INSERTO Titolone PEZZI E COL

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INSERTO Titolone PEZZI E COL
ANNO XVI NUMERO 227 - PAG I
IL FOGLIO QUOTIDIANO
MARTEDÌ 27 SETTEMBRE 2011
CHE ASPETTA L’EUROPA A SALVARSI?
A tutta Merkel
La diatriba sotterranea fra Bce e governi sul Fondo salva stati
Potere al miliardario
La cancelliera ne ha per tutti, da
Kohl a Schröder. E a chi provoca
dice: “Alla fine decido io”
ALLE BORSE BASTA L’IPOTESI MAXI PIANO PER SPERARE. L’EUROTOWER APRE ALLA MONETA FACILE, MA BERLINO FRENA SULL’EFSF
L’aiutino di Wengen agli ex nemici
giapponesi e la sua irresistibile
ascesa nel Partito comunista cinese
(segue dalla prima pagina)
Merkel all’inizio replica con diplomazia,
com’è nel suo stile: “Kohl ha ragione, quando dice che c’è bisogno di una bussola”.
Poi, più avanti, parlando del Patto di Maastricht, lancia il suo affondo, com’è nel suo
stile: ricorda che il patto evidenzia molte
lacune strutturali, tra cui quella di non
aver previsto la possibilità che un paese si
possa trovare in tali difficoltà da contagiare anche gli altri. Lo Spiegel avanza dubbi
più inquietanti: racconta di come gli architetti dell’euro abbiano scientemente chiuso gli occhi di fronte alle manchevolezze
greche, e a quelle italiane. Tant’è che Jannos Papantoniou, l’ex ministro delle Finanze greco ai tempi del’ingresso nell’euro del
suo paese, ribatte oggi: “Abbiamo fatto
esattamente quello che hanno fatto tutti gli
altri”. L’economista americano Kenneth
Rogoff, riguardo all’ingresso dell’Italia,
racconta che gli architetti dell’euro hanno
fatto rientrare nella valutazione sull’economia reale del nostro paese anche il sommerso. Allora si era convinti che maggiore
fosse il numero dei membri dell’eurozona,
maggiore sarebbe stato il profitto per tutti.
Ma i tedeschi oggi vogliono sapere perché
devono pagare i conti altrui e, soprattutto,
da dove arrivano i miliardi di euro stanziati per il Fondo salvastati.
Per Merkel si tratta di una domanda mal
posta: “Mettiamo in chiaro una cosa. Stiamo
parlando di garanzie, non di soldi reali.
Personalmente, poi, non credo che a queste
garanzie dovrà seguire un reale esborso, anche se ovviamente non lo posso escludere.
Altro malinteso da fugare: il Fondo non viene ampliato perché la Grecia è in difficoltà,
ma per garantire la nostra stabilità”. Sul
Fondo si addensano però nubi sempre più
cariche di scetticismo, tant’è che lo stesso
ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble,
ha lasciato intendere che potrebbe essere
sostituito ancora prima della scadenza pattuita, cioè a metà del 2013, dal Meccanismo
di salvataggio permanente. Merkel non entra nello specifico della tempistica ma spiega: “Con l’introduzione del Meccanismo di
salvataggio permanente ci viene finalmente
messo a disposizione uno strumento attraverso il quale potremo compiere quel passo
che con l’attuale normativa non ci è permesso: e cioè in caso estremo avviare per
un paese la procedura di insolvenza”.
Merkel non si stanca di ricordare che anche la Germania ha contribuito ad arrivare
alla situazione critica di oggi. Certo non il
suo governo, ma quello rosso-verde di
Gerhard Schröder, che non solo votò a favore dell’ingresso della Grecia, ma insieme
con la Francia infranse ripetutamente il
Patto di stabilità. Per l’ex cancelliere socialdemocratico l’euro non era un granché
visto che – ricorda impietoso lo Spiegel – lo
definiva “parto prematuro”.
