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RASSEGNA STAMPA giovedì 10 aprile 2014 ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE SOCIETA’ BENI COMUNI/AMBIENTE INFORMAZIONE CULTURA E SCUOLA INTERESSE ASSOCIAZIONE ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO L’UNITÀ AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT IL SALVAGENTE INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da il Mattino.it del 09/04/14 Ciak, gli studenti girano: ecco Filmap, nuovo centro di produzione a Ponticelli Un progetto che nasce come risposta emergenziale ai vuoti istituzionali, culturali, sociali, familiari della periferia est di Napoli. FILMaP è un centro di formazione e produzione cinematografica che nasce a Ponticelli nella masseria Morabito, sede storica di Arci Movie, quale esito di un lavoro culturale e sociale che l’associazione svolge da 25 anni sul vasto territorio della periferia orientale di Napoli. Arci Movie, nata nel 1990 per scongiurare la chiusura del cinema Pierrot, unica sala della zona orientale di Napoli, ha da sempre caratterizzato la sua azione di promozione sociale e culturale con cineforum, rassegne, arene estive, attività educative e formative. In particolare, i laboratori di cinema realizzati con i giovani e le scuole hanno incontrato da sempre una straordinaria partecipazione. Da qui l’idea di un cinema leggero, promosso con la cooperativa Parallelo 41 Produzioni, realizzato con costi bassissimi, tecnologie digitali, troupe ridotte, location di strada, attori e talenti provenienti dalla realtà al fine di creare film scritti e diretti da ragazzi, coinvolti in prima persona in un ampio processo che, attraverso la dimensione del lavoro collettivo, tende a valorizzare le singole competenze. A questa esperienza, nel corso del tempo, si è affiancata la promozione del cinema documentario napoletano e nazionale, particolarmente vivace negli ultimi 15 anni, attraverso AstraDoc - Viaggio nel cinema del reale, rassegna sul documentario d’autore che Arci Movie organizza dal 2009 in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli “Federico II” ed il Coinor, riaprendo le porte dello storico Cinema Academy Astra di Napoli. Giunta alla sua V edizione, Astradoc è oggi per il pubblico napoletano e per i documentaristi italiani un appuntamento importante ed un’apprezzata occasione di promozione delle loro opere. Di questo percorso educativo, formativo, produttivo e di difussione, FILMaP è il naturale sviluppo, prevedendo tre diverse attività: Movielab – Laboratori gratuiti di cinema per bambini e ragazzi dai 10 ai 18 anni condotti da filmmakers napoletani, con oltre 200 partecipanti, 60 ore di didattica per ogni modulo, circa 40 scuole coinvolte e 20 cortometraggi da realizzare. I laboratori, concordati con le scuole e con il sostegno dei dirigenti scolastici e degli insegnanti, prevedono un’alfabetizzazione al linguaggio cinematografico unita ad esercitazioni pratiche di ripresa e di montaggio. Durante lo svolgimento di ogni laboratorio, sotto la guida di docenti esperti, i ragazzi lavorano allo sviluppo di soggetti per la realizzazione di cortometraggi, di cui saranno protagonisti. I film realizzati saranno poi distribuiti attraverso i canali dei festival di riferimento. Tra i filmmakers coinvolti al momento, Lorenzo Cioffi, Claudio D'Avascio, Antonio Manco, Sebastiano Mazzillo e Marcello Sannino. Atelier di Cinema del Reale – Percorsi gratuiti di formazione e produzione cinematografica per giovani dai 18 ai 28 anni, in un arco temporale che andrà da settembre 2014 a luglio 2015, articolati in 4 moduli con il coordinamento scientifico del regista Leonardo Di Costanzo, riservato a 16 partecipanti selezionati con bando pubblico. Previste 400 ore di full immersion formativa per un totale di 10 settimane con incontri giornalieri di 8 ore per 5 giorni a settimana; 22 giornate di master class con professionisti ed eccellenze del mondo del cinema; 10 settimane per l’elaborazione dei film; 200 ore di stage da svolgersi presso i partner di produzione cinematografica del progetto; 20 film 2 documentari da realizzare con i partecipanti che saranno registi, operatori, montatori, tecnici del suono. Il percorso formativo, orientato al cinema documentario e condotto da Leonardo Di Costanzo, sarà per i giovani partecipanti una reale occasione di esperienza formativa, creativa e professionale da affrontare, con esperti dei vari settori, in tutte le sue parti, dall’ideazione di un soggetto fino al montaggio. Al termine di questa prima fase ognuno dei partecipanti realizzerà un cortometraggio documentario. I partner produttivi, dopo la fase di formazione, seguiranno il percorso di sviluppo e realizzazione di 4 lungometraggi documentari con 4 troupe formate dai 16 partecipanti e seguite da esperti e tutor con professionalità riconosciute. L’Atelier si concluderà con una presentazione pubblica di tutte le opere realizzate, che, grazie al coinvolgimento di partner distributivi, saranno diffuse attraverso i circuiti nazionali ed internazionali dei festival di cinema. Service e produzioni – Punto di riferimento tecnico per la produzione con noleggio di attrezzature e personale specializzato. Il progetto prevede l’acquisto di attrezzature di ripresa e montaggio professionali, che permetteranno di produrre lavori audiovisivi di alta qualità, fino al formato 4k, ed utilizzabili sia per la realizzazione di film documentari che di film di finzione. Grazie alla costituzione di un parco di strumenti tecnici digitali, FILMaP ambisce a diventare un polo culturale di riferimento non solo sul territorio napoletano e campano, ma anche su quello nazionale e internazionale, con il coinvolgimento di partner diversi per competenza e specificità. Quattro sono le società di produzione cinematografica che parteciperanno attivamente: Indigo film, Oscar con La grande bellezza di Paolo Sorrentino; Figli del Bronx, Leone d’Oro come Miglior Opera Prima alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con La-Bas di Guido Lombardi; Parallelo 41 Produzioni, Miglior Opera Prima al Festival Internazionale Cinemà du Reel di Parigi con Il Segreto di Cyop&Kaf; ed infine Teatri Uniti, produttrice del film documentario 394 – Trilogia nel Mondo sulla tournée teatrale mondiale di Toni Servillo. Inoltre, l’associazione Cinema e Diritti, che promuove il Festival del Cinema dei Diritti Umani di Napoli, il Festival Prix Jeunesse di Monaco di Baviera e l’associazione nazionale di cultura cinematografica UCCA (Unione dei Circoli Cinematografici Arci), per garantire una circuitazione delle opere realizzate. Infine, la Mediateca Il Monello di Napoli, con un patrimonio di oltre 7000 film a disposizione gratuita, e numerosi istituti scolastici, interlocutori primari per quanto riguarda lo svolgimento dei laboratori di cinema dedicati ai bambini e ai ragazzi. http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CULTURA/filmap-ponticelli/notizie/623562.shtml Da Redattore Sociale del 09/04/14 Sopravvissuto al massacro di Sabra e Chatila, racconta la sua storia in un libro Nidal Hamad, palestinese sopravvissuto alla strage del 1982 in Libano in cui ha perso una gamba, è stato curato all’Istituto ortopedico Rizzoli, insieme a oltre 50 feriti. Domani presenterà a Bologna la raccolta di racconti “L’alba degli uccelli liberi” BOLOGNA – Nato in un campo profughi in Libano da una famiglia palestinese in fuga dalla Galilea occupata, Nidal Hamad è rimasto ferito durante l’invasione israeliana del 1982. Nel massacro di Sabra e Chatila che provocò migliaia di morti e di feriti, Hamad perse una gamba. Il Comune di Bologna rispose alla richiesta di aiuto da parte di palestinesi e libanesi e ospitò e curò a sue spese oltre cinquanta feriti. Tra di loro c’era 3 anche Hamad, che fu ricoverato all’Istituto ortopedico Rizzoli. Da quell’esperienza è nato il libro di racconti “L’alba degli uccelli liberi”. Scrittore e giornalista, Hamad oggi vive a Oslo dove è presidente della comunità palestinese di Norvegia. Il 10 aprile Nidal Hamad parteciperà a “Dalla Palestina con Bologna nel cuore”, evento promosso da Assopace Palestina Bologna con il circolo Arci e con il patrocinio dell’Istituto ortopedico Rizzoli e della Fondazione Carisbo. “Sarà l’occasione per ricordare quella vicenda e per parlare della situazione attuale in Palestina”, dice Roberto Morgantini di Assopace Palestina Bologna. Nidal Hamad sarà intervistato da Franco Di Giangirolamo. Saranno le parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish, lette dall’attore Fiorenzo Fiorito, ad accompagnare il racconto dell’esperienza bolognese di Nidal Hamad. L’incontro si tiene il 10 aprile alle 18 nella Sala Vasari dell’Istituto Rizzoli (via Pupilli, 1 – ingresso dall’area ospedaliera). 4 ESTERI del 10/04/14, pag. 12 Palestina, Kerry critica lo stop di Israele ai colloqui Gerusalemme decide il blocco dei contatti con l’Anp ● Gli Usa: falliscono i negoziati di pace Umberto De Giovannangeli L’ira statunitense non fa breccia nelle granitiche certezze di Benjamin Netanyahu. Le affermazioni critiche da parte del segretario di Stato John Kerr y sulle ragioni che hanno determinato lo stop ai negoziati di pace con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud Abbas (Abu Mazen) hanno scatenato la reazione del primo ministro dello Stato ebraico. Netanyahu passa alla controffensiva. In una duplice direzione: Washington e Ramallah. Al «moderato» Abu Mazen, Netanyahu imputa di voler scatenare il secondo tempo della sua «intifada diplomatica », minacciando di chiedere di far parte di 15 organismi internazionali legati alle Nazioni Unite. Per i falchi di Gerusalemme si tratta di una provocazione inaccettabile. Ecco allora le contromisure, BRACCIO DI FERRO «Bibi» ordina a tutti i suoi ministri di interrompere qualsiasi relazione, dialogo, negoziazione, con i loro omologhi palestinesi. L’Anp «deve pagare un prezzo alto» per le sue «provocazioni» unilaterali, avverte il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor Lieberman. Da Ramallah si prova a minimizzare ma l’impatto più pesante che l’«ordinanza» di Netanyahu potrebbe avere riguarda la possibilità pressoché una certezza, di uno stop all’erogazione del trasferimento delle tasse raccolte da Israele per conto dell’Autorità palestinese. Si tratta di un a somma che si aggira attorno ai cento milioni di dollari, vitali per pagare gli stipendi a i funzionari e dipendenti pubblici dell’Anp. Non basta, l’intesa mediata nel novembre scorso dal segretario di Stato Usa, faceva sì che Israele s’impegnasse a liberare in quattro fasi 104 palestinesi detenuti prima degli accordi di Oslo del 1993, in cambio della disponibilità palestinese a tenere in sospeso ogni iniziativa di adesione a organizzazioni internazionali fino al termine dei colloqui, il prossimo29 aprile. Ma anche questa mediazione è saltata. Lo scontro è totale. Ed è uno scontro che riguarda non solo i rapporti tra Israele e la leadership palestinese di Abu Mazen, ma anche, e per certi versi soprattutto, i rapporti tra Gerusalemme e Washington. La Casa Bianca non ha nascosto la crescente irritazione del presidente Obama verso l’atteggiamento del governo israeliano, ritenuto «troppo chiuso» rispetto alla necessità di dare segnali concreti all’Anp di disponibilità a trattare, almeno su due punti chiave: il blocco della politica di colonizzazione degli insediamenti nei Territori, e il mantenimento degli impegni assunti sulla liberazione dei detenuti palestinesi. Ora l’eterna partita del negoziato sembra azzerarsi. Il linguaggio che torna a dettar legge è quello della forza. Gli innumerevoli tour diplomatici di Kerry in Terrasanta non hanno prodotto risultati. «La misura è colma», è sbottato nei giorni scorsi Obama. Ma da Gerusalemme, gli «alleati» israeliani non intendono mollare. La destra non ha mai amato Barack Hussein Obama, considerandolo troppo attento alle invocazioni arabe. Eallora se braccio di ferro deve essere, che sia. Via libera ad un piano di costruzione di altre 708 unità abitative a Gerusalemme Est, e un aut aut a Ramallah: chiedere di essere parte di organismi internazionali è per Netanyahu una forzatura politica che rasenta il ricatto. E Israele, ribadiscono fonti vicine al premier, ai ricatti non si è mai chinato. E poco importa se questa «legge non scritta » faccia 5 imbestialire l’amministrazione Obama. D’altra parte, Netanyahu sa di poter contare su una trasversale «lobby israeliana» al Congresso. Quegli «amici », democratici e repubblicani, non tradiranno mai. del 10/04/14, pag. 7 No alla maratona di Palestina, Israele ferma la corsa di al Masri Israele/Territori Occupati. L'atleta assieme ad altri 30 abitanti di Gaza doveva partecipare alla maratona della Palestina in programma domani a Betlemme. Sullo sfondo le restrizioni sempre più rigide che paralizzano lo sport palestinese Benyamin Netanyahu, a fronte della crisi nei negoziati, ha ordinato la sospensione della “cooperazione civile” con l’Anp di Abu Mazen e nuove sanzioni sono attese nei prossimi giorni. Una prospettiva che, forse, preoccupa i dirigenti dell’Anp ma che non spaventa la popolazione palestinese “sanzionata” tutti i giorni dall’occupazione israeliana, in tanti