L`Europa, tra fragilità e cattive politiche

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L`Europa, tra fragilità e cattive politiche
arcireport
settimanale a cura dell’Arci | anno XIV | n. 11 | 24 marzo 2016 | www.arci.it | [email protected]
L’Europa, tra fragilità
e cattive politiche
di Francesca Chiavacci Presidente nazionale Arci
L’idea dell’Europa unita è bella e affascinante. Ma forse ancora troppo fragile.
Perché altrimenti non ci si potrebbe spiegare come in così pochi giorni sia potuto
accadere che quell’idea conoscesse declinazioni terribili o profondamente sbagliate. L’Europa è stata colpita nel suo
centro pulsante dagli attentati di Bruxelles.
Ha deciso di chiudere le proprie frontiere a
decine di migliaia di persone che scappano
da guerre e persecuzioni approvando un
accordo scellerato con la Turchia, che non
rispetta le convenzioni sui diritti umani.
Sulle sue strade si sono infranti i sogni
di giovani cittadine europee (tra cui sette
ragazze italiane). Ora più che mai, anche
se noi lo diciamo da tempo, il progetto
unitario che aveva segnato una rinascita
del vecchio continente, sotto le insegne
della pace e della prosperità, si trova di
fronte a un bivio decisivo. Offrire al mondo
una prova di maturità oppure restare
intrappolato nella tragica spirale che ci
ha portato ai drammi di questo tempo.
In queste ore sentiamo evocare la necessità
dell’unità europea, soprattutto a proposito
di sistemi di intelligence e di sicurezza
contro un terrorismo che pare trovare
linfa proprio tra cittadini europei, in una
dinamica di radicalizzazione di sentimenti
di odio e di rivendicazione. Sentiamo
dire che è necessario recidere legami di
complicità all’interno dei quartieri ad alta
densità di immigrazione.
Questioni importanti, indubbiamente. Ma
certamente non sufficienti per sconfiggere la guerra che è tra noi (e che infiamma il pianeta) ed estirparne le radici.
Non ci sembrano risposte esaustive per
soddisfare un grande bisogno, quello di
un’Europa che sappia ritrovare l’idea su cui
venne fondata: quella di popoli riuniti in
nome di una cultura della solidarietà, della
democrazia, di diritti e libertà comuni.
Per troppo tempo questa idea è stata
trascurata, se non rinnegata, al punto che
sono potuti riemergere, prima sommessamente, poi sempre più esplicitamente,
chiusure e nazionalismi che oggi si sono
tradotti nelle immagini-simbolo dei fili
spinati, delle mani ‘timbrate’ dei profughi,
dei controlli alle frontiere interne, del
disinteresse verso le proprie periferie.
Se vuole salvare se stessa, l’incolumità di
chi la abita, sia nativo quanto migrante,
l’Europa deve muoversi seriamente con i
mezzi della politica e con il linguaggio della
verità. Evitando di dare credito a regimi
che praticano al loro interno le più pesanti
misure repressive, fino alla tortura e agli
omicidi di stato. Sgombrando il campo
da relazioni ambigue con governi ed elite
che sostengono gruppi terroristici e lo
stesso Daesh. Abbandonando l’idea che
dai conflitti armati, dai bombardamenti
indiscriminati che spesso colpiscono civili
inermi e dalle possibili scomposizioni
geopolitiche nel Medio Oriente possano
derivare benefici e vantaggi economici.
Lo ripetiamo ancora una volta: una
risposta basata sull’accelerazione verso
soluzioni di tipo militare non farebbe che
dare respiro a una strategia terrorista e
l’aiuterebbe a stringere le proprie fila.
E, d’altro canto, la chiusura verso i processi migratori, con muri, filo spinato o
‘accordi’ di rimpatrio forzato, ovvero di
deportazione, come quello con la Turchia,
ottengono solo il risultato di accrescere la
disperazione, contribuendo a creare un
clima favorevole al terrorismo omicida.
Dare forza a politiche di pace, di cooperazione sul fronte esterno e di integrazione
e inclusione sul fronte interno ora è tanto
più necessario, per salvare le idee di libertà e democrazia, quelle nostre e quelle
degli ‘altri’.
È facile predicare politiche di pace quando
il pericolo è lontano. Assai più difficile è
farlo di fronte a guerre che si estendono
e a un terrorismo che agisce su uno scenario mondiale.
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arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
terzosettore
Luci e ombre del Ddl sul Terzo
Settore in discussione al senato
di Maurizio Mumolo Reti di Terzo settore e Fondazioni
La riforma della legislazione del terzo
settore sta proseguendo, non senza
difficoltà, il suo cammino.
Finora l’aula ha approvato gli articoli
fino al 5. È interessante notare che il
vero dibattito di merito si sta svolgendo in seduta plenaria, prova evidente
dell’errore nella scelta di affidare la
discussione alla I commissione, che
non ha manifestato alcuna competenza
sulle problematiche del terzo settore.
Ma vediamo le novità contenute nel
testo finora approvato, molto distante
da quello iniziale del Governo e anche
abbastanza diverso da quello approvato
alla Camera.
Nell’art. 1 è contenuta una definizione
giuridica di Terzo settore, un termine
finora confinato nel solo ambito sociologico: «il complesso degli enti privati
costituiti per il perseguimento, senza
scopo di lucro, di finalità civiche, solidaristiche e di utilità sociale e che, in
attuazione del principio di sussidiarietà
e in coerenza con i rispettivi statuti o
atti costitutivi, promuovono e realizzano
attività di interesse generale, mediante
forme di azione volontaria e gratuita o
di mutualità o di produzione e scambio
di beni o servizi».
Il testo è in linea con chi sostiene una
funzione non economicistica e più sociale del terzo settore.
Nell’art. 2 finalmente è messa sullo
stesso piano l’iniziativa economica
e il diritto ad associarsi, mentre nel
testo della Camera, paradossalmente,
l’associazionismo sembrava avere un
minore apprezzamento dell’impresa.
Il 3 è uno degli articoli più dibattuti
del provvedimento ed anche uno dei
più importanti in quanto detta le caratteristiche della futura revisione del
libro I del codice civile.
É prevista una semplificazione delle
procedure per ottenere il riconoscimento della personalità giuridica superando
il regime concessorio attualmente in
vigore.
Al comma 1 lett. d) vi è una delle norme
più discutibili dell’intero provvedimento ove si prevede che «alle associazioni
e alle fondazioni che esercitano stabilmente e prevalentemente attività d’impresa si applichino le norme previste dai
titoli V e VI del ibro quinto del codice
civile, in quanto compatibili e in coerenza con quanto disposto all’articolo
9 comma 1 lettera e)».
É bene chiarire subito che non si tratta
della trasformazione obbligatoria in
impresa sociale (come voleva il testo
originario del governo) ma l’applicazione, condizionata, per una parte del
non profit, di norme pensate soprattutto
per le imprese profit.
Il problema è la definizione dell’attività
di impresa, con il rischio che possa
essere assimilata a qualsiasi attività
economica (come prevede la normativa
europea) obbligando quindi soggetti
associativi, spesso piccolissimi, che
svolgono una normale attività di autofinanziamento ad adottare procedure
gestionali onerose ed improprie. Questo
rischio viene temperato dall’inciso «in
quanto compatibili» e dal recentissimo
emendamento, che in parte risponde
alle proteste delle associazioni, che
prevede una progressività di adozione
dei vincoli a seconda delle dimensioni
dei soggetti (l’art. 9 comma 1 lett.e, non
ancora approvato).
Il pure importantissimo art. 4 lega il
riconoscimento di ente di Terzo settore, con i benefici conseguenti, allo
svolgimento di un’attività di interesse
generale.
Viene quindi superato il riferimento
alle finalità come requisito primario
del soggetto e proseguendo sull’orientamento che la legislazione sta tenendo
a partire dal DL 460/97. L’elenco delle
attività non viene più determinato da
una legge ma attraverso un DPCM. Il
testo comunque amplia lo spazio di
attività apprezzabili di riconoscimento
oltre quelle previste per le Onlus e le
imprese sociali.
