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RASSEGNA STAMPA
giovedì 10 aprile 2014
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
SOCIETA’
BENI COMUNI/AMBIENTE
INFORMAZIONE
CULTURA E SCUOLA
INTERESSE ASSOCIAZIONE
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
L’UNITÀ
AVVENIRE
IL FATTO
REDATTORE SOCIALE
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da il Mattino.it del 09/04/14
Ciak, gli studenti girano: ecco Filmap, nuovo
centro di produzione a Ponticelli
Un progetto che nasce come risposta emergenziale ai vuoti istituzionali,
culturali, sociali, familiari della periferia est di Napoli.
FILMaP è un centro di formazione e produzione cinematografica che nasce a Ponticelli
nella masseria Morabito, sede storica di Arci Movie, quale esito di un lavoro culturale e
sociale che l’associazione svolge da 25 anni sul vasto territorio della periferia orientale di
Napoli.
Arci Movie, nata nel 1990 per scongiurare la chiusura del cinema Pierrot, unica sala della
zona orientale di Napoli, ha da sempre caratterizzato la sua azione di promozione sociale
e culturale con cineforum, rassegne, arene estive, attività educative e formative.
In particolare, i laboratori di cinema realizzati con i giovani e le scuole hanno incontrato da
sempre una straordinaria partecipazione. Da qui l’idea di un cinema leggero, promosso
con la cooperativa Parallelo 41 Produzioni, realizzato con costi bassissimi, tecnologie
digitali, troupe ridotte, location di strada, attori e talenti provenienti dalla realtà al fine di
creare film scritti e diretti da ragazzi, coinvolti in prima persona in un ampio processo che,
attraverso la dimensione del lavoro collettivo, tende a valorizzare le singole competenze.
A questa esperienza, nel corso del tempo, si è affiancata la promozione del cinema
documentario napoletano e nazionale, particolarmente vivace negli ultimi 15 anni,
attraverso AstraDoc - Viaggio nel cinema del reale, rassegna sul documentario d’autore
che Arci Movie organizza dal 2009 in collaborazione con l’Università degli Studi di Napoli
“Federico II” ed il Coinor, riaprendo le porte dello storico Cinema Academy Astra di Napoli.
Giunta alla sua V edizione, Astradoc è oggi per il pubblico napoletano e per i
documentaristi italiani un appuntamento importante ed un’apprezzata occasione di
promozione delle loro opere. Di questo percorso educativo, formativo, produttivo e di
difussione, FILMaP è il naturale sviluppo, prevedendo tre diverse attività: Movielab –
Laboratori gratuiti di cinema per bambini e ragazzi dai 10 ai 18 anni condotti da filmmakers
napoletani, con oltre 200 partecipanti, 60 ore di didattica per ogni modulo, circa 40 scuole
coinvolte e 20 cortometraggi da realizzare.
I laboratori, concordati con le scuole e con il sostegno dei dirigenti scolastici e degli
insegnanti, prevedono un’alfabetizzazione al linguaggio cinematografico unita ad
esercitazioni pratiche di ripresa e di montaggio. Durante lo svolgimento di ogni laboratorio,
sotto la guida di docenti esperti, i ragazzi lavorano allo sviluppo di soggetti per la
realizzazione di cortometraggi, di cui saranno protagonisti. I film realizzati saranno poi
distribuiti attraverso i canali dei festival di riferimento. Tra i filmmakers coinvolti al
momento, Lorenzo Cioffi, Claudio D'Avascio, Antonio Manco, Sebastiano Mazzillo e
Marcello Sannino. Atelier di Cinema del Reale – Percorsi gratuiti di formazione e
produzione cinematografica per giovani dai 18 ai 28 anni, in un arco temporale che andrà
da settembre 2014 a luglio 2015, articolati in 4 moduli con il coordinamento scientifico del
regista Leonardo Di Costanzo, riservato a 16 partecipanti selezionati con bando pubblico.
Previste 400 ore di full immersion formativa per un totale di 10 settimane con incontri
giornalieri di 8 ore per 5 giorni a settimana; 22 giornate di master class con professionisti
ed eccellenze del mondo del cinema; 10 settimane per l’elaborazione dei film; 200 ore di
stage da svolgersi presso i partner di produzione cinematografica del progetto; 20 film
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documentari da realizzare con i partecipanti che saranno registi, operatori, montatori,
tecnici del suono. Il percorso formativo, orientato al cinema documentario e condotto da
Leonardo Di Costanzo, sarà per i giovani partecipanti una reale occasione di esperienza
formativa, creativa e professionale da affrontare, con esperti dei vari settori, in tutte le sue
parti, dall’ideazione di un soggetto fino al montaggio.
Al termine di questa prima fase ognuno dei partecipanti realizzerà un cortometraggio
documentario. I partner produttivi, dopo la fase di formazione, seguiranno il percorso di
sviluppo e realizzazione di 4 lungometraggi documentari con 4 troupe formate dai 16
partecipanti e seguite da esperti e tutor con professionalità riconosciute. L’Atelier si
concluderà con una presentazione pubblica di tutte le opere realizzate, che, grazie al
coinvolgimento di partner distributivi, saranno diffuse attraverso i circuiti nazionali ed
internazionali dei festival di cinema. Service e produzioni – Punto di riferimento tecnico per
la produzione con noleggio di attrezzature e personale specializzato. Il progetto prevede
l’acquisto di attrezzature di ripresa e montaggio professionali, che permetteranno di
produrre lavori audiovisivi di alta qualità, fino al formato 4k, ed utilizzabili sia per la
realizzazione di film documentari che di film di finzione. Grazie alla costituzione di un
parco di strumenti tecnici digitali,
FILMaP ambisce a diventare un polo culturale di riferimento non solo sul territorio
napoletano e campano, ma anche su quello nazionale e internazionale, con il
coinvolgimento di partner diversi per competenza e specificità. Quattro sono le società di
produzione cinematografica che parteciperanno attivamente: Indigo film, Oscar con La
grande bellezza di Paolo Sorrentino; Figli del Bronx, Leone d’Oro come Miglior Opera
Prima alla Mostra Internazionale del Cinema di Venezia con La-Bas di Guido Lombardi;
Parallelo 41 Produzioni, Miglior Opera Prima al Festival Internazionale Cinemà du Reel di
Parigi con Il Segreto di Cyop&Kaf; ed infine Teatri Uniti, produttrice del film documentario
394 – Trilogia nel Mondo sulla tournée teatrale mondiale di Toni Servillo. Inoltre,
l’associazione Cinema e Diritti, che promuove il Festival del Cinema dei Diritti Umani di
Napoli, il Festival Prix Jeunesse di Monaco di Baviera e l’associazione nazionale di cultura
cinematografica UCCA (Unione dei Circoli Cinematografici Arci), per garantire una
circuitazione delle opere realizzate. Infine, la Mediateca Il Monello di Napoli, con un
patrimonio di oltre 7000 film a disposizione gratuita, e numerosi istituti scolastici,
interlocutori primari per quanto riguarda lo svolgimento dei laboratori di cinema dedicati ai
bambini e ai ragazzi.
http://www.ilmattino.it/NAPOLI/CULTURA/filmap-ponticelli/notizie/623562.shtml
Da Redattore Sociale del 09/04/14
Sopravvissuto al massacro di Sabra e Chatila,
racconta la sua storia in un libro
Nidal Hamad, palestinese sopravvissuto alla strage del 1982 in Libano
in cui ha perso una gamba, è stato curato all’Istituto ortopedico Rizzoli,
insieme a oltre 50 feriti. Domani presenterà a Bologna la raccolta di
racconti “L’alba degli uccelli liberi”
BOLOGNA – Nato in un campo profughi in Libano da una famiglia palestinese in fuga
dalla Galilea occupata, Nidal Hamad è rimasto ferito durante l’invasione israeliana del
1982. Nel massacro di Sabra e Chatila che provocò migliaia di morti e di feriti, Hamad
perse una gamba. Il Comune di Bologna rispose alla richiesta di aiuto da parte di
palestinesi e libanesi e ospitò e curò a sue spese oltre cinquanta feriti. Tra di loro c’era
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anche Hamad, che fu ricoverato all’Istituto ortopedico Rizzoli. Da quell’esperienza è nato il
libro di racconti “L’alba degli uccelli liberi”. Scrittore e giornalista, Hamad oggi vive a Oslo
dove è presidente della comunità palestinese di Norvegia.
Il 10 aprile Nidal Hamad parteciperà a “Dalla Palestina con Bologna nel cuore”, evento
promosso da Assopace Palestina Bologna con il circolo Arci e con il patrocinio dell’Istituto
ortopedico Rizzoli e della Fondazione Carisbo. “Sarà l’occasione per ricordare quella
vicenda e per parlare della situazione attuale in Palestina”, dice Roberto Morgantini di
Assopace Palestina Bologna. Nidal Hamad sarà intervistato da Franco Di Giangirolamo.
Saranno le parole del poeta palestinese Mahmoud Darwish, lette dall’attore Fiorenzo
Fiorito, ad accompagnare il racconto dell’esperienza bolognese di Nidal Hamad. L’incontro
si tiene il 10 aprile alle 18 nella Sala Vasari dell’Istituto Rizzoli (via Pupilli, 1 – ingresso
dall’area ospedaliera).
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ESTERI
del 10/04/14, pag. 12
Palestina, Kerry critica lo stop di Israele ai
colloqui
Gerusalemme decide il blocco dei contatti con l’Anp ● Gli Usa:
falliscono i negoziati di pace
Umberto De Giovannangeli
L’ira statunitense non fa breccia nelle granitiche certezze di Benjamin Netanyahu. Le
affermazioni critiche da parte del segretario di Stato John Kerr y sulle ragioni che hanno
determinato lo stop ai negoziati di pace con l’Autorità nazionale palestinese di Mahmoud
Abbas (Abu Mazen) hanno scatenato la reazione del primo ministro dello Stato ebraico.
Netanyahu passa alla controffensiva. In una duplice direzione: Washington e Ramallah. Al
«moderato» Abu Mazen, Netanyahu imputa di voler scatenare il secondo tempo della sua
«intifada diplomatica », minacciando di chiedere di far parte di 15 organismi internazionali
legati alle Nazioni Unite. Per i falchi di Gerusalemme si tratta di una provocazione
inaccettabile. Ecco allora le contromisure,
BRACCIO DI FERRO
«Bibi» ordina a tutti i suoi ministri di interrompere qualsiasi relazione, dialogo,
negoziazione, con i loro omologhi palestinesi. L’Anp «deve pagare un prezzo alto» per le
sue «provocazioni» unilaterali, avverte il ministro degli Esteri israeliano, Avigdor
Lieberman. Da Ramallah si prova a minimizzare ma l’impatto più pesante che
l’«ordinanza» di Netanyahu potrebbe avere riguarda la possibilità pressoché una certezza,
di uno stop all’erogazione del trasferimento delle tasse raccolte da Israele per conto
dell’Autorità palestinese. Si tratta di un a somma che si aggira attorno ai cento milioni di
dollari, vitali per pagare gli stipendi a i funzionari e dipendenti pubblici dell’Anp. Non basta,
l’intesa mediata nel novembre scorso dal segretario di Stato Usa, faceva sì che Israele
s’impegnasse a liberare in quattro fasi 104 palestinesi detenuti prima degli accordi di Oslo
del 1993, in cambio della disponibilità palestinese a tenere in sospeso ogni iniziativa di
adesione a organizzazioni internazionali fino al termine dei colloqui, il prossimo29 aprile.
Ma anche questa mediazione è saltata. Lo scontro è totale. Ed è uno scontro che riguarda
non solo i rapporti tra Israele e la leadership palestinese di Abu Mazen, ma anche, e per
certi versi soprattutto, i rapporti tra Gerusalemme e Washington. La Casa Bianca non ha
nascosto la crescente irritazione del presidente Obama verso l’atteggiamento del governo
israeliano, ritenuto «troppo chiuso» rispetto alla necessità di dare segnali concreti all’Anp
di disponibilità a trattare, almeno su due punti chiave: il blocco della politica di
colonizzazione degli insediamenti nei Territori, e il mantenimento degli impegni assunti
sulla liberazione dei detenuti palestinesi. Ora l’eterna partita del negoziato sembra
azzerarsi. Il linguaggio che torna a dettar legge è quello della forza. Gli innumerevoli tour
diplomatici di Kerry in Terrasanta non hanno prodotto risultati. «La misura è colma», è
sbottato nei giorni scorsi Obama. Ma da Gerusalemme, gli «alleati» israeliani non
intendono mollare. La destra non ha mai amato Barack Hussein Obama, considerandolo
troppo attento alle invocazioni arabe. Eallora se braccio di ferro deve essere, che sia. Via
libera ad un piano di costruzione di altre 708 unità abitative a Gerusalemme Est, e un aut
aut a Ramallah: chiedere di essere parte di organismi internazionali è per Netanyahu una
forzatura politica che rasenta il ricatto. E Israele, ribadiscono fonti vicine al premier, ai
ricatti non si è mai chinato. E poco importa se questa «legge non scritta » faccia
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imbestialire l’amministrazione Obama. D’altra parte, Netanyahu sa di poter contare su una
trasversale «lobby israeliana» al Congresso. Quegli «amici », democratici e repubblicani,
non tradiranno mai.
del 10/04/14, pag. 7
No alla maratona di Palestina, Israele ferma la
corsa di al Masri
Israele/Territori Occupati. L'atleta assieme ad altri 30 abitanti di Gaza
doveva partecipare alla maratona della Palestina in programma domani
a Betlemme. Sullo sfondo le restrizioni sempre più rigide che
paralizzano lo sport palestinese
Benyamin Netanyahu, a fronte della crisi nei negoziati, ha ordinato la sospensione della
“cooperazione civile” con l’Anp di Abu Mazen e nuove sanzioni sono attese nei prossimi
giorni. Una prospettiva che, forse, preoccupa i dirigenti dell’Anp ma che non spaventa la
popolazione palestinese “sanzionata” tutti i giorni dall’occupazione israeliana, in tanti
aspetti della vita quotidiana. Incluso lo sport. Domani si corre la Maratona della Palestina
— dalla Chiesa della Natività di Betlemme al Muro, passando per i campi profughi di Aida
e Deheishe fino al villaggio di Khader — e le autorità israeliane impediranno la
partecipazione agli atleti di Gaza. Come nel 2013. Motivo? Per ragioni di “sicurezza”, ma
le autorità militari e i giudici dell’Alta Corte israeliana non hanno fornito spiegazioni. Il
giudice Daphne Barak-Erez ha detto soltanto che la magistratura non può intervenire sulle
decisioni discrezionali del Ministero della Difesa.