aspetti della vita quotidiana. Incluso lo sport. Domani si corre la Maratona della Palestina — dalla Chiesa della Natività di Betlemme al Muro, passando per i campi profughi di Aida e Deheishe fino al villaggio di Khader — e le autorità israeliane impediranno la partecipazione agli atleti di Gaza. Come nel 2013. Motivo? Per ragioni di “sicurezza”, ma le autorità militari e i giudici dell’Alta Corte israeliana non hanno fornito spiegazioni. Il giudice Daphne Barak-Erez ha detto soltanto che la magistratura non può intervenire sulle decisioni discrezionali del Ministero della Difesa. Tra gli atleti di Gaza bloccati dagli israeliani c’è anche l’olimpionico Nader al-Masri, 34 anni, che vanta una partecipazione a Pechino 2008. Al Masri ha viaggiato non poco in questi ultimi anni, ha preso parte a maratone in vari paesi e ha superato senza problemi le procedure e i rigidi controlli di sicurezza dei giochi olimpici in Cina. Per Israele invece è un “pericolo”, non “idoneo” per la trasferta in Cisgiordania, distante poche decine di chilometri da Gaza. «Mi sono preparato per due mesi alla maratona di Betlemme, sapendo di poter lottare per il primo posto. Per allenarmi ho percorso su e giù i 45 km di lunghezza di Gaza e al momento decisivo Israele mi dice che non posso andare a Betlemme. E senza alcun motivo. Sono solo un atleta, pratico uno sport e non faccio nulla di male», ci dice al Masri che vive a Beit Hanun, a nord di Gaza. «La verità è che (gli israeliani) ci vogliono tenere chiusi in una gabbia, bloccarci dentro Gaza, impedirci di vivere. Eppure non ci arrenderemo, continueremo a chiedere i nostri diritti, anche quello di praticare uno sport», aggiunge al Masri con tono fermo. A nulla è servito il tentativo di far revocare il divieto da parte dell’ong israeliana “Gisha” impegnata a monitorare le violazioni ai valichi tra Israele e i Territori palestinesi occupati. «Nader al-Masri è l’ennesima vittima della politica di separazione e di decisioni arbitrarie che ogni giorno colpiscono decine di migliaia di palestinesi», ha protestato “Gisha”, ricordando che Israele, sulla base degli accordi di Oslo del 1994 deve garantire la partecipazione dei palestinesi alle competizioni sportive. E alle restrizioni israeliane si aggiungono quelle altrettanto pesanti che ha introdotto l’Egitto nei confronti della popolazione di Gaza. Ne sa qualcosa un altro atleta, Bahaa al Farra, compagno di corse di Nader al Masri. Nell’agosto 2012 ha preso parte ai giochi olimpici di Londra, ora è prigioniero a Gaza. Gli egiziani non lo fanno uscire da valico di Rafah, gli israeliani da 6 quello di Erez. Bahaa al Farra spera di gareggiare nelle Olimpiadi del 2016 in Brasile, mancano ancora due anni ma a Gaza pochi credono la situazione cambierà sensibilmente nei prossimi 24 mesi, specie nei rapporti con l’Egitto. La carriera sportiva è sicuramente terminata per Jawhar Nasser, di 19 anni, e Adam Halabiya, di 17 anni. Questi due ragazzini, promesse del football palestinese, non potranno mai più giocare a calcio. Lo scorso 31 gennaio, al termine di un allenamento nello stadio Faisal Husseini di Ram (Gerusalemme), sono stati sparati nei piedi e nelle gambe dai soldati israeliani di guardia a un posto di blocco. Secondo la versione dei militari i due ragazzi avevano cercato di attaccare la loro postazione. Le due vittime ripetono che i soldati hanno sparato loro senza nemmeno lanciargli un avvertimento e sospettano che le forze armate israeliane sapessero bene che erano due calciatori poichè hanno sparato loro appositamente sui piedi. A Jawhar cinque proiettili su un piede e sei sull’altro, ad Adam una pallottola per piede. Una precisione chirurgica. I palestinesi hanno chiesto l’espulsione della Federazione israeliana dalla Fifa. del 10/04/14, pag. 7 Nucleare, a Vienna si volta pagina Iran. Gli Usa bocciano la nomina di Aboulatebi. La guida suprema, Ali Khamenei ha assicurato che l’Iran non rinuncerà mai al suo programma nucleare Giuseppe Acconcia La guida suprema, Ali Khamenei ha assicurato che l’Iran non rinuncerà mai al suo programma nucleare. «Nessuno potrà fermare le conquiste nucleari iraniane», ha aggiunto Khamenei per contenere le polemiche sollevate dai radicali iraniani, contrari all’intesa di Ginevra. Nonostante le parole di Khamenei, l’accordo sul programma nucleare iraniano potrebbe essere a portata di mano. Proprio ieri si è chiuso a Vienna il terzo round negoziale tra autorità iraniane e P5+1 (paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e Germania) per la definizione dell’intesa tecnica che attui l’accordo temporaneo, raggiunto a Ginevra il 24 novembre scorso, mettendo fine a dieci anni di contenzioso con la comunità internazionale. Il prossimo round negoziale si terrà a Vienna il 13 maggio prossimo. Alla fine dei colloqui, Catherine Ashton ha parlato dell’avvio di una nuova fase con la stesura scritta dell’intesa. Secondo l’Alto rappresentante della politica Estera dell’Unione europea, spesso scettica per un raggiungimento di un’intesa definitiva con Tehran, è necessario ancora un «lavoro intenso». Più ottimista è apparso il ministro degli Esteri iraniano, Javad Zarif. «Abbiamo raggiunto un accordo sul 60% della bozza», ha ammesso. I punti controversi dell’accordo riguardano la cancellazione graduale delle sanzioni internazionali contro la Repubblica islamica e il futuro del reattore ad acqua pesante di Arak. I negoziati erano arrivati ad un momento di stallo nei mesi scorsi con l’inasprimento della crisi in Ukraina che ha causato tensioni tra la Russia e gli altri paesi coinvolti nei colloqui. I negoziati di Vienna erano partiti in salita. Proprio ieri, il Senato degli Stati uniti aveva votato all’unanimità contro il gradimento all’ambasciatore iraniano alle Nazioni unite, nominato da Tehran, Hamid Aboutalebi, che aveva preso parte al rapimento di 52 cittadini americani nell’ambasciata Usa a Tehran nel 1979. Aboutalebi ha assicurato in un’intervista di non aver partecipato al rapimento ma di aver solo facilitato il rilascio, intervenendo come 7 traduttore. Dal canto loro, le autorità iraniane hanno definito «inaccettabile» il rifiuto degli Usa di approvare la nomina. Intervenendo sulla vicenda, Khamenei aveva assicurato che non ci potrà mai essere accordo completo fra Iran e Stati uniti. «Il governo Usa fa ricorso alla scusa dei diritti umani», ha aggiunto in un tweet la guida suprema. Il segretario di Stato Usa, John Kerry aveva dichiarato ieri al Congresso che Washington sarebbe pronta a imporre nuove sanzioni nei confronti dell’Iran non solo contro il programma nucleare, ma anche in riferimento alle «violazioni dei diritti umani e al sostegno al terrorismo». A complicare le cose, ieri anche il parlamento europeo aveva duramente criticato le autorità iraniane, definendole non democratiche. Nel testo si punta il dito contro la «violazione permanente e sistematica dei diritti fondamentali» e la necessità che le delegazioni europee incontrino in Iran rappresentanti delle opposizioni politiche. del 10/04/14, pag. 1/31 Se la Turchia è una potenza con l’immunità BARBARA SPINELLI ISTITUITA nel 1949 per unire Europa e America nella guerra fredda, la Nato sta diventando uno strumento spesso pernicioso, che sopravvive nel disorientamento, implicato in conflitti armati fallimentari. Alla sua guida una potenza Usa poco disposta a immettersi in un mondo multipolare, impelagata costantemente in manovre torbide, abituata a suscitare spettri che poi non controlla. ALCUNI Stati membri — Turchia in testa — usano la Nato per dilatare nazionalismi e squilibri regionali senza mai doverne rispondere. Non incarnando più una linea chiara, l’Alleanza andrebbe sciolta e l’idea d’occidente ridiscussa sul serio: nessuno lo fa.È quanto si evince dall’inchiesta, pubblicata ieri nel nostro giornale e come sempre accuratissima, condotta da Seymour Hersh sulla recente crisi siriana. Al centro dell’indagine: la guerra sventata per un pelo contro Damasco, nell’autunno scorso, e la maniera in cui l’amministrazione Usa ha rischiato di cadere in una trappola che si era confezionata con le proprie mani. Una trappola congegnata dal governo Erdogan, in congiunzione con regimi che l’occidente s’ostina a ritenere amici (Arabia Saudita, Qatar) e assecondata agli esordi dallo stesso Obama. Tutti ricordiamo l’incidente che quasi trascinò America e Europa in un’ennesima guerra, nel 2013. All’origine, un micidiale attacco con armi chimiche (il sarin), il 21 agosto nelle periferie di Damasco, che fece centinaia di morti. Fu subito accusato il governo siriano, e Obama dichiarò che la Linea Rossa, da lui fissata il 20 agosto 2012, era stata sorpassata. L’intervento militare fu presentato come ineludibile, e il governo inglese e quello francese assentirono (il ministro Bonino annunciò che l’Italia non avrebbe partecipato, senza un mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu). Come in Iraq, mancavano tuttavia prove evidenti delle colpe di Assad. L’occidente e la Nato sono rapidi a parlare; lenti a comprendere gli intrichi regionali, oltre che a imparare da sbagli passati. Ubriacati dalle rivoluzioni arabe, non avevano calcolato le loro degenerazioni islamiche, bellicose. Avevano spento Gheddafi creando caos, e il disastro minacciava di ripetersi, amplificato, a Damasco. Inutilmente lo spionaggio americano aveva fornito le prove, sin dalla primavera del 2013, che l’esercito siriano non era l’unico a possedere il gas nervino. La Casa Bianca prima ignorò l’avvertimento, poi fu presa dai dubbi, poi cambiò di nuovo idea e presentò l’ipotesi dell’attacco siriano come un fatto incontrovertibile che giustificava la rappresaglia. Proprio come era avvenuto in Iraq, ai 8 tempi di Bush jr. O in occasione dell’incidente del Golfo del Tonchino nel ‘64, quando Johnson s’inventò un’offensiva viet-cong per scatenare bombardamenti del Vietnam del Nord. Hersch constata il barcollare nefasto dell’amministrazione Usa, in Siria. Ingenti quantitativi di gas nervino sono finiti nelle mani del Fronte Al-Nusra, la fazione jihadista presente nel movimento anti-Assad. Tra i principali fornitori c’era Erdogan (tramite l’azienda turca Zirve Export), e le consegne vennero organizzate all’inizio del 2012 in accordo con Arabia Saudita e Qatar, con l’assidua assistenza americana e dei servizi britannici. Si trattava di piegare l’Iran, alleato chiave di Damasco, e a questo scopo Washington consentì a incanalare armi chimiche in provenienza dagli arsenali di Gheddafi in Libia. Quando Washington cominciò a tergiversare, nel 2013, l’asse turco-saudita si diede un obiettivo preciso: «fabbricare» un attacco chimico di vaste proporzioni, attribuirlo a Assad, e mettere nell’angolo Obama stringendolo nella morsa della Linea Rossa. Nell’ultima fase dell’operazione Obama tentò una marcia indietro, cercando di divincolarsi dall’accordo segretamente concluso con i tre «amici» dell’occidente: con la Turchia membro della Nato, e con Arabia Saudita e Qatar. Fu a quel punto che Erdogan, sentendosi abbandonato, ordì l’eccidio del 21 agosto. L’orrore causato dall’uso del sarin nei sobborghi di Damasco avrebbe indotto la Casa Bianca a rientrare nei ranghi e a proclamare infranta la Linea Rossa. Cosa che Obama fece, anche se ancora una volta, alla fine, tornò sui suoi passi: accolse la promessa siriana di smantellare le armi chimiche, accettò la mediazione di Putin, e fermò l’offensiva contro Damasco. C’è qualcosa di marcio in occidente e nella Nato, se un paese membro può impunemente, addirittura tramite carneficine, portare l’Alleanza sul bordo della guerra. Se l’impunità impedisce che la verità venga alla luce: la verità di un’America incapace di imbrigliare le deviazioni violente di propri alleati, e l’uso che vien fatto della Nato come scudo, e come scusa. E c’è del marcio nell’Unione europea, che da anni tratta con Ankara senza mai indagare sulle sue condotte di potenza regionale irresponsabile. Erdogan ha vinto di nuovo le elezioni, il 30 marzo, e subito ha minacciato gli oppositori interni ed esterni senza tema d’esser redarguito: «Chi ha attaccato la Turchia è rimasto deluso, e da domani può essere che qualcuno scapperà. Noi però entreremo nei loro covi, e loro pagheranno il prezzo». Questo significa che nessuna istituzione occidentale — Nato o Unione europea — è in grado di garantire un ordine nel mondo, come pretende. È vero piuttosto il contrario: ambedue stanno divenendo garanti del caos, e di manovre che mal-governano e neppure capiscono. Continuano a considerare Siria e Iran grandi nemici, e non si rendono conto che stanno invischiandosi in un Grande Gioco a fianco di alleati inaffidabili (Turchia, Arabia Saudita, Qatar), il cui primo interesse strategico è regolare i conti con l’Islam sciita. La cosa più inquietante è la volubile incompetenza degli Stati Uniti, nel Grande Gioco. Solo in parte dominano la storia che fanno, divisi tra establishment militare, servizi, ideologi politici. Washington precipita spesso in imboscate di cui si libera a stento (quando si libera, ricade nel vecchio bipolarismo russo-americano). Lo si è visto in Iraq, Afghanistan, Libia. Appena due giorni prima dell’attacco che aveva programmato in Siria Obama chiese l’approvazione