Alla lettera d) permane un’assurda
limitazione all’autonomia statutaria
ove si prevede che le modalità di organizzazione degli enti devono essere ispirati non solo a principi di democrazia, trasparenza e correttezza,
vincoli sicuramente apprezzabili, ma
anche a quelli di efficacia, efficienza
ed economicità che poco si attagliano
alle attività di organismi non profit.
Si pensi all’applicazione del requisito
dell’economicità di gestione alle attività di un’associazione di volontariato (!). Una norma sbagliata e di difficile
applicazione.
Va pure citata la lett. o) ove viene
valorizzato il ruolo del terzo settore
nella programmazione territoriale dei
servizi socio-assistenziali, culturali e
ambientali, e la lett. p) dove viene
riconosciuto il ruolo delle reti associative di secondo livello anche a scopo di
rappresentanza.
La nuova scrittura dell’art. 5 ha sicuramente tranquillizzato chi temeva
l’unificazione tra il volontariato e l’associazionismo di promozione sociale. Le
differenze rimangono intatte e le uniche
forme di coordinamento previste sono
il registro unico nazionale e il superamento dei due osservatori nazionali
che diventano il Consiglio nazionale
del Terzo settore, aperto però anche
all’impresa sociale e alle fondazioni.
Rimane inspiegabile l’anomalia, tutta italiana, per cui un volontario che
opera in una OdV sia più meritevole
di un volontario che opera in una Aps
e che magari svolge l’identica attività.
Ma si sa quanto sia forte la lobby del
volontariato cosiddetto ‘puro’ che su
questo aggettivo ha costruito le proprie
fortune politiche (ed anche personali).
Buona parte dell’articolo è dedicato
alla regolamentazione delle attività dei
Centri di servizio per il Volontariato,
che in queste settimane hanno dichiarato grande apprezzamento per il Ddl
rivendicando a proprio merito la sua
parziale riscrittura.
Ma, a ben guardare, il nuovo articolato
pone ai Csv numerosi vincoli: un’attività
esclusivamente dedicata a «fornire
supporto tecnico, formativo e informativo per promuovere e rafforzare
la presenza e il ruolo dei volontari»
(anche se in tutto il Terzo settore),
l’obbligo di una base sociale aperta, il
divieto di erogazioni dirette in denaro
o in beni (addio alla progettazione
sociale!), l’incompatibilità tra cariche
nei centri e ruoli di rappresentanza
esterni e, soprattutto, viene nei fatti
prevista la ridefinizione della mappa
dei centri e quindi la loro riassegnazione. Peraltro, i nuovi Comitati di
gestione manterranno la loro funzione
di controllo che si estenderà anche «alla
qualità dei servizi erogati».
Fin qui il testo approvato al Senato.
L’esame del provvedimento riprenderà mercoledì prossimo e potrebbe
chiudersi in settimana, se non verrà a
mancare il numero legale, come è già
successo più volte.
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arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
referendumnotriv
Referendum No Triv: un sì per cambiare
la politica energetica del governo
di Filippo Sestito coordinatore nazionale Arci Ambiente, difesa del territorio, stili di vita
Ci siamo. È partita la campagna referendaria per bloccare il rinnovo delle
concessioni per lo sfruttamento dei
giacimenti da parte delle piattaforme
marine entro le 12 miglia.
Venerdì, 18 marzo, a Roma il Comitato
nazionale ‘VOTA Sì per Fermare le
Trivelle’, che unisce circa duecento organizzazioni, ha inaugurato la campagna
per il Sì al referendum del 17 aprile. Un
Mare Nero è il titolo del flashmob che
ha aperto la campagna VOTA Sì per
impedire alle multinazionali del petrolio
di sfruttare sine die le concessioni di
cui già dispongono.
Dopo giorni di intenso lavoro, anche
e soprattutto per i tempi strettissimi
imposti dal Governo Renzi, si è messa
in moto, in tutta Italia, la macchina
organizzativa composta da tantissime
associazioni grandi e piccole, da movimenti e comitati locali, dai partiti
politici, oltre che dalle nove Regioni
italiane che compongono il Comitato
promotore del Referendum abrogativo
sulle trivelle in mare: Basilicata, Calabria, Campania, Liguria, Marche, Molise,
Puglia, Sardegna e Veneto.
Sarà essenziale, in questi ultimi 23
giorni di campagna referendaria, informare i cittadini italiani dell’esistenza del
referendum contro le trivelle e aprire
nel Paese un confronto pubblico, il più
possibile partecipato, sulla Strategia
Energetica Nazionale, nonostante il
tentativo di oscurare l’esistenza stessa
del voto da parte del Governo e dei
grandi mezzi di comunicazione di massa.
Bisognerà, necessariamente e con
urgenza, affrontare il problema della
transizione energetica verso il 100% di
produzione di energia da fonti rinnovabili, disegnando un modello democratico
e di prossimità basato sull’efficienza e
sul risparmio energetico. Così come lo
stesso Governo si è impegnato a fare non
più di tre mesi fa alla COP21 di Parigi.
Perché non discutere, allora, di aumentare significativamente, e da subito, gli
oneri delle concessioni nazionali per
l’estrazione delle fonti fossili che oggi
sono irrisori?
Scandalosamente bassi anche rispetto
a tutto il resto d’Europa.
Ci si chiede perché questo non sia avvenuto finora.
Del resto si sa da molti anni quanto
sia alto il prezzo che pagano i territori
interessati dalle attività di estrazione di
petrolio e di gas in termini ambientali
ed economici.
Non si può far finta di non sapere che
i mari italiani sono mari chiusi e che
un eventuale incidente nei pozzi petroliferi offshore o durante il trasporto
danneggerebbe in maniera gravissima
l’ambiente e l’economia, come ha, purtroppo, dimostrato l’incidente di pochi
giorni fa avvenuto in Tunisia, non molto
lontano da Lampedusa, ricoprendo di
greggio tre chilometri di spiaggia.
Di questo e di altro si discuterà nei
prossimi giorni. Di certo un risultato
il Referendum ‘No Triv’ lo ha già prodotto: aprire una nuova e bella pagina
di democrazia e di partecipazione, all’inizio di una importante e forse decisiva
stagione referendaria che culminerà con
la campagna per il No al referendum
costituzionale.
L’Arci, come sempre, è in prima linea
nella costruzione di forme di partecipazione democratiche e popolari e
attraverso il coinvolgimento di tutti
i circoli è impegnata a promuovere il
Referendum del 17 aprile, invitando
tutti a Votare Sì!
Sei fuori dal tuo comune di residenza?
Ecco come votare
Il voto si svolgerà come in qualsiasi
altro referendum o elezione: in ogni
città si formeranno i consueti seggi
elettorali in cui potranno votare
tutti i maggiorenni residenti nel
nostro Paese.
Per quanto riguarda tutti quei
cittadini Italiani che vivono o lavorano in un comune che non è
quello di residenza le possibilità
per partecipare al voto sono due.
1) Recarsi presso il comune di
residenza, grazie agli sconti che
Trenitalia ed Alitalia predisporranno come per ogni consultazione, e
partecipare in questo modo al voto;
2) Proporsi come rappresentanti di lista
per i seggi ubicati nel comune in cui si
studia o si lavora. Il comitato referendario nazionale, quello composto dalle
9 regioni proponenti, può indicare due
rappresentanti di lista per ogni seggio.
Anche i partiti rappresentati in Parla-
mento hanno questa stessa possibilità.
Invitiamo tutti gli interessati a mettersi
in contatto con i comitati referendari
territoriali e regionali Vota si per fermare
le trivelle e con le segreterie locali dei
partiti rappresentati in Parlamento per
rendersi disponibili come come rappre-
sentante di lista.
Per quanto riguarda invece i cittadini italiani residenti all’estero,
secondo la circolare ministeriale
http://elezioni.interno.it/contenuti/normativa/Circ_006_ServElet_01-03-2016.pdf c’è ancora
la possibilità di fare richiesta entro
il 16 marzo al Comune italiano di
riferimento cercando l’apposito
modulo sul sito internet del Comune stesso.
È importantissimo che tutti si
attivino per questo referendum,
è importantissimo raggiungere
il quorum e far votare e conoscere il referendum ad amici, familiari
e conoscenti.
Attivati anche tu! Partecipa, informati,
diffondi le informazioni sul referendum!
