Il ruolo dell`arredamento nei servizi dell`infanzia, un

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Il ruolo dell`arredamento nei servizi dell`infanzia, un
Intervista a Marco Guerra,
Ludovico srl
Rivista Infanzia
Da quale concetto di bambino e infanzia prende il via il vostro lavoro?
La nostra prima preoccupazione è tenere conto della soggettività infantile;
capita di lavorare con servizi e strutture private che hanno, a volte, un’idea del
bambino come adulto in miniatura e buona parte dei materiali messi a disposizione
debbano essere oggetti pensati per gli adulti, ma in formato ridotto.
Al contrario, la nostra preoccupazione – e anche il motto della nostra azienda - è
progettare partendo dal punto di vista del bambino. E il punto di vista del bambino
non è solamente un tema dimensionale ma è, soprattutto, esperienziale. Lo spazio
di vita del bambino non è un luogo solo funzionale (un mini ufficio con un piccolo
tavolo e una piccola sedia…), ma, a suo modo, il territorio di un grande campo di
esperienza. Per questo siamo molto legati all’idea di arredo di Duilio Santarini 1.
Il secondo obiettivo di Ludovico si può riassumere in una bella frase del Prof. Piero
Bertolini che abbiamo inserito nel nostro primo catalogo. Alla domanda “Che cosa
si può narrare a un bambino in un servizio d’infanzia?” il Professore affermava che
si può narrare tutto o quasi tutto. Con gli arredamenti noi progettiamo e
concepiamo un contesto che non è un insieme casuale, ma si caratterizza per l’idea
di essere una cornice utile. Realizziamo strumenti, non definiamo obiettivi: il
nostro scopo è di accompagnare silenziosamente gli operatori nell’organizzazione
di quel contesto narrativo capace di generare esperienze per il bambino.
In che modo?
Un bambino inserito in un servizio si muove all’interno di un gruppo, anche
se ciò non significa che lo pensiamo solo insieme ad altri. Ricordo un vecchio
progetto che abbiamo realizzato in Toscana che prevedeva anche uno spazio che
abbiamo chiamato l’angolo del bambino che vuol stare da solo (magari perché
aveva litigato col compagno o con l’insegnante), e si “autopuniva”, relegandosi in
un luogo di gioco solitario dove recuperava, mostrando la sua autonomia.
Si diceva che il servizio che offriamo è la progettazione e la realizzazione di
contesti laboratoriali e narrativi: questo è per noi il primo criterio di qualità.
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In realtà a volte fatichiamo a fare una proposta forte; spesso i nostri interlocutori
sono molto diversi tra loro per formazione e ruolo, il che provoca notevoli
differenze, ad esempio, tra un servizio a Bolzano e uno a Palermo; tra un progetto
gestito da un coordinamento pedagogico e un altro gestito da un economato o da un
servizio tecnico. E’ necessario instaurare un rapporto con l’interlocutore perché ci
declini il suo specifico, il suo progetto educativo. Quando questo scambio c’è, il
nostro diventa sicuramente uno strumento più efficace; quando non c’è un progetto
educativo di riferimento dobbiamo riproporre un modello, che è quello nel quale
crediamo, riferibile in linea di massima all’ambiente tosco-emiliano. Capisco che la
definizione tosco-emiliano sia molto generica perché già tra Bologna, Modena e
Reggio ci sono enormi differenze; diciamo che la nostra filosofia deriva
sostanzialmente dall’esperienza trentennale, in particolare sul nido, di Prato,
Modena, Reggio fino a Firenze.
Quindi un rapporto di scambio con l’interlocutore è il primo criterio di qualità
al quale fate riferimento. E il secondo?
Il secondo elemento si rifà alla percezione, all’elemento visivo; anche noi,
entrando in una casa, guardiamo l’arredamento come prima cosa e questo ci
restituisce l’idea non solo estetica di chi la abita. Il tema dell’educazione
all’immagine è molto sottovalutato, proponiamo ai bambini immagini di natura
diversa e casuale. Noi tentiamo la proposta di materiali e arredi che compongano
un insieme dal tono “riposante”, con qualche elemento colorato, magari ironico e
scherzoso. Il tutto capace soprattutto di “ricevere” dal bambino e di esserne
strumento. Quindi il nostro secondo criterio di qualità è quello della fruibilità del
bambino che dal punto di vista dell’impatto visivo non deve sentirsi “aggredito dal
contesto”, ma a proprio agio. Privilegiamo il legno come materiale di costruzione,
perché è tipicamente quello che comunica accoglienza.