del Congresso, e fu il primo segno di un ritiro volontario dall’operazione turco-saudita, opportuno ma umiliante. Lo stesso era successo nell’ormai irrilevante Inghilterra: Cameron s’era già armato di tutto punto, e il 30 agosto 2013 il Parlamento votò contro e lo svestì. L’accumularsi di simili incidenti dovrebbe spingere l’Europa a dotarsi di una comune politica estera e di difesa, che non sia al traino della sempre più fiacca, ingabbiata potenza Usa. Dal 2005 Bruxelles negozia con Ankara, rinviando continuamente l’ingesso nell’Unione, ma la questione decisiva non l’affronta: in Europa non si entra con un’intatta sovranità assoluta, e questo nessuno s’azzarda a dirlo a chi si candida all’adesione 9 (analogo errore fu commesso nell’allargamento a Est). Non si entra neppure senza la memoria dei propri misfatti: nel caso turco, il genocidio degli armeni nel 1915-16. Non è una questione minore, visto che Erdogan non esita a produrre e distribuire nel mondo il gas nervino, e a provocare massacri pur di raggiungere — sotto l’ombrello della Nato — le proprie mire nazionaliste. Il caso siriano e la trappola turco-saudita (originariamente turco-saudita-americana) confermano che l’ordine mondiale non può più essere affidato alla sola e imprevedibile leadership Usa. Il nuovo ordine ha da essere multipolare, e l’Europa dovrà, in esso, conquistarsi un suo spazio. L’attacco occidentale contro la Siria è stato cancellato all’ultimo minuto, ma casi simili possono riprodursi, e che le cose erano marce lo si saprà sempre troppo tardi. Troppo tardi si apprenderà che Occidente è parola piena di strepito, buoni propositi, vista corta, e anche inciviltà. del 10/04/14, pag. 17 L’ultimatum di Kiev ai filorussi 48 ore per risolvere la crisi Ma Putin avverte: «Non fate errori» MOSCA — Il governo di Kiev ha deciso di minacciare il ricorso alle maniere forti per liberare gli edifici pubblici occupati in due città dell’Est, Luhansk e Donetsk. Dentro i palazzi non ci sarebbero ostaggi, come le autorità avevano detto in un primo momento, ma ingenti quantità di armi. «Una soluzione si troverà in ogni caso entro le prossime 48 ore» ha annunciato ieri il ministro dell’Interno. Alcuni degli occupanti, una cinquantina, hanno spontaneamente abbandonato l’impresa, mentre altri hanno rinforzato le difese con filo spinato e bottiglie incendiarie pronte all’uso. «La minoranza che vuole lo scontro avrà una risposta decisa da parte delle autorità ucraine» ha ammonito il ministro. Questo mentre la diplomazia internazionale è al lavoro per organizzare un incontro tra tutte le parti per la settimana prossima. Gli Stati Uniti avevano già annunciato una data, ma il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov frena, perché vuole che al vertice partecipino anche rappresentanti delle regioni in rivolta e che si parli della nuova costituzione che Kiev dovrebbe varare. Sia Lavrov sia il segretario di Stato John Kerry si sono intanto appellati a tutti gli ucraini per evitare il ricorso alla violenza. Ma la tensione non scende, anche perché da tutte le parti continuano ad arrivare dichiarazioni che vengono giudicate provocatorie dagli interlocutori. «Spero che le autorità provvisorie non faranno niente di irreparabile» ha dichiarato per esempio Putin. A Mosca si è parlato delle forniture di gas in una riunione di Vladimir Putin con il governo trasmessa in parte dalle televisioni. Come se la cosa fosse stata orchestrata, ha iniziato il ministro dell’Energia il quale, con aria seria, ha comunicato che gli ucraini «non hanno pagato il debito di 2,2 miliardi di dollari». Poi ha preso la parola l’ex delfino di Putin, Dmitrij Medvedev, che negli anni passati era stato visto come il possibile «democratizzatore». Medvedev, che ora è primo ministro, ha interpretato il classico ruolo del poliziotto cattivo dei telefilm. «Veramente, ha esordito, il debito complessivo è di 16,6 miliardi. Perché il gas non pagato ammonta a 2,2; poi ci sono i 3 miliardi del mutuo; quindi 11,4 miliardi di anticipo di sconto e di mancato profitto per la Russia». Questo, dunque, calcolando la prima fetta dell’accordo da 15 miliardi che aveva spinto l’ex presidente ucraino ad allontanare il suo Paese dall’Europa. E con un curioso ragionamento sull’annessione della 10 Crimea: visto che ora la base della marina russa a Sebastopoli non è più in territorio ucraino, salta l’intesa sull’affitto e quindi Kiev deve restituire tutti i soldi incassati dall’inizio. Putin ha quindi riassunto la situazione: «Dunque Gazprom fornirà solo il gas pagato con un mese di anticipo». E, da bravo padre di famiglia, ha proposto la sua mediazione: «Chiederei al governo e a Gazprom per ora di astenersi dall’applicare queste norme previste dal contratto. In attesa di consultazioni con i partner». Naturalmente se la controparte si comporterà bene. Cioè come vuole il Cremlino. Fabrizio Dragosei del 10/04/14, pag. 18 Fra gli eredi di Stakhanov in rivolta. “Quelli di Kiev non ci fanno paura, siamo pronti a combattere” Ultimatum ai filo-russi per sgomberare i palazzi governativi. Mosca: “Pagate il gas in anticipo” Nelle miniere di Donetsk “La Madre Russia è il nostro destino” NICOLA LOMBARDOZZI DAL NOSTRO INVIATO GORLOVKA (UCRAINA) L’ULTIMA boccata d’aria prima di scomparire a più di un chilometro sottoterra, sa di uova marce e di un fumo tanto denso da poterlo masticare. È un regalo delle decrepite e sforacchiate ciminiere del vicino impianto chimico per tutti i mille e duecento minatori della Gaevogo, orgoglio della produzione carbonifera del Donbass e anima della rivolta che sta spezzando in due l’Ucraina. Fazzoletto sul volto, occhi lucidi, tosse profonda, Yurij, biondo e muscoloso quarantenne, si guarda intorno e prova a mostrarsi sicuro di sé: «Ancora pensate che a gente come noi possano fare paura la polizia ucraina o quegli sciacalli di Kiev? Vogliono attaccarci? Ci hanno dato un ultimatum di 48 ore per sgomberare i palazzi governativi? Peggio per loro». Da giorni, da quando è cominciata la protesta dei filo russi in tutta l’Ucraina dell’Est, Yurij si fa ogni giorno i suoi turni di sei ore in fondo al pozzo. Scava, il più possibile perché il salario (in media di 900 euro) è legato alla produzione e perché in giornate come queste basta qualche minuto di ritardo per rischiare il licenziamento da parte dell’azienda statale ucraina che dirige le miniere. Poi torna a casa, nella sua baracca con il tetto di lamiera, e un orto devastato da una polvere grigiastra che impregna tutta la campagna. Un paio di ore di riposo e poi un altro turno questa volta volontario. Insieme alla moglie Irina, sulla piccola Lada rossa comprata a rate, Yurij attraversa 45 chilometri di campagne incolte, capannoni industriali e case popolari sovietiche per montare la guardia, con tanti altri colleghi, alla sede degli uffici regionali del capoluogo Donetsk occupati dai russi che vogliono l’indipendenza da Kiev. O almeno una autonomia tale da garantire loro «sopravvivenza e dignità» come ripetono nelle innumerevoli discussioni che si fanno a tutte le ore a Mariupol, Artemivsk, Sloviansk e in tutta la valle satura di carbone del fiume Donec. Strani tipi di lavoratori questi minatori del Donbass. Aria dimessa, poche chiacchiere, una sorta di rassegnazione allo sfascio delle strutture, alla povertà dei salari, alla spaventosa insicurezza degli impianti che tra esplosioni e fughe di gas avrebbero fatto quasi 11 cinquemila morti in vent’anni. Ma quando si tratta di politica interna, degli equilibri tra minoranze, e dell’orgoglio russo, cambia tutto. Il dibattito si fa intenso, la partecipazione totale. Te ne accorgi proprio all’ingresso della Gaevogo. Sul piazzale attraversato dai binari e delineato da quattro monumentali palazzi in stile sovietico. I minatori entrano da questi giganteschi portoni neoclassici più adatti a un ufficio che a una miniera di carbone. Anche all’interno l’effetto è più ministeriale che industriale: un grande atrio con lucernario, bandiere, busti di autorità dimenticate. E gli immancabili pannelli fotografici con immagini ingiallite di personaggi sorridenti con le grigie giacche sovietiche ricolme di medaglie. Sembrano antichi esponenti del Politburo o cosmonauti degli anni Sessanta. Sono invece minatori pluripremiati negli anni per i loro record di estrazione. Seguaci del conterraneo Stakhanov entrato nella storia, e in tutti i vocabolari del Pianeta, nel lontano 1935. Prima di attraversare tutto l’atrio, accedere agli spogliatoi, alle docce e, finalmente, «all’ascensore per l’inferno», ci si ferma nell’ufficio della propria sezione a fare il punto. È qui che il dibattito raggiunge il top. Dalla porta aperta della sezione numero 17 si sentono parole forti. Si commenta il rialzo, quasi il raddoppio, del prezzo del gas all’Ucraina e la decisione di Mosca di imporre il pagamento con un mese di anticipo delle forniture: «Kiev non può permetterselo, non ha vie d’uscita. Qualche mese ancora e poi l’economia ucraina finirà a pezzi». Il capo sezione Sergej, 52 anni, riceve nel suo ufficio in perfetto stile sovietico tra targhe di bronzo, mobili dozzinali e incredibili tendine rosa con ricami floreali. Parla come un soldato: «Credo che il conflitto armato sia molto probabile. E sono pronto. Ho combattuto in Nagorno Karabakh con l’Armata Rossa, posso tornare a farlo per il mio Paese». E spiega le ragioni dei russi: «Mio padre venne qui per guadagnare, come adesso si va in Siberia a lavorare nei pozzi di petrolio. Incontrò mia madre e sono nato io. Non voglio la guerra. Mi accontento di una repubblica federale che consenta alla nostra regione di continuare i commerci con la Russia. L’Europa non sa che farne del nostro carbone né dei nostri metalli. Chiudere tutto questo porterebbe al caos totale». Razionali, forse meglio informati sulle strategie di Mosca, i minatori non si lanciano come altri manifestanti in desideri apparentemente impossibili come l’annessione alla Russia o la divisione in due del Paese. «Il federalismo ci basta. Certo invidiamo la Crimea, sappiamo che in Russia guadagneremmo di più, ma non vogliamo rompere con l’Ucraina. Vogliamo solo convincere Kiev a prenderci sul serio». Salvo reagire in caso di azioni di forza della polizia. Ma con quali armi? Con quale organizzazione militare? Sergej si illumina in un sorriso marziale: «Di questo, per il momento, non è ancora il caso di parlare. Speriamo ». del 10/04/14, pag. 13 L’India va alle urne Trema la dinastia Gandhi Gabriel Bertinetto Ieri è toccato a Nagaland, Manipur, Arunachal Pradesh e Meghalaya, tutti Stati del nordest, come l’Assam e il Tripura che erano già andati alle urne lunedì. Domani sarà il turno del Mizoram. E poi, a scaglioni, altri seggi apriranno il 12, 17, 24, 30 aprile, e ancora il 7 e 12 maggio. Così si svolgono le elezioni in India. Non è una novità. È piuttosto una necessità, imposta dai tempi che servono a ridislocare esercito e polizia da un parte all’altra dell’immenso territorio per garantire ovunque condizioni di voto sufficientemente 12 sicure. Ci vorrà dunque ancora più di un mese per sapere se i nazionalisti del Bharatiya Janata (Bjp) subentreranno al Congresso nel governo del Paese. Così prevedono i sondaggi, che in India però sbagliano sovente. L’esito delle parlamentari tra l’altro questa volta interessa in maniera particolare l’Italia, perché influirà sulla vicenda dei due marò nostri connazionali che sono trattenuti a Delhi per l’uccisione di due pescatori scambiati per pirati del mare. Chiunque prevalga, la sorte di Massimiliano Latorre e Salvatore Girone, sarà finalmente svincolata dagli opportunismi elettoralistici che hanno probabilmente condizionato finora le scelte e le non scelte delle autorità locali nei loro confronti. INCUBO CORRUZIONE Campagna elettorale come sempre caldissima in India. Polemiche, scambi di accuse. E un tema al centro dell’interesse nazionale: la corruzione. Tutti promettono di sradicarla, ma qualcuno fa più fatica a essere convincente, ed è il partito del Congresso. Che ha governato da solo o con altri per 54 anni dei 67 trascorsi dall’indipendenza. Devastanti per la sua immagine gli ultimi quattro anni in cui la rabbia popolare per le mille piccole e grandi tangentopoli è esplosa. Diventando movimento d’opinione, mobilitazione di massa, e infine organizzazione politica. Fra i partiti in gara infatti, l’Aam Aadmi Party (letteralmente il Partito dell’Uomo Comune) di Arvind Kejriwal chiama i cittadini a raccolta intorno a un unico obiettivo: punire severamente i corrotti e spezzare il legame che secondo loro tiene strettamente avvinghiati gli uni agli altri i leader dei partiti tradizionali, buona parte del mondo degli affari e la grande stampa. Quattro mesi fa Kejriwal fra la sorpresa generale ha conquistato la maggioranza relativa nelle elezioni locali a Delhi, la capitale. E ha subito sperimentato quanto fosse difficile mettere in atto i suoi propositi riformatori, incontrando l’opposizione di tutte le altre formazioni politiche contro il progetto di nominare una figura indipendente che indagasse su amministratori pubblici e affaristi privati accusati di reati contro il patrimonio statale. Dopo 49 giorni ha gettato la spugna rinunciando alla