Per info manda una mail a
[email protected]
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guerraeterrorismo
arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
La comunità internazionale di fronte
alla necessità di una svolta decisiva
delle sue politiche
di Franco Uda coordinatore nazionale Arci Pace, solidarietà e cooperazione internazionale
Sono trascorse poco più di 48 ore dal
brutale attacco terrorista in terra europea, nella città che, a tutti gli effetti, viene
considerata la capitale dell’Europa. Un
attacco che ha prodotto oltre 30 morti
e circa 200 feriti, civili inermi intenti
nelle azioni più ordinarie e routinarie
della vita.
Incredulità, dolore, persino rabbia.
La preoccupazione per i tanti amici e
compagni che si trovavano a Bruxelles
in quel momento o che lì lavorano. Il
cordoglio, il dolore, la solidarietà per
tutte quelle vite e famiglie straziate
da un’azione criminale e terroristica.
Molte le dichiarazioni e i gesti colmi
di sincera emozione.
Oggi però, conservando la memoria
dell’accaduto e senza alcun cedimento
di pìetas, si impone un passo in avanti.
In che direzione? Il dibattito nei livelli
apicali degli Stati e nelle istituzioni
dell’Ue si concentra sulle falle della
sicurezza belga, sulla mancanza di coordinamento e scambio di informazioni tra
le intelligence europee, sulla necessità
di maggiori controlli degli ‘obbiettivi
sensibili’, su un innalzamento di barriere a difesa dell’Europa. C’è persino
qualcuno che invoca una immediata
rappresaglia militare contro le centrali
del terrore o di istituire il reato di «ritorno a casa per i foreign fighters»...
(sic!). Ma davvero c’è qualcuno che
pensa che il combinato disposto di
tutte queste misure possa essere, anche
parzialmente, risolutivo? Quanti sono
gli ‘obbiettivi sensibili’ in Europa? Di
quanti agenti, militari o videocamere
avremmo bisogno per presidiarli tutti?
Davvero un Vallo di Adriano in versione
moderna impedirebbe l’infiltrazione
terroristica nel Vecchio Continente?
Su chi o cosa dovremmo sganciare le
nostre ‘bombe intelligenti’?
Abbiamo tutti i mezzi tecnologici, economici, logistici per poter avere, già da
oggi, un più che sufficiente controllo
sulle persone, sui loro spostamenti,
sulle loro vite. Il solo richiamo a un
maggior controllo di polizia nelle nostre
città, a un inasprimento delle procedure
di accesso in Europa o a una crociata
contro Daesh sarebbe esiziale.
Quello che manca - ed è mancato - è
la politica, la responsabilità di questa
rispetto alle conseguenze che produce,
la coerenza tra gli obbiettivi dichiarati
e le azioni concrete. Sarebbe sin troppo
facile - qui ed ora - richiamare un celebre
verso di Fabrizio De Andrè sull’impossibilità di sentirci assolti, perchè siamo
tutti coinvolti.
Le politiche degli Stati europei e degli
Usa che hanno consentito lo spostamento di migliaia di foreign fighters
dalle periferie delle principali capitali
europee - le stesse in cui i modelli di
integrazione sono miseramente falliti
trasformandole in ghetti di poveracci armandoli, addestrandoli, finanziandoli
e utilizzandoli in funzione anti-Assad,
il dittatore della Siria. Passando per
la Turchia (alla quale continuiamo a
dare miliardi di euro), si preparavano
militarmente e ideologicamente con
la supervisione dell’Arabia Saudita.
Armarli ha significato portare la guerra
a casa nostra, eppure abbiamo lasciato
che accadesse.
Il prodotto di tutto ciò è una spirale
perversa, che genera una arretramento
delle nostre libertà individuali, insicurezza e paure, nelle quali sguazzano a
proprio agio le destre più nazionaliste
e neonaziste che si siano mai viste in
Europa dal secondo dopoguerra, guadagnando facili consensi nei Parlamenti
nazionali e in quello Europeo, agevolate
da una situazione economica e sociale
di crisi e di mancanza di prospettive
se non quelle del rigore e dei tagli alla
spesa pubblica.
Daesh attinge i suoi proventi dalle ricchezze petrolifere che conquista e che
riesce a rivendere, con meccanismi di
dumping accertati, agli stessi Paesi che
dicono pubblicamente di volergli fare la
guerra ma che utilizzano lo scontro solo
per fare i conti con le loro opposizioni
interne: il caso della Turchia con le popolazioni curde è eclatante. Daesh non
possiede fabbriche di armi, quelle che
utilizza sono le stesse che sono vendute
dai Paesi occidentali in maniera diretta
o attraverso triangolazioni.
L’informazione indipendente, i movimenti pacifisti, molti intellettuali,
denunciano questo da tempo, non per
essere le anime belle del mondo, né per
buonismo: solo per sano pragmatismo
e per la consapevolezza che è necessario
cambiare passo ora alle politiche della
Comunità internazionale, se non è già
troppo tardi...
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migranti
arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
L’accordo Ue-Turchia visto
dalla Grecia
di Sara Prestianni Ufficio Immigrazione Arci
Il 18 marzo 2016 l’Europa ha scritto una
delle pagine più buie del nostro continente
firmando l’accordo con la Turchia per la
gestione dei migranti. Un patto che oltre
a violare varie Convenzioni Internazionali
lede la dignità di migliaia di persone. In
cambio della liberalizzazione dei visti per
i suoi cittadini e l’apertura di vari capitoli
sull’annessione all’Ue, la Turchia si impegna non solo a controllare le sue coste
ma anche a riammettere sul territorio
quasi tutti i migranti che sbarcheranno,
a partire dal 21 marzo, sulle coste greche.
L’accordo si basa sulla falsa idea che la
Turchia sia un paese sicuro nonostante
foto: sara prestianni
tutti sappiano che non lo è.
Il 18 marzo, al porto del Pireo di Atene,
paese europeo, fino a un tetto massimo
i 4.000 rifugiati accampati da più di
di 18.000 persone.
un mese hanno seguito preoccupati le
Gli altri, afgani, iracheni, pakistani veinformazioni che circolavano sul sumdranno la loro richiesta d’asilo analizzata
mit europeo. Lì il campo si è formato
sulle isole greche in procedura accelerata
quando la frontiera con la Macedonia
per poter essere rapidamente riammessi
si è chiusa. Arrivati dalle isole, siriani,
in caso di diniego. In sintesi, quasi tutti
iracheni e afgani aspettano l’annuncio
coloro che arriveranno sulle coste greche
dell’apertura a Idomeni.
saranno rinviati in Turchia. A questo
Ogni giorno le tende aumentano, sono
scopo l’agenzia europea Frontex ha già
centinaia quelle che affollano la banchina.
promesso 8 navi e 28 pullman per orgaMolte sono le famiglie, anche con bambini
nizzare le riammissioni.
piccolissimi. Manca poco alla fine del
Poco sembra importare agli Stati europei
Consiglio Europeo e un giovane siriano mi
che ci siano già stati numerosi casi di
chiede se è vero che lo rimanderanno in
espulsione di siriani verso il loro paese
Turchia. «Piuttosto mi uccido» aggiunge.
in guerra e che nelle prigioni turche siano
Altri mi chiedono a che ora apre la frondetenuti centinaia di migranti.
tiera con la Macedonia. È difficile spiegare
Questo accordo ha lo scopo annunciato di
il cinismo dei Governi europei. Ancora
dissuadere i migranti a prendere il mare
più difficile informarli che le frontiere
per la rotta egea, oltre a trasformare la
dei paesi confinanti non si apriranno
Grecia, con la chiusura della frontiera
più e che per i quasi 50.000 profughi
macedone, in un ‘campo’ a cielo aperto.
presenti in Grecia due saranno le posIl Governo greco si è trovato, dopo i
sibilità: pagare un trafficante e cercare
mesi di apertura del ‘corridoio balcadi aggirare i militari macedoni, bulgari e
no’, a dover gestire, da novembre 2015,
albanesi o chiedere l’asilo in Grecia con
l’arbitraria selezione fatta a Idomeni dal
una bassissima possibilità di ottenerlo.