Ma che sarà della Grecia, dunque dell’euro? A leggere analisti, commentatori,
economisti più o meno noti, quasi tutti tracciano scenari apocalittici riguardo la solvibilità di Atene. Mai e poi mai, così il comune sentire, il paese sarà in grado di saldare i propri debiti. Merkel ascolta e tira fuori le unghie: “Abbiamo istituito questa
troika affinché tracci un serio piano di risanamento del paese. Io in prima persona ho
voluto che vi fosse incluso anche il Fondo
monetario internazionale, per la sua lunga
e comprovata esperienza, perché non ero
sicura che l’Europa potesse farcela da sola,
e temevo finisse per essere troppo indulgente. Fino a oggi la troika non ha mai affermato che Atene non ce la possa fare. Per
me questa parola vale. Soltanto il giorno
che la troika dovesse arrivare a un’altra
conclusione dovremmo prendere nuovi
provvedimenti”.
Merkel mette le mani avanti: “Attualmente non esiste un’istituzione europea che abbia il potere di intervenire se uno stato non
si attiene ai patti. Dobbiamo modificare i
trattati e fare in modo che un paese che infrange le regole possa essere portato davanti alla Corte europea e costretto a rinunciare a parte della propria sovranità”. Non è
vero che a lei manca il coraggio. Non è vero che non ha visioni. A Jauch che la provoca dicendo “lei è una fisica, dovrebbe saper far di conto” Merkel ricorda ancora il
caso Lehman Brothers: “Tutti erano convinti che con il suo fallimento si fosse risolto
il problema. E invece la crisi si è rafforzata, propagata. Qual è la lezione da trarre dal
caso Lehman? La lezione è che possiamo
solo fare i passi i cui effetti sono sotto il nostro controllo”. Merkel ascolta gli economisti, legge i rapporti, si appoggia al consiglio
dei saggi che l’affianca, poi decide e se ne
assume la responsabilità: “Le opinioni si
possono cambiare, le decisioni una volta
prese sono definitive. E io sono la cancelliera della Repubblica federale tedesca, mi
devo assumere le responsabilità per la politica di questo governo”.
Andrea Affaticati
Roma. Nello scaricabarile in corso tra
stati europei e Banche centrali su chi dovrà
alla fine rafforzare gli strumenti anti default dell’Ue, il Fondo monetario internazionale e i paesi del G20 – incluse le economie emergenti – hanno forse suonato la fine della ricreazione. O così almeno i mercati hanno inizialmente interpretato il piano da 3 mila miliardi di euro (tutto da confermare nelle cifre e nelle modalità) di cui
si sarebbe iniziato a discutere a Washington nel fine settimana. Piazza Affari ieri ha
chiuso a più 3,3 per cento, meglio di Francoforte (più 2,9) e Parigi (più 1,7).
Il piano, che secondo il Times sarebbe
fortemente sponsorizzato dal Tesoro americano, dalla Fed, dalla Bank of China e dal
governo di Pechino, sconterebbe un default
“pilotato” della Grecia con taglio al 50 per
cento del valore nominale dei bond ellenici in gran parte nei portafogli di francesi e
tedeschi; una ricapitalizzazione degli istituti creditori; un aumento della dotazione
del Fondo salva stati europeo (Efsf), che dovrebbe essere già di 770 miliardi ma è tuttora fermo a 440 per le perplessità di Germania, Slovacchia, Slovenia e Austria. “Il
progetto – riferisce il Times – è simile a
quello approvato nel 2008 dalla Casa Bianca di George W. Bush per mettere le banche
al riparo dagli strascichi del fallimento
Lehman Brothers. L’importo fu allora di
700 miliardi di dollari, mentre oggi sul tavo-
lo delle autorità tedesche ci sarebbe un intervento da mille miliardi di euro, a carico
dei governi”. E il resto? Qui lo scenario si
complica di nuovo: i 2 mila miliardi mancanti all’appello dovrebbero venire
dal Fondo monetario e dai paesi
Brics, Cina in testa. Molti
analisti
fanno
però notare che
nel 2008 il bailout fu reso possibile dalla Fed
che affiancò la Casa Bianca stampando dollari e immettendo liquidità
sul mercato.
