INSERTO Titolone PEZZI E COL
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INSERTO Titolone PEZZI E COL
ANNO XVI NUMERO 227 - PAG I IL FOGLIO QUOTIDIANO MARTEDÌ 27 SETTEMBRE 2011 CHE ASPETTA L’EUROPA A SALVARSI? A tutta Merkel La diatriba sotterranea fra Bce e governi sul Fondo salva stati Potere al miliardario La cancelliera ne ha per tutti, da Kohl a Schröder. E a chi provoca dice: “Alla fine decido io” ALLE BORSE BASTA L’IPOTESI MAXI PIANO PER SPERARE. L’EUROTOWER APRE ALLA MONETA FACILE, MA BERLINO FRENA SULL’EFSF L’aiutino di Wengen agli ex nemici giapponesi e la sua irresistibile ascesa nel Partito comunista cinese (segue dalla prima pagina) Merkel all’inizio replica con diplomazia, com’è nel suo stile: “Kohl ha ragione, quando dice che c’è bisogno di una bussola”. Poi, più avanti, parlando del Patto di Maastricht, lancia il suo affondo, com’è nel suo stile: ricorda che il patto evidenzia molte lacune strutturali, tra cui quella di non aver previsto la possibilità che un paese si possa trovare in tali difficoltà da contagiare anche gli altri. Lo Spiegel avanza dubbi più inquietanti: racconta di come gli architetti dell’euro abbiano scientemente chiuso gli occhi di fronte alle manchevolezze greche, e a quelle italiane. Tant’è che Jannos Papantoniou, l’ex ministro delle Finanze greco ai tempi del’ingresso nell’euro del suo paese, ribatte oggi: “Abbiamo fatto esattamente quello che hanno fatto tutti gli altri”. L’economista americano Kenneth Rogoff, riguardo all’ingresso dell’Italia, racconta che gli architetti dell’euro hanno fatto rientrare nella valutazione sull’economia reale del nostro paese anche il sommerso. Allora si era convinti che maggiore fosse il numero dei membri dell’eurozona, maggiore sarebbe stato il profitto per tutti. Ma i tedeschi oggi vogliono sapere perché devono pagare i conti altrui e, soprattutto, da dove arrivano i miliardi di euro stanziati per il Fondo salvastati. Per Merkel si tratta di una domanda mal posta: “Mettiamo in chiaro una cosa. Stiamo parlando di garanzie, non di soldi reali. Personalmente, poi, non credo che a queste garanzie dovrà seguire un reale esborso, anche se ovviamente non lo posso escludere. Altro malinteso da fugare: il Fondo non viene ampliato perché la Grecia è in difficoltà, ma per garantire la nostra stabilità”. Sul Fondo si addensano però nubi sempre più cariche di scetticismo, tant’è che lo stesso ministro delle Finanze, Wolfgang Schäuble, ha lasciato intendere che potrebbe essere sostituito ancora prima della scadenza pattuita, cioè a metà del 2013, dal Meccanismo di salvataggio permanente. Merkel non entra nello specifico della tempistica ma spiega: “Con l’introduzione del Meccanismo di salvataggio permanente ci viene finalmente messo a disposizione uno strumento attraverso il quale potremo compiere quel passo che con l’attuale normativa non ci è permesso: e cioè in caso estremo avviare per un paese la procedura di insolvenza”. Merkel non si stanca di ricordare che anche la Germania ha contribuito ad arrivare alla situazione critica di oggi. Certo non il suo governo, ma quello rosso-verde di Gerhard Schröder, che non solo votò a favore dell’ingresso della Grecia, ma insieme con la Francia infranse ripetutamente il Patto di stabilità. Per l’ex cancelliere socialdemocratico l’euro non era un granché visto che – ricorda impietoso lo Spiegel – lo definiva “parto prematuro”. Ma che sarà della Grecia, dunque dell’euro? A leggere analisti, commentatori, economisti più o meno noti, quasi tutti tracciano scenari apocalittici riguardo la solvibilità di Atene. Mai e poi mai, così il comune sentire, il paese sarà in grado di saldare i propri debiti. Merkel ascolta e tira fuori le unghie: “Abbiamo istituito questa troika affinché tracci un serio piano di risanamento del paese. Io in prima persona ho voluto che vi fosse incluso anche il Fondo monetario internazionale, per la sua lunga e comprovata esperienza, perché non ero sicura che l’Europa potesse farcela da sola, e temevo finisse per essere troppo indulgente. Fino a oggi la troika non ha mai affermato che Atene non ce la possa fare. Per me questa parola