carica di governatore. La sua popolarità da allora è però andata aumentando. Ecco perché molti analisti vedono nell’Aam Aadmi una forza in grado di sconvolgere l’equilibrio bipolare imperniato sul Congresso e sul Bjp. Quest’ultimo partito, se i pronostici saranno rispettati, conquisterà la maggioranza relativa dei seggi. Per formare un governo avrà però bisogno di stringere alleanze con qualcuno degli undici partiti regionali, che al momento sono coalizzati fra loro, ma come è spesso accaduto in passato, si muoveranno poi in ordine sparso a elezioni concluse. Qualcuno schierandosi all’opposizione, altri saltando sul carro del vincitore. Il potere condizionante delle forze regionaliste è parte integrante della fisiologia politica indiana, quasi una regola del gioco. In questo contesto il probabile successo del partito anti- corruzione potrebbe inserire un elemento di disturbo rilevante, anche perché Kejriwal ha detto di non volersi alleare con nessuno. Il suo attacco alla mercificazione della politica investe il Bjp non meno del Congresso. Se quest’ultimo si affida stavolta a Raul Gandhi, figlio dell’italiana Sonia Maino, orfano dell’ex-premier Rajiv e nipote della celebre Indira, il Bjp ha come leader Narendra Modi, figura particolarmente controversa. Nel suo curriculum sono i successi economici realizzati come premier del Gujarat, ma anche l’appoggio ai movimenti estremisti indù. Il Bharatiya Janata (Bjp) ha sempre fatto dell’Hindutva («Identità Indù ») il suo cavallo di battaglia ideologico. L’orientamento pro-business in materia economica si abbina a un populismo di stampo religioso ed etnico. Modi si è distinto più di altri nel suo partito per il sostegno alle campagne anti-islamiche di gruppi oltranzisti e violenti. Benché nei comizi delle ultime settimane abbia tentato di mettere la sordina a un certo tipo di invettive, nessuno dimentica la frase con cui solo pochi mesi fa commentò gli scontri fra estremisti di diversa appartenenza politico-religiosa in cui alcuni musulmani erano rimasti uccisi: «Non soffro più di quanto non mi addolori la morte di un cane investito da un’auto». 13 INTERNI del 10/04/14, pag. 4 Europee, la cavalleria rusticana Pd Daniela Preziosi Democrack/Europee. Renzi: donne capolista, ma esplode il caso Sicilia. L’escluso accusa: vendetta mafiosa. Duello Crocetta-Raciti. Il premier fa lo show e la pace con le donne. Ma non riesce a oscurare la guerriglia. I pugliesi chiedono il ritiro di Emiliano. Soru vuole garanzie Ormai la direzione ha il format di uno show, il suo show in diretta streaming. Matteo Renzi apre la riunione metà torrente impetuoso metà rullo compressore: gag, battute, scherzi. Saluta il ritorno Dario Franceschini che si è «ripreso dal coccolone», «faccia una vita meno spericolata, meno inciuci e trattative». Ironico, persino autoronico. Lo schema è lo stesso delle conferenze stampa a Palazzo Chigi: lui ci mette la faccia (e fa lo spot), i suoi uomini (e donne) si smazzano i contenuti. Ieri all’ordine del giorno c’erano le liste per le europee. Parto difficile, dopo mesi — anni in alcuni casi — di travagli, lavorii e logorii interni. Renzi fa l’annuncio che colpirà l’opinione pubblica e gli fa fare pace con le donne del suo partito: a volte, dice, è stato «eccessivo il tono di alcuni e alcune sulla parità di genere in legge elettorale». Di cui lui, ammette, non è «un pasdaran». Il calumet è avere tutte donne capolista, «non come bandierine, ma come persone che per esperienza, storia personale e lavoro fatto possano dare un contributo all’Europa». Le prescelte sono cinque, una per circoscrizione ma anche una per corrente: la lettiana poi renziana Alessia Mosca nel nord ovest; la bersaniana con qualche sbandamento Alessandra Moretti nel nord est, la renziana doc Simona Bonafè al centro, la franceschiniana Pina Picierno al sud e la siciliana Caterina Chinnici per le isole, figlia del magistrato ucciso dalla mafia e già assessora della giunta Lombardo. Renzi chiude in fretta pregando i suoi di glissare su quello che bolle in parlamento: ddl costituzionale, decreto Poletti, Italicum. «Abbiamo un pluralità di questioni aperte, se le affrontiamo tutte non reggiamo la discussione di oggi: nei prossimi 50 giorni darei priorità alla campagna elettorale. Capisco le discussioni, le polemiche, le posizioni diverse ma siamo ad un passo da una campagna elettorale importante». Preoccupazione superflua. Da giorni le opposizione interne hanno messo la sordina alle polemiche (al netto dei 22 senatori dissidenti e di Fassina sul Def). La tregua è dovuta alla consapevolezza che un’affermazione del Pd alle europee è la precondizione per tutto, anche per le trattative interne. Ma soprattutto da giorni tutte le correnti sono impegnate nella delicata partita delle liste. Sotto i nomi noti come Sergio Cofferati e Paolo De Castro, riconfermati, e il recupero dell’ex ministra Cecile Kyenge, cova la brace. Renzi passa la palla a Lorenzo Guerini, il vicesegretario di saggezza democristiana nominato apposta per governare la guerriglia interna. Che esplode subito, mentre il premier si eclissa. I romani, reduci dalle risse della propria federazione (nel centro corrono i big Sassoli, Gualtieri, Silvia Costa, Bettini, Domenici) incrociano i ferri sul «poco rinnovamento». Altro capitolo: la direzione concede la deroga ai tre mandati solo a Gianni Pittella, candidato alle primarie poi schieratosi con Renzi. Stavolta a spaccarsi è nientemeno che la commissione di garanzia: per Aurelio Mancuso a norma di statuto manca il quorum, il presidente Franco Marini lo invita a soprassedere sulle regole. In diretta streaming. Ma sono bazzecole in confronto alla cavalleria rusticana che va in scena sul caso Sicilia. Il governatore Crocetta ha appena rimpastato la sua giunta d’accordo con il renziano 14 Faraone, e facendo invece imbufalire Fausto Raciti, segretario regionale e giovane turco (ma eletto con un accordone interno bipartisan). Crocetta si materializza, i due si attaccano in più round. Il segretario vuole capolista l’ex assessora Chinnici, il presidente la sindaca di Lampedusa Giusy Nicolini, che inveve finisce al terzo posto. Crocetta non ottiene neanche il posto per Beppe Lumia e lamenta un attacco all’antimafia. Raciti però deve rinunciare a Antonello Cracolici, che nelle liste varate dall’assemblea regionale c’era. Al suo posto a Roma hanno messo proprio lui, che prova a ritirarsi a favore dell’escluso. Fra i nomi siciliani ci sono altre perle: come Marco Zambuto, ex Udc, cuffariano, poi forzista, infine passato nelle truppe renziane. Guerini invita alla calma, e in cambio dell’approvazione si impegna a un confronto con i vertici siciliani. Cracolici va giù pesante: «Una vendetta trasversale tipicamente mafiosa dal duo Crocetta-Faraone». Nella circoscrizione isole i guai non sono finiti.L’ex governatore sardo Renato Soru, candidato, vuole garanzie: la Sardegna ha meno abitanti e di solito non elegge eurodeputati. Al Sud non c’è pace: la segreteria pugliese, saputo che Michele Emiliano nonè capolista, gli chiede di ritirarsi. E dedicarsi da subito alle regionali di marzo. Dove il dopo-Vendola già divide il Pd. Neanche a dirlo. del 10/04/14, pag. 8 Tav, il sì del Senato dopo la battaglia IN AULA LA PROTESTA DEI 5 STELLE CONTRO “IL TUNNEL DELLE MAFIE”. PD E FI: “FASCISTI ”. RISCHIO SANZIONI PER I GRILLINI di Luca De Carolis Un’arena chiamata Senato. Con i Cinque Stelle a urlare senza sosta contro “il tunnel delle mafie” e gli altri a rispondere con un grande classico, “fascisti”. Cronaca di una mattinata a Palazzo Madama: trascorsa sempre a un passo dalla rissa, terminata con il via libera alla Tav, la linea ad alta velocità Torino-Lione. Alla ratifica dell’accordo Italia-Francia sul corridoio ferroviario hanno detto sì in 173, a fronte di 50 contrari e 4 astenuti. I numeri dopo la battaglia. I 5 Stelle hanno fatto di tutto per fermare un accordo di cui da settimane denunciano i rischi. Il principale pericolo, secondo M5S, è l’in - filtrazione della malavita nei lavori, una torta da 2,8 miliardi in 12 anni. Marco Scibona lo ha ricordato in aula: “All’accordo del 2012 non si applica il codice nazionale antimafia, perché agli appalti e subappalti in territorio italiano verrà applicata solo la normativa francese, come recita l’articolo 6.5 comma 2”. M5S protesta anche per “la cessione di sovranità alla Francia, così non decidiamo in casa nostra”. LA GIORNATA parte con la discussione generale. I primi scossoni arrivano dal delegato d’aula di M5S, Vito Petrocelli, che incrocia il fioretto sul regolamento con la vicepresidente d’aula, Valeria Fedeli. Il presidente Pietro Grasso non c’è: un’assenza che colpisce molti. E allora tocca alla senatrice del Pd. M5S ha presentato 1.100 emendamenti, i suoi senatori si sono iscritti in massa a parlare. Ma in aula si va veloci. Il capogruppo grillino Santangelo (uscente, il nuovo è Maurizio Buccarella) si sbraccia presto. Carlo Martelli: “La Tav costerà 700 milioni all’anno per 12 treni al giorno”. Dice no anche Maurizio Rossi (Popolari per l’Italia): “Le priorità sono altre”. Stefano Esposito (Pd) difende la linea: “Il corridoio ci consentirà di essere parte del grande progetto di miglioramento dell’ambiente e di abbassamento del Co2”. Alla presidenza si siede Linda Lanzillotta (Sc). I 5 Stelle indossano fazzoletti No Tav, cantano in coro battendo sui banchi: “Fuori la mafia dello 15 Stato”. I commessi accorrono, da sinistra arrivano le prime urla contro “i fascisti”. Lanzillotta si sgola a vuoto. Il grillino Alberto Airola, piemontese, grida senza fermarsi: “Vergognate - vi”. La parola va al leghista Giacomo Stucchi, e sono subito insulti a distanza con il 5 Stelle Andrea Cioffi. L’aula diventa una curva. Gian Marco Centinaio (Lega) se la prende con un’imprecisata grillina: “Stai zitta scimmia”. Dalle tribune una scolaresca guarda atterrita. Santangelo: “Presidente ci stanno dando dei fascisti, intervenga”. Lanzillotta sospende la seduta. Dieci minuti, e si riparte. I 5 Stelle mostrano banconote finte, accusano: “Mafiosi”. Massimo Cervellini (Sel) prova a intervenire, contro la Tav. Ma il frastuono dai banchi di M5S è assordante. Prende atto: “Non ci permettete di parlare”. Un suo collega mostra il pugno chiuso. Lanzillotta monita: “Non si può impedire al Senato di lavorare. Informerò l’ufficio di presidenza, verrà chiesto di valutare sanzioni”. I leghisti inferiscono: “Presidente, la sua gestione è oscena”. Petrocelli twitta: “Sono mafiosi, tutti i pro Tav”. Tocca al dem Borioli. Parla circondato dai democratici, come fossero un cordone di protezione. Interviene la civatiana Laura Puppato, in dissenso dai suoi. Esposito non gradisce. “Vai con loro” le urla, indicando i grillini. Luigi Zanda la fissa, severo. Si vota. L’accordo passa, la tensione continua. Airola e Franco Cardiello (Forza Italia) vengono quasi alle mani, Esposito sfotte con un “ciao, ciao” i 5 Stelle. Per i grillini potrebbero arrivare sanzioni. “Se ci sospendono andiamo a fare campagna in Val di Susa” sbotta un senatore. del 10/04/14, pag. 15 Quanto ci costa il Def della Nato Manlio Dinucci Il governo taglia tutto, ma non le spese militari Mentre nella «spending review» il governo promette una riduzione di 300–500 milioni nel bilancio della difesa — senza dire nulla, a quanto pare sugli F35 — , l’Italia sta assumendo nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare, diretta e indiretta. La Nato non conosce crisi. Si sta costruendo un nuovo quartier generale a Bruxelles: il costo previsto in 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi. Lo stesso è stato fatto in Italia, dove si sono spesi 200 milioni di euro per costruire a Lago Patria una nuova sede per il Jfc Naples: il Comando interforze Nato agli ordini dell’ammiraglio Usa Bruce Clingan – allo stesso tempo comandante delle Forze navali Usa in Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa – a sua volta agli ordini del Comandante supremo alleato in Europa, Philip Breedlove, un generale statunitense nominato come di regola dal presidente degli Stati uniti. Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico, pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza. Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui (circa 750 miliardi di euro), per oltre il 70% spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad oggi. Sotto pressione degli Stati uniti, il cui budget della difesa (735 miliardi di dollari) è pari al 4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia. L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al 2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. Secondo i dati Nato, essa 16 ammonta oggi a 20,6 miliardi di euro annui, equivalenti a oltre 56 milioni di euro al giorno. Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il Sipri, la spesa militare italiana (al decimo posto su scala mondiale) ammonta a circa 26 miliardi di euro annui, pari a 70 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi salirebbero a oltre 100 milioni al giorno. Agli oltre 1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i «contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare le forze armate italiane alle guerre Nato nei Balcani, in Afghanistan e in Libia costituiscono un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza. Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali (4000 funzionari solo a Bruxelles). Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di «investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri generali, i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche. Circa il 22% dei «contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile, nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui. Vi sono diverse altre voci nascoste nelle pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare di circa 25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila). Top secret resta l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui. Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore. Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico, che sarebbero essenziali per interventi a favore di occupazione, servizi sociali, dissesto idrogeologico e zone terremotate. E i tagli di 6,6 miliardi, previsti per il 2014, potrebbero essere evitati tagliando quanto si spende nel militare in tre mesi. del 10/04/14, pag. 10 Berlusconi avverte “Senza agibilità politica scateneremo l’inferno” Oggi la decisione su servizi sociali o arresti domiciliari “Se saranno concilianti, non parlerò più dei pm” CARMELO LOPAPA ROMA. «Tenetevi pronti, perché se va come temo, scateniamo la fine del mondo». La voce di Silvio Berlusconi sembra provenire dal regno dell’Ade alle orecchie di dirigenti e parlamentari che chiamano Arcore per infondere coraggio. Il loro leader non fa nulla per smorzare la tensione, nella più angosciosa delle vigilie che precede l’udienza di oggi pomeriggio del Tribunale di sorveglianza. 17 Nonostante le indiscrezioni filtrate alla vigilia, la storia dell’affidamento ai servizi sociali in un istituto per anziani e disabili del milanese — dove verrebbe impegnato mezza giornata a settimana — tutto lascia presagire nell’enclave di Villa San Martino che il finale non sarà così roseo. «Io sono sempre Berlusconi e loro i giudici di Milano, vedrete — è lo sfogo ancora di queste ore — comunque faranno di tutto per mettermi fuori gioco». L’ex Cavaliere, raccontano, si muove ancora con difficoltà aiutandosi con la stampella, il nervosismo è a fior di pelle. A casa è un via vai dei figli Piersilvio e Marina, in un crescendo di preoccupazione per lo stato d’animo del padre. «Anche perché se c’è una cosa che lo deprime, è proprio la vista e il contatto con persone in difficoltà e quel genere di soluzione lo butterebbe giù» racconta chi gli sta vicino da parecchio tempo. Attorno a lui, solo la compagna Francesca Pascale e Maria Rosaria Rossi, con l’avvocato Niccolò Ghedini. Il legale predica prudenza e silenzio stampa assoluto in attesa del responso. Cautela anche per i giorni successivi alla sentenza: la campagna elettorale non potrà ruotare attorno alla «persecuzione giudiziaria» e agli attacchi alla magistratura, gli è stato detto. «Perché le misure che saranno decise nelle prossime ore potranno essere revocate in qualsiasi momento» è l’avvertimento del legale, che gli ha sconsigliato anche di presenziare oggi pomeriggio all’udienza. Suggerimenti, consigli che cadono presto nel vuoto se l’assistito è Berlusconi. Basti pensare che nella lunga nota comunque diramata in mattinata da Arcore per mettere all’angolo Forza Campania di Nicola Cosentino, ecco la zampata contro la magistratura «braccio giudiziario della sinistra che vuole impedirmi di fare campagna elettorale ». Non proprio una considerazione leggera se messa per iscritto dal condannato che dovrebbe manifestare «ravvedimento » per ottenere i servizi sociali. Che non sia ancora sicura la destinazione è confermato dalla circostanza che funzionari del palazzo di giustizia di Milano ancora questa settimana avrebbero bussato al centro di ascolto dell’Associazione italiana vittime di malagiustizia, già sondato dallo staff di Berlusconi. Lui resta convinto che lo vogliano vincolare ai domiciliari. «Silenziarlo in campagna elettorale sarebbe l’ennesima ingiustizia ad personam» mette le mani avanti il capolista nel Nordovest Giovanni Toti. Non è chiaro su quali basi, ma i forzisti alla Camera ieri si dicevano invece certi che il pronunciamento arriverà tra domani e lunedì. «Qualunque sarà la decisione, un giorno triste per la democrazia » dice Maria Stella Gelmini. Poco o nulla contribuiscono a risollevare gli animi ad Arcore la notizia che l’avvocato ed ex ministro spagnolo Ana Palacio, con le deputate Deborah Bergamini e Elena Centemero (ieri in Francia per l’iniziativa), lavoreranno a un ricorso d’appello alla Corte di Strasburgo, dopo il no alla candidabilità già pronunciato due giorni fa. Di Europa, intesa come competizione elettorale, il leader forzista vorrebbe occuparsene dopo la sentenza del Tribunale. Ma le scadenze incombono, le liste vanno presentate entro martedì 15: nel fine settimana, per metterle a punto, con Toti raggiungerà Arcore anche Denis Verdini (dopo che ieri il Senato ha dato via libera alla richiesta dei magistrati di usare le intercettazioni che lo chiamano in causa in diversi procedimenti). La campagna mediatica è stata già pianificata: niente attacchi al governo sulle riforme, ma sull’economia sì. Nelle slide diffuse dal responsabile Antonio Palmieri, gli slogan sono sulla soglia dell’antieuropeismo alla Le Pen: oltre a «Più Italia, meno Germania», campeggia un «Basta con l’Euro moneta straniera». 18 del 10/04/14, pag. 13 Trenta adesioni al testo Minzolini, firme anche dal Ncd Civati: fate presto. E prepara l’offensiva tra i democratici “Senato di 200 eletti” fronda di Forza Italia si salda al dissenso pd GOFFREDO DE MARCHIS ROMA. I nemici della riforma del Senato parlano tra di loro, organizzano alleanze trasversali, sono pronti a bombardare il fortino di Renzi con altri disegni di legge, altre proposte, contando sull’istinto di autodifesa dei senatori che non vogliono smettere di essere eletti. Accanto al disegno di legge firmato da Vannino Chiti, sta prendendo corpo un nuovo testo, stavolta dalle file di Forza Italia. Il primo firmatario è Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1, senatore berlusconiano, da sempre critico verso il progetto di trasformazione di Palazzo Madama in Camera delle autonomie. Dicono che abbia già raccolto 30 firme nel suo gruppo e dentro il Nuovo centrodestra. La fronda comunque è a uno stadio avanzato. Pippo Civati, al quale fanno riferimento molti dei 22 senatori che hanno sottoscritto il ddl Chiti, ha chiesto a Minzolini di presentare il suo testo prima di martedì quando si riunisce l’assemblea dei senatori Pd. Ha bisogno di sponde per spostare gli equilibri interni al Partito democratico, di dimostrare che un’altra maggioranza è possibile per correggere in profondità il provvedimento varato dall’esecutivo. Alla base del dissenso c’è uno dei paletti fissati dal premier: la non elezione dei parlamentari. «Io parto dall’eleggibilità come Chiti — spiega Minzolini — rispettando le altre condizioni del governo». Nel progetto del senatore di Fi ci sono due Camere, una di 400 membri l’altra di 200. La fiducia e la legge di stabilità la votano in seduta congiunta realizzando il monocameralismo. Il Senato poi si occupa di esteri, difesa, giustizia, Europa e autonomie locali. La Camera del resto. «Così valorizziamo le competenze. Poi decideremo come modulare l’indennità». E la promessa di rispettare i patti confermata da Berlusconi? «Ma io voglio la riduzione del numero dei parlamentari e la fine del bicameralismo perfetto. In questa storia la differenza è tra innovatori, conservatori e arruffoni. Renzi appartiene alla terza categoria. La sua riforma è un pasticcio. Allora è meglio cancellare del tutto il Senato». In realtà, il processo per arrivare al 25 maggio con la legge approvata in prima lettura, è cominciato ieri. Sono stati scelti i relatori del provvedimento. Sono Roberto Calderoli per la minoranza (seguirà soprattutto il Titolo V ossia i poteri delle regioni) e Anna Finocchiaro per la maggioranza. Finocchiaro e Renzi sono nemici giurati, però ci sono delle novità in questo rapporto. La presidente della commissione Affari costituzionali può gestire al meglio le divisioni interne al Pd e questo risponde a criteri di convenienza. In più, lei e il ministro delle Riforme Boschi sono ormai «pappa e ciccia», come maligna un dalemiano. Vale a dire che si sentono spesso, lavorano a stretto contatto e che si è creata una sintonia. Il Pd sta cercando di convincere Chiti a ritirare il suo ddl. Per evitargli una cocente sconfitta nell’assemblea di martedì. Ma Civati annuncia battaglia: «Non credo che Vannino archivierà il suo progetto. Comunque dietro di lui ci sono anche altri. Noi vogliamo che il testo arrivi in commissione e che sia esaminato liberamente da tutti». Senza farsi troppi problemi sulle alleanze possibili. «Va benissimo Minzolini, vanno benissimo i grillini. Vediamo se sono davvero interessati — dice Civati — . Le riforme si fanno con tutti, è la regola delle regole». 19 LEGALITA’DEMOCRATICA del 10/04/14, pag. 9 Pd si tura il naso, il voto di scambio sarà legge Giarrusso (M5S): “Affossata la lotta alla mafia” di Sara Nicoli Un compromesso al ribasso. Entrando ieri a tarda sera in commissione Giustizia del Senato per la lunga notte del “voto di scambio politico mafioso” – ddl che stamattina sarà in aula per l’approvazione definitiva – Felice Casson, senatore Pd, aveva l’aria di chi sta per fare qualcosa che non gli piace. Neanche un po’. “La pena doveva rimanere alta – ci dice – perché il fatto che un politico possa venire a patti con la mafia deve essere considerato più grave rispetto al comportamento di un cittadino normale. E sulla questione, che avevamo inserito, della ‘messa a disposizione’ del politico, nella nostra ottica era un modo per precisare meglio i confini dell’illecito penale, invece...”. Invece il provvedimento uscirà da Palazzo Madama nella stessa, identica, declinazione con cui è stato licenziato da Montecitorio. Ieri notte, infatti, il Pd si è astenuto sul voto degli emendamenti e a palazzo Madama l’astensione è voto contrario. Insomma, oggi all’ora di pranzo, il voto di scambio politico mafioso sarà legge. “Non possiamo fare altrimenti – è ancora il giudizio di Casson – perché deve entrare in vigore prima delle elezioni Europee, non possiamo permettere che si perda in un ping pong con la Camera, mentre c'è chi ha remato perché questo avvenisse”. Casson non lo dice, ma il suo pensiero è corso alla compagine grillina al Senato. Gli M5S hanno messo in atto una resistenza quasi eroica, ieri notte in commissione Giustizia, presentando oltre un centinaio di emendamenti per tentare di arginare l'inevitabile. “Chi ha votato questa cosa – dichiara Michele Giarrusso, senatore stellato – è un soggetto che sostiene il voto di scambio politico mafioso. Renzi si è incontrato con Verdini e hanno deciso che doveva essere fatto questo regalo”. Bocciata anche la richiesta di sospensiva del voto fino al chiarimento, da parte del ministero della Giustizia, di chi siano i “beneficiari della decurtazione di pena in questione”. Insomma, se il Senato (questo il punto ‘qualificante’ della richiesta) “si appresta ad approvare con urgenza il testo licenziato dalla Camera” a parere di fonti qualificate a Palazzo Madama “si paventa il rischio che così com’è il ddl renda possibile, per il principio del favor rei, di far punire con pene più lievi anche i mafiosi”. CIOÈ: IL TESTO della Camera mantiene la previsione che la pena della reclusione da 4 a 10 anni possa venire applicata non solo a chi commette il reato di voto di scambio, ma anche al mafioso che procura voti con metodi mafiosi. Una questione non da poco che, tuttavia, resterà nel novero del dubbio. O della certezza – nel caso M5S – di aver fatto davvero un regalo alla mafia. Dicevano, infatti, i grillini in commissione ieri notte: “Così si rischia di far pagare meno ai mafiosi veri e propri visto che il codice penale, all'articolo 416 bis, comma terzo, punisce con una pena da 7 a 12 anni la stessa tipologia di comportamento; l'associazione è di tipo mafioso, recita il 416 bis che punisce questo 20 reato, quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, tra l’altro al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o ad altri in occasione di consultazioni elettorali. E chiunque fa parte di un'associazione mafiosa formata da tre o più persone è punito con la reclusione da sette a dodici anni”. Obiezioni fondate (molto fondate) che avrebbero trovato ascolto in parte del Pd se “ci fosse stato tempo”. Invece, non c’è. Per questo Cosimo Maria Ferri, sottosegretario Ncd alla Giustizia, brinda sereno: “È una norma severa, seria, efficace e importante per la magistratura e le forze dell’ordine per contrastare le infiltrazioni della mafia nella politica”. Oggi, insomma, il voto finale su un ddl controverso. Anzi, su “un compromesso al ribasso”. del 10/04/14, pag. 11 ’Ndrangheta in Emilia, 13 arresti Adriana Comaschi La lunga mano delle ‘ndrine nel cuore dell’Emilia. Chi volesse avere l’ennesima prova dell’ormai radicata presenza della ‘ndrangheta a nord la trova nelle 13 ordinanze di custodia