Eppure in Europa
il solco tra governi,
Bce, singole Banche
centrali è ancora parecchio largo. A Washington JeanClaude
Trichet ha ripetuto che
l’Eurotower non può più
fare “il lavoro dei governi”. Ciò nonostante i rumors dicono anche che il prossimo
consiglio direttivo della Bce, il 6 ottobre,
potrebbe lanciare un segnale espansivo riducendo il tasso d’interesse, oggi all’1,5 per
cento e quindi più alto rispetto a quello
delle altre Banche centrali occidentali.
“Un taglio ai tassi non può essere escluso”,
ha dichiarato Ewald Nowotny, consigliere
austriaco del board della Bce, finora sostenitore della linea rigorista. Anche il membro lussemburghese dell’Eurotower, il “falco” Yves Mersch, dopo aver affermato che le aspettative di un taglio di 50
punti base “non corrispondono a realtà”, ha
di fatto aperto a un
compromesso. Ma ciò
che in questo momento
fa letteralmente infuriare la Bce è che sia spinta a
prestare soccorso sia ai titoli di stato traballanti (tra i
quali i Btp) sia alle banche
esposte. Anche Mario Draghi, che a novembre subentrerà a Trichet, ha alzato un po’ la voce: “I
governi devono fare
la loro parte, rafforzando i bilanci e varando riforme strutturali, e lo devono fare in tempi stretti”. Mentre Giulio Tremonti giurava che l’Italia ha
“già fatto tutto ciò che doveva”. Ieri invece
Lorenzo Bini Smaghi, membro del board
della Bce, prima ha inviato un messaggio
rassicurante alle banche private sulla liquidità, poi ha rincarato la dose sulla scia
di Draghi: “In Europa occorre fare di più”,
ha detto riferendosi all’Europa che è al di
fuori degli uffici dell’Eurotower. Ancora
più esplicito il presidente della Bundesbank e membro del Consiglio dei governatori della Bce, Jens Weidmann, il quale ha
fatto sapere che si opporrà a qualsiasi uso
delle risorse della Banca centrale per irrobustire il Fondo salva stati.
Ma se Francoforte preme per un impegno maggiore delle cancellerie nazionali
che, attraverso il rafforzamento dell’Efsf,
sgravino la Bce stessa dagli interventi
straordinari, gli stati resistono. Ieri sera, a
stemperare l’ottimismo, è arrivata infatti la
dichiarazione del ministro delle Finanze
tedesco, Wolfgang Schäuble: “Gli europei
non hanno l’intenzione di rimpinguare il
Fondo salva stati”.
Alla fine tutto continua a ruotare intorno
agli stop and go di Berlino. Angela Merkel
giura che “l’euro merita ogni sforzo”, e
chiede al Bundestag, che si pronuncerà il
29 settembre, di dare via libera all’aumento del Fondo salva stati. Ma il ministro
Schäuble annuncia l’ulteriore rinvio sulla
decisione per la tranche da 8 miliardi di
aiuti alla Grecia: “Aspettiamo il rapporto
della troika Bce, Fmi, Commissione Ue”.
Questa sera la Merkel incontrerà alla Cancelleria il premier greco George Papandreou. Tra rimpalli e rinvii l’Europa appare ancora impotente, e lo champagne è stato forse stappato in anticipo.