Governo macedone che, su pressione
Per siriani e iracheni resta sempre la
delle istituzioni europee, lasciava passare
possibilità di fare ricorso alla relocation.
solo siriani, iracheni ed afgani fino alla
Peccato che i posti resi disponibili dagli
repentina chiusura della frontiera, nel
Stati membri siano 7.000 da Italia e
marzo 2016.
Grecia sui 160.000 promessi ed i paesi
A un ritmo di arrivi sulle isole di
di possibile destinazione siano Porto1000/2000 migranti al giorno, in poco
gallo, Romania e Bulgaria, dove pochi
tempo sono rimaste intrappolate sul
vogliono andare.
territorio greco 47.000 persone.
Un destino ancora peggiore toccherà a
Circa 10.000 sono accampati a Idomeni
chi arriverà in Grecia nei prossimi giorni.
nella speranza che la frontiera si riapra,
Dopo aver rischiato la vita su un canotto,
4.000 campano nel porto del Pireo, i
se sono siriani saranno rispediti direttarestanti sono ‘accolti’ in strutture che
mente in Turchia. Al posto loro - in un
il Governo greco ha dovuto aprire in
esercizio di estremo cinismo - sarà scelto
tutta fretta.
un altro siriano che non ha mai tentato la
L’Unione europea vuole trasformare la
traversata e che verrà reinsediato in un
Grecia in un paese d’accoglienza suo
malgrado e contro la volontà di migliaia di migranti che vorrebbero andare
via quanto prima. Molti dei migranti
intrappolati in Grecia hanno familiari
già in altri paesi europei ma non sanno
come raggiungerli. Questa chiusura sta
provocando il fiorire di trafficanti di ogni
tipo che promettono un passaggio a caro
prezzo verso l’Europa. I centri di accoglienza dispersi in tutta la Grecia, aperti
su pressione europea che ha imposto il
passaggio da 1.200 a 100.000 posti di
accoglienza in qualche mese, sono solo
degli appoggi transitori in una situazione
di emergenza.
Elleniko è composto da tre strutture: la
sede del vecchio aeroporto della capitale e
due stadi aperti per le Olimpiadi. In tutto
accoglie 4.000 persone, principalmente
afgani. A causa del Memorandum della
Troika e dei tagli, il Governo può pagare
solo 3 coordinatori per gestire strutture
di tale portata. Il tutto funziona solo
grazie alle decine di volontari, greci e
internazionali, che giorno e notte si danno
il cambio per assicurare cibo e beni di
prima necessità, oltre alle organizzazioni
internazionali che forniscono assistenza
medica.
Sono tanti i quesiti che lascia aperto
questo accordo sugli effetti a breve e
lungo termine per la vita di migliaia di
persone. Come faranno a non violare la
legge greca che prevede che le richieste
di asilo siano analizzate solo da personale
greco se l’Ue intende inviare 4.000 funzionari per farsi carico della gestione degli
arrivi? Se il ritmo degli sbarchi rimane
invariato come si gestiranno migliaia di
domande sugli hotspot delle isole senza
che la situazione esploda? Che sorte toccherà a chi sarà riammesso in Turchia,
si procederà alla sua detenzione o sarà
obbligato a vivere in un paese dove non
vuole stare? È lecito anche chiedersi che
fine faranno i 6 miliardi di euro promessi
dalla UE alla Turchia. Finiranno nelle
tasche del Governo o saranno usati per
gli scopi annunciati?
Viene naturale anche pensare all’apertura
di rotte alternative. Come ci ha insegnato
la storia delle migrazioni, la chiusura di
una rotta non farà altro che provocare
l’apertura di un’altra, non fermerà certo
chi fugge da un paese in conflitto. Ci
sono forti possibilità che la rotta per la
quale decideranno di passare siriani ed
iracheni sia proprio quella libico/egiziana
verso l’Italia.
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arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
esteri
Radicalizzazione?
I paradossi tunisini
Sintesi dell’articolo di Kamel Jendoubi, Ministro tunisino delle relazioni
con le istituzioni costituzionali, la società civile e dei diritti umani.
Ex presidente della rete Euromed Rights e oggi suo Presidente onorario
Ed eccolo un Paese, la Tunisia, che ha
messo in moto le ‘primavere’ e che prosegue in qualche modo il suo cammino
nonostante le tempeste e le scosse, traendo forza dalla propria società civile,
attiva, speranzosa e gratificata di un
premio Nobel.
Ma questo stesso Paese è anche quello
che fornisce un contingente, pare il più
importante, di giovani ‘radicalizzati’
partiti per ingrossare i ranghi di Daesh
e per diventarne carne da cannone.
Anche all’interno delle nostre frontiere
una parte della gioventù è oggi fanatizzata, e alcuni sono pronti a sacrificarsi
ed uccidere.
Ci sono, per semplificare, due interpretazioni dominanti circa la proliferazione di
questi candidati alla Jihad, due modi di
vedere fondati su due approcci differenti:
• L’interpretazione sociale, secondo la
quale il jihadismo si nutre della disperazione della gioventù marginalizzata
dei quartieri suburbani o delle regioni
dimenticate dallo sviluppo. La Jihad
sarebbe l’espressione estrema della
rivolta della ‘Tunisia dimenticata’ contro
il triangolo della ‘Tunisia produttiva’.
I più poveri dei poveri contro i satolli
dei quartieri buoni. La bandiera nera,
il takfir e gli altri simboli del terrorismo non sarebbero che orpelli troppo
religiosi di una rivolta troppo nuda.
Nessuno dispone di studi esaustivi, né
di indagini sufficientemente raffinate,
tali da avvalorare questa interpretazione,
che fa fatica a spiegare l’arruolamento,
nel jihadismo, di giovani integrati nel
sistema scolastico e provenienti anche
dalla classe media. Tuttavia è possibile
evocare, in appoggio a questa lettura,
fatti e cifre da non sottovalutare.
• L’interpretazione culturalista, dal canto
suo, percepisce la radicalizzazione attraverso un prisma neo-orientalista, l’espressione del fallimento dell’islamismo
dei ‘fratelli’ e la successiva emersione
di una nuova generazione in forma
di nebulosa, funzionante attraverso
un principio di alleanze e di conflitti
(Al Quaeda, Ansar Acharis, Daesh).
A sostegno di questa tesi si invocano
i rituali, i dettagli saturi di religione
e ovviamente il discorso incantatorio
di tutta la catena del terrorismo, dai
mandanti agli esecutori agli addetti
alla propaganda. La nozione di deriva
post-islamista non riesce però a spiegare
alcuni fenomeni, a partire dalla presenza
di un bagaglio religioso troppo leggero,
esibito talvolta da criminali abituali,
convertiti grossolanamente da Imam
spesso semi-analfabeti.
Un approccio globale al fenomeno della radicalizzazione dovrebbe esulare
quindi da queste spiegazioni binarie e
troppo semplicistiche, e partire da una
constatazione: la tentazione della Jihad
interviene in un contesto di doppio
allentamento dei legami sociali e dei
legami nazionali. Il sentimento di appartenenza a un’entità nazionale, a una
Patria, è messo in crisi dal processo di
de-socializzazione, che pone ‘fuori circuito’ intere frange di gioventù. Il contesto
post-rivoluzionario, che ha aperto uno
spazio di espressione senza briglie, va
ad oliare un ingranaggio che favorisce
la fioritura del salafismo in generale e
del salafismo jihadista in particolare,
facendo precipitare la conversione di
alcuni salafiti ‘scientifici’ al jihadismo.
Questo ingranaggio si amplifica, poi,
grazie alla congiunzione fra tensione e
incuria, che ha come principali manifestazioni l’indebolimento della autorità dello stato, l’eroizzazione dei capi
jihaidisti, il lassismo colpevole di alcuni
governanti e la guerra delle Moschee.
Un immenso pasticcio insomma, che ha
condotto alla proliferazione di un fenomeno quasi inesistente prima. Il tutto in
un contesto geopolitico segnato da un
mercato mondializzato del terrorismo.
Questo il brodo di coltura del ‘daeshismo’, che si afferma come nichilismo
assoluto ammantato di una ‘religiosità
senza cultura’, che riconosce solo l’ordine
spartano dell’egualitarismo guerriero e
configura un nuovo anarchismo autoritario dettato dall’imperativo della guerra
contro tutti. Una identità nuova nella
quale è possibile riconoscersi.