Poi c’è un terzo criterio di qualità che ci siamo imposti come azienda.
In cosa si caratterizza?
In materiali che aiutano lo sviluppo della sensorialità infantile a 360 gradi;
non solo cose belle da vedere, anche cose belle da toccare e perfino da annusare.
L’argomento olfatto è tra quelli che ci sta a cuore, poiché spesso, nell’arredamento,
i materiali utilizzati hanno un odore sgradevole dovuto all’utilizzo di colle
fenoliche molto aggressive.
Quindi la scelta di una materia prima “calda” dal punto di vista visivo, tattile
e percettivo…
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… e da un punto di vista etico. Il legno che utilizziamo può provenire da foreste
che abbiamo abbattuto, generando problemi di impatto ambientale, oppure da una
foresta gestita da chi, come i finlandesi e i canadesi, garantisce il saldo attivo di
forestazione lavorando ai margini del bosco o sulle piante meno solide, facendo
crescere il saldo di copertura del territorio. In altri paesi questo non avviene:
acquistare e utilizzare la stessa materia prima, quindi, può non essere equivalente.
E non ha lo stesso costo immediato. E’ necessaria la lungimiranza di chi è disposto
a spendere il 10% in più valutando il costo sul sistema (industriale e ambientale); in
Italia questa sensibilità fatica ancora a incidere sulle scelte degli Enti.
Non solo, pensiamo a qualcosa di ancora più delicato: la garanzia di qualità etica
nella produzione. Quali garanzie abbiamo sul trattamento degli operai? C’è parità
tra uomo e donna? E’ utilizzato il lavoro infantile? In Cina 72 milioni di bambini
sotto i 12 anni lavorano a volte 60 ore la settimana (dato Unicef). Consideriamo
anche questo elemento nella valutazione della qualità, oltre alla sicurezza
meccanica dei prodotti?
Parliamo di sicurezza, allora…
Le norme prevedono delle sicurezze minime, a volte anche in conflitto tra
loro. Quella che serve è una cultura della sicurezza. E’ un laboratorio da gestire
insieme, enti e imprese: oggi prevalgono scelte di pura deresponsabilizzazione
burocratica del compratore e dell’impresa più che di valorizzazione della sicurezza
del bambino. Se il mio obiettivo è la sicurezza del bambino devo capire in cosa
posso migliorare, non parlo solo di sicurezza passiva, ma anche di sicurezza attiva.
La conclusione della legge 626, firmata dall’allora Ministro Ciampi, parla di
costante miglioramento della sicurezza, quindi di un concetto positivo, attivo e
continuo nel tempo.
Voi seguite i servizi anche dopo la consegna delle “merci”?
Lo proponiamo.
Lo accettano?
Purtroppo raramente.
Lavorate in accordo con i coordinamenti pedagogici?
Si. E qui apriamo un altro capitolo fondamentale: è quello del ruolo del
coordinamento pedagogico. Faccio questo mestiere da oltre 20 anni e oggi vedo
questo ruolo, nelle scelte delle amministrazioni, in costante discesa, a vantaggio di
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criteri puramente economici senza cultura dei servizi e degli strumenti. La
realizzazione di un servizio nasce dalla volontà del territorio e da una conseguente
scelta politica; in seguito viene incaricato un coordinamento pedagogico, o un
ufficio scuola per progettarne il funzionamento nei dettagli. Il progetto passa poi di
solito a un ufficio tecnico o a un ufficio economato. Quando il progetto esce
dall’ufficio economato, quanto è rimasto del contenuto pedagogico?
Spesso il tutto si riduce ad una lista/inventario: 8 tavoli, 50 sedie e 2 mobiletti
contenitore…? Devono costare poco, è sufficiente che siano a norma, poi posso
anche decorarlo con i personaggi del Grande Fratello o con Marylin Manson.
Figurarsi poi quale importanza può avere se viene dalla Finlandia oppure no. Se ci
hanno lavorato bambini o donne sottopagate: nessuno va oltre le norme tecniche
che non prevedono alcun valore educativo o etico del prodotto.