cautelare, eseguite ieri mattina tra Calabria ed Emilia- Romagna a carico di persone considerate contigue alle cosche degli Arena e dei Nicoscia di Isola Capo Rizzuto, e nel conseguente sequestro preventivo di beni - tra cui due alberghi, società di trasporti, unità immobiliari, conti correnti - per 13 milioni. Agli accusati vengono contestati intestazioni fittizie di attività e, attraverso queste, riciclaggio di denaro di provenienza illecita. Le misure sono state eseguite dai carabinieri di Bologna, Crotone, Modena e Reggio Emilia, disposte dal gip Letizio Magliaro su richiesta del pm Marco Mescolini della Dda di Bologna. «Un risultato importante - spiega il Procuratore Capo Roberto Alfonso -: aggredire i patrimoni è il modo migliore di contrastare le mafie. E così si conferma la presenza di organizzazioni molto potenti e pericolose e la loro infiltrazione in settori economici e finanziari dell’Emilia-Romagna ». Al centro dell’intreccio svelato dai carabinieri Michele Pugliese, ritenuto l’uomo che curava gli interessi degli Arena e dei Nicoscia in Emilia e Lombardia meridionale - e Caterina Tipaldi, la sua ex compagna, ribattezzata “la Zarina” dai carabinieri per il ruolo non secondario che aveva saputo ritagliarsi. L’indagine della Dda bolognese riunisce due filoni, partiti a Reggio Emilia nel 2010 grazie alla denuncia dell’allora presidente della Camera del Commercio sui movimenti poco chiari di una ditta di autotrasporti, con sede legale a Isola Capo Rizzuto e operativa a Gualtieri nella Bassa reggiana.Ea Bologna nel 2011, dopo l’incendio di alcuni escavatori in una cava in provincia: i mezzi coinvolti appartengono a una ditta di cui è titolare Tipaldi. A lei e ad altri prestanome ricorreva Michele Pugliese, per reinvestire il denaro delle ‘ndrine e per evitare il sequestro di beni già disposto contro di lui nel 2009 dalla Dda di Catanzaro. Il nome di Pugliese emerge nel corso delle indagini sull’uccisione nel 2004 del capocosca Carmine Arena, a colpi di bazooka e kalashnikov. Pugliese era già a i domiciliari a Isola Capo Rizzuto. Da cui comunque, appunto grazie alla complicità degli arrestati, sarebbe riuscito a gestire società e affari. 21 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 10/04/14, pag. 10 “IL GUINZAGLIO NO” UN IMMIGRATO SI RIBELLA AL CIE IL RAGAZZO ALGERINO, RECLUSO A BARI, DOVEVA ESSERE TRASPORTATO IN UN OSPEDALE PER UNA VISITA PRENOTATA, MA HA RIFIUTATO PERCHÉ L’AVEVANO LEGATO CON UN LACCIO di Antonio Massari Bari Ho rinunciato alla cura: volevano portarmi in ospedale con un guinzaglio ai polsi” ci racconta il ragazzo algerino recluso nel suo padiglione. Poi - quando siamo nella stanza del direttore - chiediamo perché l’ammalato non sia stato curato. E il medico del Centro d’identificazione ed espulsione prende la parola: “Scusi senatore, ma il ragazzo le ha detto perché, quella risonanza magnetica alla schiena, non l’ha più fatta? Guardi che noi l’avevamo prenotata”. Pausa. “Gliel’ha detto - continua - che e stato lui a rinunciare?”. Già. E infatti il punto è: perché ha rinunciato? “Perché non voleva essere portato in ospedale con un una... contenzione alle mani... alle braccia... insomma... questo ci ha raccontato... e questo ho scritto nella cartella clinica”. E così - nella sua surreale giustificazione - il medico conferma la versione del ragazzo. “Cos’è una contenzione alle mani? Ci spieghi: il ragazzo le ha parlato di manette?”, chiede il Senatore Luigi Manconi (Pd), presidente della Commissione parlamentare per i diritti umani in visita ieri al Cie di Bari. “No” risponde il medico. Infatti il ragazzo - durante l’incontro - ci ha parlato di una sorta di guinzaglio. Un lungo legaccio ai polsi. “In quelle condizioni, in ospedale, non volevo andarci - ha detto piuttosto, ho preferito rinunciare alia risonanza magnetica”. Un “guinzaglio” non e previsto da alcun regolamento. II RAGAZZO peraltro non è un carcerato e quindi: non deve sopportare misure di contenzione - manette incluse. La funzionaria della questura, dinanzi a tutti, si dice disponibile a dimostrare, esibendo le comunicazioni interne, che in quell’oc - casione era prevista “soltanto una scorta di tre persone” per accompagnare il malato in ospedale. Intanto nel Cie - che reclude 77 persone - si sente odore di bruciato: due sere fa, per la disperazione, qualcuno ha provato a dar fuoco a una sedia imbullonata. Kharim ha interrotto soltanto ieri, dopo 5 giorni, il suo sciopero della fame. “Lo abbiamo convinto noi a smettere lo sciopero della fame”, dice un amico, “perché ha iniziato a orinare sangue. Abbiamo chiesto ai medici di dargli un’occhiata ma nessuno ci ha ascoltato”. “Ha curato qualcuno, in questi giorni, perché orinava sangue?”, chiediamo al medico. “No, nessuno” risponde. Scortati da un ispettore di Polizia - e non accompagnati dal direttore del centro visitiamo un reparto in ristrutturazione: se non sarà in regola per la fine d’aprile - ha deciso il tribunale di Bari - il Cie andrà chiuso. Qui la gestione è affidata alla “Connecting People” di Trapani. È la stessa società accusata di aver frodato, nella gestione del Cie di Gradisca d’Isonzo, milioni di euro.“II Cie invece va chiuso punto e basta - conclude Manconi - Al di là dei lavori di ristrutturazione non ancora conclusi, questo centro, persino piu di altri, richiama un clima carcerario - anche nei rapporti interni e nell’organizzazione gerarchica mentre, per la legge italiana, non dovrebbe essere un carcere”. 22 DAI 77 PRIGIONIERI del Cie si passa ai 1.461 richiedenti asilo del Cara (attesa di circa 6 mesi, ndr), gestito dalla cooperativa Auxilium: “Le dimensioni del Cara - commenta Manconi - sono abnormi rispetto alla possibilità di offrire un’accoglienza minimamente dignitosa”. I bagni sono fatiscenti. Una ragazza, che oggi dovrà presentarsi in tribunale, per la rivolta dello scorso 16 dicembre, sarà difesa da un legale d’ufficio, ma racconta piangendo: “Avevo chiesto di parlare con un avvocato ma nessuno mi ha dato ascolto”. Qui c’è un grande uso di psicofarmaci: “Soltanto sotto prescrizione di uno psichiatra” dice il medico del Cara. “A meno che non si tratti di sedativi per dormire, in quel caso non consultiamo lo psichiatra”, aggiunge un’infermiera. Sedativi di che tipo? “Blandi, tipo Tavor”. E perché per il Tavor non si consulta lo psichiatra? “Perché non è uno psicofarmaco”, risponde l’infermiera, dinanzi al medico, che neanche ribatte. 23 SOCIETA’ del 10/04/14, pag. 1/2 Dalla Consulta via libera al donatore esterno Grosseto, sì alla trascrizione delle nozze gay Fecondazione assistita fuori dalla coppia È una svolta storica ROMA. Era l’ultimo mattone rimasto della legge 40. La Corte Costituzionale, ieri, ha smontato anche quello. In Italia la fecondazione eterologa, cioè con gameti di donatore esterno alla coppia, non è più vietata per legge. E coloro che desiderano un figlio e non possono averlo non devono più migrare all’estero. La Corte ha infatti stabilito l’illegittimità della normativa accogliendo i ricorsi presentati dai tribunali di Milano, Firenze e Catania sulla base di reclami di coppie sterili. Intanto a Grosseto un giudice ha imposto al Comune di registrare un matrimonio gay. ROMA. Dopo dieci anni di sentenze italiane che l’hanno smontata pezzo per pezzo, ieri è caduto l’ultimo divieto della legge 40: quello sulla fecondazione eterologa, cioè con gameti di donatore esterno alla coppia. La Corte Costituzionale ha giudicato illegittima la proibizione, accogliendo i ricorsi presentati dai tribunali di Milano e Catania, sollecitati dai ricorsi di altrettante coppie sterili. Il motivo? Non rispettava i principi costituzionali che garantiscono «uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, accesso alle cure e diritto a formarsi una famiglia». Se il mondo laico esulta, e in molti a sinistra chiedono come la senatrice del Pd Anna Finocchiaro che «il legislatore si assuma la responsabilità di una legge più saggia e liberale, al passo con il quadro normativo europeo», quello cattolico è in subbuglio. L’Osservatore Romano ha scelto di non commentare in alcun modo la sentenza, lapidaria invece la Pontificia Accademia per la Vita che parla di una futura «selezione riproduttiva». Durissimo l’editoriale di Famiglia Cristiana: «Fecondazione selvaggia per tutti, è una follia italiana». Di parere opposto l’avvocato Maria Paola Costantini, difensore delle coppie ricorse alla Consulta. «Con questa decisione ci saranno tutte le protezioni per le coppie in un sistema gratuito, in cui non si rischia la commercializzazione dei gameti né la mercificazione delle donatrici e allo stesso tempo situazioni “al limite” come quella delle “mamme-nonne”: potranno accedere alla donazione soltanto le coppie sposate o conviventi sterili». «Una grande vittoria per la civiltà. Finalmente è stato cancellato un divieto che era una vergogna per l’Italia» ha commentato Filomena Gallo, segretario dell’associazione Coscioni e uno dei legali che ha assistito coppie che hanno fatto ricorso in tribunale sull’eterologa. (c. p.) 24 INFORMAZIONE del 10/04/14, pag. 27 L’Espresso e Ti Media alleanza per i ripetitori tv MILANO. Telecom Italia Media e il Gruppo Editoriale L’Espresso mettono insieme le loro infrastrutture digitali — le frequenze, i ripetitori — per dare vita al primo operatore di rete italiano indipendente. Il matrimonio verrà celebrato attraverso il conferimento da parte del Gruppo L’Espresso del 100% delle azioni di Rete A in Telecom Italia Media Broadcasting (Timb). Dalla fusione delle due attività nascerà un gruppo dotato di 5 multiplex digitali, con un’infrastruttura a copertura nazionale di elevata capillarità e basata su tecnologie di ultima generazione. La capacità trasmissiva è paragonabile a quella di Rai e Mediaset. Il gruppo che nascerà dalla fusione sarà il naturale fornitore di tutti i principali editori televisivi non integrati, nazionali ed esteri, operanti sul mercato italiano. Mettere insieme le piattaforme e l’offerta permetterà alla società di conseguire rilevanti sinergie industriali. L’operazione, che è subordinata al via libera del Garante di settore (l’AgCom), darà vita a una società con un giro d’affari annuale di circa 100 milioni, un risultato economico positivo e una robusta generazione di cassa. Alla fine dell’operazione che dovrebbe essere perfezionata entro giugno, TiMedia ed il Gruppo Espresso deterranno rispettivamente il 70% e il 30% delle azioni della nuova Timb, cui farà capo l’intero capitale di Rete A; mentre la partecipazione in All Music Spa rimarrà di proprietà del Gruppo L’Espresso. Quanto alla governance, gli accordi prevedono che che TIMedia abbia il diritto di nominare la maggioranza dei consiglieri, compreso l’amministratore delegato, mentre il Gruppo L’Espresso indicherà il presidente. È inoltre previsto che Telecom Italia Media abbia un’opzione d’acquisto del diritto d’uso (esclusa l’infrastruttura e i clienti) di una delle cinque frequenze, cioè della banda relativa al canale 55. Si tratta di un contratto a tre anni per un corrispettivo di 5 milioni, oppure dell’opzione di acquisto dell’intero capitale della società di nuova costituzione alla quale questo diritto dovesse essere conferito al prezzo di 50 milioni (valore che sarà rettificato in funzione della posizione finanziaria netta della società). Nel caso il diritto d’uso di canale 55 venisse conferito alla newco è prevista inoltre la sottoscrizione con Timb di un contratto di affitto a 10 anni, con un canone di 2,5 milioni l’anno, e un diritto di recesso da parte del locatore a partire da metà 2016. Insomma, se le frequenze di canale 55 saranno utilizzabili anche per la telefonia, TiMedia si riserva di ricomprare l’infrastruttura o di utilizzarla in via preferenziale. Nell’operazione, TiMedia e il Gruppo L’Espresso sono stati assistiti rispettivamente da Mediobanca e Banca Imi in qualità di advisor finanziari. 