Allora il processo di de-radicalizzazione
può passare attraverso tre parole d’ordine: Riabilitare lo Stato, uno Stato di
diritto che sia nel contempo uno Stato
sociale esemplare capace di combattere i
rapporti incestuosi fra politica e denaro.
Fare Società, ritessere i legami sociali,
anche partendo da gesti simbolici forti
in direzione degli strati e delle regioni
diseredate, e giungendo a riforme sociali
profonde. Fare Nazione, valorizzando
il processo costituzionale affrontato
dalla Tunisia, e promuovendo un ‘patriottismo costituzionale’, come si dice
in Germania.
Aldilà delle grandi parole d’ordine,
qualche pista politica pratica per chiarire il terreno di un grande progetto
riformatore può essere quella di dispiegare su tutto il territorio un esercito di
ricercatori per studiare luoghi, attori e
fattori concreti della radicalizzazione,
con l’obiettivo di favorire le sinergie
tra esperti, società civile e lo Stato nel
comprendere i meccanismi della radicalizzazione. Moltiplicare le iniziative per
il reinserimento dei giovani nel dibattito
pubblico. La frattura generazionale è,
infatti, uno scandalo permanente nel
paese della ‘rivoluzione dei giovani’.
Infine mettere in campo un dispositivo
giuridico per rinforzare e colmare le
carenze legislative sulle associazioni,
permettere, ad esempio, allo Stato di
controllare i loro finanziamenti, per
separare i mondi della cultura e del
fanatismo.
Si tratta, in breve, di demarcare lo spazio
civico da quello pubblico-religioso, di
incardinare un sistema, in sostituzione
dell’ingranaggio mortifero della radicalizzazione, di formulare una ‘giurisprudenza’, perché la Tunisia ha già
provato al mondo che continuerà la sua
strada, e che malgrado i pericoli della
post-rivoluzione, ha saputo rifiutare il
dilemma che attanaglia i paesi del Medio
Oriente, costretti a scegliere tra il caos
o le avventure militari.
Sintesi a cura di Antonio Di Maria
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arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
diritticivili/cultura
I Said Yes - 2gether
Una reinterpretazione della colonna sonora di ‘Lei disse sì’
con la partecipazione di tanti musicisti indipendenti uniti
dal tema dei diritti civili
Dal 21 Marzo 2016 è disponibile in
download gratuito I Said Yes - 2gether, la nuova versione del brano dei
Rio Mezzanino già protagonista della
colonna sonora del documentario Lei
disse sì, ed oggi realizzata con il coinvolgimento di alcuni fra gli artisti più
interessanti del panorama musicale
nazionale indipendente.
I Said Yes è il brano dei Rio Mezzanino
composto nel 2013 per appoggiare Lei
disse sì, il progetto cross-mediale che
racconta, attraverso la voce delle stesse
protagoniste, la storia del matrimonio
fra Ingrid e Lorenza costrette a sposarsi in Svezia perché l’Italia ancora non
permette matrimoni fra persone dello
stesso sesso.
Questo brano è poi diventato la colonna
sonora del pluripremiato documentario,
diretto da Maria Pecchioli, sul tema del
matrimonio egualitario.
Rio Mezzanino e Lei disse sì hanno deciso
di coinvolgere nella reinterpretazione
di I Said Yes molti musicisti che hanno
voluto condividere con loro la volontà di
supportare il cambiamento, il percorso
verso la parità dei diritti.
È nata così I Said Yes - 2gether, un’onda
sonora animata da tanti artisti uniti sul
tema dei diritti civili, con i quali Rio
Mezzanino e Lei disse sì sono legati da
stima e in molti casi da una collaborazione attiva; artisti che hanno voluto
partecipare alla rilettura di questo
brano e di questa idea.
I Said Yes - 2gether vede insieme ai
Rio Mezzanino la presenza di una quarantina di artisti tra cui Cristina Donà,
Erriquez (Bandabardò), Marco Parente,
Ginevra Di Marco, Enrico Gabrielli,
Rodrigo D’Erasmo, Claudio Tosi (The
Half Of Mary) Andrea Franchi, Alberto
Mariotti (Samuel Katarro/King of The
Opera), Francesca Messina (Femina Ridens), Massimiliano Larocca, Elisabetta
Maulo, Scena Muta e Titta Nesti.
La diffusione del brano ha lo scopo di
promuovere le finalità del progetto Lei
disse sì, tornato di grande attualità con il
voto della legge Cirinnà in Senato, mentre
nel settembre 2015 il documentario è
stato proiettato alla Camera grazie alla
collaborazione con Arci.
Arci ha sposato idealmente questo progetto a più voci con entusiasmo, pro-
Tosi, Alfredo Vestrini, King of the
Opera, Femina Ridens, La Scena Muta,
Medjugori, Scandalosobrio, Train de
vie, Video Diva.
Autore brano Antonio Bacchiddu,
produzione Rio Mezzanino, registrato
da Luca Fanti e da Gianfilippo Boni,
mixato da Luca Fanti, master: White
Sound Mastering Studio di Tommy
Bianchi e Andrea Pellegrini.
muovendolo attraverso la propria rete
associativa, fatta di luoghi che elaborano
e producono cultura. Cinema e musica
diventano straordinari strumenti di animazione territoriale e iniziativa politica,
testimonianza di impegno e passione
civile, priorità di una grande associazione
laica e progressista.
Il brano, disponibile in streaming e per
il download gratuito si può trovare a
questo link: http://www.riomezzanino.
com/IsY.html
È accompagnato da un video di animazione realizzato da Ingrid Lamminpää e
Maria Pecchioli, a questo link https://
youtu.be/uuT3OO3aScY
Scheda del videoclip
I Said Yes - 2gether: Ideazione e curatela
di Maria Pecchioli. Hanno detto “sì” con
noi: Ginevra Di Marco, Rodrigo D’Erasmo, Cristina Donà, Erriquez, Enrico
Gabrielli, Saverio Lanza, Marco Parente
Alia, Andrea Angelucci, Matteo Bennici,
Cinzia Blanc, Gianfilippo Boni, Francesco Frank Cusumano, Drusilla Foer,
Andrea Franchi, Letizia Fuochi, Nicola
Genovese, Massimiliano Larocca, Elisabetta Maulo, Alberto Mariotti, Filomena
Menna, Selina Nardi, Titta Nesti, Silvia
Poli, Maria Francesca Torselli, Claudio
Scheda del film-documentario
‘Lei disse sì’
Un film di Ingrid Lamminpää, Maria
Pecchioli, Lorenza Soldani. Regia di
Maria Pecchioli (67 minuti - colore/
audio - HD - Italia/Svezia, 2014).
Lei disse sì è una storia d’amore fatta
di musica, di rifiuto e abbandono, di
accoglienza e condivisione, di imprevisti, speranze, amici e parenti, testimoni
allegri di un sogno che si avvera. È il
racconto di due donne che si amano.
Lei disse sì è un frammento di Italia, di
boschi e laghi svedesi ed è una festa dove
il menù di nozze è a base di diritti civili.
Per un bambino è facile: due persone si
amano, due persone si sposano! Come
nei sogni, nelle favole e nei paesi civili.
Nell’Italia del 2013 invece non è tutto
così semplice e sposarsi con una persona
del tuo stesso sesso non è consentito.
Lorenza e Ingrid da 7 anni vivono una
storia d’amore e desiderano sposarsi:
per questo coinvolgono amici e parenti
nella preparazione del matrimonio che
si svolgerà in Svezia, dove il matrimonio
è per tutti, durante la festa di mezza
estate: il 21 giugno 2013.
Consapevoli di amplificare la voce di
tutti coloro cui è negato il diritto di
immaginarsi un futuro insieme, le
due donne danno vita a una racconto
romantico, politico, serio e scanzonato
allo stesso tempo, dove il tema della felicità passa dall’importanza della
condivisione, dalla scelta degli abiti e
tutte quelle ‘piccolezze’ che nutrono il
matrimonio come rito.
La promozione musicale del brano I
Said Yes - 2gether e dei Rio Mezzanino
è a cura di A Buzz Supreme.
Info: [email protected]
La promozione del progetto I Said Yes 2gether è a cura di Lei disse sì.