vale. Soltanto il giorno che la troika dovesse arrivare a un’altra conclusione dovremmo prendere nuovi provvedimenti”. Merkel mette le mani avanti: “Attualmente non esiste un’istituzione europea che abbia il potere di intervenire se uno stato non si attiene ai patti. Dobbiamo modificare i trattati e fare in modo che un paese che infrange le regole possa essere portato davanti alla Corte europea e costretto a rinunciare a parte della propria sovranità”. Non è vero che a lei manca il coraggio. Non è vero che non ha visioni. A Jauch che la provoca dicendo “lei è una fisica, dovrebbe saper far di conto” Merkel ricorda ancora il caso Lehman Brothers: “Tutti erano convinti che con il suo fallimento si fosse risolto il problema. E invece la crisi si è rafforzata, propagata. Qual è la lezione da trarre dal caso Lehman? La lezione è che possiamo solo fare i passi i cui effetti sono sotto il nostro controllo”. Merkel ascolta gli economisti, legge i rapporti, si appoggia al consiglio dei saggi che l’affianca, poi decide e se ne assume la responsabilità: “Le opinioni si possono cambiare, le decisioni una volta prese sono definitive. E io sono la cancelliera della Repubblica federale tedesca, mi devo assumere le responsabilità per la politica di questo governo”. Andrea Affaticati Roma. Nello scaricabarile in corso tra stati europei e Banche centrali su chi dovrà alla fine rafforzare gli strumenti anti default dell’Ue, il Fondo monetario internazionale e i paesi del G20 – incluse le economie emergenti – hanno forse suonato la fine della ricreazione. O così almeno i mercati hanno inizialmente interpretato il piano da 3 mila miliardi di euro (tutto da confermare nelle cifre e nelle modalità) di cui si sarebbe iniziato a discutere a Washington nel fine settimana. Piazza Affari ieri ha chiuso a più 3,3 per cento, meglio di Francoforte (più 2,9) e Parigi (più 1,7). Il piano, che secondo il Times sarebbe fortemente sponsorizzato dal Tesoro americano, dalla Fed, dalla Bank of China e dal governo di Pechino, sconterebbe un default “pilotato” della Grecia con taglio al 50 per cento del valore nominale dei bond ellenici in gran parte nei portafogli di francesi e tedeschi; una ricapitalizzazione degli istituti creditori; un aumento della dotazione del Fondo salva stati europeo (Efsf), che dovrebbe essere già di 770 miliardi ma è tuttora fermo a 440 per le perplessità di Germania, Slovacchia, Slovenia e Austria. “Il progetto – riferisce il Times – è simile a quello approvato nel 2008 dalla Casa Bianca di George W. Bush per mettere le banche al riparo dagli strascichi del fallimento Lehman Brothers. L’importo fu allora di 700 miliardi di dollari, mentre oggi sul tavo- lo delle autorità tedesche ci sarebbe un intervento da mille miliardi di euro, a carico dei governi”. E il resto? Qui lo scenario si complica di nuovo: i 2 mila miliardi mancanti all’appello dovrebbero venire dal Fondo monetario e dai paesi Brics, Cina in testa. Molti analisti fanno però notare che nel 2008 il bailout fu reso possibile dalla Fed che affiancò la Casa Bianca stampando dollari e immettendo liquidità sul mercato. Eppure in Europa il solco tra governi, Bce, singole Banche centrali è ancora parecchio largo. A Washington JeanClaude Trichet ha ripetuto che l’Eurotower non può più fare “il lavoro dei governi”. Ciò nonostante i rumors dicono anche che il prossimo consiglio direttivo della Bce, il 6 ottobre, potrebbe lanciare un segnale espansivo riducendo il tasso d’interesse, oggi all’1,5 per cento e quindi più alto rispetto a quello delle altre Banche centrali occidentali. “Un taglio ai tassi non può essere escluso”, ha dichiarato Ewald Nowotny, consigliere austriaco del board della Bce, finora sostenitore della linea rigorista. Anche il membro lussemburghese dell’Eurotower, il “falco” Yves Mersch, dopo aver affermato che le aspettative di un taglio di 50 punti base “non corrispondono a realtà”, ha di fatto aperto a un compromesso. Ma ciò che in questo momento fa letteralmente infuriare la Bce è che sia spinta a prestare soccorso sia ai titoli di stato traballanti (tra i quali i Btp) sia alle banche esposte. Anche Mario