and poor regulatory oversight. With interest rates so low,
and with regulators turning a blind eye, financial institutions borrowed
more and more money (increasing their leverage
32)
to finance their
purchases of MBS. Banks created off-balance sheet affiliated entities such
as 'Structured Investment Vehicles' (SIVs) to purchase MBS that were not
32
Leverage: Companies use various financial instruments or borrowed capital such as margin to
increase the potential return of an investment by the process. In short, it is the amount of debt
used to finance the companies’ assets.
148
subject to regulatory capital requirements. Financial institutions also
turned to short-term 'collateralized borrowing’ like sale and repurchase
agreements or “repos”, to the extent that by 2006 investment banks were
on average rolling over a quarter of their balance sheet every night. Repos
are sales of securities together with an agreement for the seller to buy
back the securities at a specific future date: in a repo, one party sells an
asset to another party at one price at the start of the transaction and
commits to repurchase the assets from the second party (the buyer) at a
different price at a future date (the buyer in a repo is often described as
doing a reverse repo). Consequences of these mechanisms became
evident when the U.S. Federal Reserve started raising interest rates, that
had been as low as 1 percent until June 2004, and that reached 5.25
percent by June 2006. Sub-prime borrowers could not meet their
increased mortgage payments and defaulted. This already perilous
situation shut down once panic hit in 2007. Thereby, as sudden
uncertainty over asset prices caused lenders to abruptly refuse to rollover
their debts, over-leveraged banks found themselves exposed to falling
asset prices with little capital cushion. By 2007, as interest rates rose and
borrowers began to default, rating agencies massively downgraded CDOs.
Suddenly, investors found that they were holding devalued and largely
illiquid securities. A sharp fall in house prices pushed rates of mortgage
defaults even higher. More than 100 mortgage lenders went bankrupt
149
during 2007 and 2008. The non-depository investment banks and hedge
funds, also known as the shadow banking system, had assumed
significant debt burden by providing loans but could not absorb large CDO
losses. Since CDOs are traded worldwide, the sub-prime mortgage crisis
spread outside the United States. Banks with large exposures to sub-prime
mortgage markets suffered huge losses, particularly IKB Deutsche
Industriebank (Germany), BNP Paribas (France) and Macquarie Bank
(Australia). Globally, investment banks were badly hit. In March 2008, the
U.S. Federal Reserve re-wrote its rule book to rescue Bear Stearns, the
fifth largest U.S. investment bank, from collapse on the grounds that it
was too entangled with other financial institutions, particularly in credit
default and interest rate swaps, to be allowed to fail. Later that month,
Bear Stearns was bought by JP Morgan Chase. In September 2008,
Lehman Brothers filed Chapter 11 petition (bankruptcy proceedings) and
Merrill Lynch was acquired by Bank of America. The remaining two major
investment banks, Morgan Stanley and Goldman Sachs, converted to bank
holding companies. Under U.S. government complex bail-out programs, a
number of banks and financial institutions received massive injection of
public money. In the U.S., Europe and Japan, central banks intervened to
inject liquidity into the global financial system because U.S. and European
investment banks no longer wanted to lend money to each other because
of the hidden and unknown risks of exposure to CDOs.
150
While it is now possible to say that the system-wide increase of debt was
irresponsible and bound for catastrophe, it is not shocking that
consumers, would-be homeowners, and profit-maximizing banks will
borrow more money when asset prices are rising; indeed, that is quite
intuitive. What is especially shocking is how institutions along each stage
of the securitization chain failed so grossly to perform adequate risk
assessment on the Mortgage-Related Backed Security issuer, to the CDO
issuer, to the CDS protection seller, to the credit rating agencies, and to
the holder of all those securities. At no point did any institution stop the
party or question the little-understood computer risk models, or the
blatantly unsustainable deterioration of the loan terms of underlying
mortgages. A key point in understanding this system-wide failure of risk
assessment is that each link of the securitization chain is plagued by
asymmetric information - that is, one party has better information than
the other does. In such cases, one side is usually careful in doing business
with the other and makes every effort to accurately assess the risk of the
other side with the information in its possession. However, the sort of due
diligence that is to be expected from markets with asymmetric information
was essentially absent in recent years of mortgage securitization.
Computer models took the place of human judgment, as originators did
not adequately assess the risk of borrowers, mortgage services did not
adequately assess the risk of the terms of mortgage loans they serviced,
151
MBS issuers did not adequately assess the risk of the securities they sold,
and so on. The lack of due diligence on all fronts was partly due to the
incentives existing in the securitization model itself. Having the ability of
immediately passing off the risk of an asset to someone else, institutions
had little financial incentive to worry about the actual risk of the assets in
question. But what about the MBS, CDO, and CDS holders who did
ultimately carry the risk? The buyers of these instruments had every
incentive to understand the risk of the underlying assets. What explains
their failure to do so?
One part of the reason is that these investors - like everyone else - were
caught up in a bubble mentality that enveloped the entire system. Others
saw the large profits from subprime-mortgage related assets and wanted
to get in on board quickly. In addition, the sheer complexity and opacity of
the securitized financial system meant that many people simply did not
have the information or capacity to make their own judgment on the
securities they held, instead relying on rating agencies and complex but
flawed computer models. In other words, poor incentives, the bubble in
home prices, and lack of transparency erased the frictions inherent in
markets with asymmetric information and since the crisis burst in 2007,
the extreme opposite occurred: asymmetric information discrepancies
having effectively frozen credit markets.
152
In order to better understand the reasons why all this was possible,
section 1.2 provides a short refreshment of what has led to the high
strains in many financial markets, starting as of August 2007, and
elaborates on the economic situation that contributed to financial crises
and fragility over the last thirty years or so. This is crucial in order to
identify the essential initial conditions, which led to the 2007 financial
crisis.
1.2 The real causes behind the crisis
There are plenty of hypotheses about what caused the global
financial crisis, ranging from greed to fraud to regulatory failures. Some
analysts have explained the crisis through a financial instability hypothesis
while others view it as a structural crisis of global capitalism. Some experts
have blamed national income inequality for playing a significant role in the
financial crisis. Some have also pointed out the involvement of big
investment banks in facilitating the collapse of housing mortgage markets,
which triggered the global financial crisis. Undoubtedly, there are
elements of truth in all these hypotheses. However, very few would
dispute that there was no a single cause of the crisis. Even though the
collapse of the sub-prime mortgage markets in the U.S. was the trigger of
the crisis, it is now universally considered that a combination of factors
contributed in the origin and severity of the crisis. Some key factors
153
include expansionary monetary policies in major financial centres;
developments affecting the sub-prime mortgage markets of US; extensive
use of securitization, complex derivative instruments and shadow banking
system; excessive leverage in the financial system; poor assessment of
risk in the financial system; lax regulation and supervision by government
authorities, caused by faith in efficient markets; and last but not least
global macroeconomic imbalances.
Section 1.2 makes a case that global imbalances of the 2000s and the
recent global financial crisis are intimately connected. Both have their
origins in economic policies adopted by a number of countries in the
2000s and in distortions that influenced the transmission of these policies
through the U.S. and, ultimately, the global one. In the U.S., the
interaction among the Fed's monetary stance, global real interest rates,
credit market distortions, and financial innovation created the toxic mix of
conditions making the U.S. the epicentre of the global financial crisis.
Outside the U.S., exchange rate and other economic policies followed by
emerging markets such as China contributed to the United States' ability
to borrow cheaply abroad and thereby finance its unsustainable housing
bubble.
- 1.2.1 PREVIOUS FINANCIAL CRISES
"Finance is, as it were, the stomach of the country, from which all the
154
other organs take their tone"
A
financial
system
33.
-
comprising
banking
and
non-banking
institutions, financial markets and instruments, pension fund and
insurance companies, and a large regulatory body, like a central bank to
oversees and supervises the operations of these intermediaries - plays an
extremely significant role in the free-market-based economies. It is a
sector of the economy that utilizes productive resources to facilitate
capital formation through the provision of a wide range of financial tools in
order to meet different requirements of borrowers and lenders. In short,
financial system stimulates economic growth. However, financial sector
can only perform well these jobs when it is stable. In discharging its
functions, the financial system must cope with and extensive range of
risks; and this situation makes it imperative some stability in both a single
financial system and the global financial markets. Furthermore, financial
systems are not static and their constant evolution due to the impact of
financial innovation, deregulation and financial globalization has made
them prone to various bouts of instability (bank failures, bubble burst,
indebtedness and failure of the payment system due to liquidity freeze)
and fragility. Nonetheless, the most visible form of fragility is the recurrent
33
Cit. William Gladstone.
155
financial crises that have become a regular feature of market-based
economies – both emerging economies and the advanced economies –
since the 1970s. Macroeconomic effects of financial instability can be very
costly due to their contagion effect across the whole economy. Therefore,
maintaining a stable financial system becomes an important policy
objective for government authorities. Recent financial history of both
Advanced Economies (AEs) and Emerging Market Economies (EMEs) is
replete with many instances of financial crisis and/or financial fragility.
Some Latin American countries have gone through repeated incidents of
financial sector instability in the 80s. Argentina debt crisis and financial
fragility in Chile are examples of this period. Another pertinent example of
widespread financial instability was the East Asian currency crisis in 199798, which developed in Thailand and engulfed the Indonesia, Korea and
Malaysia. Since the 90s, the majority of the EMEs suffered the various
financial crises and periods of financial turmoil; Mexico (1994), Russia
(1998), Turkey (2001-02), Argentina (2001) are some notable examples.
Nonetheless, the phenomena of financial crisis and instability are not
peculiar of EMEs; In fact, they occurred in the AEs as well. Scandinavia in
the late 1980s, experienced widespread instability in the financial systems
of Sweden, Finland and Norway. The United States also has its fair share
of crisis instances: Great Depression of 1930s, Stock Market Crash of
1987, Saving and Loan Crisis in the early ‘90s, and last but not least the
156
U.S. subprime crisis of 2007, which turned into a global financial
meltdown, or the most costly financial displacements since the Great
Depression. After the meltdown in Latin America in the 1980s came, a
decade of stock market and housing booms in the United States that
eventually went bust. The Asian financial crisis of 1997-98 was also
followed by a run on U.S. assets, causing a bubble (and the dot-com
boom) that subsequently burst. If in the 1980s and 1990s, the central
feature, in particular, of the EMEs crises was current account deficits financed by short-term foreign currency borrowing that - thus when the
crises hit the currencies collapsed creating mass bankruptcies, in the
2000s the emerging world moved into massive current account surplus.
This was part of the explanation for the global savings glut and low global
real interest rates pointed to by Alan Greenspan (Chairman of the Federal
reserve of the U.S. from 1987 to 2006) and Ben Bernanke (Chairman of
the Federal Reserve of the U.S. from 2006 to 2014).
1.3 “Global Savings Glut” theory
"In my view … it is impossible to understand this crisis without reference
to the global imbalances in trade and capital flows that began in the latter
half of the 1990s." 34
34
Ben S. Bernanke
157
The global savings glut theory, embraced by Mr. Ben Bernanke, the
former chairman of the U.S. Federal Reserve, does not root the global
imbalances in a U.S. supposed propensity to over-consume. Rather, the
real cause of all evil would be the flood of foreign capital into the United
States, and hence certain countries’ tendency to 'save' too much.
Traditionally, trade imbalances – between aggregate exports and imports
– were understood to be caused by differences in national levels of saving
and investment. National savings are comprised of the savings from three
sources - the household sector, the business sector and the government
sector. Investment is made up primarily of investments in factories and
equipment, and real estate investment, i.e. development of residential and
commercial properties and apartment buildings. The rationale for
attributing the trade imbalance to the difference in national levels of
savings and investment runs as follows: if a country invests more than it
saves, then that country can borrow from abroad to finance that gap. In
that case, that country would have a deficit on its current account. In
other words, a country that invests more than it saves will have a current
account deficit.
Investment > Savings = Current Account Deficit.
Conversely, a country that saves more than it invests, can lend its surplus
savings to other countries. It then will have a current account surplus.
158
Thus, a country that saves more than it invests will have a current account
surplus.
Savings > Investment = Current Account Surplus.
Bernanke has often used this reasoning to explain the United States
massive current account deficit. Some countries like China, he argued,
save more than they invest, causing them to have a current account
surplus and a glut of savings that they need to lend abroad to savings
deficient countries like the United States. This allows the United States to
borrow from abroad and invest more than it saves, which produces the
U.S. current account deficit. Bernanke often used this argument to explain
away the U.S. current account deficit; even as it grew to terrifying
proportions (it peaked at $800 billion in 2006). Bernanke liked to explain
that countries like China, Japan, Korea and Taiwan had such a high
propensity to save that it simply was not possible for them to find
profitable investment opportunities for so much savings in their own
countries. This assertion is at least somewhat astounding, given the very
high rates of economic growth that most of those countries experienced.
Either way, in this view they were compelled to lend to the United States,
thereby causing America’s massive current account deficit. That line of
reasoning became known as Bernanke’s ‘global savings glut theory’.
159
1.4 What happened when the crisis exploded in Thailand?
Current account configurations in the mid-1990s were overall
unexceptional. In 1995, developing Asia (which includes China) and the
Western Hemisphere countries had comparable deficits, and the countries
of central and Eastern Europe were net borrowers on a smaller scale.
Other regions were in surplus, with the mature economies as a group
providing the main finance for the developing borrowers. In 1995, the
United States was running a current-account deficit that was large in
absolute terms. Then, in 1997, the Asian crisis struck. In 2005, Mr.
Bernanke provided a particularly eloquent and concise summary of the
influential view that the crisis contributed to a sequence of events and
policy responses in EMEs that set the stage for the arrival of much larger
global imbalances starting in the late 1990s. The Asian turbulence began
with Thailand’s currency crisis. The crisis spread contagiously to other
Asian countries, many of which had seemingly healthier fundamentals
than Thailand’s. Under market pressure, however, weaknesses were
revealed in a number of Asian banking systems. Most of the affected
countries turned to the International Monetary Fund for support. As the
recessionary effects of the crisis dissipated and the dot-com boom reached
a peak, global commodity prices rose helping to generate surpluses for the
oil-producing Middle East and the Commonwealth of Independent States.
The advanced economies as a group ran a correspondingly bigger deficit.
160
The U.S. deficit increased to 2.4 percent of GDP in 1998, to 3.2 percent in
1999 and to 4.3 percent in 2000, with only a slight reduction in 2001,
when the country experienced a short-term recession Subsequently, the
upward trend resumed. The surpluses of the Asian countries and oil
producers proved to be persistent. In newly industrialized Asia, gross
saving remained more or less at pre-crisis levels but investment declined.
In developing Asia, saving returned to the pre-crisis level of around 33
percent of GDP only in 2002, from which level it continued to rise quickly.
Gross investment returned to the pre-crisis level of about 35 percent of
GDP only in 2004, and while it continued to rise significantly t, it did not
rise as much as saving did. In time, investment in much of Asia did
recover relative to saving, but developments in China outweighed this
phenomenon. By then, according to Bernanke, China’s imbalance, along
with those of the oil exporting countries had become a major counterpart
of the global deficits. Supporting these enhanced current account
surpluses were exchange rate policies that tended to maintain rates at
competitive levels compared to the pre-crisis period. One motivation for
foreign exchange intervention policies in Asia was to pursue export-led
strategies for maintaining high economic growth rates. Another was to
accumulate substantial stocks of international reserves as buffers against
future financial crises that might otherwise force renewed dependence on
the IMF. Therefore, exchange-rate policies in emerging markets supported
161
the constellation of growing global imbalances through the 2000s.
That is the reason Bernanke, in 2005, posited that an outward shift of
emerging-market saving figures, both in Asian economies and in
commodity exporters – enhanced by better trade patterns – was the
principal cause of the expansion of U.S. external deficits starting in the
latter 1990s. Hence Mr. Bernanke argues that three observed phenomena
in the world economy in the decade after 1996 - the substantial increase
in the U.S. current account deficit, the swing from moderate deficits to
large surpluses in ‘emerging-market countries’, and the significant decline
in long-term real interest rates - can all be explained as the fall-out of a
world ‘savings glut’. According to this theory, the advent of this 'global
saving glut' led to worldwide asset-price adjustments that induced a
number of mature economies, most importantly that of the United States,
to borrow more heavily from abroad. Bernanke posited that the “global
saving glut,” rather than particularly unusual factors in the United States,
drove the imbalances. In particular, he assigns only a minor role to
monetary policy. "The kernel of the story, then, is one of the interaction
between global macroeconomic forces and an increasingly fragile,
liberalized financial system".