Info: [email protected]
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ucca
arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
Una nuova legge sul cinema
Intervista a Roberto Roversi, presidente nazionale Ucca,
pubblicata da lavoroculturale.org
Quasi mille circoli in tutta Italia ospitano
luoghi di scambio continuo e diretto per
amanti del cinema, grazie a sale presenti
anche in zone altrimenti desertificate
o semi-desertificate come sono ormai
chiamate quelle in cui si dovrebbero
altrimenti percorrere chilometri per
trovare in programmazione un film che
nelle grandi città si vede più facilmente.
Il riassetto del settore cinematografico
recentemente annunciato dal Mibact
riguarda anche i film difficili (nel sito
del Ministero vengono bollati così, senza
nemmeno più virgolette) e le nove associazioni nazionali di cultura cinematografica, firmatarie di un documento
unitario ed apparentemente escluse
dallo schema di legge. Ne parliamo con
Roberto Roversi, presidente di UCCA,
l’Unione dei circoli cinematografici
dell’Arci, e direttore della Sala Boldini,
l’unicad’essai a Ferrara.
Chiara Zanini: Proprio come voi, anche
Confindustria, Rai, Sky, Viacom, Discovery e Prima Tv (l’alleata nordafricana
di Mediaset) hanno presentato alla Commissione un documento unitario, ma il
giudizio espresso su come il settore possa
continuare a vivere e sulla possibilità di
un prelievo di scopo è diametralmente
opposto. Il loro incontro si è svolto dopo
l’annuncio della riforma Franceschini,
di cui le vostre associazioni non erano
state messe al corrente, mentre eravate
stati convocati in precedenza, quando
con il ddl Di Giorgi i contenuti erano
diversi.
Roverto Roversi: Non mi stupisce che
questi soggetti preferiscano lo schema
Franceschini - Giacomelli, perché il
disegno di legge Di Giorgi era di fatto un
calco del modello francese, che prevede
una tassa di scopo. Invece lo schema di
disegno di legge Franceschini dispone
che i 400 milioni di euro annunciati
arrivino dall’Ires e dall’Iva pagate dalla
filiera cinematografica.
In parole povere: dalla fiscalità generale.
Sono due cose completamente diverse.
I principali player del comparto (in particolare i broadcaster) avrebbero dovuto
pagare queste imposte a prescindere;
la scelta di prelevare le risorse dalla
fiscalità generale, e non dall’esercizio e
dai successivi passaggi della filiera, TV
e web inclusi, è una scelta politica, che
riguarda il modo di pensare il fisco e il
relativo gettito. Per chi, come noi, ha
sempre sostenuto che la cultura sia a
pieno titolo parte integrante del welfare,
e che quindi debba essere finanziata dallo
Stato, è naturalmente una buona notizia.
Purchè non si citi il modello francese. Il
ddl Di Giorgi partiva dal presupposto che
il cinema deve autofinanziarsi, mentre
il 28 gennaio il Governo ha in sostanza
detto che i principali player (i cosiddetti
Over The Top) non si toccano.
Come esercente di un piccolo cinema
d’essai dovrei esultare: con il ddl Di
Giorgi, a regime, avrei dovuto versare
allo Stato il 10% di ogni biglietto emesso,
e la conseguenza sarebbe stata ovvia per
tutto l’esercizio: i costi supplementari si
sarebbero tradotti nella maggiorazione
del prezzo del biglietto.
Ritengo che sarebbe stato più corretto,
dal punto di vista comunicativo, ammettere che il modello francese (non
dimentichiamo che le presenze annuali
in Francia sono più che doppie rispetto
a quelle italiane, circa 230 milioni di
biglietti staccati contro i 105, nel 2015,
del nostro Paese) non è replicabile sic et
simpliciter e che si è preferito percorrere
altre vie.
C.Z.: Anche il ruolo delle vostre associazioni potrebbe cambiare con la
nuova legge?
R.R.: Leggi e decreti sul cinema hanno
finora sempre definito attraverso specifici
articoli cos’è un’associazione nazionale
di cultura cinematografica. L’indicazione
dell’art. 18 del Decreto Lgs del 22 gennaio
2004, n. 28 e successive modificazioni
è ben circostanziata: le AANNCC non
devono avere scopo di lucro, devono
svolgere attività di cultura cinemato-
grafica attraverso proiezioni, dibattiti,
conferenze, corsi e pubblicazioni, essere
diffuse e operative in cinque regioni, con
attività perdurante da almeno tre anni.
E nonostante i tagli draconiani subiti negli ultimi anni (il contributo nel
nostro caso era passato dal milione e
mezzo stanziato nel 2005 ai 600mila
euro del 2013), le associazioni nazionali, nove in totale, sono sopravvissute.
Con Franceschini si è avuta una prima
inversione di tendenza, tornando ad un
contributo complessivo annuale di un
milione di euro.
In tutti gli articolati che leggo ora, però,
non vedo più nominate le AANNCC.
Nel testo ci sono passaggi apprezzabili
riguardanti quel cinema di qualità che
spesso fatica a trovare il suo pubblico,
ma le uniche realtà che si danno questo
obiettivo sono le associazioni. UCCA ad
esempio sta portando ovunque la quinta
edizione de L’Italia che non si vede rassegna itinerante di cinema del reale
con Cloro di Lamberto Sanfelice, Short
Skin di Duccio Chiarini, Vergine giurata
di Laura Bispuri e altri film passati ai
festival internazionali senza riscontro
commerciale. Le nostre associazioni si
accollano costi con l’obiettivo di portare
queste opere in luoghi dove le sale non ci
sono affatto, mostrandoli ad esempio in
sale polivalenti occasionalmente adibite
a cinema. È un lavoro importante di
ricucitura che facciamo solo noi, ma in
questa fase nel decreto non c’è traccia
continua a pagina 9
9
arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
segue da pagina 8
del ruolo delle Associazioni.
C.Z.: C’è il rischio che il lavoro che fate
nei territori attraverso i percorsi di
educazione all’immagine venga così
svalutato.
R.R.: Come associazione puntiamo al
superamento di una fruizione pura e
semplice dell’opera nella sala, proponendo innanzitutto socialità. Per noi
invitare gli autori e i professionisti che
hanno lavorato ai film che presentiamo è
fondamentale. Nelle nuove piattaforme
digitali il cinema si consuma in modo
totalmente diverso, sostanzialmente
solipsistico.
Riaprire sale attualmente chiuse e aprirne di nuove è un obiettivo condivisibile
di entrambi i decreti, ma realisticamente
è difficile immaginare un ampliamento
del parco sale senza la formazione di
nuovo pubblico. Le dolorose chiusure
alle quali abbiamo assistito negli ultimi
anni sono state inevitabili, in qualche
modo il combinato disposto della crisi
economica, dei costi dello switch-off digitale e soprattutto dell’invecchiamento
del pubblico. Cioè del mancato ricambio.
Difficile sopravvivere se si programmano
contenuti ‘difficili’, perché un paio di
decenni di mancata alfabetizzazione
cinematografica hanno comportato un
mutamento del gusto. Cosa che non
vale ad esempio per la Francia, che ha
sempre protetto i film di qualità, soprattutto domestici ed europei. Da noi
la conseguenza è che i film d’essai sono
percepiti come respingenti e/o afflittivi.
Riportare la gente non solo in sala ma
semplicemente fuori casa richiede un
vero e proprio lavoro. Nelle nostre associazioni le persone tornano a mischiarsi,
discutono….e ricominceranno ad andare
di più al cinema solo se non ci limiteremo ad offrire loro la proiezione di
un film, perché quello stesso titolo può
ora essere visto anche comodamente a
casa via web.
C.Z.: Come funziona attualmente il sistema dei contributi per le associazioni
nazionali?
R.R.: Dobbiamo presentare ogni anno
entro il 28 di febbraio un’istanza di contributo, ma come anticipavo in questo
momento la legge sul punto è opaca, e
infatti nel sito del Ministero alla voce
Associazioni appare da mesi un avviso
che diffida dal presentare la richiesta nei termini consueti nonostante la
scadenza annuale. Viene spiegato che
a breve ci sarà il nuovo ddl, e solo il
futuro decreto stabilirà con quali nuovi
criteri, termini e modulistiche saranno
assegnati i contributi.