Draghi, che a novembre subentrerà a Trichet, ha alzato un po’ la voce: “I governi devono fare la loro parte, rafforzando i bilanci e varando riforme strutturali, e lo devono fare in tempi stretti”. Mentre Giulio Tremonti giurava che l’Italia ha “già fatto tutto ciò che doveva”. Ieri invece Lorenzo Bini Smaghi, membro del board della Bce, prima ha inviato un messaggio rassicurante alle banche private sulla liquidità, poi ha rincarato la dose sulla scia di Draghi: “In Europa occorre fare di più”, ha detto riferendosi all’Europa che è al di fuori degli uffici dell’Eurotower. Ancora più esplicito il presidente della Bundesbank e membro del Consiglio dei governatori della Bce, Jens Weidmann, il quale ha fatto sapere che si opporrà a qualsiasi uso delle risorse della Banca centrale per irrobustire il Fondo salva stati. Ma se Francoforte preme per un impegno maggiore delle cancellerie nazionali che, attraverso il rafforzamento dell’Efsf, sgravino la Bce stessa dagli interventi straordinari, gli stati resistono. Ieri sera, a stemperare l’ottimismo, è arrivata infatti la dichiarazione del ministro delle Finanze tedesco, Wolfgang Schäuble: “Gli europei non hanno l’intenzione di rimpinguare il Fondo salva stati”. Alla fine tutto continua a ruotare intorno agli stop and go di Berlino. Angela Merkel giura che “l’euro merita ogni sforzo”, e chiede al Bundestag, che si pronuncerà il 29 settembre, di dare via libera all’aumento del Fondo salva stati. Ma il ministro Schäuble annuncia l’ulteriore rinvio sulla decisione per la tranche da 8 miliardi di aiuti alla Grecia: “Aspettiamo il rapporto della troika Bce, Fmi, Commissione Ue”. Questa sera la Merkel incontrerà alla Cancelleria il premier greco George Papandreou. Tra rimpalli e rinvii l’Europa appare ancora impotente, e lo champagne è stato forse stappato in anticipo. Perché il cancelliere dello Scacchiere apre alle idee dell’eccentrico Posen Roma. “Una politica monetaria più espansiva porterà una più solida ripresa economica nella giusta e necessaria direzione”. E’ partendo da questo assunto che Adam Posen, eccentrico banchiere americano nel board della Banca centrale inglese, continua a esortare i colleghi che gestiscono i rubinetti della moneta globale a uscire dal “vecchio schema cognitivo” del rigore a tutti i costi. Le parole di Posen (vedi sotto l’intervista al Wall Street Journal) sono ancora anatema, o quasi, per i colleghi “moralisti” – come li ha etichettati il premio Nobel per l’Economia Paul Krugman. Ora però qualcosa si muove: nel fine settimana per la prima volta l’esponente di un governo europeo ha fatto intendere pubblicamente di aspettarsi un aiuto da parte delle Banche centrali. Le politiche monetarie, ha specificato George Osborne, cancel- liere dello Scacchiere del premier inglese conservatore David Cameron, restano appannaggio delle autorità monetarie, certo, eppure non sarà sicuramente Londra a opporsi a un’ulteriore iniezione di liquidità: “Ci sono accordi in vigore che sono stati decisi per consentire alla Banca centrale di essere attiva sul fronte monetario, e certamente io non spingo per rimuovere questi accordi”. Alla domanda diretta se sostenesse un nuovo intervento della Bank of England, Osborne ha replicato: “Non avrei potuto dare segnale più chiaro”. Secondo Stephanie Flanders, caporedattrice economica della Bbc, si tratta di “un forte segnale da parte di Osborne. Questi darebbe un sincero benvenuto a un’iniezione di creatività in stile-Posen da parte della Bank of England, per alimentare per esempio i prestiti alle piccole imprese”. Non è un caso che le parole di Osborne siano state pronunciate negli Stati Uniti, dove la Fed è finora intervenuta in maniera più pronunciata a sostegno dell’economia reale. Non solo: in questi giorni, per la prima volta da anni, il Senato di Washington ha organizzato audizioni ad hoc per vederci chiaro nella crisi europea. E i relatori invitati, anche loro, hanno ipotizzato nuove modalità d’intervento della Banca presieduta da Jean-Claude Trichet. Nicolas Véron, economista del Bruegel Institute, ha illustrato alcune simulazioni sull’eventuale partecipazione della Bce al