35
35
Martin Wolf, Fixing Global Finance
162
Martin Wolf, the Finacial Times' chief economics commentator, almost
completely agrees with Bernanke's point of view. According to Wolf, one
of the world's most respected economists, the global financial crisis of
2007-2008 was not a one-time event caused by lax regulation and
financial industry run riot. These circumstances were only part of its
proximate cause and the financial crisis was the inevitable product of the
global economic system. Wolf agrees that the story really began with the
Asian financial crisis of 1997-98. That crisis was sometimes dubbed the
“Asian flu” because of its viral spread to neighbouring countries. Shortterm lending in nonlocal currencies, principally U.S. dollars, in what were
perceived to be vibrant economies like Thailand’s were suddenly curtailed
when whiffs of economic problems arose. This curtailment both resulted in
and was exacerbated by runs on those countries’ currencies. Dollar loans
could only be repaid with debased local currency at high costs, if at all.
Economic collapse ensued. The crisis had serious detrimental impacts on
the economies of Indonesia, Malaysia, South Korea and the Philippines, as
well as Thailand. Those countries required emergency loans from the
International Monetary Fund (IMF). The IMF imposed severe conditions in
exchange for the loans, reducing the countries’ internal spending and
driving many people into extreme poverty. Furthermore, stocking up on
dollar investments by creating local currency to purchase dollardenominated assets as U.S. Treasury bonds had a depressive effect on the
163
local currency’s value relative to the dollar. This made the country’s
exports cheaper. Hence, the same policy that inured the country against
runs on its currency also fuelled export-driven growth. As is well known
now, that policy worked wonders, particularly for China’s economy. China
amassed a vast repository of foreign currency reserves, accompanying
high levels of export-driven economic growth. At the same time,
commodity prices soared in the 2000s, partly due to China’s growth, so
that commodity-exporting countries also amassed savings. The result was
a 'savings glut' - which Wolf says is the same thing as an “investment
dearth.” In other words, there were more funds looking for a place to be
invested than there were investments. For instance, in his book "Fixing
Global Finance" Wolf argues that China's inordinately mercantilist currency
policies have caused dangerous imbalances. In order to maintain its
exports' competitiveness on the world market and keep a vast work force
occupied, Beijing prevented the Chinese currency from appreciating
against the dollar and thus from driving up the price of China's exports. As
said above, the result was a vast trade surplus. A by-product, largely
unintended, was the piling up of reserves of U.S. dollars, which Beijing
then placed mostly in U.S. government securities. However, there is
something on which Wolf disagree with Bernanke. According to Wolf the
Federal Reserve did roughly what central banks are supposed to do,
namely, keep inflation in check. In his opinion, growth in the U.S. money
164
supply in the early years of this decade was not unreasonably high. At the
time, the Federal Reserve insisted that its job was to look at price levels
generally, not to puncture bubbles in some asset prices. For Wolf, "The
United States is at least as much the victim of decisions made by others as
the author of its own misfortunes". It was only natural, perhaps even
inevitable, in Wolf's view that the United States would emerge as the
borrower of last resort, with its perceived reliability as a debtor fuelling
global growth. Instead of quietly expropriating assets held by the Chinese
by gradually devaluing the dollar, the borrower of last resort got into
trouble itself. Bernanke theory perhaps underestimates another very
important factor: Most of the money, those countries invest in the United
States is not derived from ‘savings’. The money those countries invest is
newly created fiat money. When the People’s Bank of China (PBOC),
China’s central bank, created $460 billion worth of yuan in 2007 to
manipulate it currency by buying dollars, this money billion worth of yuan
was not ‘saved’, but, it was created from thin air as part of government
policy designed to hold down the value of its currency to perpetuate
China’s low wage trade advantage. That is a crucial difference. It
introduces a third variable in addition to saving and investment, ‘fiat
money creation’. Therefore, the equations expressing the determinants of
the balance on the current account must be rewritten as follows:
165
(Savings + Fiat Money Creation) > Investment = Current
Account Surplus.
When a country’s savings when combined with the paper money created
by its central bank exceeds the amount of its investment, then that
country will have a current account surplus that will force other countries
that do not create as much paper money to have current account deficits.
And,
Investment > (Savings + Fiat Money Creation) = Current
Account Deficit.
Thus, it has been not only a 'savings imbalance' but also an imbalance in
the amount of paper money being created by the world’s central banks,
that is responsible for the 'global imbalances' that destabilized the world.
Seen in this light, it is clear that the paper money creation by the PBOC
and other currency manipulating central banks, which amounted to nearly
$5 trillion between 1999 and 2007 alone, is responsible for destabilizing
the world economy - but not differences in the rate of real 'savings' as
Bernanke contends. China’s economy has been growing at roughly 10% a
year for two decades. It has the highest level of investment relative to
GDP any country has ever experienced (46% in 2009). It is absurd to
argue that there are not enough attractive investment opportunities in
China to absorb its savings and that China therefore is compelled to lend
166
its surplus ‘savings’ to the United States. The truth is that China’s central
bank prints yuan and uses it to buy dollars in order to hold down the value
of the yuan to support export-led growth. It is the dollars that the PBOC
accumulates in that manner that are ‘lent’ to the United States. However,
the Chinese fiat money was used primarily to buy US debt – in the form of
short- and long-term Treasury Bonds – rather than intervening on the
currency market, or forex. This contributed to create another anomaly:
the resilience of continued global bonds’ low yields, or interest rates, no
matter what readjustments the business cycles go through. The money
China pumps into the United States has had effects that most U.S.
policymakers consider very welcome and are keen to achieve. Chinese
funds drove up asset prices, drove down interest rates and made funds
available for a wide range of malinvestment, especially in housing. In the
years leading up to the crisis, it fuelled a credit bubble that pacified the
Americans who were losing their manufacturing jobs to low-wage Chinese
competitors. As the subprime mortgage crisis of 2007 escalated in 2008, a
profound flaw at the core of the U.S. financial system was revealed. Partly
due to this glut in global savings, assets had been repackaged so
thoroughly and resold so often that it became impossible to clearly
connect the thing being traded to its underlying value. Hence, according
to Mr. Wolf, there is more than just an easy monetary policy by the
Federal Reserve behind the creation of that major bubble in house prices.
167
In fact, the housing bubble was not unique to the United States. Actually,
as the background chapter on housing in the International Monetary
Fund’s latest World Economic Outlook (IMF's WEO) shows, U.S.
experience was far from exceptional. On the contrary, the biggest
apparent overvaluations occurred in Ireland, the Netherlands and the
United Kingdom. The chart shows how the proportionate increase in house
prices between 1997 and 2007 that cannot be explained by the
fundamental drivers: affordability (the lagged ratio of house prices to
disposable incomes); growth in disposable incomes per capita; interest
rates (short- and long-term); credit growth; changes in equity prices; and
changes in working-age population. Thus, the rises reveal the extent to
which the various countries experienced bubbles: the U.S. is in the middle
ranks. Similarly, the U.S. is in no way exceptional when it comes to level
of residential investment. In fact, according to the IMF chapter on housing
in the IMF's WEO, the share of residential investment in U.K. gross
domestic product has been much the same as in the United States. The
outliers were Ireland and Spain. U.S. monetary policy cannot be
responsible for all these bubbles. This might not be the case if these other
countries had followed US policy slavishly. But they did not. The Bank of
England, for example, followed what seems to be a consistently tighter
monetary policy than the Fed. Yet house prices in the UK may be even
more overvalued. The WEO does argue that “the unusually low level of
168
interest rates in the US between 2001 and 2002 contributed somewhat to
the elevated rate of expansion in the housing market, in terms of both
housing investment and the run-up in house prices up to mid-2005”.
Moreover, “the impact of easy monetary conditions on the housing cycle
presumably was magnified by the loosening of lending standards and
excessive risk-taking by lenders”. Yet the drawback to these US-specific
points, plausible though they may seem, is that they do not explain
house-price bubbles elsewhere.
According to Wolf's point of view, there are four overlying causes behind
these bubbles: (1) very low long-term real interest rates, because of the
global savings glut; (2) low nominal interest rates, because of both low
real rates and the benign inflationary environment; (3) relatively long
economic stability; and, above all, (4) the liberalisation of mortgage
finance in many countries. The greater the availability of finance, the
easier it was for purchasers to pay higher house prices and the higher
those prices, the more willing were people to purchase, in the expectation
of still higher prices. The WEO makes clear that house prices tended to
rise faster where finance was most easily available, as one might expect.
If there is little US-specific to explain, the U.S. easy monetary policy alone
cannot be responsible. However, it should have been possible for
regulations – and regulators – to be less lenient. Mr. Greenspan, in the
FT'S economists’ forum, argued that "even with full authority to intervene,
169
it is not credible that regulators would have been able to prevent the
subprime debacle". He basically stated that there was nothing to do, even
if grotesque abuses, such as undocumented loans and ridiculous ‘teaser’
rates had been curbed, nothing would have changed in terms of final
outcome. On this statement, Wolf disagrees with Mr. Greenspan, who
essentially argued that there is no middle way between repressed financial
markets, on the one hand, and almost completely free ones, on the other.
If the Fed accept to bail out the financial system when it gets into trouble,
regulation is inevitable. The solution, according to Wolf's point of view, is
to find simple, robust, rules-governed forms of regulation.
In conclusion, U.S. acquired status as the principal borrower created both
external and internal deficits, which were also promoted by the loose
monetary policy, made in response to the savings glut. Of course, the
most important aspect of internal deficits was the huge financial deficits of
U.S. households. These were sustained by the ability to borrow against
rising housing wealth. However, the result was growing vulnerability of the
U.S. financial system to housing-related debt. This was made worse by
extremely poor regulation - indeed active encouragement of very bad
lending,
as
above
explained
in
section
1.1.
The question now is: How did the Subprime Crisis affect the entire global
banking system? Section 1.5 of chapter 1, focuses on giving a
comprehensive answer to this question.
170
1.5 How the U.S. financial crisis went global and led to
European Sovereign Debt Crisis?
One enduring question about the financial turbulence that engulfed
the world starting in the summer of 2007, is how came that problems in a
small corner of U.S. financial markets - securities backed by subprime
mortgages accounting for only some 3% of U.S. financial assets - could
infect the entire U.S. and global, especially European, banking system.
This section seeks to shed further light on this question. Europe’s debt
crisis was initially triggered by events in the American banking sector.
When a slowdown in the U.S. economy caused over-extended American
homeowners to default on their mortgages, banks all over the world with
investments linked to those mortgages started losing money. America’s
fourth largest investment bank, Lehman brothers, collapsed under the
weight of its bad investments, scaring other banks and investors with
which it did business. The fear that more banks could fail caused investors
and banks to take extreme precautions. Banks stopped lending to each
other, pushing those reliant on such loans close to the edge.
European banks that had invested heavily in the American mortgage
market were hit hard. In an attempt to stop some banks from failing,
governments came to the rescue in many EU countries like Germany,
France, the UK, Ireland, Denmark, the Netherlands and Belgium.
171
However, the cost of bailing out the banks proved to be very high. In
Ireland, it almost bankrupted the government until fellow EU countries
stepped in with financial assistance. As Europe slipped into recession in
2009, a problem that started in the banks began to affect governments
more and more, as markets worried that some countries could not afford
to rescue banks in trouble. Investors began to look more closely at the
finances of governments. Greece came under particular scrutiny because
its economy was in very bad shape and successive governments had
racked up debts nearly twice the size of the economy. The threat of bank
failures meant that the health of government finances became more
important than ever. Governments that had grown accustomed to
borrowing large amounts each year to finance their budgets and that had
accumulated massive debts in the process, suddenly found markets less
willing to keep lending to them. What started as a banking crisis became a
sovereign debt crisis. In several countries, governments became ensnared
by the problems of the banking sector when troubled banks started
turning to them for help. The high cost of bank rescues led financial
markets to question whether governments could really afford to support
the banking sector. Furthermore, as recession began to bite across
Europe, the focus on the health of government finances threw a spotlight
on the fact that a number of governments in the Euro-zone had been
borrowing heavily to finance their budgets for years, accumulating huge
172
debts in the process. Easy money was available because investors had
turned a blind eye to warning signs about the health of the economy and
were not paying enough attention to the risks involved in lending more
and more. Part of the reason some governments had become dependent
on debt was that their economies had been losing competitiveness for a
long time, as they failed to keep up with economic reforms in other
countries. In some countries, governments had allowed property bubbles
and other unhealthy economic imbalances to develop. Finally, some
governments had ignored the rules designed to make the Euro work and
failed to coordinate their economic policies in a single monetary policy,
right from the moment they had agreed to share a common currency. In
an increasing number of countries a vicious cycle developed. Financial
instability stifled economic growth, which in turn lowered tax revenues
and increased governments' debts. Higher debts then raised the cost of
borrowing for governments, feeding financial instability. All of this
prompted questions as to whether the institutional set-up of the Economic
and Monetary Union and the euro was adequate in times of crisis. Hence,
the crisis exposed several shortcomings in the EU's system of economic
governance:
- Too much focus on deficits: Monitoring of countries' public finances had
focused on annual budget and not sufficiently on the level of government
debt. Yet a number of countries that had kept to EU rules by running low
173
annual deficits or even surpluses nevertheless found themselves in
financial difficulties during the global financial crisis because of high levels
of debt. Therefore, stricter monitoring of this indicator was needed.
- Inadequate public policies to spur competitiveness and monitor/avoid
macroeconomic imbalances: Public policies in the EU economies failed to
pay enough attention to unsustainable inequalities in competitiveness and
credit growth, leading to accumulated private sector debt, weakened
financial institutions and inflated housing markets.
- Weak enforcement: For Eurozone countries that did not play by the
rules, enforcement was not strong enough; a firmer and more credible
mechanism of sanctions was needed.
- Slow decision-making capacity: Too often, institutional weaknesses
meant that tough decisions on worrying macroeconomic developments
were postponed. This also meant that insufficient account was taken of
the economic situation from the perspective of the Eurozone as a whole.
- Emergency financing: When the crisis struck there was no mechanism to
provide financial support to Eurozone countries that suddenly found
themselves in financial difficulties. Financial support was needed not only
to address country-specific problems but also to provide a 'firewall' to
prevent problems spreading to other countries that were at risk.
174
Consequently, Greece, and subsequently, Ireland, Portugal, Spain, Italy
and Cyprus, were eventually unable to borrow on financial markets at
reasonable interest rates. The EU was requested to step in, which resulted
in the creation of a crisis resolution mechanism and financial backstops i.e.
large funds on stand-by to be used in an emergency by Eurozone
countries in financial difficulty. On 25 March 2010, Jean-Claude Juncker,
the President of the Euro group, made a statement on Greece. This
statement included the following words: "As a part of a package involving
substantial International Monetary Fund financing and a majority of
European financing, Euro-Area Member States are ready to contribute to
coordinated bilateral loans". That sounds somewhat long-winded. Put
simply, it means that the Eurozone heads of state and government were
ready to support Greece financially. That statement could be seen as the
official start of the sovereign debt crisis in the Euro-Area, the 'starting
shot' so to speak. Of course, it was not the real start. The crisis was not
something that happened suddenly, but rather the end of a long road, and
the road leading out of the crisis is just as long but much more arduous,
particularly for those countries which are directly affected by the crisis.
However, what is controversial is what road must been taken to arrive at
the destination. In order to recognise the direction in which the road has
to go, it is important to elaborate on where, actually, the crisis starts. The
section 1.6 will look back at the road that led to the crisis and its
175
underlying causes.
1.6 Looking back: The causes of the sovereign debt crisis
The Eurozone sovereign debt crisis is a moving target. Among other
things, its roots are traceable to the 2008 financial crisis, flawed political
constructs, risky and dishonest business practices, and faulty economic
models. The ultimate goal of this chapter is to synthesize the underlying
causes and consequences of the sovereign debt crisis. The sovereign debt
crisis cannot be understood without bringing in elements of politics,
economics, and private debt. But, for sake of expediency, this section
focuses on developments at the national level (public debts) and within
the European banking sector, particularly the European Central Bank
(ECB).
BACKGROUND: How did Europe get there?
To analyse the effectiveness of the new European banking regulations
and other political reforms, one must first understand the underlying
problems they are meant to address.
1) CRACKS IN THE FOUNDATION
The very adoption of the euro as common currency created two
significant problems. First, it fuelled sovereign debt by making cheap
credit readily available because the Eurozone as a whole enjoyed low
176
interest rates. The association with stronger Eurozone members buoyed
Nations that would have been weaker with their national currencies.
Second, it meant that the disparate economic competitiveness of
European nations would no longer be automatically adjusted by national
currencies devaluations. The second problem is not overly publicized
outside the business or market sectors, but it should be. It is systemic and
has become increasingly acute in the past decade. For example, between
1998 and 2008, German competitiveness rose by 18%, while Ireland,
Spain, Portugal, Italy, the Netherlands, and Greece all experienced sharp
declines, some by as much as 15 to 20%. The result is a competitiveness
imbalance of around 30 to 40%. For example, at the high end of the scale
(roughly a 40% spread), a job that pays €40,000 a year in Germany would
cost roughly €56,000 for its counterpart in Greece. However, the Greek
economy has less capacity and productivity than the German economy,
and so there is no logical justification for this disparity. This disparity
reveals how Greece used its access to the euro (and Eurozone credit
rates) to subsidize a high-spending lifestyle beyond its individual capacity.