25 CULTURA E SCUOLA del 10/04/14, pag. 10 La differenza come orizzonte Pedagogia. «Sono cambiate molte cose. Donne e uomini reinventano il presente educativo»: a Verona un convegno nel fine settimana per discutere su una formazione possibile a tematiche di genere e non soltanto in vista delle pari opportunità Il 12 e 13 aprile a Verona si svolgerà l’incontro nazionale dal titolo Sono cambiate molte cose. Donne e uomini reinventano il presente educativo. A promuovere il convegno sono in tante e tanti che in questi anni hanno creato, a vario titolo, la pedagogia della differenza sessuale e il movimento di autoriforma. Si potranno dunque ascoltare gli interventi e le restituzioni di Anna Maria Piussi e Antonia De Vita (Università di Verona), Alessio Miceli (Maschile Plurale), Clara Bianchi e Maria Cristina Mecenero (Maestre in ricerca e in movimento), Vita Cosentino (rivista Via Dogana), Marina Santini (Autoriforma della scuola), Sara Gandini (Libreria delle donne di Milano), Salvatore Guida (Stripes), Maria Piacente (rivista Pedagogika), Antonietta Lelario (Le città vicine) e Gian Piero Bernard (La Merlettaia). Nella lettera d’invito, disponibile integralmente nel blog dedicato all’iniziativa (http://cesdef.wordpress.com), l’intento è piuttosto chiaro. Si legge, infatti, che «L’esigenza è quella di comprendere che cosa è in gioco oggi, rifare il punto delle esperienze e dei risultati maturati da donne e uomini nelle scuole, nelle università, nei servizi – istituzioni a rischio di delegittimazione – nei territori, nelle «altre scuole», luoghi in cui si costruiscono saperi in altro modo: libere università, redazioni, libere aggregazioni, sperimentazioni economiche, artistiche e sociali». È un passaggio cruciale che posiziona il desiderio dell’incontro veronese come il rilancio di un percorso più lungo. Il desiderio è quindi la domanda politica di lettura e di generazione della realtà, dopo quasi trent’anni dall’inizio della pedagogia della differenza insieme alle connessioni tra contesti diversi che non siano necessariamente istituzionali; si tratta piuttosto di dare conto di ricerche mosse da nuove forme di relazionalità politica. Mutazioni in atto Ma qual è il significato di aver pensato un convegno simile proprio ora? Non ha dubbi Anna Maria Piussi: «L’idea di questo convegno mi è venuta dopo aver partecipato all’Incontro femminista di Paestum 2012, per il senso di libertà e la ricchezza di scambi circolati lì, ma anche per le denunce lì avanzate circa l’assenza di pensiero e di pratiche femministe nella scuola e nell’Università e il silenzio delle insegnanti sulla differenza sessuale. Come se d’un solo colpo fossero azzerate scoperte, pratiche e parole, tutto un fermento creato a partire dalla metà degli anni Ottanta dalle donne con la pedagogia della differenza e il movimento di autoriforma, e si dovesse ricominciare daccapo. Quando nel frattempo si impongono dall’alto politiche di parità, iniziative di educazione al genere che rischiano di cancellare le soggettività e le relazioni, e si accendono dibattiti fuorvianti sul superamento della differenza donna/uomo e delle differenze soggettive in nome dell’uguaglianza di diritti. Da tempo sentivo, con altre, la necessità di un confronto di ampio respiro su scuola ed educazione in un mondo trasformato dalla libertà femminile, e questa volta anche con uomini. La scommessa dell’Incontro nazionale è quella di misurarsi con il presente – un presente disorientato ma anche promettente — perché scuola, educazione, formazione siano realmente al cuore di una nuova civiltà di rapporti, e con la radicalità che viene dall’agire con libertà e consapevolezza la differenza di essere donne e uomini». 26 Nuovi sguardi Dall’università alla scuola elementare e ritorno, dunque, passando per i vari cicli didattici e per esperienze fuori dalle istituzioni formative tradizionalmente intese, il motivo di guadagno di un’impresa come questa ha radici ben salde e tenaci. Stando sul presente, e soprattutto intorno a ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni, non può essere negata l’esistenza fertile di quelle che Antonia De Vita chiama altre scuole, registrando così molte esperienze che pur mantenendo una spiccata implicazione educativa, decidono il proprio spazio di creatività ed espressione fuori dalle sedi tradizionalmente deputate a farlo. Ecco perché la domenica del 13 verrà dedicata a Contesti e pratiche che generano saperi e nuove visioni. «Infatti — prosegue De Vita — nei contesti urbani sono nati gruppi e libere aggregazioni che attorno a gesti di consumo e produzione critica (G.a.s, Des, etc.), o alle occupazioni di spazi simbolici delle città (Teatro Valle, Roma; Macao, Milano), o alle creazione di nuovi legami sociali di prossimità e di convivenza nel proprio territorio (Città vicine, associazioni e gruppi di vicini), hanno inventato o riattualizzato pratiche e saperi della materialità, nuove forme del consumo e del lavoro, della convivenza e della convivialità. Abbiamo assistito poi, in contesti informali, associativi e sociali, alla diffusione di saperi e sapienze che rimettono al centro l’intelligenza del corpo nella sua connessione con la mente. Pratiche molto antiche, come quella della presenza mentale, o più recenti che segnalano il bisogno di scommettere su saperi per la vita e per l’educazione ispirati a epistemologie dell’integrazione tra dimensioni razionali e affettive ed emozionali. Questi luoghi di pratiche e di saperi ci sembrano significativi non solo per ridisegnare i nuovi spazi dell’educazione e della formazione, ma anche per mostrare le nuove visioni che le ispirano». L’annuncio dell’incontro nazionale veronese era stato anticipato durante i lavori preparatori di Paestum 2013, quando cioè era stata esplicitata la scommessa politica relativa ad un laboratorio interamente dedicato al tema durante la due giorni femminista. Dopo quell’esperienza sono state rese disponibili alcune restituzioni ora presenti nel blog http:// paestum2012.wordpress.com. Per quell’occasione, Antonia De Vita, Valentina Festo e Alessio Miceli (tra altre e altri partecipanti) avevano sintetizzato alcuni punti essenziali delle loro singole esperienze. De Vita riconosce come siano trascorsi molti anni dal movimento di insegnanti che attorno alla pedagogia della differenza sessuale prima e al movimento di autoriforma della scuola poi, aveva raccolto riflessioni e inventato pratiche corredando tanti testi e dando vita a numerosi convegni. Alla luce del desiderio Tra i volumi basti ricordare Educare nella differenza (1989) a cura di Anna Maria Piussi ma anche Sapere di sapere (1994), insieme a Buone notizie dalla scuola. Fatti e parole del movimento di autoriforma (1998), per le cure di Vita Cosentito, Antonietta Lelario e Guido Armellini. Ma Maria Cristina Mecenero, maestra elementare in una scuola della periferia milanese, e molto attiva nel sostenere il sapere autonomo e relazionale delle maestre, considera soprattutto un punto: «A Roma nel convegno Che genere di programmi (febbraio 2013) molte delle presenti sostenevano che nelle scuole non c’è più niente, niente iniziative autonome, niente lavorio per creare nuovi sguardi verso l’esserci femminile e maschile in questo mondo; anzi: le insegnanti non portano libertà, la ostacolano e c’è bisogno di esperte per assisterle nella programmazione e progettazione. Una postura pericolosa, che non tiene conto di ciò che avviene in molte relazioni comuni e reali, nei vari contesti formativi. Non si vede che si è il cambiamento. C’è un misto di arretramento voluto e di qualcos’altro. Possiamo stare all’intreccio tra realtà diverse? Siamo interessate a confrontarci con altre impostazioni? Le iniziative centrate sulla discriminazione femminile e sugli stereotipi rischiano di trattenerci nel passato e distoglierci dal riconoscere e agire il cambiamento, dal desiderare in grande. Ci sembra 27 più urgente raccontare ciò che di nuovo sta già capitando. Abbiamo bisogno di portare alla luce ciò che già si fa nella direzione di scambi creativi, anche conflittuali, che consentono di cambiare in meglio le condizioni del vivere insieme». Educare nella differenza attiene anzitutto al come e non al che cosa; non è la proposta di pari opportunità di genere, soprattutto se calata dall’alto, o di formazione a tematiche di genere a procurare il cambiamento, bensì il modo stesso di agire la propria libertà che traccia un orizzonte; altresì è ugualmente la modalità stessa che si intrattiene con le forme del sapere a costituire un cambio di prospettiva. Alessio Miceli, forte anche della sua esperienza di insegnante negli istituti superiori, specifica che c’è bisogno di smontare «quei meccanismi con cui si comprimono i corpi, i tempi ed i pensieri svuotati di sentimenti, mancanti di contatto con il mondo. Ci sono interi programmi che restano lettera morta fin quando qualcosa non viene illuminato dalle domande di senso che ciascuno/a si pone. Coltivare, porre e ascoltare queste domande soggettive ci riporta alla radice viva dei saperi che abbiamo costruito. Poi la propria soggettività incontra le altre e si può cooperare anziché essere tenuti a competere, una forma di pensiero e di relazione salvavita nella giungla del mercato attuale (e della sua pedagogia)». Il punto su cui insiste Miceli è soprattutto l’ipotesi di «scardinare l’istituzione che è dentro di noi». Ciò sottende sia una pratica di libertà (che è poi il vero cambiamento portato dal femminismo) che una soggettività capace di costruire relazionalità, oggi, tra donne e uomini. Del resto, come ricorda Sara Gandini, non è stato forse il movimento di autoriforma della scuola a chiedere «il minimo di potere e il massimo di autorità»? Se dunque la partita che si gioca all’interno della scuola dovesse concludersi in un’aggiunta di contenuti e saperi critici sull’identità di genere sarebbe davvero poca cosa. La scuola-comunità A questo proposito, Maria Cristina Mecenero, è da anni impegnata nella riflessione e nella pratica della differenza insieme a donne e uomini da nord a sud dell’Italia. Il suo è un posizionamento piuttosto preciso sul lavoro educativo; se si può partire dal carattere di osservazione dell’esistente, constatando per esempio una partecipazione genitoriale crescente, è pur vero che le relazioni familiari e culturali portate nelle classi da bambine e bambini mostrino meglio di qualunque altro esempio il guadagno delle narrazioni che sono già frutto di cambiamento. Ciò significa forse una scuola che si sente comunità, che dichiara cioè di poter dire, nel proprio tessuto anzitutto simbolico, di non rappresentare un pezzo della società ma di sperimentare una trasformazione già in atto. Non si tratta quindi di affiancare alle e agli insegnanti nessuna figura esperta esterna e calata dall’alto. Si tratta piuttosto di fare agire la libertà delle relazioni di differenza, comprese quelle sviluppate tra le varie istituzioni scolastiche e quelle che istituzionali neanche desiderano diventarlo. Prestare attenzione al cambiamento già in atto alza la posta in gioco della scommessa educativa e insieme racconta di un presente declinato al futuro. 28 INTERESSE ASSOCIAZIONE del 10/04/14, pag. 27 Se il volontariato ti cambia il curriculum «Decisivo per i giovani» Rivela più passione e doti organizzative Di solito finisce in fondo al curriculum. Alla voce «altre attività». Ma è un elemento sempre più importante. A volte decisivo in un colloquio di lavoro. Perché il volontariato è sì un’esperienza non retribuita, ma a sentire «cacciatori di teste» ed esperti delle risorse umane per molte grandi aziende italiane e multinazionali è una realtà valutata positivamente. Non è un caso se negli ultimi mesi decine di enti locali hanno messo a disposizione uffici e siti web per «certificare» le attività «informali». Un documento da allegare al proprio curriculum vitae con le indicazioni sulla durata e sulle attività non profit svolte. Il «modello» restano gli Stati Uniti. Lì il lavoro gratuito per la collettività è pratica comune. E tra i giovani diventa una voce da aggiungere alle attività svolte per presentarsi, bene, all’ammissione all’università o a un colloquio di lavoro. «Anche da noi il volontariato sta diventando un elemento importante nella selezione del personale», spiega Paolo Citterio, presidente nazionale dell’Associazione direttori risorse umane (Gidp). «Chi ha fatto attività senza scopo di lucro dà la sensazione di avere un passo diverso, sia a livello organizzativo che emotivo». Tanto che, rivela, «di fronte a due giovani candidati a un posto di lavoro le imprese mi chiedono di vedere chi ha fatto anche volontariato». «Oggi le società, anche quelle con ricavi a nove o dieci zeri, vanno a vedere cosa hai fatto di socialmente utile», continua Citterio. E, per una volta, il confronto con gli altri Paesi non ci vede in coda alla classifica. «Siamo nella media, abbiamo recuperato negli ultimi anni». La tendenza è confermata anche da Andrea Castiello d’Antonio, consulente del lavoro e management. Che però precisa: «Il peso del volontariato nel curriculum dipende molto dal tipo d’impresa. Ci sono società incentrate sulla competitività che non guardano se hai fatto qualcosa di socialmente utile o no. E ce ne sono altre che a volte fanno del non profit un elemento discriminante durante i colloqui». In quest’ultimo caso — continua l’esperto — «pur trattandosi di attività non retribuite all’impresa interessa molto l’aspetto motivazionale che ha spinto il candidato a fare qualcosa senza ricevere in cambio denaro». «Più la realtà non profit è strutturata, più l’attività svolta all’interno viene valutata e apprezzata dalle imprese e dai “cacciatori di teste”», ragiona Maria Cristina Bombelli, fondatore e presidente di Wise Growth, società che si occupa di analizzare la diversità in azienda. Motivo? «È più facile che in queste realtà il candidato abbia sviluppato competenze organizzative, manageriali e di rapporto con le persone che possono essere utili per la società che vuole assumere». «C’è ancora molta strada da fare per raggiungere il livello americano, ma ci stiamo avvicinando», avverte Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale all’Università Statale di Milano e visiting professor in management alla California Polytechnic State University. Il punto di svolta, secondo Solari, sarebbe quello di iniziare da piccoli. «Negli Stati Uniti ci si abitua già dalle scuole elementari a impegnarsi nel volontariato. La stessa cosa bisognerebbe fare, ma davvero, anche