rafforzamento del Fondo salva stati (Efsf): “Ciò potrebbe essere compatibile con il mandato della Bce in base al trattato attuale e avrebbe un impatto nel fermare il contagio sui mercati”. Un discorso simile a quello fatto ai senatori americani da Domenico Lombar- di, senior fellow presso la Brookings Institution: “La possibilità di accedere a una linea di credito della Bce potrebbe, invece, assicurare una possibilità di finanziamento rapida, permettendo all’Efsf di ampliare la propria capacità finanziaria facendo leva su quel finanziamento, e solleverebbe la Bce dal ruolo di prestatore di emergenza, se non addirittura di ultima istanza, un ruolo estraneo al suo mandato originario”. Conversando con il Foglio, anche un economista “classicamente liberale” come Stephen Grenville, docente alla Australian National University, chiosa: “La Bce, preoccupata con i problemi dei debiti sovrani, sembra dimenticare che è stata lei stessa ad aumentare i tassi ancora di recente, a luglio, perché i suoi zeloti dell’inflazione erano più preoccupati della stabilità dei prezzi che di ogni altra cosa”. (mvlp) La rivoluzione copernicana indicata dal banchiere anglosassone stufo dei moralisti Pubblichiamo alcuni stralci dall’intervista ad Adam Posen, membro del board della Bank of England, rilasciata all’edizione on line del Wall Street Journal lo scorso 22 settembre. Lei sostiene che non solo la Banca d’Inghilterra ma anche le altre Banche centrali dei paesi G7 dovrebbero lanciare ulteriori piani di stimolo monetario. Dove sbagliano dunque gli altri istituti? Per prima cosa, nelle Banche centrali si è dibattuto fino all’esasperazione sulle aspettative inflazionistiche. E ci sono molti studi accademici e molti modelli teorici che mostrano come siamo preoccupati dal fatto che le attese inflazionistiche diventino “disancorate”. Ma questa paura è esagerata. Non che non sarebbe grave se le attese inflazionistiche peggiorassero. Ma la probabilità che ciò avvenga nel contesto economico attuale è estremamente bassa. E’ un’importante lezione il fatto che noi di Bank of England e dall’altra parte la Federal Reserve abbiamo messo in atto queste massicce dosi di “quantitative easing” (l’acquisto di titoli di stato da parte delle Banche centrali, ndt), senza che il mercato obbligazionario reagisse come se l’inflazione fosse destinata a schizzare. Secondo, c’è una mentalità diffusa tra banchieri centrali (…) per cui invece che essere troppo lassisti (…) adesso la tendenza generale è passata all’essere troppo ortodossi in questo tipo di situazioni. Uscire da un simile schema cognitivo è difficile, soprattutto perché ci sono molti incentivi a essere sobri e conservatori e prudenti. Ma, avendo passato la mia carriera a confrontare i comportamenti delle Banche centrali, quello che chiedo ai miei colleghi di fare è: guardate, c’è questa mentalità; so che state facendo del vostro meglio, senza pregiudizi, ma dovreste fermarvi un attimo, guardare le cose dall’esterno e comprendere che… questa tendenza non è oggettiva. E’ una tendenza nata dagli errori del passato, quando (i banchieri) non sono stati ab- bastanza prudenti e come risultato si è ottenuto inflazione indesiderata? Si potrebbe affermarlo, anche se è molto difficile trovare un altro banchiere che, a parte l’ex presidente della Fed Arthur Burns negli anni 70, abbia operato in maniera troppo espansiva. Ci sono stati diversi casi in cui le Banche centrali sono state dominate dai politici e hanno preso ordini da loro. Ma le Banche centrali indipendenti, se si guarda alla casistica storica, non l’hanno fatto. Terzo, credo ci sia stata una sincera sottovalutazione della severità degli choc in molti di questi paesi, tra cui gli Stati Uniti, l’Europa e la Gran Bretagna. (Traduzione di Michele Masneri) Tutti gli economisti che spingono per una Francoforte meno ingessata L e ultime critiche (in ordine di tempo) della professione economica alla Banca centrale europea (Bce) sono arrivate la mattina del 23 settembre: sull’European Economics: Political Economy and Public Economics E-Journal, diretto da Marco Da Rin e Francesco Giavazzi della Bocconi, è apparso un severo