On top of these problems, a distinct lack of oversight plagued the creation
of the fiscal Eurozone. Originally, a country that wished to enter the
Eurozone was required by treaty to assure its financial stability by meeting
the so-called Maastricht Criteria. Generally, this entailed keeping inflation
below 1.5% a year and maintaining a budget deficit of less than 3% of
177
GDP, as well as a debt to GDP ratio of less than 60%. The entry treaties
empower the European Commission and Council to monitor member
states, and impose sanctions for unrepentant violators. In practice,
however, enforcement of the debt criteria was weak, and government and
market actors alike ignored and abandoned them. Periphery states like
Spain, Italy, and Greece entered the Eurozone by either deferring the
politically unpalatable reforms or by cooking the books. Thus, while these
less-solvent states enjoyed some of the immediate benefits of entry (i.e.,
an influx of capital and credit), they remained at a significantly lower
productive capacity than other Eurozone states. Italy is an example of a
country for which low productive capacity is a bigger problem than price
divergence. Today, the Maastricht Criteria is largely a moot point because
most Eurozone countries are running huge deficits and unprecedented
debts. The Criteria loses both credibility and relevance as countries
become either unwilling or unable to comply. In sum, despite a common
currency, underlying structural problems of price, competitiveness and
productive capacity persist within the Eurozone and have intensified under
market strain. Also, note the interplay of these problems: a country with
less productive capacity but equal access to credit will have much more
difficult time deleveraging in an economic slump. That is, countries with
initially lower productive capacities that assume disproportionately
massive debts cannot outgrow easily or naturally the burden by boosting
178
GDP. Thus, at national level (the countries themselves), following the
introduction of the euro, a large amount of capital flowed into the
countries which are now at the centre of the crisis such as Greece, Italy,
Spain, Cyprus. First, it is economically plausible that capital flows from
highly
developed
countries
into
countries
that
are
catching
up
economically. However, in this specific case, the inflowing capital did not
finance a sound catching-up process. Instead, it financed house price
bubbles in some countries – such as Ireland and Spain. Elsewhere, it
funded excessive government spending – as in Greece and Italy. The
inflowing capital did not fund sound growth: instead, it masked, as stated
above, an existing lack of competitiveness and, in fact, made it even
worse. These structural problems played an important role in the crisis.
Competitiveness problem is one of the most important structural problems
of the European Monetary Union. In fact, the Euro has caused a
divergence in competitiveness. Countries who face higher labour costs
cannot regain competitiveness in the usual way: depreciation of the
currency. Prices become uncompetitive, leading to lower domestic
demand, and higher current account deficits. Since 2011, current account
deficits have fallen in countries like Ireland and Spain, but it has been at
the high cost of reducing domestic demand and rising unemployment.
Countries are seeking to regain competitiveness through internal
devaluation (lower demand, pushing down prices) but, this is much more
179
damaging to the economy than the traditional approach of depreciating
exchange rates. Also at the European level, shortcomings in the
framework of Monetary Union played a critical role in the crisis. In order to
understand these shortcomings, it is important to know the particular
features of Monetary Union. The European Monetary Union is special
because it features a combination of a central monetary policy and
national fiscal policies. The monetary policy for the 18 countries of the
Eurozone is decided by the Governing Council of the European Central
Bank (ECB) in Frankfurt. However, the fiscal policies of the 18 members of
the Euro-Area is a matter for the national policymakers – each national
government has the word on its fiscal and budget policy. Given such an
imbalance of responsibilities, the individual countries have incentives to
borrow. Consequently, the costs of borrowing are spread across all the
Member States of the Monetary Union - for example, by means of a higher
interest rate level for all of them. This incentive to borrow, this ‘deficit
bias’, was also recognised by the founders of the Monetary Union. In
order to reduce it, they came up with two purported solutions:
First, they created explicit rules on borrowing in the form of the Stability
and Growth Pact (SGP). This Pact was intended to keep a tight check on
national fiscal policies. It came into force in 1997 and was subsequently
revised in 2005. This document establishes two essential rules of
coordination in order to reduce macroeconomic imbalances: on the one
180
hand, there is an obligation to maintain, in the medium term, a balanced
or surplus budget; on the other hand, each Member State is not allowed
to run a budget deficit higher than 3% of its Gross Domestic Product
(GDP). Second, the founders of Monetary Union incorporated a 'no bailout' principle into the Maastricht Treaty: no Euro-Area country was to be
liable for the debts of another member state. Thus, national responsibility
was to be the guiding principle for fiscal policy in the monetary union.
Each country was itself to bear the consequences of its own fiscal policy.
These rules were intended to keep borrowing by the Euro-Area countries
within reasonable limits. However, rules were not the only means of
achieving this. The financial market actors, too, were to ensure that the
Euro-Area countries did not incur into excessive debt. The implied notion
is simple: if a country were to become excessively indebted, it would only
be able to borrow on the financial markets in future at very high interest
rates. This means that the country in question would have to reduce its
debt to a sustainable level. Yet, neither of these two safeguards worked.
Neither the discipline of the financial markets nor the rules were able to
prevent individual countries running up excessive debt. The SGP was
originally concocted as an instrument of economic coordination, or a
device to achieve some sustainability of public finances of Member States
of the EU; However, it revealed to be an insufficient tool to ensure
economic stability. In effect, its enforcement mechanisms are not effective
181
not only because they are not properly applied but also because they do
not offer an integrated approach to address problems, relying mostly on
action by each Member State. Furthermore, as policymakers stretched and
sometimes ignored the rules of the SGP, investors on the financial markets
tolerated the problems of individual countries for far too long.
Many
countries had to rescue their banking systems and support economic
activity, dramatically driving up their levels of sovereign debt. Then,
suddenly, investors and financial markets seemed to become aware of
high levels of sovereign debt, lack of competitiveness and risk of
contagion effects between the individual countries. In short, they lost
confidence in the crisis-hit countries. However, this also meant that capital
flows dried up - the same capital flows that had previously covered up the
problems.
2) UNSUSATINABLE DEBT
Unprecedented and unsustainable debts are another root cause of the
crisis. Total debt-to-GDP (which is the ratio of a country's national debt to
its GDP) levels in the eighteen core countries of the Organization for
Economic Co-operation and Development (OECD) rose from 160 percent
in 1980 to 321 percent in 2010. Disaggregated and adjusted for inflation,
these numbers mean that the debt of nonfinancial corporations increased
by 300 percent, the debt of governments increased by 425 percent, and
182
the debt of private households increased by 600 percent. From 2000 to
2010, average government gross debt as a percentage of GDP within the
Eurozone has risen from 69.2% to 85.3% - well beyond the Maastricht
Criteria’s 60% limit. Public debt levels have been on an upward trend
since the 1970s and have surged in response to the financial crisis of
2008, as governments faced declining revenues, increasing liabilities, and
funding various bailout packages. When it comes to European sovereign
debt, however, the problem is actually much worse than the debt-to-GDP
levels indicate. The true litmus test of sovereign debt is not simply the
official government debt figures - it is also a government’s unfunded
liabilities (that is, the difference between expected tax revenues and the
projected costs of continuing present government programs). When one
considers both government debt and unfunded liabilities as a percentage
of GDP, the resulting fiscal imbalances in Europe are staggering. The
average EU country would need more than four times its GDP sitting in
the bank and earning interest simply to continue funding its programs.
Consider one of the worst offenders - Greece. Eurostat reports that
Greece’s 2010 government debt to GDP ratio was 142.8%. This is above
the average in Europe, but it pales in comparison to Greece’s projected
unfunded liabilities, which would cost around 875% of its total GDP to
continue. Such high fiscal imbalances point to one conclusion with
certainty: the euro credit boom is unravelling, and sovereign debt levels
183
are unsustainable in their present form. Perhaps the most visible sign of
systemic, debt-related stress is the series of bailouts financed by the
European Union and the International Monetary Fund (IMF). The EU and
IMF have provided €85, €110, and €78 billion to Ireland, Greece and
Portugal respectively since the crisis began. On May 9, 2010, the EU states
created the European Financial Stability Facility (EFSF) as an alternative
method of financial assistance. The EFSF is empowered to provide loans
to EU nations in trouble, buy bonds on the market, indirectly refinance
banks
via
loans
to
governments,
and
issue
its
own
bonds.
Despite its AAA rating, the basic problem with the EFSF is that the debtladen European nations fund it. Therefore, the EFSF is itself, threatened
with a downgrade - a move that sharply reduces the capital available for
its operations. The EFSF is not, itself, the solution to the debt crisis,
because as far as the markets are concerned, the health of the EFSF and
EU nations is a two-way street.
3) THE BANKING SECTOR
-
Risky Sovereign Bond Holdings
Sovereign debt and financial instability in the banking sector go hand in
hand. The largest European banks, even in the supposedly more solvent
North, are flush with both national and foreign government bonds. Until
the crisis hit, banks purchased these bonds en masse as a safety bet, with
184
virtually no one questioning a government’s ability to pay. Now, in light of
unprecedented national debts and an economic downturn, the threat of a
downgrade is pervasive. A sovereign’s downgrade not only reduces
portfolio value of government bondholders who are holding riskier assets,
it also negatively affects national banks by extension. A bank’s fortunes
generally rise and fall along with its home country. Consider the following
trends in the sovereign bond market to see how these risks play out. Since
2009, Spain has seen its ratings slashed three times in three years. As a
result, its cost of borrowing has risen to more than double that of
Germany. Even worse, the downgrades to Portugal, Ireland, and Greece
have put their bonds at “junk status” (that is, the bonds are no longer
considered investment grade quality because their issuers are a credit
risk), and the consequences continue to be felt. The larger economies of
Europe are not immune from this problem. Just days before the EU
December 2011 summit, S&P put fifteen Eurozone nations on a negative
credit rating watch-list, including AAA nations like Germany. S&P’s cited a
number of factors for the move, including: a credit crunch, rising
sovereign yields, political intransigence, high public and private debt, and
the likelihood of recession and slacking productivity in 2012. Fears of
contagion reaching Europe’s core nations crystallized on January 13, when
the S&P downgraded credit ratings on the government debt of nine out of
the sixteen European nations on the watch-list. Cyprus, Italy, Portugal,
185
and Spain fared the worst, with a two-notch hit, while France, Austria,
Malta, Slovakia, and Slovenia all fell by one notch. In light of rampant
sovereign credit risk and the threat of downgrades, banks (and, of course,
private investors) have taken stock of their exposure to sovereign debt.
Government issued bonds comprise about 60 percent of the European
bond market. Banks have scrambled to rid themselves of sovereign bonds.
This trend puts more pressure on governments and coincides with
burgeoning public deficits and debts - as previously discussed-. Perhaps
the single greatest threat to the European banks is a government
defaulting on its debt. Because of the level of exposure to foreign
sovereign debt, and the interdependence this creates within the Eurozone,
the default of one nation, or the bust of a major national bank, could have
a cascading effect. A run on banks and the threat of contagion is the endgame EU leaders fear the most because it cuts to the core of the
Eurozone. The impetus to prevent contagion, or a spillover effect, helps to
explain some actions of EU politicians that are the focus of next chapter.
186
CHAPTER 2
Brief introduction
Global financial market turmoil that started in August 2007 was
followed by a severe economic downturn. This chapter describes the U.S.
Federal Reserve (Fed)'s monetary policy response to this financial and
economic crisis. During this period of crisis, the Fed has taken ordinary
and extraordinary actions to boost economic growth and to achieve its
congressionally mandated goals of maximum employment and stable
prices. Hence, focus of this chapter will be what the Fed did to encourage
economic growth while keeping inflation low, with a special eye on how
the boom and bust in housing affected recession.
2.1 Fed and the Financial Crisis of 2007-08
The Federal Reserve (Fed) defines monetary policy as its actions to
influence the availability and cost of money and credit. Because the
expectations of market participants play an important role in determining
prices and economic growth, monetary policy can also be defined to
include the directives, policies, statements, and actions of the Fed that
influence future perceptions. Traditionally, the Fed has implements
monetary policy primarily through: 1) setting a target for the Federal
187
Funds Rate - the interest rate (policy rate) at which banks borrow and
lend reserves held at the Fed, called federal funds, with each other usually
overnight, on an uncollateralized basis; and 2) conducting so-called open
market operations involving the purchase and sale of U.S. Treasury and
other securities. Beginning in September 2007, in a series of ten moves,
the policy rate was reduced from 5.25% to a range of 0% to 0.25% on
December 16, 2008, where it has remained since. With the federal funds
target at this zero lower bound, the Fed attempted to provide additional
stimulus through ‘unconventional policies’. It provided forward guidance
on its expectations for future rates, announcing that it “anticipates that,
even after employment and inflation are near mandate-consistent levels,
economic conditions may, for some time, warrant keeping the target
federal funds rate below levels the Committee views as normal in the
longer run.” The Fed also added monetary stimulus through unsterilized36
purchases of Treasury and Mortgage-Backed Securities (MBS), a policy
popularly referred to as Quantitative Easing (QE). Between 2009 and
36
An unsterilized intervention refers to a situation where a nation’s central bank directly
buys or sells its own currency. It is a clear attempt by a nation to influence the value of
its currency. This operation can have many effects; the most obvious is that it affects the
money supply, which can influence inflation, interest rates and other areas of the
domestic economy.
188
2014, the Fed engaged in three rounds of QE.
1- QE1 (December 2008). In December 2008, the Fed started buying
longer-term Treasury securities as well as the debt and the
mortgage-backed securities (MBS) of Fannie Mae and Freddie Mac,
two government-sponsored enterprises (GSEs). The Fed announced
it would purchase up to $100 billion of the GSEs’ debt and up to
$500 billion of their MBS from both banks and the GSEs
themselves.
2- QE2 (November 2010). In November 2010, the Fed announced that
it would purchase $75 billion per month of longer-termed
Treasuries, for a total of $600 billion. These purchases were to be
concentrated in Treasury securities with maturities of two to ten
years, though the Fed also intended to purchase some shorter-term
and some longer-term securities.
3- QE3 (September 2012). In September 2012, the Fed announced its
third round of easing. Under QE3, the Fed’s combined securities
purchases (long-term Treasuries, GSE debt, and MBS) were
increased to approximately $85 billion per month. Unlike its
counterparts, QE3 was an open-ended commitment. Rather than
189
commit to purchasing a fixed amount of securities by a certain
date, the Fed declared that it would make purchases until it decided
that the labour market had sufficiently improved.
The third round was completed in October 2014, at which point the Fed’s
balance sheet was $4.5 trillion—five times its pre-crisis size. In September
2014, the Fed announced plans for normalizing monetary policy after QE,
explaining that it will raise interest rates (perhaps during 2015) in the
presence of a large balance sheet mainly by raising the rate of interest
paid to banks on reserves and engaging in reverse repurchase agreements
or “reverse repos” – purchases of securities with the agreement to sell
them at a higher price at a specific future date.
2.2 How the Fed responded the crisis
- 2.2.1 Before the Financial Crisis.
As the U.S. economy was coming out of the short and shallow 2001
recession, unemployment continued rising until mid-2003. Fearful that the
economy would slip back into recession, the Fed kept the federal funds
rate extremely low. The federal funds target reached a low of 1% by mid2003. As the expansion gathered momentum and prices began to rise, the
federal funds target was slowly increased in a series of moves to 5.25% in
190
mid-2006. Some economists now argue that the financial crisis was, at
least in part, due to Fed policy to ensure that the then-ongoing expansion
continued. In particular, critics now claim that the low short-term rates
were kept too low for too long after the 2001 recession had ended. This
caused an increased demand for housing that resulted in a price bubble, a
bubble that, as explained in the previous chapter, was also due to other
important factors such as lax lending standards that were subject to
regulation by the Fed and others. The shift in financing housing from fixed
to variable rate mortgages made this sector of the economy increasingly
vulnerable to movements in short-term interest rates. One consequence of
the tightening of monetary policy later in the decade, critics now claim,
was to burst this price bubble. In chapter one it was also given an
alternative perspective, championed by Ben Bernanke and others, who
claimed that the low mortgage rates that helped fuel the housing bubble
were mainly caused by a “global savings glut” over which the Fed had
little control.
- 2.2.2 The early stages of the crisis and the zero lower bound
The bursting of the housing bubble led to the onset of a financial crisis
that affected both depository institutions and other segments of the
financial sector involved with housing finance. As the delinquency rates on
home mortgages rose to record numbers, financial firms exposed to
191
mortgage market suffered capital losses and lost access to liquidity. The
contagious nature of this development was soon obvious as other types of
loans and credit became adversely affected. This, in turn, spilled over into
the broader economy, as the lack of credit soon had a negative effect on
both production and aggregate demand.