Quindi viviamo una situazione di attesa:
di fatto siamo impossibilitati a presentare
il piano delle nostre attività per l’anno
già iniziato. Di solito i contributi vengono
definiti in agosto, quindi ci troviamo
d’abitudine ad operare per i primi otto
mesi dell’anno senza conoscere l’entità
del contributo proveniente dal FUS che
andrà alle associazioni e sarà disponibile
per l’anno in corso. Quest’anno non
conosciamo nemmeno la tempistica.
C.Z.: Qual è la vostra opinione sulla
gestione Franceschini?
R.R.: Senza dubbio ci sembra che il
Ministro abbia dimostrato una diversa
sensibilità sul cinema rispetto ai suoi predecessori. Sembra finalmente terminata
l’epoca dei tagli indiscriminati, anzi già
dallo scorso anno le Associazioni hanno
potuto recuperare parte delle risorse
perdute nel decennio precedente. Il
fondo di 400 milioni di euro promesso
nel decreto è un altro passo in avanti
che accogliamo con favore; ma per dare
un giudizio complessivo sul suo operato
ucca
si dovranno aspettare i decreti attuativi che allungheranno ulteriormente le
tempistiche, e per chi deve programmare
in continuità questo rappresenta un
problema. Il risultato è un’oggettiva
incertezza in tutto il comparto.
Spesso leggiamo titoli ad effetto su nuovi
record stabiliti con l’uscita di due o tre
film, o addirittura di uno solo: ma può
dirsi sana un’industria che conta gli anni
in cui uscirà il nuovo film di Checco
Zalone? Quo Vado? rappresenta da solo
circa un decimo degli incassi di tutta
l’industria cinematografica italiana: è
evidente che il mercato italiano è troppo
piccolo e va allargato.
Non credo che un comparto possa sopravvivere soltanto grazie ai cosiddetti
film-evento. Purtroppo un’intera generazione è cresciuta con banali fiction
TV su cani e preti poliziotto: non mi
sorprende che non appena un film è
linguisticamente più complesso venga
trovato ostico da un pubblico non cinefilo. Per certi contenuti il pubblico ora
quasi non esiste, e non basterà un’operazione di maquillage se non si fanno
interventi educativi. Per questo quando
sento parlare di costruire nuove sale o
ammodernarne di vecchie non posso
non chiedermi se riusciremo a riempirle.
C.Z.: Quali sono le scommesse di cui
siete più soddisfatti?
R.R.: L’interazione feconda del cinema
in sala con il web. Ovvero le proiezioni
on demand. L’ha capito ad esempio Movieday.it, una piattaforma digitale che
ci ha permesso di attirare 400 persone
in una sola sera per la proiezione di
Bansky Does New York, ‘costringendoci’
ad una replica.Un risultato simile lo
abbiamo riscontrato con Unlearning e
Alla ricerca di Vivian Maier.
È di vitale importanza raccogliere i segnali inviati dal pubblico quando ha la
possibilità di esprimersi. Con Movieday
e altre piattaforme simili non è più il
programmatore a far calare dall’alto le
sue scelte, ma sono i gusti del pubblico
a trovare spazio. I risultati non sono
solo incoraggianti, ma ottimi anche per
l’esercente. Sono gli stessi spettatori a
promuovere i film con il passaparola,
anche (anzi, soprattutto) quando si tratta
di film di nicchia. E ormai se ne è accorta
anche la grande stampa, se è vero che si
tratta di un modello che persino Mereghetti ha lodato sul Corriere della Sera.
A dimostrazione che questo fenomeno
comincia ad avere dimensioni importanti
in tutto il circuito. Anche chi gestisce
una monosala, e non può giovarsi dei
benefici della multiprogrammazione,
dovrebbe avvicinarsi a questi modelli
virtuosi.
10
arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
A Terni ‘Stranieri Nostrani’
Stranieri Nostrani è un ‘strano’ evento, una ‘strana’ condivisione, sperimentazione,
scambio, festa, laboratorio,
cultura, musica, divertimento,
cibo, colori, pensato da persone per le persone. Un viaggio
tra cultura del tè a quella della
bellezza, dalla preparazione di
un piatto al condividerlo insieme a tavola, dalla musica al
divertirsi curiosando! Dove la
lontananza diventa più vicina.
Tre appuntamenti (6 marzo/3
aprile/8 maggio) per un percorso che
inizia a fine ottobre con il Laboratorio
di cucina ‘Imparare l’italiano cucinando’
al quale hanno preso parte alcune beneficiarie del Progetto SPRAR Ordinari
Terni, presso il Circolo Arci Europa
‘98 - Fiaiola. Obiettivo del laboratorio
era quello di far entrare a contatto le
utenti con la realtà gastronomica locale
attraverso la preparazione di piatti
della tradizione umbra e di conoscere
il ‘linguaggio’ della cucina nostrana,
stimolando la curiosità delle ragazze
a reinventare i loro piatti tradizionali.
Da qui nasce l’idea di entrare dentro gli
ambienti della ristorazione, mettendo in
mostra i saperi acquisiti, attraverso un
confronto con delle figure professionali.
Per andare oltre alla consueta modalità
delle ‘cene multiculturali’, si è pensato
di dare continuità alla collaborazione
che è iniziata al ‘Terni Festival’ grazie
a Indisciplinarte. In quella occasione
alcuni beneficiari sono stati coinvolti
nella ideazione e nell’attuazione del
progetto Our streets are not paved with
gold. Abbiamo quindi voluto mettere
‘sul piatto’ un formato nuovo che possa
contenere più ingredienti possibili:
in più
JOHN DE LEO + GRANDE
ABARASSE ORCHESTRA +
ORCHESTRA SENZASPINE
FEAT. STEFANO BENNI
Bologna - John De Leo e Grande
letture, musica, arti performative, documentari, artigianato e cucina.
Dopo la grande partecipazione alla prima
giornata di domenica 6 marzo dedicata
principalmente al Senegal, con laboratori di treccine, cibo e musica, il 3 aprile
il programma di Stranieri Nostrani
prevede dalle ore 16, sempre al Fat
CAOS di Terni, il ‘Mercato Strano’ con
vendita di cibo e prodotti artigianali, in
collaborazione con alcuni negozi etnici
della città.
L’attenzione si concentrerà poi sull’Iran
e sulla tradizione del tè, con il salone
principale che sarà trasformato in una
Chaykunè (casa del tè) aperta a tutti,
ternani vecchi e nuovi. La serata si
concluderà con un apericena a sorpresa
realizzato sempre dallo staff del Fat
e dal gruppo delle cuoche ‘arruolate’
con grembiule e cappello da chef ‘Sns’
(stranieri nostrani).
Nuove iniziative, sempre al CAOS di
Terni, sono previste per domenica 8
maggio, in attesa di altri appuntamenti
gastronomici e non, grazie all’impegno
e all’estro creativo di Kasia, Luisa, Matteo e Sene, gli animatori infaticabili di
questa bella esperienza.
A Lecco ‘Piazza l’idea’
Proseguono le iniziative organizzate dal
servizio informagiovani del Comune di
Lecco in collaborazione con Arci Lecco
nell’ambito del progetto ‘Piazza l’idea’
dedicato a tutti i giovani della provincia
di Lecco, promosso dall’Azienda speciale
Retesalute.
Dopo i 3 corsi gratuiti dedicati al perfezionamento della lingua inglese, tedesca e
all’europrogettazione ecco nuovi percorsi
di formazione pensati per promuovere
la creazione e la messa in rete di spazi
di aggregazione e innovazione, oltre che
per stimolare la creatività e l’autoimprenditorialità dei giovani.
daiterritori
Nel mese di aprile sarà infatti la volta di
conoscere Arduino e il funzionamento della
scheda elettronica, oppure di apprendere
nozioni fondamentali sull’organizzazione
di eventi, musica e marketing, i rapporti
con la stampa e molto altro ancora.
I corsi gratuiti prevedono 15/16 ore di
lezione e percorsi personalizzati con formazione, sperimentazione ed esposizione
con Arduino, e in più messa alla prova
in occasione di un evento in provincia o
nella città di Milano per quanto riguarda
l’organizzazione di eventi.