saggio dell’economista slovacco Dusan Victor Soltes. Nel saggio l’Eurozona è considerata “vittima dei criteri di Maastricht e di come sono stati interpretati dalle istituzioni dell’Unione europea”. L’attacco è frontale: tanto il trattato quanto le interpretazioni sono implicitamente recessioniste. Più specifico un recente saggio diramato dal Center for European Policy Studies (Cepr Discussion Paper No. DP8565). Ne sono autori Florin Ovidiu Bilbiie (Oxford), Ippei Fujiwara del servizio studi della Bank of Japan, e Fabio Piero Ghironi (Boston College). Sulla base di teoremi e algoritmi, lo studio lancia una freccia al cuore della Bce, ovvero all’idea che la politica monetaria europea debba mirare a tenere l’inflazione al di sotto del due per cento l’anno. In questo modo, afferma la ricerca, si ristagna. Severo anche il giudizio di Katja Hillmann dell’Università di Amburgo e di Wolfram Wide dell’Università di Münster, in un saggio in corso di pubblicazione; i due sono sostenitori della moneta unica ma documentano come la Bce non si sia curata dei differenziali di crescita e di inflazione all’interno dell’Eurozona (o è stata incapace di gestirli), innescando crescenti divari nei conti con l’estero degli stati membri e un forte aumento del credito totale interno in alcuni di essi, contribuendo così all’incremento dei debiti sovrani. Su linee non molto differenti due economisti relativamente giovani: Ernesto Crivelli (argentino di origine italiana, ora al Fondo monetario) e Diego Valiante (del Center for European Policy Studies). In uno studio uscito sul Journal of Policy Reform, spiegano che promuovendo bassi tassi d’interesse nell’area, la Bce ha incoraggiato un eccessivo indebitamento pubblico sui mercati dei capitali (specialmente per infrastrutture). Ora, sostiene Valiante in una ricerca sullo stesso tema, la Bce dovrebbe adottare una strategia di “quantitative easing” a sostegno di obiettivi di crescita, in stile Fed americana, compiendo una svolta considerevole rispetto agli ultimi dodici anni. La crisi del debito sovrano, sottolinea poi uno degli estensori del Trattato di Maastricht e degli statuti della Bce, Paul De Grauwe dellUniversità cattolica di Lovanio, ha reso chiaro che i compiti di una Banca centrale non consistono unicamente nel far sì che il tasso d’inflazione sia basso. Per mantenere la stabilità finanziaria l’istituto deve essere il prestatore di ultima istanza per le banche che appartengono al sistema; per la Bce ciò vuol dire essere il prestatore di ultima istanza nel mercato dei titoli pubblici. Il che non implica necessariamente l’emissione di Eurobond, visto che esistono strumenti intermedi che possono essere attivati o ri-attivati: a) acquisti di covered bonds a basso rischio; b) allungare da sei mesi a un anno i propri prestiti alle banche del sistema; c) incoraggiare le Banche centrali nazionali a fare prestiti di emergenza (come già fatto in Irlanda e Grecia) a banche in difficoltà nei loro stati. Certo, mutare gli statuti della Bce per renderli simili a quelli della Federal Reserve vuol dire rinegoziare i trattati, e soprattutto ottenere 17 ratifiche a livello nazionale. Tuttavia, come indicato da tutti questi economisti, c’è spazio per interpretare meglio le regole vigenti e, sotto il profilo formale, possono essere sufficienti nuove delibere del Consiglio. Quando, tra poche settimane, Mario Draghi prenderà le consegne da Jean-Claude Trichet, avrà un bel da fare per correggere il tiro. Giuseppe Pennisi Lo spread filosofico che oggi impedisce alla Bce di attivarsi come la Fed L’ Atlantico si è improvvisamente allargato. E le diverse filosofie che animano la Federal Reserve americana e la Banca centrale europea c’entrano qualcosa. I rappresentanti dell’Amministrazione Obama, anche in questo fine settimana di incontri al vertice dell’economia mondiale che si è appena concluso, hanno insistito con i loro suggerimenti ai leader europei: se non si darà una forte spinta alla ripresa economica, anche immettendo liquidità, i sacrifici imposti ai paesi a rischio produrranno una recessione che metterà in crisi l’euro e la deflagrazione dell’Eurozona