I palloni della Nike che facevano ammalare i bambini pakistani di tumore alle
narici, avevano il CE. Quei bambini erano sottoposti alle esalazioni delle colle 12
ore al giorno. E’ occorsa una campagna molto forte e la volontà dell’azienda per
bloccare quella produzione. Ci occupiamo della sicurezza di chi gioca (ed è giusto),
ma non di chi il gioco lo produce, soprattutto se non avrebbe ancora l’età per farlo.
Ci sono bambini che hanno diritti, altri no…
Con quanti committenti riuscite a dialogare sul progetto e a mantenere la
sicurezza attiva nel post vendita?
La percentuale più incoraggiante è quella sul coinvolgimento in fase di
progettazione pedagogica. Questo avviene regolarmente con le amministrazioni
medie e medio piccole. Più l’amministrazione è grande più tende a riassumere in
un grande pentolone tutte le sue necessità e a banalizzare questo processo. In questi
casi il funzionario amministrativo, dovendo gestire importi rilevanti, ha molto più
ruolo del pedagogista e tende a ridurre la complessità educativa a “capitolato”
generico. Quello che facciamo fatica a segnalare ai nostri committenti è che non è
solo l’edificio, non è solo la “scatola” che fa la qualità del servizio, ma è anche
quello che c’è dentro. E se la “scatola” è fondamentale, allora dobbiamo fare
qualche riflessione anche sul modo di costruire.
Quanto diventa fondamentale l’edificio?
L’edificio è fondamentale se viene pensato per la sua destinazione. Sembra
un’affermazione banale, ma non lo è. Un nido richiede caratteristiche specifiche:
una certa distribuzione degli spazi, arredi adeguati all’età. Abbiamo visto qualcuno
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che voleva aprire un nido senza avere un bagno a misura di bambino, ma le con
tazze a misura adulto…!
Ti chiedo di tornare indietro per un momento, quali differenze trovate tra
Palermo e Bolzano? Parliamo di progettazione e risultato finale…
La prima grande differenza è che la diffusione dei servizi pubblici
all’infanzia è molto disomogenea. In tutto il sud, le percentuali di bambini che
frequentano il nido sono mediamente un quinto rispetto al centro-nord Italia. La
“cerniera” in questo momento è Roma che ha una domanda molto forte (nel 2005,
circa settemila domande di nido non risolte), e l’intento dichiarato
dall’amministrazione locale di risolvere questo problema.
La ricaduta di questa differenza fra nord e sud è evidente: la mancanza di storia, di
esperienze consolidate, della dialettica col territorio, rende la qualità un obiettivo
più complesso da raggiungere.
L’altra questione è quella economica, Bolzano ha risorse che altre città del sud
Italia non hanno: quando le risorse non ci sono si fa di necessità virtù, ma il
risultato può essere discutibile.
Ulteriore aspetto è la competizione del gestore privato.
In quali termini?
Lo standard del servizio pubblico genera il livello medio di qualità del
territorio: parliamo di proposta educativa, di spazi a disposizione, di funzionalità,
di preparazione del personale, della sua continuità all’interno della struttura e di
costi per la famiglia. Un privato che decide di aprire un servizio nido dovrà
attenersi non solo allo standard del territorio, ma offrirne uno migliore per
costo/qualità, se vuole essere competitivo e giustificare una richiesta economica
maggiore.
Laddove lo standard pubblico è molto basso, il privato ha una soglia di accesso
calibrata sulla bassa qualità: è sufficiente offrire qualcosa che sia solo meno peggio
dell’offerta pubblica. Le norme regionali dell’Emilia Romagna o della Toscana, ad
esempio, sono molto selettive, puntuali, esigenti. Altre regioni tendono a dare
parametri più permissivi o addirittura nessun parametro. Si arriva così a quel nido,
che ho visto io stesso, dove l’unico spazio esterno era un terrazzo su una stazione
ferroviaria! Mi pare che questo caso sia ben al di sotto di uno standard accettabile.
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Quindi un panorama negativo?
Ma non è tutto nero: c’è un’adrenalina, una motivazione a dare risposte ai cittadini
molto più forte nelle poche esperienze positive del centro sud che al nord. In queste
realtà c’è una grande voglia di fare e di stare vicino al cittadino: ma non ci sono gli
strumenti, i punti di riferimento, la rete. Forse è tutto questo che rende più eroico
l’atteggiamento di chi vuole fare delle cose in certe zone. Per me è una grande
potenzialità, sposata e combinata con una cultura del territorio che ha radici
storiche profondissime, che potrebbero rappresentare un punto di vista nuovo,
un'altra voce che si aggiunge al dibattito sui servizi all’infanzia.