in Italia: non concentrandosi su attività di sensibilizzazione, ma strutturando un percorso fino all’ultimo anno di università». Perché, continua il docente, «per chi ricerca il personale quelle attività inserite nel curriculum diventano una spia importante per l’azienda: se si mettono insieme 29 volontariato e il tempo impiegato, per esempio, per laurearsi si può avere un’idea delle capacità organizzative del candidato». Ma, avverte Solari, senza esagerare. «Le aziende vedono molto cosa uno ha fatto e per quanto tempo. Soprattutto: come l’ha fatto». Leonard Berberi del 10/04/14, pag. 27 L’espansione del terzo settore Produce ricchezza in tempo di crisi LUCCA — La notizia è buona e anche sorprendente. Non solo il volontariato ha resistito alla crisi, ma è cresciuto ed è più forte di prima. Lo dimostra uno studio, con tanto di cifre e proiezioni, che sarà presentato e discusso oggi alla prima giornata del Festival nazionale del Volontariato di Lucca, una quattro giorni (da oggi sino a domenica, Real Collegio) che raduna gli stati generali del terzo settore in Italia. Ci saranno due ministri, Giuliano Poletti (Lavoro) e Stefania Giannini (Istruzione), il presidente della Camera Laura Boldrini e il presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che sabato inaugurerà il nuovo canale «Corriere Sociale», dedicato al terzo settore, di Corriere.it . Non mancheranno momenti culturali e ricreativi. Con Maria Grazia Cucinotta, che oggi inaugurerà il festival, e Giobbe Covatta che lo chiuderà domenica, due personaggi che sono anche firme del blog «Buonenotizie» di Corriere.it . Partendo dallo studio del Centro nazionale per il volontariato e della Fondazione volontariato e partecipazione, il summit di Lucca sarà anche un’occasione per misurare lo stato di salute del settore. «Dati positivi — anticipa il presidente del Cnv Edoardo Patriarca — che forniscono spunti di riflessione e di azione. Da una parte osserviamo che si rafforza l’autonomia di questo mondo dal settore pubblico, in un’ottica sussidiaria sempre più matura. Dall’altra si comprende come il volontariato abbia ormai già reagito in maniera decisa alla crisi, cercando nuove risorse, economiche e umane, per portare avanti la sua imprescindibile opera di solidarietà». Insomma, come sottolinea anche il presidente della Fondazione, Alessandro Bianchini, ormai il «volontariato è un fenomeno maturo e consolidato, una colonna portante del nostro sistema democratico». Così, sfogliando il dossier, si scopre che nonostante la congiuntura negativa, lo stato di salute economica delle organizzazioni di volontariato (Odv) è buono e più della metà dei circa 2 mila presidenti intervistati (56,6%) ritiene stabile o equilibrata la situazione economica-patrimoniale della propria organizzazione. Solo una quota minima di organizzazioni (tra lo 0,6% e il 2,2%) dichiara di avere difficoltà a saldare i debiti contratti verso terzi. E tutto questo accade in un momento di gravissima sofferenza nella riscossione di crediti verso privati e soprattutto nei confronti dell’amministrazione pubblica. Note positive anche dalla crescita dei volontari che aumentano in un terzo delle organizzazioni e restano stabili nelle altre. Con una buona percentuale di giovani (in media, il 25,3% dei volontari ha meno di 35 anni) che però è rimasto fermo alle cifre del 2011. La stabilità delle ore dedicate dai volontari all’Odv caratterizza il 60,0% delle organizzazioni; l’aumento il 29,5%. Insomma, come si legge nello studio, «meno di un’organizzazione su 10 ha visto nel 2013 diminuire la quantità di impegno profuso dai propri membri». 30 Marco Gasperetti Luca Mattiucci 31 ECONOMIA E LAVORO del 10/04/14, pag. 1/6 Il bonus Irpef mangiato dalla Tasi ROBERTO PETRINI IL 40% A RISCHIO. RIVOLUZIONE AUTO, SCOMPARE IL PRA ROMA. Gli 80 euro di bonus che dieci milioni di lavoratori dipendenti dovrebbero ritrovarsi in busta paga grazie al governo Renzi rischiano di essere vanificati dalla nuova Tasi e delle addizionali Irpef comunali e regionali. Secondo la Uil le tasse locali si mangeranno nei prossimi otto mesi il 40 per cento del bonus governativo che scatterà con la busta paga del 27 maggio. Il bonus Irpef di 80 euro per chi guadagna meno di 25 mila euro lordi l’anno promesso e garantito dal governo, e per il quale con il Def sono state annunciate le coperture, in parte è già stato ipotecato dai contribuenti che dovranno far fronte quest’anno a pesanti aumenti della nuova Tasi, e delle addizionali Irpef comunali e regionali. Secondo un «focus» della Uil servizi politiche territoriali le tasse locali “mangeranno” nei prossimi otto mesi oltre il 40 per cento del bonus di 80 euro previsto dal governo Renzi e che scatterà con la busta-paga del 27 maggio. Se con una mano il contribuente beneficerà dell’aumento mensile delle detrazioni Irpef, garantito da maggio a dicembre, con l’altra mano dovrà tirare fuori 35 euro al mese in più rispetto allo scorso anno tra introduzione della Tasi (la tassa sugli immobili che ha sostituito l’Imu da quest’anno), le addizionali Irpef comunali (in rapido aumento) e le addizionali Irpef regionali (in sicuro aumento almeno in quattro regioni). Il lavoratore dipendente preso in esame dal «rapporto» è quello che sta sostanzialmente nella media e dovrebbe prendere gli 80 euro pieni: guadagna 18 mila euro lordi all’anno (1.200 netti al mese) e ha una casa di proprietà in una zona semiperiferica. Un condizione modesta che gli consente di entrare in pieno nel target del governo e di beneficiare del bonus che spenderà per le prime necessità. ma purtroppo la sua busta paga è esposta alla voracità dei Comuni, che stanno mettendo in atto aumenti di Tasi e addizionali, e delle Regioni che, con i conti sanitari in dissesto, sono costrette a ricorrere al rincaro delle aliquote. Alla fine dell’anno Cipputi, il lavoratore dipendente medio, si troverà in tasca i 640 euro che saranno erogati per i prossimi otto mesi, ma dovrà sapere che il conguaglio dell’aumento delle addizionali comunali Irpef gli sottrarrà 12 euro, quello delle addizionali regionali gli toglierà 36 euro e l’effetto dell’aumento per l’intero 2014 della Tasi gli costerà 230 euro tondi considerando che lo scorso anno l’Imu non si è pagata (o si è pagata solo parzialmente con la mini-Imu). A conti fatti la “bolletta” da saldare all’erario sarà di 278 euro che, sottratti ai 640 sui quali pensava di contare, fanno esattamente 362 euro che riducono al 56 per cento il beneficio promesso dal governo. Il guadagno netto in busta paga in questo modo si dimezza. «Renzi con la stessa tenacia con cui ha ridotto l’Irpef nazionale, dovrebbe fare altrettanto per evitare gli aumenti della fiscalità locale», spiega Gugliemo Loy, segretario confederale della Uil. Ed in effetti le notizie che arrivano dal fronte dei Comuni che avranno tempo fino al 31 maggio per deliberare le nuove aliquote, non annunciano niente di buono: già dodici capoluoghi di provincia su 107 hanno deliberato o annunciato ufficialmente che posizioneranno la Tasi ben più in alto del minino dell’1 per mille arrivando al tetto massimo del 2,5 per mille e creando, in assenza di detrazioni, un impatto superiore alla vecchia Imu 32 pagata pienamente nel 2012. Tra i Comuni capofila degli aumenti ci sono grandi centri che faranno tendenza: da Milano a Piacenza, da Modena a Mantova, da Pistoia a Cagliari. C’è poi il problema dell’addizionale Tasi dello 0,8 prevista dal decreto enti locali (che oggi passa con la fiducia alla Camera) e i cui proventi dovevano essere destinati proprio alle detrazioni per i bassi redditi. I Municipi sono tentati di non applicarla per evitare che l’aliquota monstre del 3,3 per mille faccia clamore, anche se ciò comporta la rinuncia alle detrazioni (in questo caso obbligatorie) per le fasce più deboli e con figli. La corsa delle tasse locali sugli immobili si affianca a quella sui redditi. I primi aumenti, sui quali sono elaborate le proiezioni del “rapporto”, faranno aumentare l’Irpef municipale del 10,7 per cento rispetto al 2013 (da 140 medi pagati lo scorso anno ai 155 del 2014). E la mano è pesante: su 181 Comuni che hanno già deliberato le nuove aliquote 2014 che pagheremo in busta paga per quest’anno e il conguaglio del prossimo, 61 hanno messo in campo aumenti, circa un terzo. Stessa musica per l’Irpef regionale: quattro regioni (Piemonte, Liguria, Lazio e Umbria) hanno già aumento le aliquote di quest’anno arrivando al tetto del 2,33 per cento. Il costo medio salirà del 12,7 per cento passando da un costo medio di 363 euro ai 409 euro del 2014. Tutto in busta paga a mangiare il bonus di Renzi che si troverà nel corso dell’anno a combattere con la lenta e inesorabile erosione che, malgrado le intenzioni positive, rischia di diventare un mini-bonus. del 10/04/14, pag. 5 Il Jobs Act in salsa Perugina I dipendenti della multinazionale svizzera al congresso della Flai Cgil: "No ai ricatti, si ascolti la nostra controproposta" Antonio Sciotto No al Jobs Act in salsa Perugina. La Cgil giudica “irricevibile e provocatoria” la proposta di flessibilizzare i contratti avanzata dalla Nestlè, proprietaria dello storico marchio dolciario italiano. La posizione è stata ribadita ieri al congresso della Flai Cgil, a Cervia, dove erano presenti diversi delegati del gruppo alimentare svizzero. L’azienda ha specificato che “non intende abolire il tempo indeterminato”, ma secondo la Flai sussiste comunque un “alto rischio di precarizzazione” nella proposta di trasformare i contratti full time in part time. “Così si riduce il salario, si mette a rischio il futuro di tante persone che da anni lavorano per la Perugina”, dice Marco Ballerani, che come altre 1100 persone – tra fissi e stagionali – produce cioccolatini, biscotti e caramelle nello stabilimento di San Sisto, a Perugia. Gli operai dei Baci, peraltro, già da diversi anni non hanno vita facile: da quando è iniziata la crisi, infatti, hanno dovuto tamponare i periodi di bassa produzione (primavera ed estate, quando per il caldo si arresta la vendita di cioccolata) con sempre più pesanti iniezioni di cassa integrazione e solidarietà. Una situazione che per i conti della multinazionale svizzera si è rivelata sempre più “inefficiente”, e così nell’ultimo faccia a faccia con i sindacati, lo scorso 4 aprile, si è tentato il colpaccio: “Ci hanno detto che se volevamo confrontarci sull’integrativo di gruppo, motivo per cui ci eravamo incontrati – racconta Sara Palazzoli, segretaria Flai dell’Umbria – avremmo dovuto discutere insieme una loro proposta sulla flessibilizzazione dei contratti. A quel punto abbiamo rotto le trattative, per noi i due temi devono restare separati”. Chi lo sa, forse stimolata dal decreto Poletti, che liberalizza al massimo i contratti a termine, la Nestlè ha pensato bene di pigiare il piede sull’acceleratore della flessibilità. 33 D’altronde, le lamentele delle imprese sono sempre le solite, e purtroppo i sindacati – soprattutto se lasciati soli dalla politica – per replicare hanno armi ogni giorno più spuntate: “Dicono che il dolciario con la crisi ha perso il 35% di vendite – spiega il delegato Perugina – e che in altri paesi, come per esempio in Germania, dove producono le capsule per il Nespresso, trovano condizioni migliori per investire. Su questo possiamo anche dargli ragione: è vero che da noi la burocrazia e le tasse sul lavoro sono penalizzanti, ma sulla flessibilità non ci stiamo. Abbiamo già dato”. In effetti, dei 1100 addetti Perugina, 300 sono stagionali: vengono chiamati al lavoro solo per i periodi di “curva alta” (da fine estate a Pasqua). Degli altri 800, tutti a tempo indeterminato, circa 260 sono già part time, secondo una formula che ha fatto scuola nell’industria alimentare italiana. Sono infatti contrattualizzati per 30 ore settimanali, ma in realtà le fanno soprattutto nei periodi di “alta”: arrivando spesso anche fino a 40 o 48 ore a settimana. Tutte le ore aggiuntive a quelle base, vengono poi “smaltite” nei periodi di “curva bassa” (da aprile a fine luglio): pur restando a casa, così percepiscono comunque lo stipendio. Il problema si pone per gli altri 540 operai: essendo full time, sono diventati un rompicapo per il gruppo, che li ritiene troppo “rigidi”, sempre meno adatti al mercato, che chiede ogni anno una stagionalità più spinta. Per questi perugini, e analogamente per i circa 400 addetti delle industrie del gelato Nestlè di Parma e Ferentino, la multinazionale chiede adesso la conversione in “altri contratti”, part time. “Siamo disposti a confrontarci sulla stagionalità, ma niente ricatti”, hanno dichiarato ieri Flai, Fai e Uila. E da Perugia i delegati Flai spiegano la contro-proposta del sindacato: “Perugina potrebbe reinternalizzare tanti servizi che oggi dà in appalto, recuperando così alcuni posti per gli interni: negli anni passati i lavoratori erano già addetti a diverse mansioni, mica stavano solo sulle linee. Inoltre ci chiediamo che piani industriali si propongono per l’Italia: se investissero su nuovi prodotti, forse potremmo lavorare di più”. Il timore, per tutti i 4 mila dipendenti Nestlè italiani, è che la multinazionale svizzera sia sempre più intenzionata a disimpegnarsi dal nostro Paese. 34