[email protected]
Abarasse Orchestra, Orchestra Senzaspine, Stefano Benni, insieme; trenta
musicisti sul palco. Protagonisti d’eccezione di un incontro tra linguaggi
ed esperienze artistiche differenti che
darà vita a uno spettacolo unico nel
suo genere, in scena giovedì 7 aprile
alle ore 21 al Teatro Antoniano (via
Guinizelli, 3 - Bologna).
In occasione della ristampa in vinile
dei suoi ultimi lavori - Vago Svanendo
e Il Grande Abarasse - il cantautore
romagnolo ripropone una rilettura per
orchestra del suo repertorio realizzata
insieme alla giovane orchestra bolognese Senzaspine, diretta dal maestro
Tommaso Ussardi. Ad aggiungere un
tocco di creatività la partecipazione
straordinaria dello scrittore Stefano
Benni con le sue imprevedibili incursioni letterarie.
Grazie a un lavoro artigianale di orchestrazione, John De Leo e il direttore d’orchestra Tommaso Ussardi
accompagneranno gli ascoltatori in
un percorso musicale che spazierà
dalle improvvisazioni jazzistiche alle
sonorità elettroniche fino a toccare
le armonie rinascimentali ispirate ai
madrigali di Palestrina. Il concerto si
apre anche alla letteratura con una
musicazione in tempo reale delle parole
recitate da Stefano Benni, tratte dalle
pagine di grandi scrittori del ‘900 come
Joseph Conrad, Jorge Luis Borges e
Italo Calvino.
Una serata con molte sorprese anticipata da un divertente video spot
realizzato per l’occasione insieme ai
protagonisti dello spettacolo, disponibile su YouTube all’indirizzo: bit.
ly/1Os5Rnh.
Lo spettacolo è prodotto da Arci Bologna, Luis.it e Associazione Lugocontemporanea che hanno scelto di
scommettere su un progetto culturale
capace di unire le formule più tradizionali di intrattenimento a nuovi
linguaggi sperimentali. Con il patrocinio di Comune di Bologna, Regione
Emilia-Romagna e con il contributo di
Coop Alleanza 3.0.
Prevendite su www.vivaticket.it
Biglietto d’ingresso – Intero: 25 euro.
Ridotto soci Arci: 22 euro
www.arcibologna.it
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arcireport n. 11 | 24 marzo 2016
azionisolidali
le notizie di arcs
a cura di Francesco Verdolino
Workshop fotografico
a Cuba
Ultimi posti disponibili per il workshop
a Cuba con il fotografo Giulio Di Meo.
La scadenza per le iscrizioni è il 30
marzo, la partenza dal 28 aprile al 7
maggio 2016.
I Campi di lavoro e conoscenza all’Estero sono un’esperienza di volontariato
internazionale Arci nata nel 2005, che
ha visto in questi anni la mobilitazione di
circa 750 volontarie e volontari, con più
di 15 Paesi interessati dai programmi.
Anche quest’anno all’esperienza di
scambio di conoscenze con i partner
locali, verrà affiancato per ogni campo
un’attività di workshop fotografico con
tutor professionisti del settore.
La quota di partecipazione a questo
workshop è di 2.300 euro e comprende
viaggio A/R, visto, vitto, alloggio, assicurazione, spostamenti interni e ogni
altro costo riferito alla realizzazione
del corso in loco.
Per partecipare alle attività dei campi
di lavoro bisogna essere maggiorenni.
È richiesta inoltre la partecipazione
obbligatoria alla formazione prima della
partenza e capacità di adattamento e
di coinvolgimento rispetto alla realtà
in cui il campo si svolge.
I campi di lavoro e conoscenza internazionali dell’Arci sono un’esperienza
di volontariato a breve termine dove si
vive e si lavora insieme, ci si impegna
direttamente in attività condivise con
le comunità locali: l’obiettivo è quello di
promuovere, attraverso la conoscenza
diretta, la solidarietà e la cooperazione
internazionale come valore collettivo,
ma anche come stile di vita, per la promozione del dialogo interculturale, la
pace, l’affermazione dei diritti globali.
L’aggiunta di uno spazio di turismo
responsabile arricchirà questa occasione
di crescita culturale da non perdere.
A breve verranno lanciate le altre proposte: vi aggiorneremo costantemente su
mete e date attraverso il sito di ARCS.
Infinito Futuro
L’8 aprile verrà inaugurata Infinito
futuro, mostra fotografica dei workshop realizzati da ARCS a Cuba e in
Camerun con il fotografo Giulio Di
Meo. L’inaugurazione si terrà presso
Fusorari a Modena in piazzale Torti 5.
Per chi fosse in zona, vi aspettiamo
numerosi!
www.arcsculturesolidali.org
società
Legalizziamo! Una proposta
di legge di iniziativa popolare
di Andrea Oleandri CILD
Legalizziamo! È la proposta
di legge di iniziativa popolare depositata giovedì scorso alla Corte di Cassazione,
promossa dall’Associazione
Luca Coscioni e Radicali Italiani - con la collaborazione
e il sostegno della Coalizione
Italiana Libertà e Diritti civili, Forum Droghe, Antigone,
La PianTiamo, Canapa InfoPoint, Ascia, comunità di OverGrow,
la coalizione ‘Legalizziamo la Canapa’
e decine di grow shop italiani.
Nei prossimi sei mesi dovranno essere
raccolte almeno 50.000 firme affinché
la proposta possa essere presentata al
Parlamento divenendo parte del dibattito istituzionale in corso. L’obiettivo è
infatti quello di contribuire all’attività
dell’inter-gruppo parlamentare per la
cannabis legale. Il testo della proposta
parte dalla versione calendarizzata alla
Camera dalla quale, tuttavia, si diversifica in alcune parti grazie ai contributi
delle organizzazioni della società civile,
di esperti e giuristi, per rendere il modello di regolamentazione quanto più
libero possibile. La regolamentazione
è rivolta ai maggiorenni e prevede, tra
l’altro, la libertà di auto-coltivazione
individuale fino a 5 piante; la possibilità
di coltivare associandosi in ‘cannabis
social club’ che potranno avere fino
ad un massimo di 100 componenti. Si
prevedono inoltre pratiche semplificate
per la produzione commerciale; il più
ampio accesso possibile alla cannabis
terapeutica; l’allocazione delle entrate
ad attività informative e sociali; una
relazione annuale al Parlamento; la
depenalizzazione totale dell’uso personale di tutte le sostanze nonché la
liberazione per i detenuti per condotte
non più penalmente sanzionabili.
Una proposta di ragionevolezza che
prende atto degli ultimi trent’anni di
politiche fallimentari sul tema delle
droghe, fatte di criminalizzazione, repressione e stigmatizzazione sociale e
che tuttavia si scontrerà contro le attuali
previsioni legislative che regolano le
leggi di iniziativa popolare.
Nell’era della comunicazione digitale,
di internet, dei social media, dove sarebbe facile costruire piattaforme web
dove ciascuno - previa verifica della
propria identità - possa manifestare il
proprio consenso, noi dobbiamo esse-
re sommersi da tonnellate
di carta, dalla necessità di
avvalersi di autenticatori,
dalla produzione di centinaia di migliaia di documenti
e certificati elettorali.
È questo l’unico modo che
abbiamo, anche oggi, per
superare queste barriere
legislative.
Sappiamo bene che sul tema
delle droghe - come su altre questioni che riguardano le libertà civili - il
corpo del paese è proiettato molto più
avanti di quanto non sia chi siede nelle
istituzioni. Sappiamo che se la raccolta
firme si scontrasse con meno difficoltà
burocratiche i cittadini pronti a firmare
questa proposta sarebbero molti di più
che i 50.000 necessari affinché una legge
di iniziativa popolare sia presentata al
Parlamento.
Per questo l’invito che rivolgiamo a tutti
è di mobilitarsi. Il tema riguarda tutti
noi, la nostra salute, la nostra libertà,
la nostra società.
Legalizziamo! è l’occasione per far sentire la nostra voce.
arcireport n. 11 |24 marzo 2016
In redazione
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di Pietralata n.16
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n. 13/2005 del 24 gennaio 2005
Chiuso in redazione alle 18.30
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