Noi oggi abbiamo una richiesta quantitativa e una difficoltà economica dell’Ente
che rischia di soverchiare l’inclinazione al servizio educativo spingendo verso i
nidi parcheggio un’utenza sempre più elevata.
Negli anni ’70 si sosteneva che i servizi all’infanzia fossero un’espressione del
territorio; al di là della valenza educativa, si trattava di una struttura situata in luogo
dove i residenti erano impegnati a livello lavorativo nelle più disparate mansioni.
Invece nel nido aziendale in fabbrica i bambini, figli degli impiegati della fabbrica,
stanno con i figli degli operai della fabbrica e parlano con i figli dei dirigenti della
fabbrica dei prodotti della fabbrica…
Preferisco un nido dove il territorio offre il salumiere, il meccanico, il pensionato,
la casalinga, il giovane, poi la polisportiva, la biblioteca; dove il nido è un tassello,
un luogo della vita sociale e non solo un rimedio per la coppia che lavora.
Un caso è Modena.
Cosa accade a Modena?
I bambini sono diventati “padroni” di fette rilevanti di territorio. Ci sono
spazi centrali pensati per l’interazione tra adulti e bambini, questo manca, per
esempio, nella vicina Bologna. Io vivo in questa città con 60 mila studenti, ma non
c’è un luogo dove i giovani incontrano i bambini, dove possa esserci interazione tra
le generazioni. Viviamo questa potenzialità solo come un problema, che c’è, ma ci
limitiamo all’osservazione del danno invece che all’investimento sulle opportunità.
Il bambino è un soggetto assente; pensato come un adulto incompleto, un po’
malato… Capita a volte, quando chiedo a qualche genitore quanti anni ha il loro
bambino, di sentirmi rispondere “Due. Ma ne dimostra tre!”, perché se ne
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dimostrasse solo due avrebbe un problema? C’è fretta, perché l’infanzia pare una
malattia da cui è necessario guarire al più presto…
Come si inserisce “Ludovico” in tutto questo discorso?
Nell’essere uno strumento a disposizione di chi ha una certa volontà,
politica e tecnica, e soprattutto per quelli che hanno ancora un po’ di adrenalina.
Questa proposta del valore, quando ne siamo capaci, ci ha dato un ruolo sul
mercato; siamo un soggetto un po’ anomalo sia dal punto di vista distributivo sia
per i prodotti che offriamo. Il nostro interlocutore ci può usare, piegare, può
chiederci le cose più strane, fatte su misura, sperimentare.
Ad esempio?
Un gruppo di pedagogisti di Reggio Emilia ci ha chiesto di realizzare
qualcosa sulla luce; le luci nei servizi all’infanzia sono spesso banali o aggressive.
Insieme ai nostri colleghi tedeschi e a questo gruppo di pedagogisti, stiamo
progettando quella che chiamiamo la bottega della luce, una specie di maxi
struttura dove i bambini giocano con gli interruttori e modificano i fondali,
proiettano le ombre, cambiano le luci, i colori. Il tema della luce è anche
l’educazione ad una consapevolezza, non solo un argomento “leggero”. La misuro,
c’è una luce calda, una fredda, una luce che mi aiuta a leggere, una più morbida...
Questo è quello che a noi piace essere; ci dicono “dateci una mano, vogliamo
raggiungere questo obiettivo” e noi portiamo la valigetta dell’inventore, poi ci
pensano educatori e bambini a usarla. Questo è il modo di lavorare che amiamo.
Cosa puoi dirmi rispetto al progetto di bio-architettura cui facevi riferimento?
Il progetto di bio-architettura parte da due processi e riflessioni: il primo è
quello di realizzare costruzioni con materiali a basso impatto ambientale, il
secondo è legato ai consumi energetici. Questi due argomenti sono misurabili da un
punto di vista quantitativo; l’utilizzo del legno nelle coperture soddisfa entrambe
queste istanze, continuando a rispettare anche i criteri di deforestazione di cui
parlavo prima. L’impatto ambientale di una struttura in legno non è assolutamente
confrontabile con l’impatto ambientale di una struttura in cemento armato.