In
December
2007,
the
economy
entered
a
recession.
As the housing slump’s spillover effects to the financial system, as well as
its international scope, became apparent, the Fed responded by reducing
the federal funds target and the discount rate - the interest rate charged
to commercial banks and other depository institutions for loans received
from the Federal Reserve Bank’s discount window. Beginning on
September 18, 2007, and ending on December 16, 2008, the federal funds
target was reduced from 5.25% to a range between 0% and 0.25%,
where it currently remains. Economists call this the zero lower bound to
signify that once the federal funds rate is lowered to zero, conventional
open market operations cannot be used to provide further stimulus. The
decision to maintain a target interest rate near zero is unprecedented.
First, short-term interest rates have never before been reduced to zero in
the history of the Federal Reserve. Second, the Fed has waited much
longer than usual to begin tightening monetary policy in this recovery. For
example, in the previous two expansions, the Fed began raising rates less
than three years after the preceding recession ended.
192
- 2.2.3 Direct Assistance during and after the Financial Crisis.
With liquidity problems persisting as the federal funds rate was
reduced, it appeared that the traditional transmission mechanism linking
monetary policy to activity in the broader economy was not working.
Monetary authorities became concerned that the liquidity provided to the
banking system was not reaching other parts of the financial system.
Using only traditional monetary policy tools, additional monetary stimulus
cannot be provided once the federal funds rate has reached its zero
bound. To circumvent this problem, the Fed decided to use non-traditional
methods to provide additional monetary policy stimulus. First, the Federal
Reserve introduced a number of emergency credit facilities to provide
increased liquidity directly to financial firms and markets. The first facility
was introduced in December 2007, and several were added after the
worsening of the crisis in September 2008. These facilities were designed
to fill perceived gaps between open market operations and the discount
window, and most of them were designed to provide short-term loans
backed by collateral that exceeded the value of the loan. The Fed
provided assistance through liquidity facilities, which included both the
traditional discount window and the newly created emergency facilities
mentioned above, and through direct support to prevent the failure of two
specific institutions, American International Group (, AIG) and Bear
Stearns. The amount of assistance provided was an order of magnitude
193
larger than normal Fed lending.
- 2.2.4 Unconventional Policy Measures and the Zero Bound After
the Crisis.
As stated above, the Fed’s conventional tool for monetary policy is to
target the federal funds rate, the overnight, interbank lending rate.
However, with the federal funds rate at its zero bound since December
2008 and direct lending falling as financial conditions began to normalize
in 2009, the Fed faced the decision of whether to try to provide additional
monetary stimulus through unconventional measures. It did so through
two unconventional tools—large-scale asset purchases (Quantitative
Easing) and forward guidance. Thus, the Fed attempted to stimulate the
economy through three rounds of large-scale asset purchases of U.S.
Treasury securities, agency debt, and agency mortgage-backed securities
(MBS) since 2009, popularly referred to as quantitative easing (QE). The
third round was completed in October 2014, at which point the Fed’s
balance sheet was $4.5 trillion—five times its size. In addition, the Fed has
provided forward guidance on its expectations for future rates,
announcing that it anticipates that, even after employment and inflation
are near mandate-consistent levels, economic conditions may warrant
keeping the target federal funds rate below levels the Committee views as
normal in the longer run for some time.
194
1) Forward Guidance
One of the tools the Fed has used recently to achieve additional
monetary stimulus at the zero bound is a pledge to keep the federal funds
rate low for an extended period of time, which has been called forward
guidance or forward commitment. In reality the only meaning of the
“forward guidance” policy approach consists of the FED’s pledge to keep
markets sufficiently, though still relatively (given the variables that you
rightly mention), informed about the contemplated next policy moves in
some specific conditions of the economies and according to decisions
which will take into account some specific parameters; In other words,
forward guidance may translate into either a “warning” about a rise of the
policy rate or its contrary; The practical tools to achieve forward guidance
are the press conference after the FOMC meetings, the publication of the
same meetings’ minutes (evidencing, for example, different positions of
the members, i.e. formation of majorities or minorities on specific policy
decisions), FED Chairman’s auditions in Congress, etc.). The forward
guidance was methodologically – as opposed to sporadically or random –
adopted as a policy after the global chilling effects on the financial
markets and capital flows of Bernanke’s unexpected warning, at a postFOMC meeting press conference, about the near ending of QE by 2014.
The Fed believes this will stimulate economic activity because businesses,
for example, will be more likely to take on long-term investment
195
commitments if they are confident rates will be low over the life of a loan
and financial and capital markets will have the time to “discount” in due
course the adverse impact of any announced interest rate trend. This is a
way to reduce the classic ‘information asymmetry’ in the marketplace.
Over time, this forward guidance became more detailed and explicit. In
September 2012, the Fed extended its expected period for exceptionally
low levels for the federal funds rate from late 2014 to mid-2015. In
December 2012, the Fed replaced the date threshold with an economic
threshold: it pledged to maintain an exceptionally low federal funds target
at least as long as unemployment is above 6.5% and inflation is low. It is
difficult to pinpoint how effective the forward guidance tool has been, in
part because its efficacy depends on how credible market participants find
the commitment. Because economic conditions may unexpectedly change,
this commitment is only a contingent one, causing the Fed’s commitment
to change when conditions change. This occurred in 2013-2014, when the
unemployment rate fell unexpectedly rapidly without a commensurate
improvement in broader labour market or economic conditions. Had the
Fed followed its existing forward guidance, the fall in the unemployment
rate would have led to a tightening of policy sooner than intended.
Instead, as the unemployment rate neared 6.5% in March 2014 the Fed
replaced the specific unemployment threshold in its forward guidance with
the already mentioned statement. “The Committee currently anticipates
196
that, even after employment and inflation are near mandate-consistent
levels, economic conditions may, for some time, warrant keeping the
target federal funds rate below levels the Committee views as normal in
the longer run.”
Less specific statements provide less clarity to market participants about
the path of future rates, but future policy is less likely to need to deviate
from them. The Fed’s forward guidance has signalled a more aggressively
stimulus policy stance than the Fed has taken in the past. Typically, the
Fed keeps interest rates below normal when the economy is operating
below full employment, at normal levels when the economy is near full
employment and above normal when the economy is overheating.
Because of lags between changes in interest rates and their economic
effects, the Fed often will preemptively change its monetary policy stance
before the economy reaches the state that the Fed is anticipating. By
contrast, in this case, the Fed has pledged to keep interest rates below
normal even after the economy is approaching full employment. By “full
employment”, economists do not mean a 0% unemployment rate –
arguably impossible to reach in a well-functioning market economy – but a
rate ranging around 3-4%. Normally, such a stance would risk resulting in
high inflation. In this case, the Fed views low inflation as a greater risk
than high inflation.
197
2) Quantitative Easing and the Growth in the Balance Sheet.
With short-term rates constrained by the zero bound, the Fed hoped to
reduce long-term rates through the above described large-scale asset
purchases (QE). Between 2009 and 2014, the Fed undertook three rounds
of QE, buying U.S. Treasury securities, agency debt, and agency
mortgage-backed securities (MBS). These securities now comprise most of
the assets on the Fed’s balance sheet. To understand the effect of QE on
the economy, it is first necessary to describe its effect on the Fed’s
balance sheet. In 2009, the Fed’s emergency lending declined rapidly as
market conditions stabilized, which would have caused the balance sheet
to decline if the Fed took no other action. Instead, asset purchases under
the first round of QE, QE1, offset the decline in lending, and from
November 2008 to November 2010, the overall size of the Fed’s balance
sheet did not vary much. However, its composition changed because of
QE1, the amount of Fed loans outstanding fell to less than $50 billion at
the end of 2010, whereas holdings of securities rose from less than $500
billion in November 2008 to more than $2 trillion in November 2010. The
second round of QE, QE2, increased the Fed’s balance sheet from $2.3
trillion in November 2010 to $2.9 trillion in mid-2011. It remained around
that level until September 2012, when it began rising for the duration of
the third round, QE3. It was about $4.5 trillion when QE3 ended in
October 2014.
198
This increase in the Fed’s assets must be matched by a corresponding
increase in the liabilities on its balance sheet. The Fed’s liabilities mostly
take the form of currency, bank reserves, and cash deposited by the U.S.
Treasury at the Fed. QE has mainly resulted in an increase in bank
reserves, from about $46 billion in August 2008 to $820 billion at the end
of 2008. The increase in bank reserves can be seen as the inevitable
outcome of the increase in assets held by the Fed because of the bank
reserves. Reserves increase because when the Fed makes loans or
purchases assets, it credits the proceeds to the recipients’ reserve
accounts at the Fed. The intended purpose of QE was to put downward
pressure on long-term interest rates. Purchasing long-term Treasury
securities and MBS should directly reduce the rates on those securities –
together with increasing their indicative market price – all else equal. The
hope is that a reduction in those rates feeds through to private borrowing
rates throughout the economy, stimulating spending on interest-sensitive
consumer durables, housing, and business investment in plant and
equipment – together with effecting an outright inflow of liquidity in the
market thereby achieving an expansion of the overall economy’s monetary
basis (measurable through the M1, M2, M3 ratios) and easing the socalled “transmission channels” of the central bank’s designated monetary
policy. Indeed, Treasury and mortgage rates have been unusually low
since the crisis compared with the past few decades. Anyway, determining
199
whether QE has reduced rates more broadly and stimulated interestsensitive spending, requires controlling for other factors, such as the weak
economy, which tends to reduce both rates and interest-sensitive
spending. The increase in the Fed’s balance sheet has the potential to be
inflationary because bank reserves are a component of the portion of the
money supply controlled by the Fed (called the monetary base), which has
grown at an unprecedented pace during QE. In practice, overall measures
of the money supply have not grown as quickly as the monetary base, and
inflation has remained below the Fed’s goal of 2% for most of the time
since 2008. The growth in the monetary base has not translated into
higher inflation because bank reserves have mostly remained deposited at
the Fed and have not led to increased lending or asset purchases by
banks. The suspicion remains that, in addition to this mainstream
explanation (though theoretically correct), there are other structural
causes of this demise of high inflation and increased peril of deflation, or
permanent very low inflation. In short, the Fed influences interest rates to
affect interest-sensitive spending, such as business capital spending on
plant and equipment, household spending on consumer durables, and
residential investment. Through this channel, monetary policy can be used
to stimulate or slow aggregate spending in the short run. In the long run,
monetary policy mainly affects inflation, a low and stable rate of inflation
promotes price transparency and, thereby, sounder economic decisions by
200
households and businesses. Debate is currently focused on whether the
Fed’s commitment to keeping rates low will cause inflation to become too
high or whether inflation is more likely to continue running below the
Fed’s desired rate of 2%.
2.3 The "Exit Strategy": Normalization of Monetary Policy after
QE
On October 29, 2014, the Fed announced that it would stop making
large-scale asset purchases at the end of the month. Now that QE is
completed, attention has turned to the Fed’s “exit strategy” from QE and
zero interest rates. The Fed laid out its plans to normalize monetary policy
in a statement in September 2014. It plans to continue implementing
monetary policy by targeting the federal funds rate. The basic challenge to
doing so is that the Fed cannot effectively alter the federal funds rate by
altering reserve levels -as it did before the crisis- because QE has flooded
the market with excess bank reserves. In other words, in the presence of
more than $4 trillion in bank reserves, the market-clearing federal funds
rate is close to zero. The most straightforward way to return to normal
monetary policy would be to remove those excess reserves by shrinking
the balance sheet through asset sales. In its normalization statement, the
Fed ruled out MBS sales and indicated that it does not intend to sell
Treasury Securities in the near term. Instead, it eventually plans gradual
201
reductions in the balance sheet by ceasing to roll over securities as they
mature. However, the Fed plans to continue rolling over maturing
securities until after it has raised the federal funds rate, which is expected
sometime in 2015. The Fed intends to ultimately reduce the balance sheet
until it holds “no more securities than necessary to implement monetary
policy efficiently,” which Fed Chair Janet Yellen stated might not occur
until the end of the decade. Extremely sound policy – which avoids the
inflationary, and not only, effect of massive sale of assets, also prone to
perpetuate further market distortions. At that point, it plans to hold
primarily Treasury securities. Rapid asset sales could cause volatility in
those markets, but modest and gradual sales likely would not pose that
risk. Thus, instead of selling securities, the Fed plans to increase market
interest rates by raising the rate it pays banks on reserves held at the Fed
and using large-scale reverse repos
37
to alter discount rates. By
manipulating two rates that are close substitutes, the Fed believes it can
control the federal funds rate, achieving a degree of de-facto sterilization.
In 2008, Congress granted the Fed the authority to pay interest on
reserves. Because banks can earn interest on excess reserves by lending
them in the federal funds market or by depositing them at the Fed, raising
37
Reverse repos are purchases of securities with the agreement to sell them at a higher price at a
specific future date
202
the interest rate on bank reserves should also raise the federal funds rate.
In this way, the Fed can lock up excess liquidity to avoid any potentially
inflationary effects because reserves kept at the Fed cannot be put to use
by banks to finance activity in the broader economy. Reverse repos are
another tool for draining liquidity from the system and influencing shortterm market rates. They drain liquidity from the financial system because
cash is transferred from market participants to the Fed. As a result,
interest rates in the repo market, one of the largest short-term lending
markets, rise. The Fed has long conducted open market operations
through the repo market, but since 2013, it has engaged in a much larger
volume of reverse repos with a broader range of nonbank counterparties,
including the government-sponsored enterprises and certain money
market funds. The Fed’s normalization statement indicated that reverse
repos will be limited in size—making interest on reserves the dominant
tool for influencing interest rates—and phased out after normalization is
completed.
2.4 Future possible scenarios: concerns and expectations
As stated above, barring a future change in course, the end of QE
is the first step to normalize monetary policy that will eventually lead to a
higher federal funds rate and a smaller balance sheet. Instead of
normalizing monetary policy by selling its assets to reduce its balance
203
sheet quickly, the Fed plans to raise rates by increasing the interest rate it
pays banks on the reserves and engaging in reverse repurchase
agreements.
Some members of Congress of the United States have expressed concerns
regarding how the Fed’s normalization policy might affect inflation, asset
prices, and the functioning of certain financial markets. When QE ended,
the Fed announced that it likely will be appropriate to maintain the current
target range for the federal funds rate for a considerable time. Most
members of the Federal Open Market Committee (, FOMC)38 currently
believe it would not be appropriate to raise the federal funds target until
June 2015. Before 2008, short-term interest rates had never reached the
zero lower bound. Rates have remained there ever since. By contrast, in
the previous two economic expansions, the Fed began raising rates within
three years of the preceding recession ending. The Fed’s plan to keep
rates low even after the labour market recovers, has sparked debate over
whether the Fed is normalizing policy too slowly to maintain price stability.
Because the recent recession was unusually severe, economists disagree
about both how much slack remains in the economy today and how
aggressive the Fed should be in stimulating the economy. Economists who
38
FOMC consists of twelve Fed officials who meet periodically to consider whether maintain or
change the current stance of monetary policy.
204
argue that the Fed should not raise rates too quickly believe a large
output gap (i.e., the difference between actual output and potential
output) still exists and point to the fact that inflation was slightly below
the Fed’s 2% goal throughout 2013 and 2014 by the Fed’s preferred
measure. They point to the experiences of the Eurozone recently and of
Japan since the 1990s as illustrating, the deflationary risks of not using
monetary policy aggressively after a financial crisis. In other words, they
believe expansionary monetary policy can be justified in terms of both the
Fed’s full employment mandate and its price stability mandate. Economists
who currently argue that unconventional policy has been in place too long
point out that the economic recession ended in June 2009 and that the
economy has been growing steadily since. Further, they note that the
unemployment rate is no longer unusually high and has been on a
downward trajectory since 2011. Finally, they contend that although
inflation has remained low thus far, unconventional policy has led to
above-average growth in the money supply that arguably poses a threat
to price stability. In critics’ eyes, the economy is now functioning close
enough to normal that the risks of continuing a highly stimulus policy
outweigh the benefits.
205
CHAPTER 3
Brief introduction
At present time, the economic situation in Europe is quite thorny.