Perché il cancelliere dello Scacchiere apre alle idee dell’eccentrico Posen
Roma. “Una politica monetaria più
espansiva porterà una più solida ripresa
economica nella giusta e necessaria direzione”. E’ partendo da questo assunto che
Adam Posen, eccentrico banchiere americano nel board della Banca centrale inglese, continua a esortare i colleghi che gestiscono i rubinetti della moneta globale a
uscire dal “vecchio schema cognitivo” del
rigore a tutti i costi. Le parole di Posen (vedi sotto l’intervista al Wall Street Journal)
sono ancora anatema, o quasi, per i colleghi “moralisti” – come li ha etichettati il
premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Ora però qualcosa si muove: nel fine
settimana per la prima volta l’esponente di
un governo europeo ha fatto intendere pubblicamente di aspettarsi un aiuto da parte
delle Banche centrali. Le politiche monetarie, ha specificato George Osborne, cancel-
liere dello Scacchiere del premier inglese
conservatore David Cameron, restano appannaggio delle autorità monetarie, certo,
eppure non sarà sicuramente Londra a opporsi a un’ulteriore iniezione di liquidità:
“Ci sono accordi in vigore che sono stati decisi per consentire alla Banca centrale di
essere attiva sul fronte monetario, e certamente io non spingo per rimuovere questi
accordi”. Alla domanda diretta se sostenesse un nuovo intervento della Bank of England, Osborne ha replicato: “Non avrei potuto dare segnale più chiaro”. Secondo
Stephanie Flanders, caporedattrice economica della Bbc, si tratta di “un forte segnale da parte di Osborne. Questi darebbe un
sincero benvenuto a un’iniezione di creatività in stile-Posen da parte della Bank of
England, per alimentare per esempio i prestiti alle piccole imprese”.
Non è un caso che le parole di Osborne
siano state pronunciate negli Stati Uniti,
dove la Fed è finora intervenuta in maniera più pronunciata a sostegno dell’economia reale. Non solo: in questi giorni, per la
prima volta da anni, il Senato di Washington ha organizzato audizioni ad hoc per vederci chiaro nella crisi europea. E i relatori invitati, anche loro, hanno ipotizzato nuove modalità d’intervento della Banca presieduta da Jean-Claude Trichet. Nicolas
Véron, economista del Bruegel Institute, ha
illustrato alcune simulazioni sull’eventuale partecipazione della Bce al rafforzamento del Fondo salva stati (Efsf): “Ciò potrebbe essere compatibile con il mandato della Bce in base al trattato attuale e avrebbe
un impatto nel fermare il contagio sui mercati”. Un discorso simile a quello fatto ai
senatori americani da Domenico Lombar-
di, senior fellow presso la Brookings Institution: “La possibilità di accedere a una linea di credito della Bce potrebbe, invece,
assicurare una possibilità di finanziamento rapida, permettendo all’Efsf di ampliare la propria capacità finanziaria facendo
leva su quel finanziamento, e solleverebbe
la Bce dal ruolo di prestatore di emergenza, se non addirittura di ultima istanza, un
ruolo estraneo al suo mandato originario”.
Conversando con il Foglio, anche un economista “classicamente liberale” come
Stephen Grenville, docente alla Australian
National University, chiosa: “La Bce,
preoccupata con i problemi dei debiti sovrani, sembra dimenticare che è stata lei
stessa ad aumentare i tassi ancora di recente, a luglio, perché i suoi zeloti dell’inflazione erano più preoccupati della stabilità dei
prezzi che di ogni altra cosa”. (mvlp)
La rivoluzione copernicana indicata dal banchiere anglosassone stufo dei moralisti
Pubblichiamo alcuni stralci dall’intervista ad Adam Posen, membro del board della Bank of England, rilasciata all’edizione on line del Wall Street Journal lo scorso 22 settembre.
Lei sostiene che non solo la Banca d’Inghilterra ma anche le altre Banche centrali
dei paesi G7 dovrebbero lanciare ulteriori
piani di stimolo monetario. Dove sbagliano
dunque gli altri istituti?
Per prima cosa, nelle Banche centrali si
è dibattuto fino all’esasperazione sulle
aspettative inflazionistiche. E ci sono molti studi accademici e molti modelli teorici
che mostrano come siamo preoccupati dal
fatto che le attese inflazionistiche diventino “disancorate”. Ma questa paura è esagerata. Non che non sarebbe grave se le attese inflazionistiche peggiorassero. Ma la
probabilità che ciò avvenga nel contesto
economico attuale è estremamente bassa.