Tra gli atleti di Gaza bloccati dagli israeliani c’è anche l’olimpionico Nader al-Masri, 34
anni, che vanta una partecipazione a Pechino 2008. Al Masri ha viaggiato non poco in
questi ultimi anni, ha preso parte a maratone in vari paesi e ha superato senza problemi le
procedure e i rigidi controlli di sicurezza dei giochi olimpici in Cina. Per Israele invece è un
“pericolo”, non “idoneo” per la trasferta in Cisgiordania, distante poche decine di chilometri
da Gaza. «Mi sono preparato per due mesi alla maratona di Betlemme, sapendo di poter
lottare per il primo posto. Per allenarmi ho percorso su e giù i 45 km di lunghezza di Gaza
e al momento decisivo Israele mi dice che non posso andare a Betlemme. E senza alcun
motivo. Sono solo un atleta, pratico uno sport e non faccio nulla di male», ci dice al Masri
che vive a Beit Hanun, a nord di Gaza. «La verità è che (gli israeliani) ci vogliono tenere
chiusi in una gabbia, bloccarci dentro Gaza, impedirci di vivere. Eppure non ci
arrenderemo, continueremo a chiedere i nostri diritti, anche quello di praticare uno sport»,
aggiunge al Masri con tono fermo.
A nulla è servito il tentativo di far revocare il divieto da parte dell’ong israeliana “Gisha”
impegnata a monitorare le violazioni ai valichi tra Israele e i Territori palestinesi occupati.
«Nader al-Masri è l’ennesima vittima della politica di separazione e di decisioni arbitrarie
che ogni giorno colpiscono decine di migliaia di palestinesi», ha protestato “Gisha”,
ricordando che Israele, sulla base degli accordi di Oslo del 1994 deve garantire la
partecipazione dei palestinesi alle competizioni sportive. E alle restrizioni israeliane si
aggiungono quelle altrettanto pesanti che ha introdotto l’Egitto nei confronti della
popolazione di Gaza. Ne sa qualcosa un altro atleta, Bahaa al Farra, compagno di corse di
Nader al Masri. Nell’agosto 2012 ha preso parte ai giochi olimpici di Londra, ora è
prigioniero a Gaza. Gli egiziani non lo fanno uscire da valico di Rafah, gli israeliani da
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quello di Erez. Bahaa al Farra spera di gareggiare nelle Olimpiadi del 2016 in Brasile,
mancano ancora due anni ma a Gaza pochi credono la situazione cambierà sensibilmente
nei prossimi 24 mesi, specie nei rapporti con l’Egitto.
La carriera sportiva è sicuramente terminata per Jawhar Nasser, di 19 anni, e Adam
Halabiya, di 17 anni. Questi due ragazzini, promesse del football palestinese, non
potranno mai più giocare a calcio. Lo scorso 31 gennaio, al termine di un allenamento
nello stadio Faisal Husseini di Ram (Gerusalemme), sono stati sparati nei piedi e nelle
gambe dai soldati israeliani di guardia a un posto di blocco. Secondo la versione dei
militari i due ragazzi avevano cercato di attaccare la loro postazione. Le due vittime
ripetono che i soldati hanno sparato loro senza nemmeno lanciargli un avvertimento e
sospettano che le forze armate israeliane sapessero bene che erano due calciatori poichè
hanno sparato loro appositamente sui piedi. A Jawhar cinque proiettili su un piede e sei
sull’altro, ad Adam una pallottola per piede. Una precisione chirurgica. I palestinesi hanno
chiesto l’espulsione della Federazione israeliana dalla Fifa.
del 10/04/14, pag. 7
Nucleare, a Vienna si volta pagina
Iran. Gli Usa bocciano la nomina di Aboulatebi. La guida suprema, Ali
Khamenei ha assicurato che l’Iran non rinuncerà mai al suo programma
nucleare
Giuseppe Acconcia
La guida suprema, Ali Khamenei ha assicurato che l’Iran non rinuncerà mai al suo
programma nucleare. «Nessuno potrà fermare le conquiste nucleari iraniane», ha aggiunto
Khamenei per contenere le polemiche sollevate dai radicali iraniani, contrari all’intesa di
Ginevra.
Nonostante le parole di Khamenei, l’accordo sul programma nucleare iraniano potrebbe
essere a portata di mano. Proprio ieri si è chiuso a Vienna il terzo round negoziale tra
autorità iraniane e P5+1 (paesi del Consiglio di sicurezza delle Nazioni unite e Germania)
per la definizione dell’intesa tecnica che attui l’accordo temporaneo, raggiunto a Ginevra il
24 novembre scorso, mettendo fine a dieci anni di contenzioso con la comunità
internazionale. Il prossimo round negoziale si terrà a Vienna il 13 maggio prossimo.
Alla fine dei colloqui, Catherine Ashton ha parlato dell’avvio di una nuova fase con la
stesura scritta dell’intesa. Secondo l’Alto rappresentante della politica Estera dell’Unione
europea, spesso scettica per un raggiungimento di un’intesa definitiva con Tehran, è
necessario ancora un «lavoro intenso». Più ottimista è apparso il ministro degli Esteri
iraniano, Javad Zarif. «Abbiamo raggiunto un accordo sul 60% della bozza», ha ammesso.
I punti controversi dell’accordo riguardano la cancellazione graduale delle sanzioni
internazionali contro la Repubblica islamica e il futuro del reattore ad acqua pesante di
Arak.
I negoziati erano arrivati ad un momento di stallo nei mesi scorsi con l’inasprimento della
crisi in Ukraina che ha causato tensioni tra la Russia e gli altri paesi coinvolti nei colloqui.
I negoziati di Vienna erano partiti in salita. Proprio ieri, il Senato degli Stati uniti aveva
votato all’unanimità contro il gradimento all’ambasciatore iraniano alle Nazioni unite,
nominato da Tehran, Hamid Aboutalebi, che aveva preso parte al rapimento di 52 cittadini
americani nell’ambasciata Usa a Tehran nel 1979. Aboutalebi ha assicurato in un’intervista
di non aver partecipato al rapimento ma di aver solo facilitato il rilascio, intervenendo come
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traduttore. Dal canto loro, le autorità iraniane hanno definito «inaccettabile» il rifiuto degli
Usa di approvare la nomina.
Intervenendo sulla vicenda, Khamenei aveva assicurato che non ci potrà mai essere
accordo completo fra Iran e Stati uniti.
«Il governo Usa fa ricorso alla scusa dei diritti umani», ha aggiunto in un tweet la guida
suprema. Il segretario di Stato Usa, John Kerry aveva dichiarato ieri al Congresso che
Washington sarebbe pronta a imporre nuove sanzioni nei confronti dell’Iran non solo
contro il programma nucleare, ma anche in riferimento alle «violazioni dei diritti umani e al
sostegno al terrorismo». A complicare le cose, ieri anche il parlamento europeo aveva
duramente criticato le autorità iraniane, definendole non democratiche. Nel testo si punta il
dito contro la «violazione permanente e sistematica dei diritti fondamentali» e la necessità
che le delegazioni europee incontrino in Iran rappresentanti delle opposizioni politiche.
del 10/04/14, pag. 1/31
Se la Turchia è una potenza con l’immunità
BARBARA SPINELLI
ISTITUITA nel 1949 per unire Europa e America nella guerra fredda, la Nato sta
diventando uno strumento spesso pernicioso, che sopravvive nel disorientamento,
implicato in conflitti armati fallimentari. Alla sua guida una potenza Usa poco disposta a
immettersi in un mondo multipolare, impelagata costantemente in manovre torbide,
abituata a suscitare spettri che poi non controlla.
ALCUNI Stati membri — Turchia in testa — usano la Nato per dilatare nazionalismi e
squilibri regionali senza mai doverne rispondere. Non incarnando più una linea chiara,
l’Alleanza andrebbe sciolta e l’idea d’occidente ridiscussa sul serio: nessuno lo fa.È
quanto si evince dall’inchiesta, pubblicata ieri nel nostro giornale e come sempre
accuratissima, condotta da Seymour Hersh sulla recente crisi siriana. Al centro
dell’indagine: la guerra sventata per un pelo contro Damasco, nell’autunno scorso, e la
maniera in cui l’amministrazione Usa ha rischiato di cadere in una trappola che si era
confezionata con le proprie mani. Una trappola congegnata dal governo Erdogan, in
congiunzione con regimi che l’occidente s’ostina a ritenere amici (Arabia Saudita, Qatar) e
assecondata agli esordi dallo stesso Obama.
Tutti ricordiamo l’incidente che quasi trascinò America e Europa in un’ennesima guerra,
nel 2013. All’origine, un micidiale attacco con armi chimiche (il sarin), il 21 agosto nelle
periferie di Damasco, che fece centinaia di morti. Fu subito accusato il governo siriano, e
Obama dichiarò che la Linea Rossa, da lui fissata il 20 agosto 2012, era stata sorpassata.
L’intervento militare fu presentato come ineludibile, e il governo inglese e quello francese
assentirono (il ministro Bonino annunciò che l’Italia non avrebbe partecipato, senza un
mandato del Consiglio di sicurezza dell’Onu).
Come in Iraq, mancavano tuttavia prove evidenti delle colpe di Assad. L’occidente e la
Nato sono rapidi a parlare; lenti a comprendere gli intrichi regionali, oltre che a imparare
da sbagli passati. Ubriacati dalle rivoluzioni arabe, non avevano calcolato le loro
degenerazioni islamiche, bellicose. Avevano spento Gheddafi creando caos, e il disastro
minacciava di ripetersi, amplificato, a Damasco. Inutilmente lo spionaggio americano
aveva fornito le prove, sin dalla primavera del 2013, che l’esercito siriano non era l’unico a
possedere il gas nervino. La Casa Bianca prima ignorò l’avvertimento, poi fu presa dai
dubbi, poi cambiò di nuovo idea e presentò l’ipotesi dell’attacco siriano come un fatto
incontrovertibile che giustificava la rappresaglia. Proprio come era avvenuto in Iraq, ai
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tempi di Bush jr. O in occasione dell’incidente del Golfo del Tonchino nel ‘64, quando
Johnson s’inventò un’offensiva viet-cong per scatenare bombardamenti del Vietnam del
Nord.
Hersch constata il barcollare nefasto dell’amministrazione Usa, in Siria. Ingenti quantitativi
di gas nervino sono finiti nelle mani del Fronte Al-Nusra, la fazione jihadista presente nel
movimento anti-Assad. Tra i principali fornitori c’era Erdogan (tramite l’azienda turca Zirve
Export), e le consegne vennero organizzate all’inizio del 2012 in accordo con Arabia
Saudita e Qatar, con l’assidua assistenza americana e dei servizi britannici. Si trattava di
piegare l’Iran, alleato chiave di Damasco, e a questo scopo Washington consentì a
incanalare armi chimiche in provenienza dagli arsenali di Gheddafi in Libia. Quando
Washington cominciò a tergiversare, nel 2013, l’asse turco-saudita si diede un obiettivo
preciso: «fabbricare» un attacco chimico di vaste proporzioni, attribuirlo a Assad, e
mettere nell’angolo Obama stringendolo nella morsa della Linea Rossa.
Nell’ultima fase dell’operazione Obama tentò una marcia indietro, cercando di divincolarsi
dall’accordo segretamente concluso con i tre «amici» dell’occidente: con la Turchia
membro della Nato, e con Arabia Saudita e Qatar. Fu a quel punto che Erdogan,
sentendosi abbandonato, ordì l’eccidio del 21 agosto. L’orrore causato dall’uso del sarin
nei sobborghi di Damasco avrebbe indotto la Casa Bianca a rientrare nei ranghi e a
proclamare infranta la Linea Rossa. Cosa che Obama fece, anche se ancora una volta,
alla fine, tornò sui suoi passi: accolse la promessa siriana di smantellare le armi chimiche,
accettò la mediazione di Putin, e fermò l’offensiva contro Damasco.