The strained finances of numerous Member States of the EU represent at
best a serious problem for the continent, at worst an inexorable crisis to
the global economy and an existential threat to the Union itself. The
ongoing sovereign debt crisis in the European Union threatens a global
financial meltdown. An instance of default by one such country could
trigger contagion with striking parallels to the economic turmoil of 2008–
2009, or perhaps worse. The problem is that many EU countries simply
cannot pay their bills, and so they dig deeper into debt to pay obligations
that come due. To this point, legal efforts to solve this problem have not
produced a lasting remedy. Current and prospective reforms, limited as
they are by political realities, may indeed be insufficient to avoid an
instance of default in the long run. If insolvency is indeed unavoidable,
these states need a legal mechanism through which they can resolve their
untenable financial position while minimizing collateral damage to the
broader economy. Unfortunately, the question of what constitutes optimal
legal reform for the European Union is not the sole concern. There has
been litigation to vie over the predicate question, who gets to decide what
reforms will be implemented? Reform instituted to solve the EU sovereign
206
debt problem may take effect on current legal terms, only then to fail in
the face of subsequent political opposition. A political backdrop
increasingly hostile to recent reform — in creditor and debtor countries
alike — represents, then, a second limiting force upon any sort of legal
reform and it must be taken into account in crafting any realistic solution.
3.1 Effects of the crisis
The Credit Crisis that swept across the world several years ago has
many theorized causes and many documented effects. One relevant effect
was to crystallize the woeful financial state of many of the world’s
developed economies, particularly in the Eurozone. As job losses and asset
devaluation led to less-than-anticipated tax receipts for government
coffers, sovereigns from Greece to the United Kingdom faced yawning
budget deficits and the concomitant need to finance this gap between tax
collections and expenditures. Some countries seemingly engaged in
further gambling, taking on even more debt to fund stimulus-oriented
fiscal policies intended to fuel their economies and, in turn, tax revenue.
Other countries hunkered down, taking an austere fiscal track to bring
budget projections in order by reining in future spending. Debate on
“austerity” is not only still ongoing and very heated but its actual outcome
is likely to determine the single-currency bloc’s fate. Meanwhile, private
demand in the financial markets soaked up the bonds issued to finance
207
sovereign deficits; many investors, recently burned in the market
downturn, sought a safer play than traditional corporate investments and
thought they had found it in sovereign debt investing. Countries struggling
to borrow in the private capital market have either one or two options
available to them. First, intergovernmental financial entities—principally
the International Monetary Fund (IMF) — exist to affect lending programs
to a target country from a consortium of contributing countries. The
release of each tranche of IMF lending is often conditioned upon a
tightening of fiscal policy within the borrowing country and the attainment
by that country of certain fiscal and monetary benchmarks but also
structural reforms. For countries without control of their monetary policy,
such forms of intergovernmental lending are the only meaningful option
available. Countries that maintain autonomous central banking authority,
however, can draw upon an entirely different resource. Traditionally, a
central bank could cheapen the cost of borrowing money during a
recession in order to stimulate its domestic economy. This outcome is
generally achieved through a central bank’s manipulation of important
short-term interest rates. However, as we saw, through QE, a country
could potentially rely upon its own central bank to purchase that country’s
bonds. QE is a very controversial monetary policy. Opponents of QE
typically contend that a nation willing to print money in an ad hoc manner
will inevitably undermine the integrity of that nation’s currency. Further,
208
many believe that central bank purchases of bonds only hide the
inevitable, unavoidable problem of growing sovereign debt by allowing
politicians to defer taking action to balance the budget.
3.2 The ECB role in the Euro-Crisis
The 2007 financial crisis evidenced the weaknesses of the
Eurozone. Since then, European policymakers have tried to save the euro
and the European financial market. Because of the economic and political
instability of last years the European Central Bank (ECB) has de facto
gained more power vis-à-vis than other European Institutions and political
actors. Today the ECB is fundamental for determining Member States'
economic policies in all areas, not only monetary policy.
- 3.2.1 The Euro and the Euro-Crisis: ECB Structure
The 1992 Treaty on European Union (TEU) launched the Economic and
Monetary Union, where Member States agreed to form a single currency
area, coordinate their economic policies, respect some budgetary
constraints (limit public deficit to 3% and public debt to 60% to GDP), and
get trade and price stability gains. The TEU established that "the primary
objective of the European System of Central Banks shall be to maintain
price stability". Given the proven link between independence and
monetary stability, as shown by the Bundesbank example, the EU created
a super independent central bank with little transparency and political
209
accountability. Nineteen Member States today form the Eurozone and
during the first 10 years, the area enjoyed stable growth and low inflation
thanks to a dual economic modal based on export-led growth in central
countries (Germany, Finland, Austria) and debt-led growth in peripheral
ones (Ireland, Italy, Greece, Spain, Portugal, Cyprus). The low interest
rate policy of the ECB fuelled this model. The deregulation of the financial
markets globally and the failure of the threat of the "non-bail-out-clause"
created an illusion of the single currency. Banks took enormous risks. The
financial institutions became too big to fail and of systemic important for
the economy, with one major problem: in the Eurozone, contrary to the
United States, the central bank was not able to bail them out and
recapitalize them without creating huge consequences for the rest of the
economy. This is because the ECB has not the ability of act as lender of
last resort, which is a huge contradiction given that central banks exist
mainly because they can act as lenders of last resort as to be able to bail
out a bank that is of systemic importance in order to prevent a credit
crunch or contagion and create stability because the final goal of central
banks is financial stability. The 2007 global crisis made this contradiction
tangible. The European Council had to come out with different strategies
and policies to save countries that were forced to bail out their own
national financial systems or that were victim of the instability in the public
debt market. Greece, Ireland, Portugal, and Cyprus asked the EU for a
210
total bailout and in exchange implemented macroeconomic adjustment
programs. Spain was indirectly rescued with a loan of 100 billion euro to
the State to be used to recapitalise its banks. Italian banks, among others,
frequently asked the ECB for access to its cheap loans. In order to achieve
these purposes, the EU created the European Financial Stabilisation
Mechanism, the European Financial Stability Facility and finally the
European Stability Mechanism, an intergovernmental treaty to provide
financial assistance. In parallel, Member States signed a Treaty
establishing the so-called ‘Fiscal Compact’ to introduce the golden rule of
fiscal consolidation in their constitutions, thus signalling what was already
in to force: solidarity was at the expense of conditionality on
macroeconomic policies. At the same time, the EU decided to create a
complex cooperation scheme to act in certain countries: the Troika
(European Commission, ECB, and IMF). In the middle of turbulence, the
EU reinforced the Stability and Growth Pact, incorporating the so-called
Six-pack and Two-pack to strengthen the fiscal consolidation approach,
activate alarm mechanisms to detect some macroeconomic imbalances,
and apply corrective sanctions whenever is necessary. The Stability and
Growth Pact was established at the same time as the single currency in
order to ensure sound public finances. However, the way it was enforced
before the crisis did not prevent the emergence of serious fiscal
imbalances in some Member States. For this reason, it was reformed
211
through the Six Pack (entered into force in December 2011) and the Two
Pack (entered into force in May 2013), which brought in important
changes to the rules and to how the rules are enforced.
All this together gave the impression that structural measures were going
to be taken to eliminate legal loopholes in the Eurozone and allow the ECB
to act as a central bank with all its instruments and competences. In all
those policies, the ECB played a key role, particularly in the design and
implementation of the macroeconomic adjustment program (via the
Troika) and some country-specific recommendations. However, those
policies proved to be ineffective to the financial markets, obliging the
president of the ECB, Mario Draghi, to declared, in a famous press
conference in 2012, that the “ECB is ready to do whatever it takes to
preserve the euro” and approved the no-less controversial mechanism, the
Outright Monetary Transaction (OMT) to buy bond in the secondary
market, clearly targeted to chill the excessive interest rates ‘spread’
between creditor Members and indebted ones.
3.3 How the ECB responded to crisis: Non-standard Measures
As stated above, the ECB's institutional task is to ensure price
stability. Members of the Executive Board of the ECB have a clear
mandate, which was conferred on them by the Member States'
governments at supra-national level under the European treaties. At the
212
same time, they have operational leeway in choosing how to fulfil this
mandate, provided that they stay within its limits. During the crisis, it
emerged that, in some places, the transmission of ECB monetary policy
signals to the real economy was clearly inadequate in both scope and
effect. Therefore, during crisis the ECB decided to take non-standard
measures so that its monetary policy would be more effectively passed
through to the financing conditions for the real economy. These nonstandard measures complement ECB traditional set of instruments. For
instance – ECB interest rate decisions are aimed at price stability. Hence,
the non-standard measures seek to ensure that the desired effect of these
decisions also spreads across the entire euro area. The Euro-system’s
regular open market operations consist of one-week liquidity-providing
operations in euro (Main Refinancing Operations, or MROs) as well as
three-month
liquidity-providing
operations
in
euro
(Longer-Term
Refinancing Operations, or LTROs). MROs serve to steer short-term
interest rates, to manage the liquidity situation and to signal the monetary
policy stance in the euro area, while LTROs provide additional, longerterm refinancing to the banking and financial sector. In recent years, the
regular operations have been complemented by two liquidity-providing
long-term refinancing operations in euro with a three-year maturity
(maturing on 29 January 2015 and on 26 February 2015), as well as by
U.S. dollar liquidity-providing operations. In addition, the ECB announced
213
in June 2014 that it would conduct a series of Targeted Longer-Term
Refinancing Operations (TLTROs) aimed at improving bank lending to the
euro area non-financial private sector, excluding loans to households for
house purchase, over a window of two years. In addition, in 2009 and
2011 the Euro-system launched two Covered Bond Purchase Programs
(the CBPP, which ended in June 2010, and CBPP2, which ended in October
2012). From 10 May 2010 to February 2012, it conducted interventions in
debt markets under the Securities Markets Program (SMP), which was
terminated in September 2012. The SMP comprised € 214.2 billion, an
amount that is clearly insufficient. In August 2012, the ECB announced its
determination to finally conduct Outright Open Market Operations in
secondary sovereign bond markets to safeguard an appropriate monetary
policy transmission and preserve the singleness of its monetary policy. The
technical features of the Outright Monetary Transactions (OMT) were
announced in September 2012. In September 2014, the ECB announced
two new purchase programmes, namely the ABS Purchase Program
(ABSPP) and the Third Covered Bond Purchase Program (CBPP3). The
programs will enhance transmission of monetary policy, support provision
of credit to the euro area economy and, as a result, provide further
monetary policy accommodation. On 9 March 2015, the Euro-system
started the purchase of bonds issued by euro area central governments
and certain agencies and international or supranational institutions located
214
in the euro area under the Public Sector Purchase Program (PSPP).
Combined, the ABSPP, the CBPP3 and the PSPP constitute the Expanded
Asset Purchase Program (APP). Monthly purchases under the APP, the
Eurozone version of Quantitative Easing, will amount to €60 billion. They
are intended to be carried out until end September 2016 and in any case
until the Governing Council will see a sustained upward adjustment of the
inflation rate, as to reverse its current semi-deflationary trend and to put it
back in track towards the central bank’s stated aim of inflation rates
below, but close to, 2% over the medium term.
- 3.3.1 Will this ECB's initiative work in the Eurozone?
It is said that imitation is the sincerest form of flattery. If so, the
Federal Reserve should take a great compliment from the succession of
central banks that followed it into aggressive Quantitative Easing. The ECB
has become the latest addition to this parade. Success is by no means
assured. The ECB program, at least for now, is modest compared to what
was done elsewhere, namely the UK and Japan. The fabric of markets,
institutions and households in the Eurozone differ from the United States
in ways that may limit the effectiveness of QE. QE direct effect is to lower
long-term interest rates. Studies of the QE programs in the United States
and the United Kingdom have concluded that the effort did have a
tangible role in reducing borrowing costs. Sovereign interest rates across
215
the Eurozone (with the exception of Greece) have fallen sharply so far this
year, especially for some peripheral countries, like Italy, Portugal and
Spain; Ireland is so far the most successful indebted country in achieving
some good degree of recovery. In theory, this should prompt additional
leveraging, supporting spending and investment. This hoped-for impact
may be blunted a bit in the Eurozone, for two reasons: first, U.S. firms get
about 70% of their financing from the debt capital markets and only 30%
from banks; in the Eurozone, those percentages are nearly reversed.
Eurozone banks have been limited by the need to rebuild capital after the
financial crisis and had to go through a brutal process of ‘deleveraging’.
Bank lending growth in the Eurozone is now positive, but balance-sheet
health and size remain a critical focus for financial companies. In addition,
Eurozone households, corporations and governments are also trying to
reduce their own debt exposure, which may constrain the willingness and
ability to take advantage of lower interest rates. However, the opportunity
to refinance debt at advantageous rates will be helpful to those Eurozone
countries, which are struggling to meet debt and deficit targets. A second
way that QE works is through the “portfolio rebalancing channel.” As the
central bank takes bonds out of general circulation, investors have to turn
to other asset classes. Moreover, as those other asset classes gain
momentum, allocations may be altered further. Eurozone equities have
performed very well since the beginning of the year, thanks in part to
216
signals that QE was coming. Wealth effects on spending follow asset price
gains, adding to consumption momentum. However, wealth effects are
not easy to measure and may vary based on the kind of wealth created
and the behavioural characteristics of the underlying population. A greater
fraction of the U.S. households actively invest in the financial markets and
hold securities portfolios than their European counterparts, and saving
rates are more than double in Europe. Therefore, the impact of ECB QE on
spending may be quite a bit more modest. The inception of QE had mixed
effects on the U.S., U.K. and Japanese currencies. The Eurozone is
certainly hoping to expand its collective exports, and its currency
substantially weakened since QE was actually implemented in January.
However, while much of the focus has been on the correction of the euro
versus
the
U.S.
dollar,
the
trade-weighted
euro
(which
is
the
measurement of the foreign exchange value of the euro compared against
certain foreign currencies) is cheaper by only 10% over the same interval.
With a host of central banks joining the easing parade, it may be difficult
for Eurozone policy- makers to engineer an extended competitive
devaluation. The attraction of Eurozone products also depends on some of
the structural reforms of labour, corporate and tax policies that have been
very slow to progress. All in all, QE can favourably affect the psychology of
economic actors. This is a more intangible benefit, but its immediate
impact in the Eurozone was to stop expectations for falling inflation. The
217
ECB will face some challenges as it undertakes QE. The size of the
program is more than twice the amount of net new borrowing done by
Eurozone governments last year, so acquiring assets may be more
challenging that it has been for other central banks. In spite of all these
theoretical and practical problems, the ECB’s decision to adopt QE in the
Eurozone was the right one. Over time, better growth in the Eurozone will
be the best way to compliment the efforts of the Federal Reserve and
secure a solid global expansion. However, monetary policy alone cannot
be called on to overcome the crisis. A sustainable resolution to the crisis
lies in the hands of Member States.
3.4 QE alone cannot solve Europe's problems
Business leaders, policymakers and celebrity academics raised
questions about whether the single currency could survive unless
politicians stepped up and reformed their economies. There are not
enough reforms in Europe and the ECB will not fix this issue. Substantial
structural changes to labour market rules and pension schemes are
needed, and if European politicians continued to rely on loose monetary
policy alone, the euro project would become increasingly difficult to run.
Europe needs to move to that next stage and if that does not happen,
there will always be questions about the viability of the project. QE had
worked in the US because it came as a surprise and at a time when there
218
was scope to reduce long-term U.S. interest rates – both conditions that
Europe does not fulfil. On top of that, QE was launched in a U.S. financial
system heavily dependent on capital markets, rather than banks, for
funding, giving it a larger impact. Furthermore, the U.S. Federal Reserve
did not shy away from announcing an unlimited bond-buying program,
something the ECB may not be prepared to do because of, among other
things, strong resistance from creditor countries, like the bloc’s first
economy, Germany, which essentially fears a de-facto ‘socialization’ of the
sovereign debt. Monetary policy may create room, for a period, for other
structural policies to come in, be implemented and do a good job.
Nevertheless, monetary policy is not a panacea to reach the target. QE
program should be seen in conjunction with the difficult but necessary job
of structural reform in some of the Eurozone’s struggling economies. An
effectively
in-place
central
bank
easing
monetary
policy
plus
unconventional stimulus programs, like QE, should not work as a
disincentive to implementation of, and perseverance in, economic reforms,
structural changes and fiscal consolidation. In short, although the new
monetary policy of the ECB - with QE due to last at least through
September 2016 - accompanies and strengthens growth prospects, it will
not be able to increase the productivity of a country, which instead
depends on the implementation of structural reforms. The new
expansionary policy of the ECB - which encourages lending to real
219
economy, households and businesses - does not have to discourage the
structural reforms but must create the best conditions to implement them.
In terms of contracts, a better environment is needed to make businesses
better, through the other necessary goal of an enhanced legal certainty; a
real business-friendly environment is needed to spur consistent economic
growth, through the implementation of clear rules. Companies are too
small, banks need to reorganize and aggregate to reduce costs (paid by
clients) of excessive governance.
- 3.4.1 What is austerity for?