E’ un’importante lezione il fatto che noi di
Bank of England e dall’altra parte la Federal Reserve abbiamo messo in atto queste
massicce dosi di “quantitative easing”
(l’acquisto di titoli di stato da parte delle
Banche centrali, ndt), senza che il mercato obbligazionario reagisse come se l’inflazione fosse destinata a schizzare. Secondo,
c’è una mentalità diffusa tra banchieri centrali (…) per cui invece che essere troppo
lassisti (…) adesso la tendenza generale è
passata all’essere troppo ortodossi in questo tipo di situazioni. Uscire da un simile
schema cognitivo è difficile, soprattutto
perché ci sono molti incentivi a essere sobri e conservatori e prudenti. Ma, avendo
passato la mia carriera a confrontare i
comportamenti delle Banche centrali,
quello che chiedo ai miei colleghi di fare è:
guardate, c’è questa mentalità; so che state facendo del vostro meglio, senza pregiudizi, ma dovreste fermarvi un attimo, guardare le cose dall’esterno e comprendere
che… questa tendenza non è oggettiva.
E’ una tendenza nata dagli errori del passato, quando (i banchieri) non sono stati ab-
bastanza prudenti e come risultato si è ottenuto inflazione indesiderata?
Si potrebbe affermarlo, anche se è molto difficile trovare un altro banchiere che,
a parte l’ex presidente della Fed Arthur
Burns negli anni 70, abbia operato in maniera troppo espansiva. Ci sono stati diversi casi in cui le Banche centrali sono state
dominate dai politici e hanno preso ordini da loro. Ma le Banche centrali indipendenti, se si guarda alla casistica storica,
non l’hanno fatto. Terzo, credo ci sia stata
una sincera sottovalutazione della severità
degli choc in molti di questi paesi, tra cui
gli Stati Uniti, l’Europa e la Gran Bretagna.
(Traduzione di Michele Masneri)
Tutti gli economisti che spingono per una Francoforte meno ingessata
L
e ultime critiche (in ordine di tempo)
della professione economica alla Banca centrale europea (Bce) sono arrivate la
mattina del 23 settembre: sull’European
Economics: Political Economy and Public
Economics E-Journal, diretto da Marco Da
Rin e Francesco Giavazzi della Bocconi, è
apparso un severo saggio dell’economista
slovacco Dusan Victor Soltes. Nel saggio
l’Eurozona è considerata “vittima dei criteri di Maastricht e di come sono stati interpretati dalle istituzioni dell’Unione europea”. L’attacco è frontale: tanto il trattato quanto le interpretazioni sono implicitamente recessioniste. Più specifico un recente saggio diramato dal Center for European Policy Studies (Cepr Discussion Paper No. DP8565). Ne sono autori Florin Ovidiu Bilbiie (Oxford), Ippei Fujiwara del
servizio studi della Bank of Japan, e Fabio
Piero Ghironi (Boston College). Sulla base
di teoremi e algoritmi, lo studio lancia una
freccia al cuore della Bce, ovvero all’idea
che la politica monetaria europea debba
mirare a tenere l’inflazione al di sotto del
due per cento l’anno. In questo modo, afferma la ricerca, si ristagna. Severo anche
il giudizio di Katja Hillmann dell’Università di Amburgo e di Wolfram Wide dell’Università di Münster, in un saggio in corso
di pubblicazione; i due sono sostenitori
della moneta unica ma documentano come
la Bce non si sia curata dei differenziali di
crescita e di inflazione all’interno dell’Eurozona (o è stata incapace di gestirli), innescando crescenti divari nei conti con l’estero degli stati membri e un forte aumento del credito totale interno in alcuni di essi, contribuendo così all’incremento dei
debiti sovrani.