C’è qualcosa di marcio in occidente e nella Nato, se un paese membro può impunemente,
addirittura tramite carneficine, portare l’Alleanza sul bordo della guerra. Se l’impunità
impedisce che la verità venga alla luce: la verità di un’America incapace di imbrigliare le
deviazioni violente di propri alleati, e l’uso che vien fatto della Nato come scudo, e come
scusa. E c’è del marcio nell’Unione europea, che da anni tratta con Ankara senza mai
indagare sulle sue condotte di potenza regionale irresponsabile. Erdogan ha vinto di
nuovo le elezioni, il 30 marzo, e subito ha minacciato gli oppositori interni ed esterni senza
tema d’esser redarguito: «Chi ha attaccato la Turchia è rimasto deluso, e da domani può
essere che qualcuno scapperà. Noi però entreremo nei loro covi, e loro pagheranno il
prezzo». Questo significa che nessuna istituzione occidentale — Nato o Unione europea
— è in grado di garantire un ordine nel mondo, come pretende. È vero piuttosto il
contrario: ambedue stanno divenendo garanti del caos, e di manovre che mal-governano e
neppure capiscono. Continuano a considerare Siria e Iran grandi nemici, e non si rendono
conto che stanno invischiandosi in un Grande Gioco a fianco di alleati inaffidabili (Turchia,
Arabia Saudita, Qatar), il cui primo interesse strategico è regolare i conti con l’Islam sciita.
La cosa più inquietante è la volubile incompetenza degli Stati Uniti, nel Grande Gioco.
Solo in parte dominano la storia che fanno, divisi tra establishment militare, servizi,
ideologi politici. Washington precipita spesso in imboscate di cui si libera a stento (quando
si libera, ricade nel vecchio bipolarismo russo-americano). Lo si è visto in Iraq,
Afghanistan, Libia. Appena due giorni prima dell’attacco che aveva programmato in Siria
Obama chiese l’approvazione del Congresso, e fu il primo segno di un ritiro volontario
dall’operazione turco-saudita, opportuno ma umiliante. Lo stesso era successo nell’ormai
irrilevante Inghilterra: Cameron s’era già armato di tutto punto, e il 30 agosto 2013 il
Parlamento votò contro e lo svestì.
L’accumularsi di simili incidenti dovrebbe spingere l’Europa a dotarsi di una comune
politica estera e di difesa, che non sia al traino della sempre più fiacca, ingabbiata potenza
Usa. Dal 2005 Bruxelles negozia con Ankara, rinviando continuamente l’ingesso
nell’Unione, ma la questione decisiva non l’affronta: in Europa non si entra con un’intatta
sovranità assoluta, e questo nessuno s’azzarda a dirlo a chi si candida all’adesione
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(analogo errore fu commesso nell’allargamento a Est). Non si entra neppure senza la
memoria dei propri misfatti: nel caso turco, il genocidio degli armeni nel 1915-16. Non è
una questione minore, visto che Erdogan non esita a produrre e distribuire nel mondo il
gas nervino, e a provocare massacri pur di raggiungere — sotto l’ombrello della Nato — le
proprie mire nazionaliste.
Il caso siriano e la trappola turco-saudita (originariamente turco-saudita-americana)
confermano che l’ordine mondiale non può più essere affidato alla sola e imprevedibile
leadership Usa. Il nuovo ordine ha da essere multipolare, e l’Europa dovrà, in esso,
conquistarsi un suo spazio. L’attacco occidentale contro la Siria è stato cancellato
all’ultimo minuto, ma casi simili possono riprodursi, e che le cose erano marce lo si saprà
sempre troppo tardi. Troppo tardi si apprenderà che Occidente è parola piena di strepito,
buoni propositi, vista corta, e anche inciviltà.
del 10/04/14, pag. 17
L’ultimatum di Kiev ai filorussi 48 ore per
risolvere la crisi
Ma Putin avverte: «Non fate errori»
MOSCA — Il governo di Kiev ha deciso di minacciare il ricorso alle maniere forti per
liberare gli edifici pubblici occupati in due città dell’Est, Luhansk e Donetsk. Dentro i
palazzi non ci sarebbero ostaggi, come le autorità avevano detto in un primo momento,
ma ingenti quantità di armi. «Una soluzione si troverà in ogni caso entro le prossime 48
ore» ha annunciato ieri il ministro dell’Interno. Alcuni degli occupanti, una cinquantina,
hanno spontaneamente abbandonato l’impresa, mentre altri hanno rinforzato le difese con
filo spinato e bottiglie incendiarie pronte all’uso. «La minoranza che vuole lo scontro avrà
una risposta decisa da parte delle autorità ucraine» ha ammonito il ministro.
Questo mentre la diplomazia internazionale è al lavoro per organizzare un incontro tra
tutte le parti per la settimana prossima. Gli Stati Uniti avevano già annunciato una data,
ma il ministro degli Esteri russo Sergej Lavrov frena, perché vuole che al vertice
partecipino anche rappresentanti delle regioni in rivolta e che si parli della nuova
costituzione che Kiev dovrebbe varare. Sia Lavrov sia il segretario di Stato John Kerry si
sono intanto appellati a tutti gli ucraini per evitare il ricorso alla violenza.
Ma la tensione non scende, anche perché da tutte le parti continuano ad arrivare
dichiarazioni che vengono giudicate provocatorie dagli interlocutori. «Spero che le autorità
provvisorie non faranno niente di irreparabile» ha dichiarato per esempio Putin. A Mosca si
è parlato delle forniture di gas in una riunione di Vladimir Putin con il governo trasmessa in
parte dalle televisioni. Come se la cosa fosse stata orchestrata, ha iniziato il ministro
dell’Energia il quale, con aria seria, ha comunicato che gli ucraini «non hanno pagato il
debito di 2,2 miliardi di dollari». Poi ha preso la parola l’ex delfino di Putin, Dmitrij
Medvedev, che negli anni passati era stato visto come il possibile «democratizzatore».
Medvedev, che ora è primo ministro, ha interpretato il classico ruolo del poliziotto cattivo
dei telefilm. «Veramente, ha esordito, il debito complessivo è di 16,6 miliardi. Perché il gas
non pagato ammonta a 2,2; poi ci sono i 3 miliardi del mutuo; quindi 11,4 miliardi di
anticipo di sconto e di mancato profitto per la Russia». Questo, dunque, calcolando la
prima fetta dell’accordo da 15 miliardi che aveva spinto l’ex presidente ucraino ad
allontanare il suo Paese dall’Europa. E con un curioso ragionamento sull’annessione della
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Crimea: visto che ora la base della marina russa a Sebastopoli non è più in territorio
ucraino, salta l’intesa sull’affitto e quindi Kiev deve restituire tutti i soldi incassati dall’inizio.
Putin ha quindi riassunto la situazione: «Dunque Gazprom fornirà solo il gas pagato con
un mese di anticipo». E, da bravo padre di famiglia, ha proposto la sua mediazione:
«Chiederei al governo e a Gazprom per ora di astenersi dall’applicare queste norme
previste dal contratto. In attesa di consultazioni con i partner». Naturalmente se la
controparte si comporterà bene. Cioè come vuole il Cremlino.
Fabrizio Dragosei
del 10/04/14, pag. 18
Fra gli eredi di Stakhanov in rivolta. “Quelli di Kiev non ci fanno paura,
siamo pronti a combattere”
Ultimatum ai filo-russi per sgomberare i palazzi governativi. Mosca:
“Pagate il gas in anticipo”
Nelle miniere di Donetsk “La Madre Russia è
il nostro destino”
NICOLA LOMBARDOZZI
DAL NOSTRO INVIATO
GORLOVKA (UCRAINA)
L’ULTIMA boccata d’aria prima di scomparire a più di un chilometro sottoterra, sa di uova
marce e di un fumo tanto denso da poterlo masticare. È un regalo delle decrepite e
sforacchiate ciminiere del vicino impianto chimico per tutti i mille e duecento minatori della
Gaevogo, orgoglio della produzione carbonifera del Donbass e anima della rivolta che sta
spezzando in due l’Ucraina. Fazzoletto sul volto, occhi lucidi, tosse profonda, Yurij, biondo
e muscoloso quarantenne, si guarda intorno e prova a mostrarsi sicuro di sé: «Ancora
pensate che a gente come noi possano fare paura la polizia ucraina o quegli sciacalli di
Kiev? Vogliono attaccarci? Ci hanno dato un ultimatum di 48 ore per sgomberare i palazzi
governativi? Peggio per loro».
Da giorni, da quando è cominciata la protesta dei filo russi in tutta l’Ucraina dell’Est, Yurij
si fa ogni giorno i suoi turni di sei ore in fondo al pozzo. Scava, il più possibile perché il
salario (in media di 900 euro) è legato alla produzione e perché in giornate come queste
basta qualche minuto di ritardo per rischiare il licenziamento da parte dell’azienda statale
ucraina che dirige le miniere. Poi torna a casa, nella sua baracca con il tetto di lamiera, e
un orto devastato da una polvere grigiastra che impregna tutta la campagna. Un paio di
ore di riposo e poi un altro turno questa volta volontario. Insieme alla moglie Irina, sulla
piccola Lada rossa comprata a rate, Yurij attraversa 45 chilometri di campagne incolte,
capannoni industriali e case popolari sovietiche per montare la guardia, con tanti altri
colleghi, alla sede degli uffici regionali del capoluogo Donetsk occupati dai russi che
vogliono l’indipendenza da Kiev. O almeno una autonomia tale da garantire loro
«sopravvivenza e dignità» come ripetono nelle innumerevoli discussioni che si fanno a
tutte le ore a Mariupol, Artemivsk, Sloviansk e in tutta la valle satura di carbone del fiume
Donec.
Strani tipi di lavoratori questi minatori del Donbass. Aria dimessa, poche chiacchiere, una
sorta di rassegnazione allo sfascio delle strutture, alla povertà dei salari, alla spaventosa
insicurezza degli impianti che tra esplosioni e fughe di gas avrebbero fatto quasi
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cinquemila morti in vent’anni. Ma quando si tratta di politica interna, degli equilibri tra
minoranze, e dell’orgoglio russo, cambia tutto. Il dibattito si fa intenso, la partecipazione
totale. Te ne accorgi proprio all’ingresso della Gaevogo. Sul piazzale attraversato dai
binari e delineato da quattro monumentali palazzi in stile sovietico.
I minatori entrano da questi giganteschi portoni neoclassici più adatti a un ufficio che a una
miniera di carbone. Anche all’interno l’effetto è più ministeriale che industriale: un grande
atrio con lucernario, bandiere, busti di autorità dimenticate. E gli immancabili pannelli
fotografici con immagini ingiallite di personaggi sorridenti con le grigie giacche sovietiche
ricolme di medaglie. Sembrano antichi esponenti del Politburo o cosmonauti degli anni
Sessanta. Sono invece minatori pluripremiati negli anni per i loro record di estrazione.
Seguaci del conterraneo Stakhanov entrato nella storia, e in tutti i vocabolari del Pianeta,
nel lontano 1935.
Prima di attraversare tutto l’atrio, accedere agli spogliatoi, alle docce e, finalmente,
«all’ascensore per l’inferno», ci si ferma nell’ufficio della propria sezione a fare il punto. È
qui che il dibattito raggiunge il top. Dalla porta aperta della sezione numero 17 si sentono
parole forti. Si commenta il rialzo, quasi il raddoppio, del prezzo del gas all’Ucraina e la
decisione di Mosca di imporre il pagamento con un mese di anticipo delle forniture: «Kiev
non può permetterselo, non ha vie d’uscita. Qualche mese ancora e poi l’economia
ucraina finirà a pezzi». Il capo sezione Sergej, 52 anni, riceve nel suo ufficio in perfetto
stile sovietico tra targhe di bronzo, mobili dozzinali e incredibili tendine rosa con ricami
floreali. Parla come un soldato: «Credo che il conflitto armato sia molto probabile. E sono
pronto. Ho combattuto in Nagorno Karabakh con l’Armata Rossa, posso tornare a farlo per
il mio Paese». E spiega le ragioni dei russi: «Mio padre venne qui per guadagnare, come
adesso si va in Siberia a lavorare nei pozzi di petrolio. Incontrò mia madre e sono nato io.
Non voglio la guerra. Mi accontento di una repubblica federale che consenta alla nostra
regione di continuare i commerci con la Russia. L’Europa non sa che farne del nostro
carbone né dei nostri metalli. Chiudere tutto questo porterebbe al caos totale».
Razionali, forse meglio informati sulle strategie di Mosca, i minatori non si lanciano come
altri manifestanti in desideri apparentemente impossibili come l’annessione alla Russia o
la divisione in due del Paese. «Il federalismo ci basta. Certo invidiamo la Crimea,
sappiamo che in Russia guadagneremmo di più, ma non vogliamo rompere con l’Ucraina.
Vogliamo solo convincere Kiev a prenderci sul serio». Salvo reagire in caso di azioni di
forza della polizia. Ma con quali armi? Con quale organizzazione militare? Sergej si
illumina in un sorriso marziale: «Di questo, per il momento, non è ancora il caso di parlare.