Per quanto concerne i consumi energetici, le esperienze dell’Olanda e della
Germania mostrano che queste strutture consumano solo il 20% di quello che
consumano le strutture tradizionali, attenzione, non il 20% in meno, il 20% come
valore assoluto, un quinto. Dal punto di vista dei costi questo è molto importante
per i nostri Enti, costantemente alle prese con le difficoltà dei costi di
mantenimento, più che dell’edificazione, che ha fondi specifici, ma occasionali.
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Va considerata anche la rapidità della costruzione; si tratta inoltre di strutture
antisismiche che non prevedono particolari fondazioni.
Due anni fa alla Fiera Docet di Bologna, il prof. Martelli, responsabile area sismica
del Cnr, affermò che la gran parte degli edifici scolastici italiani non è adeguato alle
norme antisismiche. D’altra parte basta ricordare che nell’ultimo terremoto
avvenuto in Italia, le uniche vittime, purtroppo, sono stati i bambini di una scuola 2.
L’ultimo elemento, non concreto ma assolutamente percepibile, che caratterizza la
bio-architettura, è l’ambiente, il “clima”, che si crea in una struttura di quel tipo.
L’ambiente, l’aria, la sensazione, la percezione che si ha quando si è all’interno di
un asilo realizzato in quel modo…
Tipo baita di montagna…?
Esatto… prima di tutto la stabilità termica data da un ambiente in legno, poi
i vetri, sempre a doppia camera con nuove pellicole che evitano sbalzi di
temperatura interno-esterno; poi il tasso di umidità costante, il rumore che viene
assorbito dalla struttura in legno. Si prova una sensazione “morbida” e ovattata
anche rispetto al rumore; io sarò un po’ romantico, ma si ha la percezione che
questo influisca sull’approccio, sul movimento delle persone che sono all’interno.
E’ come se si muovessero con più lentezza, come se fossero meno aggredite dai
tempi e dalla necessità del fare. I bambini fanno tutto quello che farebbero in un
ambiente diverso ma è come se l’orologio si muovesse a una velocità differente…
Ludovico come si inserisce in un progetto di questo tipo?
Lo raccontiamo… A tutti. Non abbiamo alcuna funzione se non quella di
proporre il tema a un amministratore e, nel caso questi fosse interessato, di metterlo
in contatto con i costruttori capaci di edificare con queste caratteristiche.
Ci sembrava un’idea molto alla “Ludovico”, passami questa espressione; è
coerente con tutto il resto del nostro discorso, all’impostazione del nostro lavoro.
Parliamo di giochi, voi siete anche distributori…
Sui giochi sono un po’ più scoraggiato; mentre nel settore arredamento
esiste una molteplicità di offerte di qualità del prodotto, nel settore giocattolo non
possiamo dire altrettanto.
Come mai?
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La distribuzione del prodotto è fortemente centrata sulla comunicazione dei
media. Il meccanismo pubblicitario, con la sua riproposizione martellante e
continua degli spot, induce il bambino a percepire il possesso del giocattolo come
“conferma” sociale, come accredito nel suo rapporto con gli altri bambini. Così il
consumo si orienta su prodotti a costo elevato, ma, in realtà, di scarsa qualità etica,
estetica ed economica. In Italia non esistono più produttori di giocattoli, ad
eccezione della storica Quercetti 3; non esiste ricerca in questo settore.
Il secondo argomento di crisi nasce dalla sua stessa natura: il giocattolo è uno
strumento di relazione, è un mediatore magico. Certo esiste anche il gioco solitario,
ma il primo motivo per cui un bambino gradisce l’acquisto di un giocattolo è di
poterci giocare “con”; con il genitore, con un amico, con un fratello. Ma qui c’è un
grosso problema.
Perché?
Spesso l’acquisto del giocattolo da parte del genitore ha la funzione di
gestione dell’ansia infantile; non è la proposta di una relazione di gioco. Il genitore
torna a casa tardi, ha lavorato, è stanco, non ha tempo, non ha voglia… acquista il
giocattolo e lo mette “in bocca” al bambino in modo che il bambino stia “sedato”.
Naturalmente non è sempre così e non voglio fare di tutta l’erba un fascio, ma
diciamo che questa tendenza è presente e lo vediamo da alcuni piccoli segnali.
Che tipo di segnali?