A collateral policy, advanced by some Eurozone countries, like for
instance Germany, emphasizes more ‘austerity’ measures. Those are
directed to prioritize a significantly curtailing government spending in an
effort to control public-sector debt, particularly when a nation is in
jeopardy of defaulting on its bonds. The global economic downturn that
began in 2008 left many governments with reduced tax revenues and
exposed what some believed were unsustainable spending levels. Several
European countries, including the United Kingdom, Greece, Italy, Portugal
and Spain, have turned to austerity as a way to alleviate budget concerns.
Hence, austerity became almost imperative in Europe, where Eurozone
members do not have the ability to address mounting debts by printing
their own currency. As their default risk increased, creditors put pressure
220
on these countries to aggressively tackle spending. As the goal of austerity
measures is to reduce government debt and budget deficit, their
effectiveness remains a matter of sharp debate. Supporters argue that
massive deficits can suffocate the broader economy, thereby limiting tax
revenue. However, opponents believe that government programs are the
only way to make up for reduced personal consumption during a
recession. Robust public
sector spending, they
suggest, reduces
unemployment and therefore increases the number of income-tax payers.
In addition, austerity can be contentious for political, as well as economic,
reasons. Popular targets for spending cuts include pensions for
government workers, welfare and government-sponsored healthcare,
programs that disproportionately affect low-income earners at a time
when they are financially vulnerable. It also includes closing or merging of
schools, with many teachers and academic institutions undergoing
financial cuts. Large-scale austerity measures turned into such a sizeable
social issue that when a new round of austerity measures was met with
protests and strikes in June 2011 in Greece, suicides among both men and
women increased by 36 percent and they have remained high ever since.
- 3.4.2. A focus on Greece: Explaining the Greek Debt Crisis
Greece, the weak link in the Eurozone, was and is struggling to pay its
debt as its people and its creditors grow more restive. The intractable
221
dilemma poses a challenge to the euro and the Continent’s goal of
economic unity. If Greece goes bankrupt or decides to leave the 19-nation
Eurozone, the situation could create instability in the region and
reverberate around the globe. Greece became the epicentre of Europe’s
debt crisis after Wall Street imploded in 2008. With global financial
markets still reeling, Greece announced in October 2009 that it had been
understating its deficit figures for years, raising alarms about the
soundness of Greek finances. Suddenly, Greece was shut out from
borrowing in the financial markets. By the spring of 2010, it was veering
toward bankruptcy, which threatened to set off a new financial crisis. To
avert calamity, the so-called troika — the International Monetary Fund,
the European Central Bank and the European Commission — issued the
first of two international bailouts for Greece, which would eventually total
240 billion euro, or about $264 billion at today’s exchange rates. The
Greek outstanding debt was slashed by almost 50%, or about 200 billion,
an unprecedented cut to international creditors’ claims. The bailouts came
with conditions. Lenders imposed harsh austerity terms, requiring deep
budget cuts and steep tax increases. They also required Greece to
overhaul its economy by streamlining the government, ending tax evasion
and making the country an easier place to do business. If Greece has
received billions in bailouts, why is there still a crisis?
The money was supposed to buy Greece time to stabilize its finances and
222
quell market fears that the euro union itself could break up. While this
helped, Greece’s economic problems have not gone away. The economy
has shrunk by a quarter in five years, and unemployment is above 25%.
The bailout money mainly goes toward paying off Greece’s international
loans, rather than making its way into the economy. In addition, the
government still has a staggering debt load that it cannot begin to pay
down unless a recovery takes hold. Many economists, and many Greeks,
blame the austerity measures for much of the country’s continuing
problems. The leftist Syriza party rode to power this year promising to
renegotiate the bailout; Prime Minister Alexis Tsipras said that austerity
had created a “humanitarian crisis” in Greece. However, the country’s
exasperated creditors, especially Germany, but also Italy, France and a
number of European banking institutions, blame Athens for failing to
conduct the economic overhaul required under its bailout. The creditors
think that it is not feasible to change the rules for Greece. As the debate
rages, the only thing everyone agrees on is that Greece is yet again
running out of money — and fast. With Greece nearly bankrupt, its new
government struck a deal with European officials on Feb. 20 to extend the
bailout program for at least four months and give Athens €7 billion in
funds,
provide
that
Prime
Minister
Tsipras’
government
finally
implemented the needed structural changes. However, creditors now say
the plans Greece submitted to this purpose simply fall short of effecting
223
any meaningful reform, and they accuse Mr. Tsipras of trying to roll back
the austerity measures unilaterally. Greece needs a deal to keep paying
its creditors and to finance government operations. Athens seems to be
betting that its creditors will want to reach a compromise only to avoid the
huge unknowns that could arise if Greece defaults or possibly leaves the
euro. If things are so bad, should not Greece just leave the Eurozone?
At the height of the debt crisis a few years ago, many experts worried that
Greece’s problems would spill over into the rest of the world. If Greece
defaulted on its debt and exited the Eurozone, it could create global
financial shocks bigger than the collapse of Lehman Brothers. However,
today, some people argue that if Greece were to leave the currency union
now, it would not be such a catastrophe. Europe has put up safeguards to
limit the financial contagion, in an effort to keep the problems from
spreading to other countries. Greece, just a tiny part of the Eurozone
economy, could regain financial autonomy with its own economy, these
people contend — and the Eurozone would actually be better off without a
country that seems to constantly need its neighbours’ support. Others say
that is too simplistic a view. European leaders still have not fixed some of
the biggest shortcomings of the Eurozone’s structure by creating a more
federal-style system of transferring money as needed among members –
the way the United States does among its various states. They also worry
that if Greece were to default and leave the Eurozone, it could ignite
224
turmoil in the financial markets that might stall the budding recovery in
Europe and impede the United States’ rebound. Right now, Greece must
work out a deal to get some of the €7 billion to meet looming debt
payments. It also has more than €7 billion in additional payments coming
due this summer to the IMF and the ECB. As a result, Greece might need
to try securing yet another multibillion-euro bailout package — its third
since 2010. If Greece does not get money fast, the government may
consider holding a referendum that would test whether Greek citizens
want to stay in the Eurozone. New elections could also be held if Greece’s
financial situation worsens. Hence even if, of course, austerity measures
slow down economic growth, right now they are absolutely necessary in
Europe. Greece and Europe in general, should not abandon their austerity
only because people do not like it. Thus, even at the expense of people’s
unrest, it is necessary to redefine and correct economic standards in the
countries.
In conclusion what Europe needs to be back on track is a combination of
Quantitative Easing, structural reforms and austerity measures in
struggling countries like Greece, Italy, Spain, Portugal, Cyprus etc.. There
is no other way by which ECB policies will effectively work and without all
this, the ECB will not turn Europe's economy around.
225
226
Sezione Tedesca
German Section
Deutsche Abteilung
227
228
KAPITEL 1
Einleitung
Die Immobilienkrise in den USA, die auch als Sub-prime Krise,
Finanzmarktkrise oder Weltwirtschaftskrise in die Geschichte eingehen
wird, traf die Weltwirtschaft im Jahr 2007 und in den darauf folgenden
Jahren mit aller Wucht. Diese Finanzkrise ist seit dem Jahr 2007 ständiger
Begleiter in der Medien- und Politiklandschaft der Welt. Die Ursachen, ihr
Verlauf und vor allem ihre Folgen, beschäftigen Wirtschaftsexperten
ebenso wie auch Staatsmänner und den normalen Bürger. Jeder wollte
verstehen, was eigentlich dabei passiert war und warum niemand die
Entwicklungen vorhersehen konnte. Seit dem Frühjahr 2007 ließ sich auf
dem US-Markt für Hypothekenkredite mit geringer Bonität (Sub-prime) ein
drastischer Anstieg von Zahlungsausfällen beobachten, der in der Folgezeit
zu
erheblichen
Neubewertungen
von
Krediten,
Auflösungen
von
Kreditporte-feuilles, Notfinanzierungen von Spezialinstituten bis hin zum
Zusammenbruch von Finanzinstituten führte. Da die Refinanzierung der
US-Hypothekenkredite auf den internationalen Finanzmärkten in Form von
Kreditverbriefungen stattfand, erreichte die Sub-prime Krise ab Mitte 2007
auch die Finanzmärkte anderer Industrieländer und löste in der Folgezeit
eine weltweite Finanzkrise und Konjunkturkrise aus. Die Verbriefung, also
die Finanzierung von Krediten über den Kapitalmarkt, hat in den letzten
229
Jahren deutlich an Bedeutung gewonnen. Die Sub-prime Krise zeigt jedoch
deren Mängel auf. Da die Immobilienfinanzierer das Risiko aus der
Kreditvergabe
an
den
Kapitalmarkt
weitergeben
konnten,
wurden
offensichtlich die Kreditregeln deutlich gelockert. In der Folge hat sich in
den USA der Markt für Sub-prime Kredite innerhalb weniger Jahre
verdreifacht. Als schließlich die Zinsen angestiegen sind, konnten viele
Eigenheimbesitzer die Kreditraten nicht mehr zahlen. Als Folge mussten
die Gläubiger der mit Hypotheken besicherten Wertpapiere erhebliche
Verluste verbuchen. Dies stellt jedoch die Verbriefung nicht generell in
Frage, denn die Vorteile in Bezug auf die Risikoallokation sind zu
gewichtig. Allerdings muss der Verbriefungsmarkt neu strukturiert werden.
1.1 Ein kurzer Blick zurück
Sub-prime,
bzw.
präziser:
sub-prime mortgages, stehen für US-
Hypothekendarlehen an Schuldner mit einer geringen Kreditwürdigkeit.
Der konkrete Auslöser der im August 2007 beginnenden FinanzmarktVerwerfungen waren steigende Ausfallraten in eben diesem sub-prime
Segment des US-Hypothekenmarkts, die in Kombination mit dem Ende des
langjährigen
Immobilienpreisanstiegs
zu
einer
rasch
steigenden
Risikoaversion von Investoren gegenüber Anlagen im Hypothekenbereich
führten.
Von
dieser
Risikoaversion
wurde
insbesondere
das
Geschäftsmodell besonderer Zweckgesellschaften hart getroffen. Das
230
grundsätzliche Konstruktionsprinzip einer solchen, häufig außerbilanziellen
Zweckgesellschaft
ist
recht
einfach.
Diese
emittiert
zu
Finanzierungszwecken kurzlaufende Wertpapiere - sogenannt Asset
Backed Commercial Paper - und investiert die so gewonnenen Mittel in
langfristige Anlagen wie Hypothekendarlehen bzw. Papiere, die ihrerseits
durch das Verbriefen von Immobilienkrediten entstanden sind (Mortgage
Backed Securities). Die plötzliche Abneigung gegenüber Risiken auf dem
Immobilienmarkt lies die Nachfrage der Investoren nach den von den
Zweckgesellschaften
emittierten
Kurzfristpapieren
jedoch
zusammenbrechen – als Folge trocknete der ABCP Markt regelrecht aus.
Im Ergebnis erodierte die Finanzierungsbasis der Zweckgesellschaften,
auslaufende Kurzfristpapiere ließen sich nicht mehr revolvieren. Um
dennoch die auslaufenden Papiere bedienen zu können, versuchten nun
viele Zweckgesellschaften, Liquiditätslinien als Rückfallfazilitäten zu ziehen
oder finanzielle Mittel dadurch freizusetzen, indem sie Teile ihrer Aktiva an
andere
Finanzmarktteilnehmer
verkauften.
Aufgrund
der
allgemein
angestiegenen Aversion gegenüber Anlagen im Immobilienbereich fanden
sich jedoch kaum noch Käufer für die angebotenen Aktiva – und wenn,
dann nur mit drastischen Preisabschlägen. Auch für MBS und ähnliche
Papiere kam es hiermit zu einem erheblichen Preisverfall und einer
Austrocknung des Marktes. Für Zweckgesellschaften bedeutete dies
zusammengefasst: Während der Marktwert ihrer Aktivseite erodierte,
231
fanden sie auf ihrer Passivseite keine Anschlussfinanzierung mehr, um
auslaufende Kurzfristpapiere zu revolvieren. In der Folge griffen viele
Zweckgesellschaften notgedrungen in erheblichem Maße auf die oben
erwähnten Kreditlinien zurück, die ihnen von Banken – die ihrerseits
häufig eben diese Zweckgesellschaften aufgesetzt haben – für den Fall
von Liquiditätsengpässen eingeräumt wurden. Im Ergebnis wurden auch
viele Banken sehr stark in Mitleidenschaft gezogen, zum Teil nahmen sie
auch die bis dato außerbilanziellen Zweckgesellschaften wieder auf ihre
Bilanz.
1.2 Die Sub-prime Krise
Im Licht der Entwicklungen auf den Finanzmärkten erscheinen die Vorteile
der Verbriefung rein akademischer Natur zu sein. Im Zuge der
sogenannten
Subprime-Krise
milliardenschwere
mussten
Abschreibungen
auf
die
ihre
Banken
weltweit
Verbriefungsprodukte
vornehmen, und der US-amerikanischen Wirtschaft drohte eine Rezession
oder aber zumindest eine ernsthafte Wachstumsdelle. Auslöser dieser
Entwicklung waren Verwerfungen auf dem US-Hypothekenmarkt und auf
dem Markt für Asset Backed Securities. Um daraus Lehren für die Zukunft
des
Verbriefungsmarktes
zu
ziehen,
bedarf
es
einer
genaueren
Betrachtung der Ursachen der Finanzmarktkrise. Den Ausgangspunkt stellt
die Wohnimmobilienpreisentwicklung in den USA in den letzten Jahren
232
dar. Im Zeitraum Januar 2000 bis Januar 2007 sind die Immobilienpreise
in den USA nach Angaben des Office of Federal Housing Enterprise
Oversight (OFHEO) um insgesamt 76% gestiegen. In Florida und
Kalifornien lag der Anstieg mit über 140 Prozent sogar fast doppelt so
hoch. Dieser Immobilienpreisboom fußte unter anderem auf einem starken
Wachstum
der
verfügbaren
Einkommen
und
einem
deutlichen
Beschäftigungszuwachs. Vor allem aber wurde die Nachfrage nach
Wohnimmobilien durch das niedrige Zinsniveau angeregt. Sinken die
Zinsen, so werden Sachinvestitionen im Vergleich zu einer Anlage der
Mittel am Kapitalmarkt rentierlicher, was bei einem kurzfristig starren
Angebot preistreibend auf Unternehmensbeteiligungen oder Immobilien
wirken kann. Im Zeitraum August 2001 bis August 2004 sind die Zinsen
für variable Hypothekendarlehen nach Angaben der Mortgage Bankers
Association um 4 Prozentpunkte gesunken. Auch die Zinssätze für
langfristige Hypothekendarlehen mit 30-jähriger Zinsbindung sind in
diesem Zeitraum um 2,2 Prozentpunkte gefallen. Solche Zinssenkungen
hatten einen enormen Kaufkraftgewinn für die privaten Haushalte zur
Folge. Angenommen, ein Haushalt möchte ein Eigenheim nur mit
Fremdkapital erwerben und inklusive einer Anfangstilgung von 1 Prozent
maximal 1.000 US-Dollar pro Monat ausgeben. Bei einem HypothekenZinssatz von 8% darf das Eigenheim damit nicht mehr als 133.333 USDollar kosten, bei 6% dagegen schon 171.142 US-Dollar und bei 4%
233
Fremdkapitalzinsen sogar 200.000 US-Dollar. Mitverantwortlich für die
niedrigen Zinsen auf dem US-Hypothekenmarkt war die Geldpolitik in den
USA. Vor dem Hintergrund des Absturzes der New Economy im Jahr 2001
senkte die Federal Reserve zur Vermeidung einer Rezession die Leitzinsen
deutlich. Diese Strategie der Federal Reserve ist umstritten. Auf der einen
Seite konnte durch die Versorgung der Märkte mit Liquidität zu einem
niedrigen Zinssatz der Abschwung in den USA gelindert werden, ohne
zumindest kurzfristig zu stark vom Ziel der Geldwertstabilität abzuweichen.
Auf
der
anderen
Seite
hat
sich
offenbar
die
übermäßige
Liquiditätsversorgung zu geringen Zinsen in einer Vermögenspreisinflation
niedergeschlagen. Im Nachhinein kann in jedem Fall festgestellt werden,
dass die Zinsen im Zeitraum Mitte 2002 bis Ende 2005 zu niedrig waren.
Für den Kapitalmarkt bedeutete das niedrige Zinsniveau sehr niedrige
Margen im Anleihenmarkt. Vor allem institutionelle Anleger wie Banken,
Pensionsfonds oder Lebensversicherungen wurden hierdurch vor Probleme
gestellt, weil sie aufgrund von Portfolio Erwägungen einen größeren Anteil
ihrer Mittel im Anleihenmarkt platzieren mussten. Daher gab es eine
größere Nachfrage nach Verbriefungsprodukten wie Mortgage Backed
Securities (MBS), Collateral Debt Obligations (CDO) oder allgemein Asset
Backed Securities (ABS), die zwar mit einem gewissen Ausfallrisiko
verbunden sind, dafür aber auch höhere Renditen als Staatspapiere
versprechen.