Speriamo ».
del 10/04/14, pag. 13
L’India va alle urne
Trema la dinastia Gandhi
Gabriel Bertinetto
Ieri è toccato a Nagaland, Manipur, Arunachal Pradesh e Meghalaya, tutti Stati del nordest, come l’Assam e il Tripura che erano già andati alle urne lunedì. Domani sarà il turno
del Mizoram. E poi, a scaglioni, altri seggi apriranno il 12, 17, 24, 30 aprile, e ancora il 7 e
12 maggio. Così si svolgono le elezioni in India. Non è una novità. È piuttosto una
necessità, imposta dai tempi che servono a ridislocare esercito e polizia da un parte
all’altra dell’immenso territorio per garantire ovunque condizioni di voto sufficientemente
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sicure. Ci vorrà dunque ancora più di un mese per sapere se i nazionalisti del Bharatiya
Janata (Bjp) subentreranno al Congresso nel governo del Paese. Così prevedono i
sondaggi, che in India però sbagliano sovente. L’esito delle parlamentari tra l’altro questa
volta interessa in maniera particolare l’Italia, perché influirà sulla vicenda dei due marò
nostri connazionali che sono trattenuti a Delhi per l’uccisione di due pescatori scambiati
per pirati del mare. Chiunque prevalga, la sorte di Massimiliano Latorre e Salvatore
Girone, sarà finalmente svincolata dagli opportunismi elettoralistici che hanno
probabilmente condizionato finora le scelte e le non scelte delle autorità locali nei loro
confronti.
INCUBO CORRUZIONE
Campagna elettorale come sempre caldissima in India. Polemiche, scambi di accuse. E un
tema al centro dell’interesse nazionale: la corruzione. Tutti promettono di sradicarla, ma
qualcuno fa più fatica a essere convincente, ed è il partito del Congresso. Che ha
governato da solo o con altri per 54 anni dei 67 trascorsi dall’indipendenza. Devastanti per
la sua immagine gli ultimi quattro anni in cui la rabbia popolare per le mille piccole e grandi
tangentopoli è esplosa. Diventando movimento d’opinione, mobilitazione di massa, e infine
organizzazione politica. Fra i partiti in gara infatti, l’Aam Aadmi Party (letteralmente il
Partito dell’Uomo Comune) di Arvind Kejriwal chiama i cittadini a raccolta intorno a un
unico obiettivo: punire severamente i corrotti e spezzare il legame che secondo loro tiene
strettamente avvinghiati gli uni agli altri i leader dei partiti tradizionali, buona parte del
mondo degli affari e la grande stampa. Quattro mesi fa Kejriwal fra la sorpresa generale
ha conquistato la maggioranza relativa nelle elezioni locali a Delhi, la capitale. E ha subito
sperimentato quanto fosse difficile mettere in atto i suoi propositi riformatori, incontrando
l’opposizione di tutte le altre formazioni politiche contro il progetto di nominare una figura
indipendente che indagasse su amministratori pubblici e affaristi privati accusati di reati
contro il patrimonio statale. Dopo 49 giorni ha gettato la spugna rinunciando alla carica di
governatore. La sua popolarità da allora è però andata aumentando. Ecco perché molti
analisti vedono nell’Aam Aadmi una forza in grado di sconvolgere l’equilibrio bipolare
imperniato sul Congresso e sul Bjp. Quest’ultimo partito, se i pronostici saranno rispettati,
conquisterà la maggioranza relativa dei seggi. Per formare un governo avrà però bisogno
di stringere alleanze con qualcuno degli undici partiti regionali, che al momento sono
coalizzati fra loro, ma come è spesso accaduto in passato, si muoveranno poi in ordine
sparso a elezioni concluse. Qualcuno schierandosi all’opposizione, altri saltando sul carro
del vincitore. Il potere condizionante delle forze regionaliste è parte integrante della
fisiologia politica indiana, quasi una regola del gioco. In questo contesto il probabile
successo del partito anti- corruzione potrebbe inserire un elemento di disturbo rilevante,
anche perché Kejriwal ha detto di non volersi alleare con nessuno. Il suo attacco alla
mercificazione della politica investe il Bjp non meno del Congresso. Se quest’ultimo si
affida stavolta a Raul Gandhi, figlio dell’italiana Sonia Maino, orfano dell’ex-premier Rajiv e
nipote della celebre Indira, il Bjp ha come leader Narendra Modi, figura particolarmente
controversa. Nel suo curriculum sono i successi economici realizzati come premier del
Gujarat, ma anche l’appoggio ai movimenti estremisti indù. Il Bharatiya Janata (Bjp) ha
sempre fatto dell’Hindutva («Identità Indù ») il suo cavallo di battaglia ideologico.
L’orientamento pro-business in materia economica si abbina a un populismo di stampo
religioso ed etnico. Modi si è distinto più di altri nel suo partito per il sostegno alle
campagne anti-islamiche di gruppi oltranzisti e violenti. Benché nei comizi delle ultime
settimane abbia tentato di mettere la sordina a un certo tipo di invettive, nessuno
dimentica la frase con cui solo pochi mesi fa commentò gli scontri fra estremisti di diversa
appartenenza politico-religiosa in cui alcuni musulmani erano rimasti uccisi: «Non soffro
più di quanto non mi addolori la morte di un cane investito da un’auto».
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INTERNI
del 10/04/14, pag. 4
Europee, la cavalleria rusticana Pd
Daniela Preziosi
Democrack/Europee. Renzi: donne capolista, ma esplode il caso Sicilia.
L’escluso accusa: vendetta mafiosa. Duello Crocetta-Raciti. Il premier fa
lo show e la pace con le donne. Ma non riesce a oscurare la guerriglia. I
pugliesi chiedono il ritiro di Emiliano. Soru vuole garanzie
Ormai la direzione ha il format di uno show, il suo show in diretta streaming. Matteo Renzi
apre la riunione metà torrente impetuoso metà rullo compressore: gag, battute, scherzi.
Saluta il ritorno Dario Franceschini che si è «ripreso dal coccolone», «faccia una vita meno
spericolata, meno inciuci e trattative». Ironico, persino autoronico. Lo schema è lo stesso
delle conferenze stampa a Palazzo Chigi: lui ci mette la faccia (e fa lo spot), i suoi uomini
(e donne) si smazzano i contenuti. Ieri all’ordine del giorno c’erano le liste per le europee.
Parto difficile, dopo mesi — anni in alcuni casi — di travagli, lavorii e logorii interni. Renzi
fa l’annuncio che colpirà l’opinione pubblica e gli fa fare pace con le donne del suo partito:
a volte, dice, è stato «eccessivo il tono di alcuni e alcune sulla parità di genere in legge
elettorale». Di cui lui, ammette, non è «un pasdaran». Il calumet è avere tutte donne
capolista, «non come bandierine, ma come persone che per esperienza, storia personale
e lavoro fatto possano dare un contributo all’Europa».
Le prescelte sono cinque, una per circoscrizione ma anche una per corrente: la lettiana poi
renziana Alessia Mosca nel nord ovest; la bersaniana con qualche sbandamento
Alessandra Moretti nel nord est, la renziana doc Simona Bonafè al centro, la
franceschiniana Pina Picierno al sud e la siciliana Caterina Chinnici per le isole, figlia del
magistrato ucciso dalla mafia e già assessora della giunta Lombardo. Renzi chiude in
fretta pregando i suoi di glissare su quello che bolle in parlamento: ddl costituzionale,
decreto Poletti, Italicum. «Abbiamo un pluralità di questioni aperte, se le affrontiamo tutte
non reggiamo la discussione di oggi: nei prossimi 50 giorni darei priorità alla campagna
elettorale. Capisco le discussioni, le polemiche, le posizioni diverse ma siamo ad un passo
da una campagna elettorale importante».
Preoccupazione superflua. Da giorni le opposizione interne hanno messo la sordina alle
polemiche (al netto dei 22 senatori dissidenti e di Fassina sul Def). La tregua è dovuta alla
consapevolezza che un’affermazione del Pd alle europee è la precondizione per tutto,
anche per le trattative interne. Ma soprattutto da giorni tutte le correnti sono impegnate
nella delicata partita delle liste. Sotto i nomi noti come Sergio Cofferati e Paolo De Castro,
riconfermati, e il recupero dell’ex ministra Cecile Kyenge, cova la brace. Renzi passa la
palla a Lorenzo Guerini, il vicesegretario di saggezza democristiana nominato apposta per
governare la guerriglia interna.
Che esplode subito, mentre il premier si eclissa. I romani, reduci dalle risse della propria
federazione (nel centro corrono i big Sassoli, Gualtieri, Silvia Costa, Bettini, Domenici)
incrociano i ferri sul «poco rinnovamento». Altro capitolo: la direzione concede la deroga ai
tre mandati solo a Gianni Pittella, candidato alle primarie poi schieratosi con Renzi.
Stavolta a spaccarsi è nientemeno che la commissione di garanzia: per Aurelio Mancuso a
norma di statuto manca il quorum, il presidente Franco Marini lo invita a soprassedere
sulle regole. In diretta streaming.
Ma sono bazzecole in confronto alla cavalleria rusticana che va in scena sul caso Sicilia. Il
governatore Crocetta ha appena rimpastato la sua giunta d’accordo con il renziano
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Faraone, e facendo invece imbufalire Fausto Raciti, segretario regionale e giovane turco
(ma eletto con un accordone interno bipartisan). Crocetta si materializza, i due si
attaccano in più round. Il segretario vuole capolista l’ex assessora Chinnici, il presidente la
sindaca di Lampedusa Giusy Nicolini, che inveve finisce al terzo posto. Crocetta non
ottiene neanche il posto per Beppe Lumia e lamenta un attacco all’antimafia. Raciti però
deve rinunciare a Antonello Cracolici, che nelle liste varate dall’assemblea regionale c’era.
Al suo posto a Roma hanno messo proprio lui, che prova a ritirarsi a favore dell’escluso.
Fra i nomi siciliani ci sono altre perle: come Marco Zambuto, ex Udc, cuffariano, poi
forzista, infine passato nelle truppe renziane. Guerini invita alla calma, e in cambio
dell’approvazione si impegna a un confronto con i vertici siciliani. Cracolici va giù pesante:
«Una vendetta trasversale tipicamente mafiosa dal duo Crocetta-Faraone». Nella
circoscrizione isole i guai non sono finiti.L’ex governatore sardo Renato Soru, candidato,
vuole garanzie: la Sardegna ha meno abitanti e di solito non elegge eurodeputati.
Al Sud non c’è pace: la segreteria pugliese, saputo che Michele Emiliano nonè capolista,
gli chiede di ritirarsi. E dedicarsi da subito alle regionali di marzo. Dove il dopo-Vendola già
divide il Pd. Neanche a dirlo.
del 10/04/14, pag. 8
Tav, il sì del Senato dopo la battaglia
IN AULA LA PROTESTA DEI 5 STELLE CONTRO “IL TUNNEL DELLE
MAFIE”. PD E FI: “FASCISTI ”. RISCHIO SANZIONI PER I GRILLINI
di Luca De Carolis
Un’arena chiamata Senato. Con i Cinque Stelle a urlare senza sosta contro “il tunnel delle
mafie” e gli altri a rispondere con un grande classico, “fascisti”. Cronaca di una mattinata a
Palazzo Madama: trascorsa sempre a un passo dalla rissa, terminata con il via libera alla
Tav, la linea ad alta velocità Torino-Lione. Alla ratifica dell’accordo Italia-Francia sul
corridoio ferroviario hanno detto sì in 173, a fronte di 50 contrari e 4 astenuti. I numeri
dopo la battaglia. I 5 Stelle hanno fatto di tutto per fermare un accordo di cui da settimane
denunciano i rischi. Il principale pericolo, secondo M5S, è l’in - filtrazione della malavita nei
lavori, una torta da 2,8 miliardi in 12 anni. Marco Scibona lo ha ricordato in aula:
“All’accordo del 2012 non si applica il codice nazionale antimafia, perché agli appalti e
subappalti in territorio italiano verrà applicata solo la normativa francese, come recita
l’articolo 6.5 comma 2”. M5S protesta anche per “la cessione di sovranità alla Francia, così
non decidiamo in casa nostra”.
LA GIORNATA parte con la discussione generale. I primi scossoni arrivano dal delegato
d’aula di M5S, Vito Petrocelli, che incrocia il fioretto sul regolamento con la vicepresidente
d’aula, Valeria Fedeli. Il presidente Pietro Grasso non c’è: un’assenza che colpisce molti.
E allora tocca alla senatrice del Pd. M5S ha presentato 1.100 emendamenti, i suoi
senatori si sono iscritti in massa a parlare. Ma in aula si va veloci. Il capogruppo grillino
Santangelo (uscente, il nuovo è Maurizio Buccarella) si sbraccia presto. Carlo Martelli: “La
Tav costerà 700 milioni all’anno per 12 treni al giorno”. Dice no anche Maurizio Rossi
(Popolari per l’Italia): “Le priorità sono altre”. Stefano Esposito (Pd) difende la linea: “Il
corridoio ci consentirà di essere parte del grande progetto di miglioramento dell’ambiente
e di abbassamento del Co2”. Alla presidenza si siede Linda Lanzillotta (Sc). I 5 Stelle
indossano fazzoletti No Tav, cantano in coro battendo sui banchi: “Fuori la mafia dello
15
Stato”. I commessi accorrono, da sinistra arrivano le prime urla contro “i fascisti”.