Non si pensa al giocattolo come a uno strumento dinamico di relazione con
gli altri e con lo spazio. Un bambino “vero”, su uno scivolo ci sale dalla pista. Sa
già che dallo scivolo si scende, ma quello sono capaci di farlo tutti! I bambini sono
intelligenti, è l’adulto che quando vede il bambino salire dalla pista lo tira giù; il
bambino è come se pensasse: “guarda che avevo già capito, fai la scaletta, prendi
il corrimano, scivola giù…? Ma che gusto c’è? Io devo salire dall’altra parte”. Il
bambino è quello che smonta gli oggetti, che va a vedere cosa c’è dentro l’anima di
questa roba… tende a non usare le cose solo in modo retorico.
Ma cosa può essere oggi un giocattolo
Il giocattolo dovrebbe apparire nel contesto di un momento un po’ magico,
come qualcosa di importante, lo strumento di un segnale affettivo, non l’oggetto di
consumo dentro al carrello di tutti i giorni. Oggi vediamo i contenitori dei
giocattoli dei bambini che assomigliano sempre più ad una raccolta differenziata:
oggetti con cui il bambino gioca 5 minuti per poi dimenticarli senza rimpianto.
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Quando mi chiamano a fare conferenze la prima cosa che dico è: “comprate meno
giocattoli”; gli interlocutori mi guardano straniti e dicono “Scusa, ma tu che
mestiere fai?” “Comprate meno giocattoli, comprateli migliori, date loro più
importanza e soprattutto, insieme al giocattolo, regalate un’ora del vostro tempo.
Se non l’avete, non regalate il giocattolo. Quella sera servirà un’ora di tempo, per
l’emozione della scoperta, per avere il genitore disponibile che gioca con te… Se
quella sera non avete tempo, mettete il giocattolo nell’armadio e aspettate il giorno
dopo! Altrimenti, il giocattolo regalato diventa un segnale di distanza, di
allontanamento; io ti do qualcosa perché tu possa stare buono da solo”.
E’ il bambino che decide quando vuole giocare da solo: prenderà il giocattolo, lo
porterà in un angolo forse per smontarlo (come abbiamo detto prima) e, magari, per
romperlo; per cercare di ricomporlo e poi arrabbiarsi e strepitare perché non ci
riesce. Piuttosto che spendere 15 euro per un giocattolo che serve ad allontanare il
bambino, per poi finire nel cestone, è meglio prendere una baby sitter per un’ora.
E’ un essere umano e… ha un impatto ambientale molto minore!
All’impatto ambientale della dada non avevo mai pensato!
Pensaci, la funzione di un giocattolo usato così è di babysitteraggio, spendi
10, 12, 15 € per un oggetto che il bambino usa per un po’ e poi non lo vuole più
vedere. L’impatto ambientale è elevatissimo, l’utilizzo scarsissimo.
Distribuite anche giochi montessoriani e fröebeliani…
I giochi montessoriani hanno tre licenziatari mondiali che, per produrli,
devono essere autorizzati dalla stessa Opera Montessori; sono tre aziende, una
olandese, una italiana e una indiana che producono materiali sottoposti a capitolati
molto precisi riferiti alla materia prima, alle dimensioni, ai colori. Noi abbiamo
scelto di distribuire per l’Italia i materiali di un’azienda “fröebeliana” tedesca e di
una “montessoriana” olandese. Crediamo che dopo la necessaria valorizzazione
dei materiali poveri, sia tornato il momento di dare spazio anche all’approccio
scientifico e ai materiali strutturati.
In qualche caso la scelta dei materiali poveri è approdata non solo alla
valorizzazione del bambino e della sua creatività, ma anche alla banalizzazione
degli oggetti, di tutti gli oggetti. Ricordo una magnifica lezione, riportata ancora
dal prof. Bertolini, nella quale si definivano questi strumenti come capaci di aiutare
il bambino a “osservare la realtà, renderla riducibile e riproducibile”.
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A Duilio Santarini è stato assegnato il Premio Nazionale Infanzia Piccolo Plauto nel corso della Fiera Docet 2007 per la
progettazione e la realizzazione di materiali strutturati per gli asili nido. Suoi sono il “mobile primi passi Alessandro B.”, il
“box aperto”, il tavolo per la pappa dei lattanti…
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A San Giuliano di Puglia
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La Ditta Quercetti è la produttrice dei famosi “chiodini” colorati.
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