Su linee non molto differenti due economisti relativamente giovani: Ernesto Crivelli (argentino di origine italiana, ora al
Fondo monetario) e Diego Valiante (del
Center for European Policy Studies). In
uno studio uscito sul Journal of Policy
Reform, spiegano che promuovendo bassi
tassi d’interesse nell’area, la Bce ha incoraggiato un eccessivo indebitamento pubblico sui mercati dei capitali (specialmente per infrastrutture). Ora, sostiene Valiante in una ricerca sullo stesso tema, la Bce
dovrebbe adottare una strategia di “quantitative easing” a sostegno di obiettivi di
crescita, in stile Fed americana, compiendo una svolta considerevole rispetto agli
ultimi dodici anni. La crisi del debito sovrano, sottolinea poi uno degli estensori
del Trattato di Maastricht e degli statuti
della Bce, Paul De Grauwe dellUniversità
cattolica di Lovanio, ha reso chiaro che i
compiti di una Banca centrale non consistono unicamente nel far sì che il tasso
d’inflazione sia basso. Per mantenere la
stabilità finanziaria l’istituto deve essere il
prestatore di ultima istanza per le banche
che appartengono al sistema; per la Bce ciò
vuol dire essere il prestatore di ultima
istanza nel mercato dei titoli pubblici. Il
che non implica necessariamente l’emissione di Eurobond, visto che esistono strumenti intermedi che possono essere attivati o ri-attivati: a) acquisti di covered bonds
a basso rischio; b) allungare da sei mesi a
un anno i propri prestiti alle banche del sistema; c) incoraggiare le Banche centrali
nazionali a fare prestiti di emergenza (come già fatto in Irlanda e Grecia) a banche
in difficoltà nei loro stati.
Certo, mutare gli statuti della Bce per
renderli simili a quelli della Federal Reserve vuol dire rinegoziare i trattati, e soprattutto ottenere 17 ratifiche a livello nazionale. Tuttavia, come indicato da tutti
questi economisti, c’è spazio per interpretare meglio le regole vigenti e, sotto il profilo formale, possono essere sufficienti nuove delibere del Consiglio. Quando, tra poche settimane, Mario Draghi prenderà le
consegne da Jean-Claude Trichet, avrà un
bel da fare per correggere il tiro.
Giuseppe Pennisi
Lo spread filosofico che oggi impedisce alla Bce di attivarsi come la Fed
L’
Atlantico si è improvvisamente allargato. E le diverse filosofie che animano la Federal Reserve americana e la Banca centrale europea c’entrano qualcosa.
I rappresentanti dell’Amministrazione
Obama, anche in questo fine settimana di
incontri al vertice dell’economia mondiale
che si è appena concluso, hanno insistito
con i loro suggerimenti ai leader europei:
se non si darà una forte spinta alla ripresa economica, anche immettendo liquidità,
i sacrifici imposti ai paesi a rischio produrranno una recessione che metterà in crisi
l’euro e la deflagrazione dell’Eurozona
coinvolgerà tutti. I leader politici europei,
poco disposti ad accettare lezioni dai rappresentanti di un paese dove è esplosa la
crisi finanziaria, la pensano diversamente.
La ricetta tedesca, ispirata a un’etica razionale kantiana, prevede che ogni paese
metta anzitutto in ordine i propri conti.
Angela Merkel si rende conto che la moneta unica rischia grosso, e con essa tutto il
processo di integrazione europea, ma sa
che i suoi compatrioti non vogliono paga-
re i debiti degli stati spendaccioni. La questione è se questi stati riusciranno a riequilibrare i conti prima di cadere in una
profonda recessione. Il conseguimento del
pareggio di bilancio, infatti, non è di per sé
garanzia di ripresa economica.
Dietro le posizioni di Washington e di
Berlino, ci sono però le posizioni della Fed
e della Bce, cioè di due mondi bancario-finanziari che si ispirano a visioni diverse.