coinvolgerà tutti. I leader politici europei, poco disposti ad accettare lezioni dai rappresentanti di un paese dove è esplosa la crisi finanziaria, la pensano diversamente. La ricetta tedesca, ispirata a un’etica razionale kantiana, prevede che ogni paese metta anzitutto in ordine i propri conti. Angela Merkel si rende conto che la moneta unica rischia grosso, e con essa tutto il processo di integrazione europea, ma sa che i suoi compatrioti non vogliono paga- re i debiti degli stati spendaccioni. La questione è se questi stati riusciranno a riequilibrare i conti prima di cadere in una profonda recessione. Il conseguimento del pareggio di bilancio, infatti, non è di per sé garanzia di ripresa economica. Dietro le posizioni di Washington e di Berlino, ci sono però le posizioni della Fed e della Bce, cioè di due mondi bancario-finanziari che si ispirano a visioni diverse. Gli americani puntano sulla ripresa da finanziare con l’immissione di tutta la liquidità necessaria (creazione di moneta); gli europei privilegiano invece il risanamento dei conti pubblici. Non si tratta solo di culture e scelte personali, ma l’espressione delle divergenti filosofie economiche e sociali che sono alla base della Fed e della Bce quali sono sancite nei rispettivi statuti. Lo statuto della Fed, sinteticamente definito Federal Reserve Act, fu promulgato dal presidente Woodrow Wilson il 23 dicembre 1913, ma l’intestazione completa recita: “Legge istitutiva di banche federali di riserva per fornire una adeguata mas- sa monetaria (“an elastic currency”) per consentire mezzi di risconto di titoli commerciali, stabilire una più efficace supervisione dell’attività bancaria negli Stati Uniti, e altri scopi”. Negli anni 70, alcuni emendamenti (Section 2A) specificarono gli obiettivi di promuovere in modo efficace “la massima occupazione, la stabilità dei prezzi, e tassi d’interesse moderati sul lungo termine”, operando sugli aggregati monetari. Il cuore della missione statutaria della Fed consiste dunque nel mettere a disposizione del sistema economico la liquidità necessaria per sostenere la produzione e l’occupazione. In poche parole: lo sviluppo prima di tutto. Ben diverso l’obiettivo prioritario della Bce che, in base allo statuto approvato il 1° giugno 1998, “è il mantenimento della stabilità dei prezzi”. A questo sono subordinati tutti gli altri. Finora la Bce, sotto prevalente influenza tedesca, ha osservato scrupolosamente questa direttiva, sacrificando lo sviluppo alla lotta contro l’inflazione. Da qui il geloso esercizio del suo “diritto esclusivo di autorizzare l’emissione di banconote all’interno dell’area dell’euro” (articolo 2 del trattato di Maastricht del 7 febbraio 1992). Ciò spiega la riluttanza a intervenire per salvare la Grecia, le dimissioni di Jürgen Stark dalla Bce e la posizione del presidente della Bundesbank, contrari entrambi all’acquisto di titoli di stato da parte della Bce. Ma quanto a lungo i mercati attenderanno i banchieri centrali, soprattutto quelli di Francoforte? Il vertice del 15 settembre tra Bce, Fed e banche centrali del Giappone, del Regno Unito e della Svizzera, per finanziare le banche europee carenti di dollari, è stato un segnale importante della volontà dei detentori del potere di creare denaro di prendere in mano la situazione, e in subordine di rilanciare il ruolo del dollaro. A spese di leader politici titubanti e sulla difensiva. Progetto ambizioso, purché le filosofie economiche trovino una base d’intesa. Altrimenti vinceranno i più forti. Alessandro Corneli Milano. Non è difficile come l’accesso di un ricco nel regno dei cieli, così come risulta dal Vangelo. Ma la lunga marcia del miliardario Liang Wengen verso la Città proibita del Partito che predicò la dittatura del proletariato, non è stata comunque facile. Del resto il fatto che il molto onorevole Liang, calli da operaio e laurea in Ingegneria, il più ricco tra i miliardari della Cina rossa secondo il censimento di Forbes, sia destinato a entrare nel prossimo Comitato centrale del Partito comunista ha destato comunque scalpore, dentro e fuori i confini dell’ex impero celeste. Certo, nel