Zudem
galten
diese
Papiere
aufgrund
der
234
Rückgriffsmöglichkeit auf die zugrunde liegenden Vermögenswerte als
relativ sicher. Gerade US-amerikanische MBS waren gefragt, da aufgrund
der
starken
Preiszuwächse
im
US-Immobilienmarkt die
Erwartung
vorherrschte, dass selbst im Fall von Ausfällen die Zahlungszuflüsse über
die Erlöse aus den Zwangsversteigerungen sichergestellt werden können.
Es ist zu berücksichtigen, dass im Verbriefungsmarkt in erheblicher Weise
Skaleneffekte vorliegen. Da die Fixkosten für Verbriefungen recht hoch
sind, die Margen je Forderungseinheit dagegen gering, lohnen sich
Verbriefungstransaktionen nur in einem großen Maßstab.
1.3 Ursachen der Sub-prime Krise
Die Ursachenanalyse im Rahmen der Immobilien-Krise fordert vom
Interessierten, sich mit umfangreichen Ausführungen über verschiedenste
Finanzinstrumente zu beschäftigen. Deshalb versuchen wohl viele nicht
einmal, die Gründe für diese Entwicklungen am Hypothekenkreditmarkt zu
verstehen. Aber nicht nur die komplizierten Vorgehensweisen der
Finanzinstitute
(Banken,
Rating-Agenturen,
Investoren)
sind
ausschlaggebende Faktoren, sondern auch die allgemeine politische und
wirtschaftliche Situation vor der Krise; diese wird in diesem Punkt nun
genauer erläutert. Anschließend wird auf die Erschließung des Sub-prime
Segments eingegangen und darauf, wie und in welcher Form hier Kredite
vergeben wurden. Die Ursachen der 2007 zu beobachtenden Sub-prime
235
Krise liegen in der Entwicklung der amerikanischen Immobilienpreise und
dem Hypothekenmarkt. Auf das Platzen der New Economy Blase 2000 und
2001 reagiert die Fed mit Zinssenkungen, um ein zu schnelles Abkühlen
der US-Wirtschaft zu vermeiden. Von Ende 2000 bis Ende 2001 wird der
Leitzins von 6,5 % auf 1,75 % reduziert und für drei Jahre auf unter 2 %
belassen. Die historisch niedrigen Zinsen fördern in der Folge wie
gewünscht den Immobilienmarkt. Über einen stärkeren Immobilienmarkt
sollen die Konsumausgaben steigen, bis schließlich Investitionen und
Exporte wieder auf einem gesunden Niveau ankommen. Die niedrigen
Zinsen bedeuten sehr günstige Refinanzierungsmöglichkeiten und führen
gemeinsam mit sehr hohen Sparquoten in vielen Ländern zu großen
Investitionen in den amerikanischen Immobilienmarkt. In der Folge
steigen die Preise für Immobilien stark an und verzeichnen 2004 und 2005
zweistellige Wachstumsraten. Um eine Überhitzung des Marktes zu
vermeiden, steigen die Leitzinsen in Trippelschritten von 1 % Mitte 2004
auf 5,25 % Mitte 2006. Die Immobilienblase hat sich aber schon gebildet.
Die jährlichen Preisanstiege bei Immobilien sind die höchsten seit über 20
Jahren und dies über einen Zeitraum von knapp drei Jahren. Auf den
höheren
Leitzins
folgt
2006
zunächst
eine
Abschwächung
der
Preisentwicklung auf hohem Niveau. Ende 2006 und Anfang 2007 steigen
die Preise im landesweiten Schnitt nur noch geringfügig an und in
manchen Regionen werden bereits sinkende Preise beobachtet. Für das
236
Gesamtjahr
2007
wurden
zum
ersten
Mal
seit
Beginn
der
Preisbeobachtung 1950 landesweit sinkende Häuserpreise erwartet. Diese
Änderung der Preisentwicklung ist der eine entscheidende Faktor für die
Trendwende bei Sub-prime Krediten. Der andere Faktor liegt in der
Struktur und Funktionsweise des Hypothekenmarktes. Die Vergabe von
Hypotheken erfolgt zu einem großen Teil über reine Hypothekeninstitute
wie New Century Financial Corp. Derartige Institute haben keine Einlagen
von Bankkunden, sondern finanzieren sich ausschließlich über den
Kapitalmarkt. Daher unterliegen sie nicht der gleichen Aufsicht wie Banken
mit Kundeneinlagen und können Hypotheken freizügiger vergeben.
Geringe Einstiegsbarrieren für Hypothekengeber fördern die Entstehung
vieler neuer Institute, die auch wegen ihrer geringen Erfahrung von den
aktuellen Risiken besonders betroffen sind.
237
KAPITEL 2
2.1 Von der Finanzkrise zur Weltwirtschaftskrise
Am 15. September 2008 verkündete die viertgrößte amerikanische
Investmentbank Lehman Brothers ihre Zahlungsunfähigkeit. Der Bankrott
der Bank stellte einen Höhepunkt der Sub-prime Krise dar, der durch die
schlagartige Erosion des Vertrauens der Banken untereinander das
internationale Finanzsystem paralysierte. Der drohende Zusammenbruch
des Finanzsystems veranlasste viele Regierungen zu Rettungs- und
Stabilisierungsmaßnahmen
in
bisher
unbekanntem
Ausmaß.
Rettungsmaßnahmen in Form von staatlichen Milliardenbürgschaften,
Teilübernahmen von Banken, staatlichen Beteiligungen an Unternehmen
und gewaltigen Liquiditätsspritzen der Notenbanken sollten das Vertrauen
in die Banken wiederherstellen und sie vor einem Zusammenbruch retten.
Das
Schlüsselwort
war
systematische
Krise.
Die
wissenschaftliche
Aufarbeitung der Ursachen der Krise vollzog sich auf unterschiedlichen
Ebenen und warf grundsätzliche Fragen auf. Die Vergabepraxis der Kredite
in den Vereinigten Staaten wurde ebenso thematisiert wie die mangelhafte
Regulierung
und
Aufsicht
der
Finanzinstitute,
das
fragwürdige
Anreizsystem der hohen Bonuszahlungen bei kurzfristigen Erfolgen, die
unzureichende Haftung
der
maßgeblichen
Entscheidungsträger,
die
inadäquate Geldpolitik der amerikanischen Zentralbank, das strittige
238
Geschäftsgebaren
der
Rating-Agenturen
bei
der
Verbriefung
und
Bewertung von Hypothekenforderungen, die dann in großem Umfang
international verkauft worden sind. In der Tat sind die gewonnenen
Erkenntnisse ein wichtiger Beitrag zum Verständnis der Sub-prime Krise.
Allerdings zeigte sich schnell, dass die Sub-prime Krise nur ein
Dominostein in einer Kette von weltwirtschaftlichen Risiken war, die sich
über die Schwächen des Finanzsystems bis hin zu einer ausgemachten
Weltwirtschaftskrise mit drohenden Staatsbankrotten und historischen
Einbrüchen der Weltwirtschaftsleistung erstreckten. Die Beschränkung der
Analyse auf das Fehlverhalten im Finanzsektor erwies sich schnell als
unzureichend. Zum besseren Verständnis der Weltwirtschaftskrise und
ihrer Hintergründe war es notwendig, das Augenmerk auch auf
makroökonomische Fehlentwicklungen im Vorfeld der Krise zu richten.
Diese makroökonomische Analyse zeigte, dass vor allem geldpolitischen
Entscheidungen der Zentralbanken eine maßgebliche Rolle bei den
wirtschaftlichen Verwerfungen zuzurechnen war.
2.2 Auswirkungen und Gefahren der Niedrigzinspolitik
Seit Mitte der neunziger Jahre ist ein sukzessiver Rückgang des weltweiten
Zinsniveaus zu beobachten, der seinen Ausgang in der japanischen
Billiggeldpolitik als Reaktion auf das Platzen der japanischen Aktien und
Immobilienblase und die darauf folgende Rezession zu Beginn der
239
neunziger Jahre fand. Die amerikanische Notenbank, die Federal Reserve
(Fed), und die Europäische Zentralbank folgten ihrerseits im Jahr 2001 mit
Zinssenkungen als Reaktion auf das Platzen der ‚New-Economy-Blase‘ und
den verheerenden Terroranschlägen des 11. September 2001 in New
York. Sowohl in Japan als auch in den USA und Europa hatten die
Zinssenkungen das Ziel, einen wirtschaftlichen Abschwung zu verhindern.
Ein niedriges Zinsniveau sollte einerseits eine geringere Sparneigung und
damit höheren Konsum bewirken. Anderseits sollten niedrige Zinsen zu
einem Anstieg der Investitionen führen, da sich deren Kreditfinanzierung
verbilligte. Spränge die Konjunktur an, stiegen die Gewinne und
stimulierten weitere Investitionen. Die Beschäftigung nähme zu und die
Löhne zögen an, wodurch sich der Konsum zusätzlich erhöhte. Dies waren
die Hoffnungen an die akkommodierende Geldpolitik. Niedrige Zinsen
bergen neben den kurzfristigen konjunkturellen Impulsen jedoch auf lange
Sicht erhebliche wirtschaftliche Risiken. Für potenzielle Sparer schwinden
die Anreize, ihr Vermögen in festverzinsliche Anlagen zu investieren,
weshalb sie auf andere Sparmöglichkeiten ausweichen. Traditionell sind
diese Alternativen Immobilien und andere reale Vermögenswerte wie
Aktien oder Rohstoffe (Gold). Bei zunehmender Nachfrage nach diesen
Anlageformen steigen deren Preise, wodurch die Rentabilität der Anlage
ganz im Sinne einer ‚selbsterfüllenden Prophezeiung‘ ebenfalls steigt.
Doch nicht nur potenzielle Sparer verändern ihr Verhalten bei dauerhaft
240
niedrigen Zinsen. Die günstige Verschuldung sowie die reichliche
Verfügbarkeit von Liquidität vereinfachen die Möglichkeit kreditfinanzierter
Investitionen, wobei ein wesentlicher Teil dieser Investitionen ebenfalls in
den o.g. Anlagesegmenten getätigt werden kann und somit die Nachfrage
verstärken. Weitere Preissteigerungen der Vermögenswerte sind die Folge,
die die Rentabilität zusätzlich verbessern. Eine Spirale entsteht. Die
Nachfrage nach zinsgünstigen Krediten nimmt weiter zu, und der Anstieg
der
Vermögenspreise
wird
beschleunigt.
Unter
normalen
Marktbedingungen führte die beschriebene Dynamik zu einem Anstieg der
Zinsen. Steht einer sehr niedrigen Sparquote eine entsprechend höhere
Investitionsquote gegenüber, wie im Falle der USA nach Ende der
Rezession 2001, existiert ein Nachfrageüberhang nach günstigen Krediten.
Es wird mehr Kapital für Investitionen nachgefragt, als von den
Haushalten in Form von Sparvermögen zur Verfügung gestellt wird.
2.3 Schuldenkrise der Euro-Länder
Die Euro-Krise ist eine seit 2009 andauernde Krise innerhalb der
europäischen Union. Sie vereint die Aspekte einer Staatsschuldenkrise,
einer Bankenkrise und einer Finanzkrise. In einzelnen EU-Ländern führte
eine vermehrte Kreditaufnahme zu einer hohen Inflation. Diese konnte
nicht mehr über eine nationale Fiskalpolitik reguliert werden, so dass
dauerhafte Leistungsbilanzdefizite in hohe Staatsschulden mündeten. Das
241
Eskalieren der Euro-Krise begünstigte vor allem die weltweite Finanzkrise
seit 2007. Diese wiederum hatte ihren Ursprung in der US-Immobilienkrise
und weitete sich zu einer globalen Bankenkrise aus. Die Lösung der Krise
erforderte
weitreichende
wirtschafts-
und
gesellschaftspolitische
Entscheidungen in der EU und in den Euro-Mitgliedstaaten. Immer mehr
verschuldete Länder suchten Schutz unter dem Rettungsschirm. Die EuroKrise wird zunehmend zur Bewährungsprobe für ganz Europa. Sie hat
wichtige, für die Europäische Union existenzielle Fragen aufgeworfen, die
nicht nur die Finanzierung von überschuldeten Staaten beziehungsweise
das Verhältnis zwischen Politik und Finanzmärkten betreffen, sondern
auch die demokratische Verfassung der europäischen Institutionen. Der
Euro ist seit dem 1. Januar 1999 die gemeinsame Währung in inzwischen
19 EU-Mitgliedstaaten, die zusammen die Eurozone bilden. Deren
Grundlage sollte Stabilität sein, doch seit der Finanzkrise 2008 gerät die
Währungsunion immer mehr in die Krise. Wegen der Eurokrise sinkt das
Vertrauen der Menschen in die EU rapide. Zu dieser Einschätzung kommt
das US-Forschungsinstitut Pew Research Center nach Umfragen in acht
EU-Ländern, die am 13. Mai 2013 veröffentlicht wurden. Befragt wurden
7.000
Menschen
in
Italien,
Frankreich,
Spanien,
Großbritannien,
Griechenland, Deutschland, Tschechien und Polen. Während 2012 gut
60% der Befragten noch ein positives EU-Bild hatten, waren es 2013 nur
noch 45%. Vor allem Franzosen, Griechen und Italiener glauben kaum
242
noch an die Vorteile der Wirtschaftsunion. Die Deutschen zweifeln zwar
auch
an
der
Union,
die
Zahl
derer,
die
von
einer
positiven
Wirtschaftsentwicklung ausgehen, nahm allerdings zu. Am stärksten hat
Europa in Frankreich an Rückhalt verloren. Hier glauben 77% der
Befragten, die wirtschaftliche Zusammenarbeit habe die Lage in Frankreich
verschlechtert. Allerdings wollen 60% der Befragten in den acht Ländern
die gemeinsame Währung behalten. Die Euro-Krise ist vor allem
eine Verschuldungskrise. Einige Mitgliedstaaten der Eurozone sind nicht
mehr in der Lage ihren Zahlungsverpflichtungen nachzukommen und sind
auf die Unterstützung der Euro-Partner, der Europäischen Zentralbank
(EZB) und des Internationalen Währungsfonds (IWF) angewiesen. Diese
suchen seit Beginn der Krise nach einer dauerhaften Lösung, um die
gemeinsame Währung, den Euro, weiterhin stabil zu halten.
Eigentlich galt laut der Vertrag von Maastricht:

Das Haushaltsdefizit darf
Bruttoinlandsprodukts
nicht
betragen.
mehr
Nur
als 3%
Bulgarien,
des
Dänemark,
Deutschland, Österreich und Schweden konnten z.B. 2011 unter
drei Prozent bleiben.

Auch die Gesamtverschuldung der einzelnen Staaten darf die
Marke von 60% des Bruttoinlandsprodukts nicht überschreiten.
243
Allerdings wurde auf die Einhaltung dieser Kriterien nicht allzu genau
geachtet. Einige Länder hatten schon bei ihrem Eintritt in die EuroGemeinschaft einen Gesamtschuldenstand, der deutlich über 60% lag,
andere legten der Kommission geschönte Zahlen vor. Die Entscheidung
über die Aufnahme einzelner Länder in die Eurozone war wesentlich durch
politische Erwägungen geprägt. Selbst Deutschlands Schulden liegen seit
mehreren Jahren über dem Grenzwert von 60%, ohne Konsequenzen von
Seiten der EU. Die Schuldenkrise wurde durch die Finanz- und
Wirtschaftskrise 2008-2009 verstärkt. Durch diese wurden die Schulden
der meisten Staaten in der Europäischen Union immer weiter in die Höhe
getrieben. Die Unterstützungen für die Banken, die Konjunkturförderung,
die Kosten der steigenden Arbeitslosigkeit und sinkende Steuereinnahmen
führten dazu, dass viele Mitgliedsländer einzelne Maastricht-Kriterien nicht
mehr einhalten konnten. Im Frühjahr 2010 spitzte sich die Lage
dramatisch
zu,
als
Griechenland
das
Ausmaß
seiner
bis
dahin
verschleierten Haushaltsdefizite und seines Schuldenstandes nicht mehr
verheimlichen konnte. Es wurde deutlich, dass das Land seine Schulden
nicht mehr selber bezahlen konnte, die Zinssätze für griechische
Staatsanleihen waren auf dem Kapitalmarkt unbezahlbar geworden. Am
23. April 2010 musste Griechenland Finanzhilfen beantragen, um eine
Staatsinsolvenz abzuwenden.