Gli americani puntano sulla ripresa da finanziare con l’immissione di tutta la liquidità necessaria (creazione di moneta); gli
europei privilegiano invece il risanamento
dei conti pubblici. Non si tratta solo di culture e scelte personali, ma l’espressione
delle divergenti filosofie economiche e sociali che sono alla base della Fed e della
Bce quali sono sancite nei rispettivi statuti. Lo statuto della Fed, sinteticamente definito Federal Reserve Act, fu promulgato
dal presidente Woodrow Wilson il 23 dicembre 1913, ma l’intestazione completa
recita: “Legge istitutiva di banche federali di riserva per fornire una adeguata mas-
sa monetaria (“an elastic currency”) per
consentire mezzi di risconto di titoli commerciali, stabilire una più efficace supervisione dell’attività bancaria negli Stati
Uniti, e altri scopi”. Negli anni 70, alcuni
emendamenti (Section 2A) specificarono
gli obiettivi di promuovere in modo efficace “la massima occupazione, la stabilità
dei prezzi, e tassi d’interesse moderati sul
lungo termine”, operando sugli aggregati
monetari. Il cuore della missione statutaria della Fed consiste dunque nel mettere
a disposizione del sistema economico la liquidità necessaria per sostenere la produzione e l’occupazione. In poche parole: lo
sviluppo prima di tutto.
Ben diverso l’obiettivo prioritario della
Bce che, in base allo statuto approvato il
1° giugno 1998, “è il mantenimento della
stabilità dei prezzi”. A questo sono subordinati tutti gli altri. Finora la Bce, sotto
prevalente influenza tedesca, ha osservato scrupolosamente questa direttiva, sacrificando lo sviluppo alla lotta contro l’inflazione. Da qui il geloso esercizio del suo
“diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno dell’area dell’euro” (articolo 2 del trattato di Maastricht
del 7 febbraio 1992). Ciò spiega la riluttanza a intervenire per salvare la Grecia, le
dimissioni di Jürgen Stark dalla Bce e la
posizione del presidente della Bundesbank, contrari entrambi all’acquisto di titoli di stato da parte della Bce.
Ma quanto a lungo i mercati attenderanno i banchieri centrali, soprattutto quelli
di Francoforte? Il vertice del 15 settembre
tra Bce, Fed e banche centrali del Giappone, del Regno Unito e della Svizzera, per
finanziare le banche europee carenti di
dollari, è stato un segnale importante della volontà dei detentori del potere di creare denaro di prendere in mano la situazione, e in subordine di rilanciare il ruolo
del dollaro. A spese di leader politici titubanti e sulla difensiva. Progetto ambizioso, purché le filosofie economiche trovino
una base d’intesa. Altrimenti vinceranno
i più forti.
Alessandro Corneli
Milano. Non è difficile come l’accesso di
un ricco nel regno dei cieli, così come risulta dal Vangelo. Ma la lunga marcia del miliardario Liang Wengen verso la Città proibita del Partito che predicò la dittatura del
proletariato, non è stata comunque facile.
Del resto il fatto che il molto onorevole
Liang, calli da operaio e laurea in Ingegneria, il più ricco tra i miliardari della Cina
rossa secondo il censimento di Forbes, sia
destinato a entrare nel prossimo Comitato
centrale del Partito comunista ha destato
comunque scalpore, dentro e fuori i confini dell’ex impero celeste. Certo, nel massimo organismo dirigente del Pcc già figurano alcuni manager di prima fila: il ceo della Haier, Zhang Ruimin, per esempio, o il
presidente della Sinopec Li Yi, il braccio
operativo della strategia cinese di espansione sul fronte del petrolio. Ma si tratta di
boiardi di stato, di dirigenti di aziende pubbliche in cui il controllo fa capo allo stesso partito. Altra è la posizione di Liang
Wengen, imprenditore di successo, simbolo
suo malgrado del ceto dei nuovi ricchi che
prenotano l’acquisto di yacht di lusso e
sfrecciano per le strade di Shangai in Ferrari o Lamborghini, in un paese dove il reddito medio non arriva ancora a 4 mila dollari l’anno.