massimo organismo dirigente del Pcc già figurano alcuni manager di prima fila: il ceo della Haier, Zhang Ruimin, per esempio, o il presidente della Sinopec Li Yi, il braccio operativo della strategia cinese di espansione sul fronte del petrolio. Ma si tratta di boiardi di stato, di dirigenti di aziende pubbliche in cui il controllo fa capo allo stesso partito. Altra è la posizione di Liang Wengen, imprenditore di successo, simbolo suo malgrado del ceto dei nuovi ricchi che prenotano l’acquisto di yacht di lusso e sfrecciano per le strade di Shangai in Ferrari o Lamborghini, in un paese dove il reddito medio non arriva ancora a 4 mila dollari l’anno. La lunga marcia di Wengen, amministratore delegato e primo azionista della Sany, colosso delle macchine industriali per l’edilizia creato dal nulla, è iniziata almeno otto anni fa, quando la sua azienda ha avuto l’onore della visita del presidente Hu Jintao in persona. Da allora Liang Wengen, 57 anni, figlio di povera gente delle montagne di Lianyuan nello Hunan, proprietario di una fortuna che Forbes valuta in 9,3 miliardi di dollari, ha interpretato senza una sola macchia la strada del miliardario modello oriente rosso: sobrio nei consumi, il primo a tagliarsi lo stipendio a un solo yuan nella crisi del 2008; umile e ben attento a non mostrare segni di impazienza nella sua lenta avanzata nella nomenclatura. Perché Liang figura tra i partecipanti agli ultimi tre congressi del National People’s Congress, l’assemblea oceanica che accoglie i 3 mila delegati in arrivo da ogni angolo della Cina. Qui, la primavera scorsa, Liang è stato bene attento ad ascoltare ma a non apparire sui vari media occidentali che, con una certa curiosità, hanno registrato la presenza di una pattuglia di super ricchi nell’assemblea dominata ancor oggi da contadini e operai. Ora, la prudenza ha premiato questo ex ragazzo di umili origini che ha studiato grazie ai cesti di bambù che la madre fabbricava la sera, dopo una giornata trascorsa nei campi. Ma forse la spinta decisiva alla nomina del primo capitalista nel Comitato centrale l’ha data un’operazione che ha riempito d’orgoglio tutta la Cina. E’ stata la Sany a montare, a tempi da primato, l’enorme estintore che già dal 31 marzo scorso ha spruzzato d’acqua la centrale giapponese di Fukushima. Nel giro di otto giorni, si legge sul sito dell’azienda di Dangshan che occupa 60 mila addetti, la Sany è stata in grado di allestire una spedizione di 62 jumbo camion in grado di sparare l’acqua sufficiente a raffreddare il reattore nucleare dei superbi eredi dei samurai che hanno seminato morte e violenza a Nanchino negli anni Trenta. E’ una medaglia che, agli occhi della seconda potenza economica del pianeta, merita un lasciapassare verso l’Olimpo rosso per Wengen. Altri ultra ricchi però si danno alla macchia Una medaglia dall’indubbio significato politico: Liang Wengen entrerà nel Comitato centrale che è chiamato a guidare il prossimo piano quinquennale che dovrà pilotare la Cina verso lo svuiluppo “sostenibile”, meno dipendente dall’export, con l’obiettivo di far uscire dall’orbita della povertà centinaia di milioni di connazionali. Uno sforzo che richiede anche il contributo di un signore che ha creato filiali negli Stati Uniti, in Africa e che ha costruito la torre più alta di Berlino. Anche se non tutti sono d’accordo. Fan Jinggang, animatore di un gruppo di sinistra di Pechino, che si richiama al nome di Utopia, ha subito fatto sapere via Internet che “questa scelta dimostra che la società borghese sta intaccando dalle fondamenta il nostro stato socialista”. E’ una voce all’apparenza minoritaria, cui s’oppone l’élite riformista, rappresentata dal sociologo Pu Xingzu che a Time Weekly dice che “finalmente gli imprenditori potranno portare anche in sede politica il contributo che meritano”. Dietro queste dichiarazioni c’è, comunque, un disagio latente, quello che ha convinto un numero discreto di miliardari a “sparire nell’ombra per paura di rappresaglie”. Paura giustificata, se è vero che dal 2003 a oggi – scrive il China Daily – sono morti in Cina 65 miliardari, tra assassinati e suicidi. Ugo Bertone