244
2.4 Die Finanzkrise in Griechenland
Mit dieser Offenbarung war das Vertrauen in die Kreditwürdigkeit des
Landes zutiefst erschüttert. Banken, Versicherungen und Privatanleger
versuchten möglichst schnell, Staatsanleihen von Griechenland, aber auch
von Irland und Portugal zu verkaufen, aus Angst, bei einem Staatsbankrott
ihr Geld zu verlieren. Neue Staatsanleihen konnten die Länder nur zu sehr
hohen Zinsen auflegen, sich also nur zu schlechten Konditionen Geld
leihen.
Gleichzeitig
Kreditwürdigkeit
von
begannen
die
Unternehmen
Ratingagenturen,
und
Staaten
die
die
bewerten,
die
betreffenden Länder herabzustufen, was die Zinsen noch weiter steigen
ließ. Dieser Teufelskreis führte nicht nur Griechenland, sondern auch
Irland und Portugal an den Rand der Zahlungsunfähigkeit. Damit war klar,
dass die Krise den gesamten Euro-Raum betraf und eine Lösung gefunden
werden musste, die über die Finanzhilfen für Griechenland hinausging.
2.5 Weitere Problemländer
Auch das hoch verschuldete Steuerparadies Zypern schlüpfte unter den
Euro-Rettungsschirm. Im Juni 2012 hat Zypern als fünftes Land der EuroZone in Brüssel einen Antrag auf Finanzhilfen gestellt. Am 16. März 2013
haben sich die Euro-Finanzminister und der Internationale Währungsfonds
auf ein Hilfsprogramm für Zypern geeinigt. Am 19. März 2013 lehnte das
zyprische Parlament den Rettungsplan der Eurostaaten und IWF ab. Grund
245
war die darin vorgesehene Zwangsabgabe auf Sparguthaben, mit der
Zypern einen Eigenbeitrag von 5,8 Milliarden Euro aufbringen sollte. Nun
wurde ein neues Hilfspaket geschnürt, bei dem die Guthaben über
100.000 Euro in Zypern deutlich stärker belastet wurden. Dafür blieben die
Guthaben unter 100.000 Euro unangetastet.
Zusammenfassung
In Anbetracht der Erfahrungen mit den Notenbankinterventionen seit 2001
und den aufgezeigten Wirkungen der Niedrigzinspolitik stellt sich die Frage
nach der Nachhaltigkeit einer solchen Politik. Die Gefahr der weiteren
Verschuldung
bzw.
Überschuldung
insbesondere
der
öffentlichen
Haushalte zeigt sich in den aktuellen Refinanzierungsschwierigkeiten der
EU-Mitgliedsländer Griechenland, Irland, Portugal, Spanien und Italien.
Hinzu kommt, dass die immense Liquidität, die von den Zentralbanken zur
Krisenstabilisierung zur Verfügung gestellt wird, über die weltweiten
Märkte schwappt und erneut ihre blasenbildende Sprengkraft entfalten
kann. Es zeigte sich, dass die makroökonomischen Verzerrungen, die
insbesondere
durch
die
expansive
Geldpolitik
der
amerikanischen
Notenbank hervorgerufen wurden, die zentrale Ursache darstellten.
Die Finanzkrise 2007/2008 war folglich nur vordergründig eine Krise des
Finanzsystems. Tatsächlich handelte es sich um eine Schuldenkrise mit
globaler Dimension, die durch zu niedrige Zinsniveaus provoziert wurde.
246
Die
Herausforderungen
Konsolidierung
der
der
Zukunft
Verbindlichkeiten
liegen
daher
auch
in
der
(Haushaltskonsolidierung)
und
weniger in der Stabilisierung der Nachfrage in den überschuldeten
Volkswirtschaften.
Hierfür stehen drei Handlungsmöglichkeiten zur Auswahl. Erstens die
Verfolgung einer schmerzhaften Anpassungspolitik, wie sie zurzeit in
zahlreichen Staaten des Euro-Raums unternommen wird. Zweitens eine
Neuverhandlung bzw. Restrukturierung von Schulden wie im Falle
Griechenlands. Als dritte Möglichkeit kann eine inflationäre Abwertung des
Schuldendstands erfolgen. Diese Option ist politisch am einfachsten
realisierbar, ist jedoch mit erheblichen gesamtwirtschaftlichen und
gesellschaftspolitischen
Risiken
verbunden.
Die
Notenbanken
und
Regierungen weltweit scheinen sich weitgehend auf letztere Alternative
verständigt zu haben. Sie verzichten auf eine Rückführung der Schulden
und versuchen, die Schuldenlast durch expansive Geldpolitiken erträglicher
zu gestalten (Schuldenbremsen). Dass aber genau diese Art der
Krisenbekämpfung schon 2001 verfolgt wurde und dies maßgeblich zur
aktuellen Situation beigetragen hat, wird dabei vernachlässigt. Anfang
2015 jedoch kündigt die Europäische Zentralbank an, Staatsanleihen für
hunderte Millionen Euro zu kaufen. Mit dem Programm soll die Inflation
auf ein Niveau nahe bei 2% zurückfinden. Die Staatsverschuldung der
Eurozone entspricht mittlerweile 90,6% des Bruttoinlandsprodukts.
247
KAPITEL 3
3.1 Die Notenbanken und die Krise
Seit August 2007 haben EZB und Fed turbulente Zeiten erlebt. Das letzte
Kapitel dieser Arbeit soll die Reaktionen der Zentralbanken auf die
Finanzkrise und ihre Wirkungen genauer analysieren. Wie in einer ersten
Einschätzung im Sommer 2008 angenommen, bleiben die Ökonomen
hinsichtlich der ergriffenen geldpolitischen Maßnahmen der beiden
Zentralbanken als auch der noch verbleibenden Optionen skeptisch. Für
die Fed sehen sie nur noch begrenzte Möglichkeiten, die Zinsen weiter zu
senken. Und für die EZB stufen sie die regionalen Unterschiede in der
wirtschaftlichen Entwicklung im Euroraum als größte Herausforderung
einer einheitlichen Geldpolitik ein. Auf den Ausbruch der Finanzkrise im
Sommer 2007 hat die Geldpolitik mit nicht-konventionellen Maßnahmen
reagiert. Auch die Europäische Zentralbank (EZB) hat neben einer
Senkung des Hauptrefinanzierungssatzes auf mittlerweile 1 % auf solche
Maßnahmen zurückgegriffen. Im ersten Jahr der Krise konzentrierten sich
die
unkonventionellen
geldpolitischen
Maßnahmen
auf
die
Liquiditätsversorgung des Finanzsystems, was bis heute fortgesetzt und
ausgebaut wurde. Diese reichen von Swap-Operationen in Devisen zur
Bereitstellung von Fremdwährungsliquidität über die Ausweitung der
refinanzierungsfähigen Sicherheiten bis zur unlimitierten Zuteilung von
248
Liquidität zum jeweiligen Hauptrefinanzierungssatz im Rahmen des
Tenders. Mit der Ankündigung des Erwerbs von Pfandbriefen im Ausmaß
von 60 Mrd. € folgt die EZB der Praxis der US-amerikanischen Zentralbank
(Fed), die schon seit Längerem bestimmte Finanzmarktsegmente direkt
mit Liquidität unterstützt.
3.2 Geldpolitische Reaktionen der Fed und der EZB
Zunächst versuchten Fed und EZB vor allem, die Geldmärkte zu
beruhigen; sie konzentrierten sich auf die Stabilisierung der kurzfristigen
(ungesicherten) Refinanzierungsmärkte der Banken untereinander. Die
Zinsspreads auf diesem Markt signalisierten im Sommer 2007 gravierende
Probleme
der
Banken.
Die
EZB
intervenierte
mit
einer
Feinsteuerungsoperation mittels Mengentender am 9. August 2007 in
Höhe von 95 Milliarden Euro. Die Zentralbanken traten zunächst als
typischer Lender-of-last-resort auf, der kurzfristig Liquidität bereitstellt.
Schon in dieser frühen Phase der Finanzmarktkrise haben Fed und EZB
aber auch über eine qualitative Umschichtung ihrer Vermögenswerte
indirekt Einfluss auf den Kapitalmarkt genommen. So wurden verstärkt
verbriefte Wertpapiere als Sicherheiten in den Offenmarktgeschäften mit
den Geschäftsbanken akzeptiert. Umgekehrt waren die Geschäftsbanken
aufgrund gestiegener Unsicherheit bemüht, möglichst viel Geld und liquide
Staatsanleihen
als
Vermögenswerte
zu
halten
und
in
den
249
Refinanzierungsgeschäften mit den Zentralbanken möglichst viele der
abrupt illiquide gewordenen verbrieften Wertpapiere als Sicherheiten zu
hinterlegen.
Die amerikanische Notenbank hat ähnlich wie nach dem Platzen der
Dotcom-Blase im Jahr 2001 vom Sommer 2007 an die Leitzinsen von 5,25
auf einen Korridor von 0 bis 0,25 Prozent (Dezember 2008) gesenkt. Mit
diesen Zinssenkungen, traditionelle monetäre Lockerungen, sollten sowohl
die Geldmärkte beruhigt als auch über Weitergabe der Zinssenkungen an
Unternehmen und Haushalte, die Konjunktur angekurbelt werden. Anders
als die Fed hat die EZB aufgrund von Befürchtungen von Inflationsrisiken
durch hohe Ölpreise noch im Sommer 2008 die Leitzinsen leicht erhöht,
um dann im Herbst 2008 bedingt durch die Lehman Pleite die Leitzinsen
sukzessive auf – auch für die EZB historisch niedrige – ein Prozent zu
senken.
3.3 Heterogene Differenzen im Euroraum
Im Euroraum prägen heterogene Differenzen das Bild der wirtschaftlichen
Entwicklung. Länder wie Deutschland erholen sich derzeit gut, vor allem
mit hohen Wachstumsraten bei den Exporten, die sich auch auf hohe BIPWachstumsraten durchschlagen und einer insgesamt positiven Stimmung
in der Wirtschaft. Offensichtlich war der Exportrückgang, der die deutsche
Wirtschaft 2008/2009 heftig traf, eher temporärer Natur. Die deutsche
250
Wirtschaft scheint strukturell stabil. Insofern ist ein zügiger Rückgang zum
Potenzialoutput nicht überraschend. Deutschland hatte keine Blase im
Immobilienmarkt;
der
Arbeitsmarkt
wurde
mittels
aktiver
Konjunkturprogramme, insbesondere der Einführung von Kurzarbeit gut
abgeschirmt. Allerdings könnten sich auch hierzulande noch Probleme
durch den angeschlagenen Finanzsektor ergeben. Für den Euroraum reicht
aber ein enger Fokus auf Deutschland nicht aus: Länder wie Spanien,
Irland,
Griechenland
und
Portugal
stehen
weiterhin
vor
großen
wirtschaftlichen Problemen. Wie die USA, erlebten auch Spanien und
Irland eine enorme Blase bei den Immobilienpreisen und dadurch
exzessiven Konsum und hohe Investitionen, die sich zu Beginn des
Jahrzehnts in hohen BIP-Wachstumsraten niederschlugen. Seit dem
Platzen der Blase leiden diese Länder nun unter wirtschaftlicher
Stagnation, hoher Arbeitslosigkeit und einem Rückgang der Preisniveaus.
Letzteres ist einer der wenigen verbliebenen Anpassungsmechanismen,
um innerhalb des Euroraums wieder wettbewerbsfähig zu werden. Das
reale BIP ist im Euroraum sogar stärker eingebrochen als in den USA.
Obwohl sich beide Regionen bereits wieder erholen, so sind sie doch noch
von den Niveaus im Jahre 2007 entfernt. Die Arbeitslosenquote ist im
Euroraum und den USA auf momentan zirka 10% angestiegen. Allerdings
war das Niveau vor der Krise im Euroraum mit 7 bis 8% deutlich höher als
in den USA mit einer Arbeitslosenquote von zirka 5% vor der Krise.
251
3.4 Die Rolle von Fed und EZB in der Finanzkrise
ZENTRALBANKPOLITISCHE MAßNAHMEN ZUR BEWÄLTIGUNG DER KRISE
- 3.4.1 Federal Reserve
• Ab September 2007 senkte die Federal Reserve (Fed) den Leitzins
schrittweise von 5,25% auf derzeit 0-0,25%2.
• Ab Dezember 2007 führte sie neue geldpolitische Instrumente ein, die
für Banken den Zugang zu (Zentralbank-)Liquidität erleichtern sollten: Die
Konditionen zur Nutzung des Diskontfensters wurden geändert. Es wurden
zahlreiche neue Fazilitäten eingeführt, mit besonderer Bedeutung der
Term Action Facility (TAF) (direkter Zugang zur Zentralbank möglich). Die
Vielfalt an als Sicherheiten akzeptierten Wertpapieren und die Laufzeiten
für Kredite wurden allgemein erhöht. Devisen-Swap-Linien mit anderen
Notenbanken wurden etabliert, um den Zugang zu Dollar-Liquidität für
ausländische Märkte zu erleichtern.
- 3.4.2 Europäische Zentralbank
• Erste Reaktion war die Emission von Zentralbankgeld in Form von
Schnelltendern um den Mindestbietsatz und Tagesgeldsatz zu halten.
252
• Darauf folgten verlängerte langfristige Refinanzierungsgeschäfte als
Reaktion auf den Drift zwischen Zinssätzen der besicherten EUREPO und
der nicht-besicherten EURIBOR.
• Die EZB-Zinspolitik hielt einen konstanten Leitzins von 4% bis Juli 2008.
Zwischenzeitlich
wurde
dieser
auf
4,25%
(inflationsbegründet)
angehoben. Erst Ende Oktober 2008 folgte eine Senkung auf 3,24%,
momentan liegt er bei 1%.
• Darauf folgte die Verringerung des Zinskorridors auf 100 Basispunkte,
was zur Folge hatte, dass die Liquidität der EZB auf noch ausstehende 840
Mrd. Euro anschwellte.
3.5 EZB startet das Anleihekaufprogramm
Seit März hat die EZB öffentliche Anleihen im Wert von rund 52 Milliarden
Euro gekauft. Das gab das Institut in Frankfurt bekannt. Die Investitionen
sind Teil eines großen Kaufprogramms, mit dem die Bank die europäische
Wirtschaft stützen will. Die Europäische Zentralbank (EZB) hat in den
ersten
vier
Wochen
ihres
Staatsanleihen-Kaufprogramms
für
52,5
Milliarden Euro Schuldtitel gekauft. In der Zahl sind abgewickelte Käufe bis
zum 3. April enthalten, wie die Notenbank in Frankfurt mitteilte. Die
Abwicklung braucht üblicherweise zwei Geschäftstage. Das Programm
läuft seit dem 9. März.
253
- 3.5.1 Monatlich Käufe von 60 Milliarden Euro
Rechnet man Käufe dieser Staatsanleihen, Pfandbriefe ("Covered Bonds")
und Hypothekenpapiere ("ABS") zusammen, lag das Volumen im März
nach Angaben eines EZB-Sprechers bei 60,95 Milliarden Euro. Die Käufe
sind Teil der EZB-Ankündigung, im Kampf gegen die Konjunkturschwäche
bis mindestens September 2016 monatlich Wertpapiere im Umfang von 60
Milliarden Euro zu erwerben. Insgesamt will das Institut somit die
sagenhafte Summe von 1,14 Billionen Euro investieren. Mit dem
umstrittenen Programm will EZB-Chef Mario Draghi mehr Geld in die
Märkte pumpen und einer Deflation vorbeugen. Die Zielmarke liegt bei
etwas unter zwei Prozent. Mit minus 0,1 Prozent im März lag die
Teuerungsrate zuletzt weit davon entfernt. Zudem sollen den Privatbanken
Anreize gesetzt werden, wieder mehr Kredite an die Privatwirtschaft zu
vergeben. EZB-Chef Programm Mario Draghi hatte angekündigt, dass das
Eurosystem – also die EZB und die nationalen Notenbanken – monatlich
Anleihen über 60 Milliarden Euro kaufen wollten. Das Ganze soll bis
mindestens Ende September 2016 laufen. Die EZB will mit den Käufen
noch mehr Geld in den Wirtschaftskreislauf pumpen und so die Konjunktur
und die Inflation ankurbeln. Das Programm nach dem Vorbild der USNotenbank Fed ist auch als „Quantitative Easing“ (QE) bekannt.
254
255
RINGRAZIAMENTI
Desidero ringraziare il Prof. Mark Provvidera, grazie alle sue lezioni,
condotte in maniera appassionata è riuscito a trasmettermi l’amore per
questa materia e la voglia di continuare questo percorso nonostante il
cammino sia difficile. Lo ringrazio per aver creduto nel mio progetto e per
avermi dato la possibilità di svilupparlo. Ringrazio poi la Prof.ssa Adriana
Bisirri ed il Prof. Kasra Samii per avermi consigliato ed assistito durante la
stesura.
In particolare ringrazio la mia famiglia. Se mi è stata data la possibilità di
scrivere queste parole è solo grazie ai loro sacrifici.
256
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