Lanzillotta si sgola a vuoto. Il grillino Alberto Airola, piemontese, grida senza fermarsi:
“Vergognate - vi”. La parola va al leghista Giacomo Stucchi, e sono subito insulti a
distanza con il 5 Stelle Andrea Cioffi. L’aula diventa una curva. Gian Marco Centinaio
(Lega) se la prende con un’imprecisata grillina: “Stai zitta scimmia”. Dalle tribune una
scolaresca guarda atterrita. Santangelo: “Presidente ci stanno dando dei fascisti,
intervenga”. Lanzillotta sospende la seduta. Dieci minuti, e si riparte. I 5 Stelle mostrano
banconote finte, accusano: “Mafiosi”. Massimo Cervellini (Sel) prova a intervenire, contro
la Tav. Ma il frastuono dai banchi di M5S è assordante. Prende atto: “Non ci permettete di
parlare”. Un suo collega mostra il pugno chiuso. Lanzillotta monita: “Non si può impedire al
Senato di lavorare. Informerò l’ufficio di presidenza, verrà chiesto di valutare sanzioni”. I
leghisti inferiscono: “Presidente, la sua gestione è oscena”. Petrocelli twitta: “Sono mafiosi,
tutti i pro Tav”. Tocca al dem Borioli. Parla circondato dai democratici, come fossero un
cordone di protezione. Interviene la civatiana Laura Puppato, in dissenso dai suoi.
Esposito non gradisce. “Vai con loro” le urla, indicando i grillini. Luigi Zanda la fissa,
severo. Si vota. L’accordo passa, la tensione continua. Airola e Franco Cardiello (Forza
Italia) vengono quasi alle mani, Esposito sfotte con un “ciao, ciao” i 5 Stelle. Per i grillini
potrebbero arrivare sanzioni. “Se ci sospendono andiamo a fare campagna in Val di Susa”
sbotta un senatore.
del 10/04/14, pag. 15
Quanto ci costa il Def della Nato
Manlio Dinucci
Il governo taglia tutto, ma non le spese militari
Mentre nella «spending review» il governo promette una riduzione di 300–500 milioni nel
bilancio della difesa — senza dire nulla, a quanto pare sugli F35 — , l’Italia sta assumendo
nella Nato crescenti impegni che portano a un inevitabile aumento della spesa militare,
diretta e indiretta. La Nato non conosce crisi. Si sta costruendo un nuovo quartier generale
a Bruxelles: il costo previsto in 460 milioni di euro, è quasi triplicato salendo a 1,3 miliardi.
Lo stesso è stato fatto in Italia, dove si sono spesi 200 milioni di euro per costruire a Lago
Patria una nuova sede per il Jfc Naples: il Comando interforze Nato agli ordini
dell’ammiraglio Usa Bruce Clingan – allo stesso tempo comandante delle Forze navali Usa
in Europa e delle Forze navali Usa per l’Africa – a sua volta agli ordini del Comandante
supremo alleato in Europa, Philip Breedlove, un generale statunitense nominato come di
regola dal presidente degli Stati uniti.
Tali spese sono solo la punta dell’iceberg di un colossale esborso di denaro pubblico,
pagato dai cittadini dei paesi dell’Alleanza. Vi è anzitutto la spesa iscritta nei bilanci della
difesa dei 28 stati membri che, secondo i dati Nato del febbraio 2014, supera
complessivamente i 1000 miliardi di dollari annui (circa 750 miliardi di euro), per oltre il
70% spesi dagli Stati uniti. La spesa militare Nato, equivalente a circa il 60% di quella
mondiale, è aumentata in termini reali (al netto dell’inflazione) di oltre il 40% dal 2000 ad
oggi.
Sotto pressione degli Stati uniti, il cui budget della difesa (735 miliardi di dollari) è pari al
4,5% del prodotto interno lordo, gli alleati si sono impegnati nel 2006 a destinare al
bilancio della difesa come minimo il 2% del loro pil. Finora, oltre agli Usa, lo hanno fatto
solo Gran Bretagna, Grecia ed Estonia. L’impegno dell’Italia a portare la spesa militare al
2% del pil è stato sottoscritto nel 2006 dal governo Prodi. Secondo i dati Nato, essa
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ammonta oggi a 20,6 miliardi di euro annui, equivalenti a oltre 56 milioni di euro al giorno.
Tale cifra, si precisa nel budget, non comprende però diverse altre voci. In realtà, calcola il
Sipri, la spesa militare italiana (al decimo posto su scala mondiale) ammonta a circa 26
miliardi di euro annui, pari a 70 milioni al giorno. Adottando il principio del 2%, questi
salirebbero a oltre 100 milioni al giorno.
Agli oltre 1000 miliardi di dollari annui iscritti nei 28 bilanci della difesa, si aggiungono i
«contributi» che gli alleati versano per il «funzionamento della Nato e lo sviluppo delle sue
attività». Si tratta per la maggior parte di «contributi indiretti», tipo le spese per «le
operazioni e missioni a guida Nato». Quindi i molti milioni di euro spesi per far partecipare
le forze armate italiane alle guerre Nato nei Balcani, in Afghanistan e in Libia costituiscono
un «contributo indiretto» al budget dell’Alleanza.
Vi sono poi i «contributi diretti», distribuiti in tre distinti bilanci. Quello «civile», che con
fondi forniti dai ministeri degli esteri copre le spese per lo staff dei quartieri generali (4000
funzionari solo a Bruxelles). Quello «militare», composto da oltre 50 budget separati, che
copre i costi operativi e di mantenimento della struttura militare internazionale. Quello di
«investimento per la sicurezza», che serve a finanziare la costruzione dei quartieri
generali, i sistemi satellitari di comunicazione e intelligence, la creazione di piste e approdi
e la fornitura di carburante per le forze impegnate in operazioni belliche. Circa il 22% dei
«contributi diretti» viene fornito dagli Stati uniti, il 14% dalla Germania, l’11% da Gran
Bretagna e Francia. L’Italia vi contribuisce per circa l’8,7%: quota non trascurabile,
nell’ordine di centinaia di milioni di euro annui. Vi sono diverse altre voci nascoste nelle
pieghe dei bilanci. Ad esempio l’Italia ha partecipato alla spesa per il nuovo quartier
generale di Lago Patria sia con la quota parte del costo di costruzione, sia con il «fondo
per le aree sottoutilizzate» e con uno erogato dalla Provincia, per un ammontare di circa
25 milioni di euro (mentre mancano i soldi per ricostruire L’Aquila). Top secret resta
l’attuale contributo italiano al mantenimento delle basi Usa in Italia, quantificato l’ultima
volta nel 2002 nell’ordine del 41% per l’ammontare di 366 milioni di dollari annui.
Sicuramente oggi tale cifra è di gran lunga superiore.
Si continua così a gettare in un pozzo senza fondo enormi quantità di denaro pubblico,
che sarebbero essenziali per interventi a favore di occupazione, servizi sociali, dissesto
idrogeologico e zone terremotate. E i tagli di 6,6 miliardi, previsti per il 2014, potrebbero
essere evitati tagliando quanto si spende nel militare in tre mesi.
del 10/04/14, pag. 10
Berlusconi avverte “Senza agibilità politica
scateneremo l’inferno”
Oggi la decisione su servizi sociali o arresti domiciliari “Se saranno
concilianti, non parlerò più dei pm”
CARMELO LOPAPA
ROMA.
«Tenetevi pronti, perché se va come temo, scateniamo la fine del mondo». La voce di
Silvio Berlusconi sembra provenire dal regno dell’Ade alle orecchie di dirigenti e
parlamentari che chiamano Arcore per infondere coraggio. Il loro leader non fa nulla per
smorzare la tensione, nella più angosciosa delle vigilie che precede l’udienza di oggi
pomeriggio del Tribunale di sorveglianza.
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Nonostante le indiscrezioni filtrate alla vigilia, la storia dell’affidamento ai servizi sociali in
un istituto per anziani e disabili del milanese — dove verrebbe impegnato mezza giornata
a settimana — tutto lascia presagire nell’enclave di Villa San Martino che il finale non sarà
così roseo. «Io sono sempre Berlusconi e loro i giudici di Milano, vedrete — è lo sfogo
ancora di queste ore — comunque faranno di tutto per mettermi fuori gioco». L’ex
Cavaliere, raccontano, si muove ancora con difficoltà aiutandosi con la stampella, il
nervosismo è a fior di pelle. A casa è un via vai dei figli Piersilvio e Marina, in un
crescendo di preoccupazione per lo stato d’animo del padre. «Anche perché se c’è una
cosa che lo deprime, è proprio la vista e il contatto con persone in difficoltà e quel genere
di soluzione lo butterebbe giù» racconta chi gli sta vicino da parecchio tempo. Attorno a
lui, solo la compagna Francesca Pascale e Maria Rosaria Rossi, con l’avvocato Niccolò
Ghedini. Il legale predica prudenza e silenzio stampa assoluto in attesa del responso.
Cautela anche per i giorni successivi alla sentenza: la campagna elettorale non potrà
ruotare attorno alla «persecuzione giudiziaria» e agli attacchi alla magistratura, gli è stato
detto. «Perché le misure che saranno decise nelle prossime ore potranno essere revocate
in qualsiasi momento» è l’avvertimento del legale, che gli ha sconsigliato anche di
presenziare oggi pomeriggio all’udienza. Suggerimenti, consigli che cadono presto nel
vuoto se l’assistito è Berlusconi. Basti pensare che nella lunga nota comunque diramata in
mattinata da Arcore per mettere all’angolo Forza Campania di Nicola Cosentino, ecco la
zampata contro la magistratura «braccio giudiziario della sinistra che vuole impedirmi di
fare campagna elettorale ». Non proprio una considerazione leggera se messa per iscritto
dal condannato che dovrebbe manifestare «ravvedimento » per ottenere i servizi sociali.
Che non sia ancora sicura la destinazione è confermato dalla circostanza che funzionari
del palazzo di giustizia di Milano ancora questa settimana avrebbero bussato al centro di
ascolto dell’Associazione italiana vittime di malagiustizia, già sondato dallo staff di
Berlusconi. Lui resta convinto che lo vogliano vincolare ai domiciliari. «Silenziarlo in
campagna elettorale sarebbe l’ennesima ingiustizia ad personam» mette le mani avanti il
capolista nel Nordovest Giovanni Toti. Non è chiaro su quali basi, ma i forzisti alla Camera
ieri si dicevano invece certi che il pronunciamento arriverà tra domani e lunedì.
«Qualunque sarà la decisione, un giorno triste per la democrazia » dice Maria Stella
Gelmini.
Poco o nulla contribuiscono a risollevare gli animi ad Arcore la notizia che l’avvocato ed ex
ministro spagnolo Ana Palacio, con le deputate Deborah Bergamini e Elena Centemero
(ieri in Francia per l’iniziativa), lavoreranno a un ricorso d’appello alla Corte di Strasburgo,
dopo il no alla candidabilità già pronunciato due giorni fa. Di Europa, intesa come
competizione elettorale, il leader forzista vorrebbe occuparsene dopo la sentenza del
Tribunale. Ma le scadenze incombono, le liste vanno presentate entro martedì 15: nel fine
settimana, per metterle a punto, con Toti raggiungerà Arcore anche Denis Verdini (dopo
che ieri il Senato ha dato via libera alla richiesta dei magistrati di usare le intercettazioni
che lo chiamano in causa in diversi procedimenti). La campagna mediatica è stata già
pianificata: niente attacchi al governo sulle riforme, ma sull’economia sì. Nelle slide diffuse
dal responsabile Antonio Palmieri, gli slogan sono sulla soglia dell’antieuropeismo alla Le
Pen: oltre a «Più Italia, meno Germania», campeggia un «Basta con l’Euro moneta
straniera».
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del 10/04/14, pag. 13
Trenta adesioni al testo Minzolini, firme anche dal Ncd Civati: fate
presto. E prepara l’offensiva tra i democratici
“Senato di 200 eletti” fronda di Forza Italia si
salda al dissenso pd
GOFFREDO DE MARCHIS
ROMA.
I nemici della riforma del Senato parlano tra di loro, organizzano alleanze trasversali, sono
pronti a bombardare il fortino di Renzi con altri disegni di legge, altre proposte, contando
sull’istinto di autodifesa dei senatori che non vogliono smettere di essere eletti. Accanto al
disegno di legge firmato da Vannino Chiti, sta prendendo corpo un nuovo testo, stavolta
dalle file di Forza Italia. Il primo firmatario è Augusto Minzolini, ex direttore del Tg1,
senatore berlusconiano, da sempre critico verso il progetto di trasformazione di Palazzo
Madama in Camera delle autonomie. Dicono che abbia già raccolto 30 firme nel suo
gruppo e dentro il Nuovo centrodestra.