La lunga marcia di Wengen, amministratore delegato e primo azionista della Sany,
colosso delle macchine industriali per l’edilizia creato dal nulla, è iniziata almeno
otto anni fa, quando la sua azienda ha avuto l’onore della visita del presidente Hu
Jintao in persona. Da allora Liang Wengen,
57 anni, figlio di povera gente delle montagne di Lianyuan nello Hunan, proprietario
di una fortuna che Forbes valuta in 9,3 miliardi di dollari, ha interpretato senza una
sola macchia la strada del miliardario modello oriente rosso: sobrio nei consumi, il
primo a tagliarsi lo stipendio a un solo
yuan nella crisi del 2008; umile e ben attento a non mostrare segni di impazienza nella sua lenta avanzata nella nomenclatura.
Perché Liang figura tra i partecipanti agli
ultimi tre congressi del National People’s
Congress, l’assemblea oceanica che accoglie i 3 mila delegati in arrivo da ogni angolo della Cina. Qui, la primavera scorsa,
Liang è stato bene attento ad ascoltare ma
a non apparire sui vari media occidentali
che, con una certa curiosità, hanno registrato la presenza di una pattuglia di super
ricchi nell’assemblea dominata ancor oggi
da contadini e operai. Ora, la prudenza ha
premiato questo ex ragazzo di umili origini che ha studiato grazie ai cesti di bambù
che la madre fabbricava la sera, dopo una
giornata trascorsa nei campi. Ma forse la
spinta decisiva alla nomina del primo capitalista nel Comitato centrale l’ha data un’operazione che ha riempito d’orgoglio tutta
la Cina. E’ stata la Sany a montare, a tempi da primato, l’enorme estintore che già
dal 31 marzo scorso ha spruzzato d’acqua la
centrale giapponese di Fukushima. Nel giro di otto giorni, si legge sul sito dell’azienda di Dangshan che occupa 60 mila addetti, la Sany è stata in grado di allestire una
spedizione di 62 jumbo camion in grado di
sparare l’acqua sufficiente a raffreddare il
reattore nucleare dei superbi eredi dei samurai che hanno seminato morte e violenza a Nanchino negli anni Trenta. E’ una medaglia che, agli occhi della seconda potenza economica del pianeta, merita un lasciapassare verso l’Olimpo rosso per Wengen.
Altri ultra ricchi però si danno alla macchia
Una medaglia dall’indubbio significato
politico: Liang Wengen entrerà nel Comitato centrale che è chiamato a guidare il
prossimo piano quinquennale che dovrà
pilotare la Cina verso lo svuiluppo “sostenibile”, meno dipendente dall’export, con
l’obiettivo di far uscire dall’orbita della povertà centinaia di milioni di connazionali.
Uno sforzo che richiede anche il contributo di un signore che ha creato filiali negli
Stati Uniti, in Africa e che ha costruito la
torre più alta di Berlino. Anche se non tutti sono d’accordo. Fan Jinggang, animatore
di un gruppo di sinistra di Pechino, che si
richiama al nome di Utopia, ha subito fatto sapere via Internet che “questa scelta dimostra che la società borghese sta intaccando dalle fondamenta il nostro stato socialista”. E’ una voce all’apparenza minoritaria, cui s’oppone l’élite riformista, rappresentata dal sociologo Pu Xingzu che a
Time Weekly dice che “finalmente gli imprenditori potranno portare anche in sede
politica il contributo che meritano”. Dietro
queste dichiarazioni c’è, comunque, un disagio latente, quello che ha convinto un numero discreto di miliardari a “sparire nell’ombra per paura di rappresaglie”. Paura
giustificata, se è vero che dal 2003 a oggi –
scrive il China Daily – sono morti in Cina 65
miliardari, tra assassinati e suicidi.
Ugo Bertone