La fronda comunque è a uno stadio avanzato. Pippo Civati, al quale fanno riferimento
molti dei 22 senatori che hanno sottoscritto il ddl Chiti, ha chiesto a Minzolini di presentare
il suo testo prima di martedì quando si riunisce l’assemblea dei senatori Pd. Ha bisogno di
sponde per spostare gli equilibri interni al Partito democratico, di dimostrare che un’altra
maggioranza è possibile per correggere in profondità il provvedimento varato
dall’esecutivo. Alla base del dissenso c’è uno dei paletti fissati dal premier: la non elezione
dei parlamentari. «Io parto dall’eleggibilità come Chiti — spiega Minzolini — rispettando le
altre condizioni del governo». Nel progetto del senatore di Fi ci sono due Camere, una di
400 membri l’altra di 200. La fiducia e la legge di stabilità la votano in seduta congiunta
realizzando il monocameralismo. Il Senato poi si occupa di esteri, difesa, giustizia, Europa
e autonomie locali. La Camera del resto. «Così valorizziamo le competenze. Poi
decideremo come modulare l’indennità». E la promessa di rispettare i patti confermata da
Berlusconi? «Ma io voglio la riduzione del numero dei parlamentari e la fine del
bicameralismo perfetto. In questa storia la differenza è tra innovatori, conservatori e
arruffoni. Renzi appartiene alla terza categoria. La sua riforma è un pasticcio. Allora è
meglio cancellare del tutto il Senato». In realtà, il processo per arrivare al 25 maggio con
la legge approvata in prima lettura, è cominciato ieri. Sono stati scelti i relatori del
provvedimento. Sono Roberto Calderoli per la minoranza (seguirà soprattutto il Titolo V
ossia i poteri delle regioni) e Anna Finocchiaro per la maggioranza. Finocchiaro e Renzi
sono nemici giurati, però ci sono delle novità in questo rapporto. La presidente della
commissione Affari costituzionali può gestire al meglio le divisioni interne al Pd e questo
risponde a criteri di convenienza. In più, lei e il ministro delle Riforme Boschi sono ormai
«pappa e ciccia», come maligna un dalemiano. Vale a dire che si sentono spesso,
lavorano a stretto contatto e che si è creata una sintonia.
Il Pd sta cercando di convincere Chiti a ritirare il suo ddl. Per evitargli una cocente
sconfitta nell’assemblea di martedì. Ma Civati annuncia battaglia: «Non credo che Vannino
archivierà il suo progetto. Comunque dietro di lui ci sono anche altri. Noi vogliamo che il
testo arrivi in commissione e che sia esaminato liberamente da tutti». Senza farsi troppi
problemi sulle alleanze possibili. «Va benissimo Minzolini, vanno benissimo i grillini.
Vediamo se sono davvero interessati — dice Civati — . Le riforme si fanno con tutti, è la
regola delle regole».
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 10/04/14, pag. 9
Pd si tura il naso, il voto di scambio sarà
legge
Giarrusso (M5S): “Affossata la lotta alla
mafia”
di Sara Nicoli
Un compromesso al ribasso. Entrando ieri a tarda
sera in commissione Giustizia del
Senato per la lunga notte del “voto di scambio politico mafioso” – ddl che stamattina sarà
in aula per l’approvazione definitiva – Felice Casson, senatore Pd, aveva l’aria di chi sta
per fare qualcosa che non gli piace. Neanche un po’. “La pena doveva rimanere alta – ci
dice – perché il fatto che un politico possa venire a patti con la mafia deve essere
considerato più grave rispetto al comportamento di un cittadino normale. E sulla
questione, che avevamo inserito, della ‘messa a disposizione’ del politico, nella nostra
ottica era un modo per precisare meglio i confini dell’illecito penale, invece...”. Invece il
provvedimento uscirà da Palazzo Madama nella stessa, identica, declinazione con cui è
stato licenziato da Montecitorio. Ieri notte, infatti, il Pd si è astenuto sul voto degli
emendamenti e a palazzo Madama l’astensione è voto contrario. Insomma, oggi all’ora di
pranzo, il voto di scambio politico mafioso sarà legge. “Non possiamo fare altrimenti – è
ancora il giudizio di Casson – perché deve entrare in vigore prima delle elezioni Europee,
non possiamo permettere che si perda in un ping pong con la Camera, mentre c'è chi ha
remato perché questo avvenisse”. Casson non lo dice, ma il suo pensiero è corso alla
compagine grillina al Senato. Gli M5S hanno messo in atto una resistenza quasi eroica,
ieri notte in commissione Giustizia, presentando oltre un centinaio di emendamenti per
tentare di arginare l'inevitabile. “Chi ha votato questa cosa – dichiara Michele Giarrusso,
senatore stellato – è un soggetto che sostiene il voto di scambio politico mafioso. Renzi si
è incontrato con Verdini e hanno deciso che doveva essere fatto questo regalo”. Bocciata
anche la richiesta di sospensiva del voto fino al chiarimento, da parte del ministero della
Giustizia, di chi siano i “beneficiari della decurtazione di pena in questione”. Insomma, se il
Senato (questo il punto ‘qualificante’ della richiesta) “si appresta ad approvare con
urgenza il testo licenziato dalla Camera” a parere di fonti qualificate a Palazzo Madama “si
paventa il rischio che così com’è il ddl renda possibile, per il principio del favor rei, di far
punire con pene più lievi anche i mafiosi”.
CIOÈ: IL TESTO della Camera mantiene la previsione che la pena della reclusione da 4 a
10 anni possa venire applicata non solo a chi commette il reato di voto di scambio, ma
anche al mafioso che procura voti con metodi mafiosi. Una questione non da poco che,
tuttavia, resterà nel novero del dubbio. O della certezza – nel caso M5S – di aver fatto
davvero un regalo alla mafia. Dicevano, infatti, i grillini in commissione ieri notte: “Così si
rischia di far pagare meno ai mafiosi veri e propri visto che il codice penale, all'articolo 416
bis, comma terzo, punisce con una pena da 7 a 12 anni la stessa tipologia di
comportamento; l'associazione è di tipo mafioso, recita il 416 bis che punisce questo
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reato, quando coloro che ne fanno parte si avvalgano della forza di intimidazione del
vincolo associativo e della condizione di assoggettamento e di omertà che ne deriva, tra
l’altro al fine di impedire o ostacolare il libero esercizio del voto o di procurare voti a sè o
ad altri in occasione di consultazioni elettorali. E chiunque fa parte di un'associazione
mafiosa formata da tre o più persone è punito con la reclusione da sette a dodici anni”.
Obiezioni fondate (molto fondate) che avrebbero trovato ascolto in parte del Pd se “ci
fosse stato tempo”. Invece, non c’è. Per questo Cosimo Maria Ferri, sottosegretario Ncd
alla Giustizia, brinda sereno: “È una norma severa, seria, efficace e importante per la
magistratura e le forze dell’ordine per contrastare le infiltrazioni della mafia nella politica”.
Oggi, insomma, il voto finale su un ddl controverso. Anzi, su “un compromesso al ribasso”.
del 10/04/14, pag. 11
’Ndrangheta in Emilia, 13 arresti
Adriana Comaschi
La lunga mano delle ‘ndrine nel cuore dell’Emilia. Chi volesse avere l’ennesima prova
dell’ormai radicata presenza della ‘ndrangheta a nord la trova nelle 13 ordinanze di
custodia cautelare, eseguite ieri mattina tra Calabria ed Emilia- Romagna a carico di
persone considerate contigue alle cosche degli Arena e dei Nicoscia di Isola Capo
Rizzuto, e nel conseguente sequestro preventivo di beni - tra cui due alberghi, società di
trasporti, unità immobiliari, conti correnti - per 13 milioni. Agli accusati vengono contestati
intestazioni fittizie di attività e, attraverso queste, riciclaggio di denaro di provenienza
illecita.
Le misure sono state eseguite dai carabinieri di Bologna, Crotone, Modena e Reggio
Emilia, disposte dal gip Letizio Magliaro su richiesta del pm Marco Mescolini della Dda di
Bologna. «Un risultato importante - spiega il Procuratore Capo Roberto Alfonso -:
aggredire i patrimoni è il modo migliore di contrastare le mafie. E così si conferma la
presenza di organizzazioni molto potenti e pericolose e la loro infiltrazione in settori
economici e finanziari dell’Emilia-Romagna ». Al centro dell’intreccio svelato dai carabinieri
Michele Pugliese, ritenuto l’uomo che curava gli interessi degli Arena e dei Nicoscia in
Emilia e Lombardia meridionale - e Caterina Tipaldi, la sua ex compagna, ribattezzata “la
Zarina” dai carabinieri per il ruolo non secondario che aveva saputo ritagliarsi. L’indagine
della Dda bolognese riunisce due filoni, partiti a Reggio Emilia nel 2010 grazie alla
denuncia dell’allora presidente della Camera del Commercio sui movimenti poco chiari di
una ditta di autotrasporti, con sede legale a Isola Capo Rizzuto e operativa a Gualtieri
nella Bassa reggiana.Ea Bologna nel 2011, dopo l’incendio di alcuni escavatori in una
cava in provincia: i mezzi coinvolti appartengono a una ditta di cui è titolare Tipaldi. A lei e
ad altri prestanome ricorreva Michele Pugliese, per reinvestire il denaro delle ‘ndrine e per
evitare il sequestro di beni già disposto contro di lui nel 2009 dalla Dda di Catanzaro. Il
nome di Pugliese emerge nel corso delle indagini sull’uccisione nel 2004 del capocosca
Carmine Arena, a colpi di bazooka e kalashnikov. Pugliese era già a i domiciliari a Isola
Capo Rizzuto. Da cui comunque, appunto grazie alla complicità degli arrestati, sarebbe
riuscito a gestire società e affari.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
del 10/04/14, pag. 10
“IL GUINZAGLIO NO”
UN IMMIGRATO SI RIBELLA AL CIE
IL RAGAZZO ALGERINO, RECLUSO A BARI, DOVEVA ESSERE
TRASPORTATO IN UN OSPEDALE PER UNA VISITA PRENOTATA,
MA HA RIFIUTATO PERCHÉ L’AVEVANO LEGATO CON UN LACCIO
di Antonio Massari
Bari
Ho rinunciato alla cura: volevano portarmi in ospedale con un guinzaglio ai polsi” ci
racconta il ragazzo algerino recluso nel suo padiglione. Poi - quando siamo nella stanza
del direttore - chiediamo perché l’ammalato non sia stato curato. E il medico del Centro
d’identificazione ed espulsione prende la parola: “Scusi senatore, ma il ragazzo le ha detto
perché, quella risonanza magnetica alla schiena, non l’ha più fatta? Guardi che noi
l’avevamo prenotata”. Pausa. “Gliel’ha detto - continua - che e stato lui a rinunciare?”. Già.
E infatti il punto è: perché ha rinunciato? “Perché non voleva essere portato in ospedale
con un una... contenzione alle mani... alle braccia... insomma... questo ci ha raccontato...
e questo ho scritto nella cartella clinica”. E così - nella sua surreale giustificazione - il
medico conferma la versione del ragazzo. “Cos’è una contenzione alle mani? Ci spieghi: il
ragazzo le ha parlato di manette?”, chiede il Senatore Luigi Manconi (Pd), presidente della
Commissione parlamentare per i diritti umani in visita ieri al Cie di Bari. “No” risponde il
medico. Infatti il ragazzo - durante l’incontro - ci ha parlato di una sorta di guinzaglio. Un
lungo legaccio ai polsi. “In quelle condizioni, in ospedale, non volevo andarci - ha detto piuttosto, ho preferito rinunciare alia risonanza magnetica”. Un “guinzaglio” non e previsto
da alcun regolamento.
II RAGAZZO peraltro non è un carcerato e quindi: non deve sopportare misure di
contenzione - manette incluse. La funzionaria della questura, dinanzi a tutti, si dice
disponibile a dimostrare, esibendo le comunicazioni interne, che in quell’oc - casione era
prevista “soltanto una scorta di tre persone” per accompagnare il malato in ospedale.
Intanto nel Cie - che reclude 77 persone - si sente odore di bruciato: due sere fa, per la
disperazione, qualcuno ha provato a dar fuoco a una sedia imbullonata. Kharim ha
interrotto soltanto ieri, dopo 5 giorni, il suo sciopero della fame. “Lo abbiamo convinto noi a
smettere lo sciopero della fame”, dice un amico, “perché ha iniziato a orinare sangue.
Abbiamo chiesto ai medici di dargli un’occhiata ma nessuno ci ha ascoltato”. “Ha curato
qualcuno, in questi giorni, perché orinava sangue?”, chiediamo al medico. “No, nessuno”
risponde. Scortati da un ispettore di Polizia - e non accompagnati dal direttore del centro visitiamo un reparto in ristrutturazione: se non sarà in regola per la fine d’aprile - ha deciso
il tribunale di Bari - il Cie andrà chiuso. Qui la gestione è affidata alla “Connecting People”
di Trapani. È la stessa società accusata di aver frodato, nella gestione del Cie di Gradisca
d’Isonzo, milioni di euro.“II Cie invece va chiuso punto e basta - conclude Manconi - Al di
là dei lavori di ristrutturazione non ancora conclusi, questo centro, persino piu di altri,
richiama un clima carcerario - anche nei rapporti interni e nell’organizzazione gerarchica mentre, per la legge italiana, non dovrebbe essere un carcere”.
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DAI 77 PRIGIONIERI del Cie si passa ai 1.461 richiedenti asilo del Cara (attesa di circa 6
mesi, ndr), gestito dalla cooperativa Auxilium: “Le dimensioni del Cara - commenta
Manconi - sono abnormi rispetto alla possibilità di offrire un’accoglienza minimamente
dignitosa”. I bagni sono fatiscenti. Una ragazza, che oggi dovrà presentarsi in tribunale,
per la rivolta dello scorso 16 dicembre, sarà difesa da un legale d’ufficio, ma racconta
piangendo: “Avevo chiesto di parlare con un avvocato ma nessuno mi ha dato ascolto”.
Qui c’è un grande uso di psicofarmaci: “Soltanto sotto prescrizione di uno psichiatra” dice il
medico del Cara. “A meno che non si tratti di sedativi per dormire, in quel caso non
consultiamo lo psichiatra”, aggiunge un’infermiera. Sedativi di che tipo? “Blandi, tipo
Tavor”. E perché per il Tavor non si consulta lo psichiatra? “Perché non è uno
psicofarmaco”, risponde l’infermiera, dinanzi al medico, che neanche ribatte.
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SOCIETA’
del 10/04/14, pag. 1/2
Dalla Consulta via libera al donatore esterno Grosseto, sì alla
trascrizione delle nozze gay
Fecondazione assistita fuori dalla coppia
È una svolta storica
ROMA.
Era l’ultimo mattone rimasto della legge 40. La Corte Costituzionale, ieri, ha smontato
anche quello. In Italia la fecondazione eterologa, cioè con gameti di donatore esterno alla
coppia, non è più vietata per legge. E coloro che desiderano un figlio e non possono
averlo non devono più migrare all’estero. La Corte ha infatti stabilito l’illegittimità della
normativa accogliendo i ricorsi presentati dai tribunali di Milano, Firenze e Catania sulla
base di reclami di coppie sterili. Intanto a Grosseto un giudice ha imposto al Comune di
registrare un matrimonio gay.
ROMA. Dopo dieci anni di sentenze italiane che l’hanno smontata pezzo per pezzo, ieri è
caduto l’ultimo divieto della legge 40: quello sulla fecondazione eterologa, cioè con gameti
di donatore esterno alla coppia. La Corte Costituzionale ha giudicato illegittima la
proibizione, accogliendo i ricorsi presentati dai tribunali di Milano e Catania, sollecitati dai
ricorsi di altrettante coppie sterili. Il motivo? Non rispettava i principi costituzionali che
garantiscono «uguaglianza dei cittadini davanti alla legge, accesso alle cure e diritto a
formarsi una famiglia». Se il mondo laico esulta, e in molti a sinistra chiedono come la
senatrice del Pd Anna Finocchiaro che «il legislatore si assuma la responsabilità di una
legge più saggia e liberale, al passo con il quadro normativo europeo», quello cattolico è in
subbuglio.
L’Osservatore Romano ha scelto di non commentare in alcun modo la sentenza, lapidaria
invece la Pontificia
Accademia per la Vita che parla di una futura «selezione riproduttiva». Durissimo
l’editoriale di Famiglia Cristiana: «Fecondazione selvaggia per tutti, è una follia italiana».
Di parere opposto l’avvocato Maria Paola Costantini, difensore delle coppie ricorse alla
Consulta.
«Con questa decisione ci saranno tutte le protezioni per le coppie in un sistema gratuito, in
cui non si rischia la commercializzazione dei gameti né la mercificazione delle donatrici e
allo stesso tempo situazioni “al limite” come quella delle “mamme-nonne”: potranno
accedere alla donazione soltanto le coppie sposate o conviventi sterili». «Una grande
vittoria per la civiltà. Finalmente è stato cancellato un divieto che era una vergogna per
l’Italia» ha commentato Filomena Gallo, segretario dell’associazione Coscioni e uno dei
legali che ha assistito coppie che hanno fatto ricorso in tribunale sull’eterologa.
(c. p.)
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INFORMAZIONE
del 10/04/14, pag. 27
L’Espresso e Ti Media alleanza per i ripetitori
tv
MILANO. Telecom Italia Media e il Gruppo Editoriale L’Espresso mettono insieme le loro
infrastrutture digitali — le frequenze, i ripetitori — per dare vita al primo operatore di rete
italiano indipendente. Il matrimonio verrà celebrato attraverso il conferimento da parte del
Gruppo L’Espresso del 100% delle azioni di Rete A in Telecom Italia Media Broadcasting
(Timb). Dalla fusione delle due attività nascerà un gruppo dotato di 5 multiplex digitali, con
un’infrastruttura a copertura nazionale di elevata capillarità e basata su tecnologie di
ultima generazione. La capacità trasmissiva è paragonabile a quella di Rai e Mediaset.
Il gruppo che nascerà dalla fusione sarà il naturale fornitore di tutti i principali editori
televisivi non integrati, nazionali ed esteri, operanti sul mercato italiano. Mettere insieme le
piattaforme e l’offerta permetterà alla società di conseguire rilevanti sinergie industriali.
L’operazione, che è subordinata al via libera del Garante di settore (l’AgCom), darà vita a
una società con un giro d’affari annuale di circa 100 milioni, un risultato economico
positivo e una robusta generazione di cassa. Alla fine dell’operazione che dovrebbe
essere perfezionata entro giugno, TiMedia ed il Gruppo Espresso deterranno
rispettivamente il 70% e il 30% delle azioni della nuova Timb, cui farà capo l’intero capitale
di Rete A; mentre la partecipazione in All Music Spa rimarrà di proprietà del Gruppo
L’Espresso. Quanto alla governance, gli accordi prevedono che che TIMedia abbia il diritto
di nominare la maggioranza dei consiglieri, compreso l’amministratore delegato, mentre il
Gruppo L’Espresso indicherà il presidente. È inoltre previsto che Telecom Italia Media
abbia un’opzione d’acquisto del diritto d’uso (esclusa l’infrastruttura e i clienti) di una delle
cinque frequenze, cioè della banda relativa al canale 55. Si tratta di un contratto a tre anni
per un corrispettivo di 5 milioni, oppure dell’opzione di acquisto dell’intero capitale della
società di nuova costituzione alla quale questo diritto dovesse essere conferito al prezzo di
50 milioni (valore che sarà rettificato in funzione della posizione finanziaria netta della
società). Nel caso il diritto d’uso di canale 55 venisse conferito alla newco è prevista inoltre
la sottoscrizione con Timb di un contratto di affitto a 10 anni, con un canone di 2,5 milioni
l’anno, e un diritto di recesso da parte del locatore a partire da metà 2016. Insomma, se le
frequenze di canale 55 saranno utilizzabili anche per la telefonia, TiMedia si riserva di
ricomprare l’infrastruttura o di utilizzarla in via preferenziale. Nell’operazione, TiMedia e il
Gruppo L’Espresso sono stati assistiti rispettivamente da Mediobanca e Banca Imi in
qualità di advisor finanziari.
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CULTURA E SCUOLA
del 10/04/14, pag. 10
La differenza come orizzonte
Pedagogia. «Sono cambiate molte cose. Donne e uomini reinventano il
presente educativo»: a Verona un convegno nel fine settimana per
discutere su una formazione possibile a tematiche di genere e non
soltanto in vista delle pari opportunità
Il 12 e 13 aprile a Verona si svolgerà l’incontro nazionale dal titolo Sono cambiate molte
cose. Donne e uomini reinventano il presente educativo. A promuovere il convegno sono
in tante e tanti che in questi anni hanno creato, a vario titolo, la pedagogia della differenza
sessuale e il movimento di autoriforma. Si potranno dunque ascoltare gli interventi e le
restituzioni di Anna Maria Piussi e Antonia De Vita (Università di Verona), Alessio Miceli
(Maschile Plurale), Clara Bianchi e Maria Cristina Mecenero (Maestre in ricerca e in
movimento), Vita Cosentino (rivista Via Dogana), Marina Santini (Autoriforma della
scuola), Sara Gandini (Libreria delle donne di Milano), Salvatore Guida (Stripes), Maria
Piacente (rivista Pedagogika), Antonietta Lelario (Le città vicine) e Gian Piero Bernard (La
Merlettaia). Nella lettera d’invito, disponibile integralmente nel blog dedicato all’iniziativa
(http://cesdef.wordpress.com), l’intento è piuttosto chiaro.
Si legge, infatti, che «L’esigenza è quella di comprendere che cosa è in gioco oggi, rifare il
punto delle esperienze e dei risultati maturati da donne e uomini nelle scuole, nelle
università, nei servizi – istituzioni a rischio di delegittimazione – nei territori, nelle «altre
scuole», luoghi in cui si costruiscono saperi in altro modo: libere università, redazioni,
libere aggregazioni, sperimentazioni economiche, artistiche e sociali». È un passaggio
cruciale che posiziona il desiderio dell’incontro veronese come il rilancio di un percorso più
lungo.
Il desiderio è quindi la domanda politica di lettura e di generazione della realtà, dopo quasi
trent’anni dall’inizio della pedagogia della differenza insieme alle connessioni tra contesti
diversi che non siano necessariamente istituzionali; si tratta piuttosto di dare conto di
ricerche mosse da nuove forme di relazionalità politica.
Mutazioni in atto
Ma qual è il significato di aver pensato un convegno simile proprio ora? Non ha dubbi
Anna Maria Piussi: «L’idea di questo convegno mi è venuta dopo aver partecipato
all’Incontro femminista di Paestum 2012, per il senso di libertà e la ricchezza di scambi
circolati lì, ma anche per le denunce lì avanzate circa l’assenza di pensiero e di pratiche
femministe nella scuola e nell’Università e il silenzio delle insegnanti sulla differenza
sessuale. Come se d’un solo colpo fossero azzerate scoperte, pratiche e parole, tutto un
fermento creato a partire dalla metà degli anni Ottanta dalle donne con la pedagogia della
differenza e il movimento di autoriforma, e si dovesse ricominciare daccapo. Quando nel
frattempo si impongono dall’alto politiche di parità, iniziative di educazione al genere che
rischiano di cancellare le soggettività e le relazioni, e si accendono dibattiti fuorvianti sul
superamento della differenza donna/uomo e delle differenze soggettive in nome
dell’uguaglianza di diritti. Da tempo sentivo, con altre, la necessità di un confronto di ampio
respiro su scuola ed educazione in un mondo trasformato dalla libertà femminile, e questa
volta anche con uomini. La scommessa dell’Incontro nazionale è quella di misurarsi con il
presente – un presente disorientato ma anche promettente — perché scuola, educazione,
formazione siano realmente al cuore di una nuova civiltà di rapporti, e con la radicalità che
viene dall’agire con libertà e consapevolezza la differenza di essere donne e uomini».
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Nuovi sguardi
Dall’università alla scuola elementare e ritorno, dunque, passando per i vari cicli didattici e
per esperienze fuori dalle istituzioni formative tradizionalmente intese, il motivo di
guadagno di un’impresa come questa ha radici ben salde e tenaci. Stando sul presente, e
soprattutto intorno a ciò che è accaduto negli ultimi vent’anni, non può essere negata
l’esistenza fertile di quelle che Antonia De Vita chiama altre scuole, registrando così molte
esperienze che pur mantenendo una spiccata implicazione educativa, decidono il proprio
spazio di creatività ed espressione fuori dalle sedi tradizionalmente deputate a farlo. Ecco
perché la domenica del 13 verrà dedicata a Contesti e pratiche che generano saperi e
nuove visioni.
«Infatti — prosegue De Vita — nei contesti urbani sono nati gruppi e libere aggregazioni
che attorno a gesti di consumo e produzione critica (G.a.s, Des, etc.), o alle occupazioni di
spazi simbolici delle città (Teatro Valle, Roma; Macao, Milano), o alle creazione di nuovi
legami sociali di prossimità e di convivenza nel proprio territorio (Città vicine, associazioni
e gruppi di vicini), hanno inventato o riattualizzato pratiche e saperi della materialità, nuove
forme del consumo e del lavoro, della convivenza e della convivialità. Abbiamo assistito
poi, in contesti informali, associativi e sociali, alla diffusione di saperi e sapienze che
rimettono al centro l’intelligenza del corpo nella sua connessione con la mente. Pratiche
molto antiche, come quella della presenza mentale, o più recenti che segnalano il bisogno
di scommettere su saperi per la vita e per l’educazione ispirati a epistemologie
dell’integrazione tra dimensioni razionali e affettive ed emozionali. Questi luoghi di pratiche
e di saperi ci sembrano significativi non solo per ridisegnare i nuovi spazi dell’educazione
e della formazione, ma anche per mostrare le nuove visioni che le ispirano».
L’annuncio dell’incontro nazionale veronese era stato anticipato durante i lavori preparatori
di Paestum 2013, quando cioè era stata esplicitata la scommessa politica relativa ad un
laboratorio interamente dedicato al tema durante la due giorni femminista. Dopo
quell’esperienza sono state rese disponibili alcune restituzioni ora presenti nel blog http://
paestum2012.wordpress.com. Per quell’occasione, Antonia De Vita, Valentina Festo e
Alessio Miceli (tra altre e altri partecipanti) avevano sintetizzato alcuni punti essenziali
delle loro singole esperienze. De Vita riconosce come siano trascorsi molti anni dal
movimento di insegnanti che attorno alla pedagogia della differenza sessuale prima e al
movimento di autoriforma della scuola poi, aveva raccolto riflessioni e inventato pratiche
corredando tanti testi e dando vita a numerosi convegni.
Alla luce del desiderio
Tra i volumi basti ricordare Educare nella differenza (1989) a cura di Anna Maria Piussi ma
anche Sapere di sapere (1994), insieme a Buone notizie dalla scuola. Fatti e parole del
movimento di autoriforma (1998), per le cure di Vita Cosentito, Antonietta Lelario e Guido
Armellini. Ma Maria Cristina Mecenero, maestra elementare in una scuola della periferia
milanese, e molto attiva nel sostenere il sapere autonomo e relazionale delle maestre,
considera soprattutto un punto: «A Roma nel convegno Che genere di programmi
(febbraio 2013) molte delle presenti sostenevano che nelle scuole non c’è più niente,
niente iniziative autonome, niente lavorio per creare nuovi sguardi verso l’esserci
femminile e maschile in questo mondo; anzi: le insegnanti non portano libertà, la
ostacolano e c’è bisogno di esperte per assisterle nella programmazione e progettazione.
Una postura pericolosa, che non tiene conto di ciò che avviene in molte relazioni comuni e
reali, nei vari contesti formativi. Non si vede che si è il cambiamento. C’è un misto di
arretramento voluto e di qualcos’altro. Possiamo stare all’intreccio tra realtà diverse?
Siamo interessate a confrontarci con altre impostazioni? Le iniziative centrate sulla
discriminazione femminile e sugli stereotipi rischiano di trattenerci nel passato e
distoglierci dal riconoscere e agire il cambiamento, dal desiderare in grande. Ci sembra
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più urgente raccontare ciò che di nuovo sta già capitando. Abbiamo bisogno di portare alla
luce ciò che già si fa nella direzione di scambi creativi, anche conflittuali, che consentono
di cambiare in meglio le condizioni del vivere insieme».
Educare nella differenza attiene anzitutto al come e non al che cosa; non è la proposta di
pari opportunità di genere, soprattutto se calata dall’alto, o di formazione a tematiche di
genere a procurare il cambiamento, bensì il modo stesso di agire la propria libertà che
traccia un orizzonte; altresì è ugualmente la modalità stessa che si intrattiene con le forme
del sapere a costituire un cambio di prospettiva.
Alessio Miceli, forte anche della sua esperienza di insegnante negli istituti superiori,
specifica che c’è bisogno di smontare «quei meccanismi con cui si comprimono i corpi, i
tempi ed i pensieri svuotati di sentimenti, mancanti di contatto con il mondo. Ci sono interi
programmi che restano lettera morta fin quando qualcosa non viene illuminato dalle
domande di senso che ciascuno/a si pone. Coltivare, porre e ascoltare queste domande
soggettive ci riporta alla radice viva dei saperi che abbiamo costruito. Poi la propria
soggettività incontra le altre e si può cooperare anziché essere tenuti a competere, una
forma di pensiero e di relazione salvavita nella giungla del mercato attuale (e della sua
pedagogia)».
Il punto su cui insiste Miceli è soprattutto l’ipotesi di «scardinare l’istituzione che è dentro
di noi». Ciò sottende sia una pratica di libertà (che è poi il vero cambiamento portato dal
femminismo) che una soggettività capace di costruire relazionalità, oggi, tra donne e
uomini. Del resto, come ricorda Sara Gandini, non è stato forse il movimento di
autoriforma della scuola a chiedere «il minimo di potere e il massimo di autorità»? Se
dunque la partita che si gioca all’interno della scuola dovesse concludersi in un’aggiunta di
contenuti e saperi critici sull’identità di genere sarebbe davvero poca cosa.
La scuola-comunità
A questo proposito, Maria Cristina Mecenero, è da anni impegnata nella riflessione e nella
pratica della differenza insieme a donne e uomini da nord a sud dell’Italia. Il suo è un
posizionamento piuttosto preciso sul lavoro educativo; se si può partire dal carattere di
osservazione dell’esistente, constatando per esempio una partecipazione genitoriale
crescente, è pur vero che le relazioni familiari e culturali portate nelle classi da bambine e
bambini mostrino meglio di qualunque altro esempio il guadagno delle narrazioni che sono
già frutto di cambiamento. Ciò significa forse una scuola che si sente comunità, che
dichiara cioè di poter dire, nel proprio tessuto anzitutto simbolico, di non rappresentare un
pezzo della società ma di sperimentare una trasformazione già in atto.
Non si tratta quindi di affiancare alle e agli insegnanti nessuna figura esperta esterna e
calata dall’alto. Si tratta piuttosto di fare agire la libertà delle relazioni di differenza,
comprese quelle sviluppate tra le varie istituzioni scolastiche e quelle che istituzionali
neanche desiderano diventarlo. Prestare attenzione al cambiamento già in atto alza la
posta in gioco della scommessa educativa e insieme racconta di un presente declinato al
futuro.
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
del 10/04/14, pag. 27
Se il volontariato ti cambia il curriculum
«Decisivo per i giovani»
Rivela più passione e doti organizzative
Di solito finisce in fondo al curriculum. Alla voce «altre attività». Ma è un elemento sempre
più importante. A volte decisivo in un colloquio di lavoro. Perché il volontariato è sì
un’esperienza non retribuita, ma a sentire «cacciatori di teste» ed esperti delle risorse
umane per molte grandi aziende italiane e multinazionali è una realtà valutata
positivamente. Non è un caso se negli ultimi mesi decine di enti locali hanno messo a
disposizione uffici e siti web per «certificare» le attività «informali». Un documento da
allegare al proprio curriculum vitae con le indicazioni sulla durata e sulle attività non profit
svolte.
Il «modello» restano gli Stati Uniti. Lì il lavoro gratuito per la collettività è pratica comune.
E tra i giovani diventa una voce da aggiungere alle attività svolte per presentarsi, bene,
all’ammissione all’università o a un colloquio di lavoro. «Anche da noi il volontariato sta
diventando un elemento importante nella selezione del personale», spiega Paolo Citterio,
presidente nazionale dell’Associazione direttori risorse umane (Gidp). «Chi ha fatto attività
senza scopo di lucro dà la sensazione di avere un passo diverso, sia a livello
organizzativo che emotivo». Tanto che, rivela, «di fronte a due giovani candidati a un
posto di lavoro le imprese mi chiedono di vedere chi ha fatto anche volontariato». «Oggi le
società, anche quelle con ricavi a nove o dieci zeri, vanno a vedere cosa hai fatto di
socialmente utile», continua Citterio. E, per una volta, il confronto con gli altri Paesi non ci
vede in coda alla classifica. «Siamo nella media, abbiamo recuperato negli ultimi anni».
La tendenza è confermata anche da Andrea Castiello d’Antonio, consulente del lavoro e
management. Che però precisa: «Il peso del volontariato nel curriculum dipende molto dal
tipo d’impresa. Ci sono società incentrate sulla competitività che non guardano se hai fatto
qualcosa di socialmente utile o no. E ce ne sono altre che a volte fanno del non profit un
elemento discriminante durante i colloqui». In quest’ultimo caso — continua l’esperto —
«pur trattandosi di attività non retribuite all’impresa interessa molto l’aspetto motivazionale
che ha spinto il candidato a fare qualcosa senza ricevere in cambio denaro».
«Più la realtà non profit è strutturata, più l’attività svolta all’interno viene valutata e
apprezzata dalle imprese e dai “cacciatori di teste”», ragiona Maria Cristina Bombelli,
fondatore e presidente di Wise Growth, società che si occupa di analizzare la diversità in
azienda. Motivo? «È più facile che in queste realtà il candidato abbia sviluppato
competenze organizzative, manageriali e di rapporto con le persone che possono essere
utili per la società che vuole assumere».
«C’è ancora molta strada da fare per raggiungere il livello americano, ma ci stiamo
avvicinando», avverte Luca Solari, professore ordinario di Organizzazione aziendale
all’Università Statale di Milano e visiting professor in management alla California
Polytechnic State University. Il punto di svolta, secondo Solari, sarebbe quello di iniziare
da piccoli. «Negli Stati Uniti ci si abitua già dalle scuole elementari a impegnarsi nel
volontariato. La stessa cosa bisognerebbe fare, ma davvero, anche in Italia: non
concentrandosi su attività di sensibilizzazione, ma strutturando un percorso fino all’ultimo
anno di università». Perché, continua il docente, «per chi ricerca il personale quelle attività
inserite nel curriculum diventano una spia importante per l’azienda: se si mettono insieme
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volontariato e il tempo impiegato, per esempio, per laurearsi si può avere un’idea delle
capacità organizzative del candidato». Ma, avverte Solari, senza esagerare. «Le aziende
vedono molto cosa uno ha fatto e per quanto tempo. Soprattutto: come l’ha fatto».
Leonard Berberi
del 10/04/14, pag. 27
L’espansione del terzo settore
Produce ricchezza in tempo di crisi
LUCCA — La notizia è buona e anche sorprendente. Non solo il volontariato ha resistito
alla crisi, ma è cresciuto ed è più forte di prima. Lo dimostra uno studio, con tanto di cifre e
proiezioni, che sarà presentato e discusso oggi alla prima giornata del Festival nazionale
del Volontariato di Lucca, una quattro giorni (da oggi sino a domenica, Real Collegio) che
raduna gli stati generali del terzo settore in Italia. Ci saranno due ministri, Giuliano Poletti
(Lavoro) e Stefania Giannini (Istruzione), il presidente della Camera Laura Boldrini e il
presidente del Consiglio, Matteo Renzi, che sabato inaugurerà il nuovo canale «Corriere
Sociale», dedicato al terzo settore, di Corriere.it . Non mancheranno momenti culturali e
ricreativi. Con Maria Grazia Cucinotta, che oggi inaugurerà il festival, e Giobbe Covatta
che lo chiuderà domenica, due personaggi che sono anche firme del blog «Buonenotizie»
di Corriere.it .
Partendo dallo studio del Centro nazionale per il volontariato e della Fondazione
volontariato e partecipazione, il summit di Lucca sarà anche un’occasione per misurare lo
stato di salute del settore.
«Dati positivi — anticipa il presidente del Cnv Edoardo Patriarca — che forniscono spunti
di riflessione e di azione. Da una parte osserviamo che si rafforza l’autonomia di questo
mondo dal settore pubblico, in un’ottica sussidiaria sempre più matura. Dall’altra si
comprende come il volontariato abbia ormai già reagito in maniera decisa alla crisi,
cercando nuove risorse, economiche e umane, per portare avanti la sua imprescindibile
opera di solidarietà».
Insomma, come sottolinea anche il presidente della Fondazione, Alessandro Bianchini,
ormai il «volontariato è un fenomeno maturo e consolidato, una colonna portante del
nostro sistema democratico».
Così, sfogliando il dossier, si scopre che nonostante la congiuntura negativa, lo stato di
salute economica delle organizzazioni di volontariato (Odv) è buono e più della metà dei
circa 2 mila presidenti intervistati (56,6%) ritiene stabile o equilibrata la situazione
economica-patrimoniale della propria organizzazione. Solo una quota minima di
organizzazioni (tra lo 0,6% e il 2,2%) dichiara di avere difficoltà a saldare i debiti contratti
verso terzi.
E tutto questo accade in un momento di gravissima sofferenza nella riscossione di crediti
verso privati e soprattutto nei confronti dell’amministrazione pubblica.
Note positive anche dalla crescita dei volontari che aumentano in un terzo delle
organizzazioni e restano stabili nelle altre. Con una buona percentuale di giovani (in
media, il 25,3% dei volontari ha meno di 35 anni) che però è rimasto fermo alle cifre del
2011. La stabilità delle ore dedicate dai volontari all’Odv caratterizza il 60,0% delle
organizzazioni; l’aumento il 29,5%. Insomma, come si legge nello studio, «meno di
un’organizzazione su 10 ha visto nel 2013 diminuire la quantità di impegno profuso dai
propri membri».
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Marco Gasperetti
Luca Mattiucci
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ECONOMIA E LAVORO
del 10/04/14, pag. 1/6
Il bonus Irpef mangiato dalla Tasi
ROBERTO PETRINI
IL 40% A RISCHIO. RIVOLUZIONE AUTO, SCOMPARE IL PRA ROMA.
Gli 80 euro di bonus che dieci milioni di lavoratori dipendenti dovrebbero ritrovarsi in busta
paga grazie al governo Renzi rischiano di essere vanificati dalla nuova Tasi e delle
addizionali Irpef comunali e regionali. Secondo la Uil le tasse locali si mangeranno nei
prossimi otto mesi il 40 per cento del bonus governativo che scatterà con la busta paga
del 27 maggio.
Il bonus Irpef di 80 euro per chi guadagna meno di 25 mila euro lordi l’anno promesso e
garantito dal governo, e per il quale con il Def sono state annunciate le coperture, in parte
è già stato ipotecato dai contribuenti che dovranno far fronte quest’anno a pesanti aumenti
della nuova Tasi, e delle addizionali Irpef comunali e regionali.
Secondo un «focus» della Uil servizi politiche territoriali le tasse locali “mangeranno” nei
prossimi otto mesi oltre il 40 per cento del bonus di 80 euro previsto dal governo Renzi e
che scatterà con la busta-paga del 27 maggio. Se con una mano il contribuente beneficerà
dell’aumento mensile delle detrazioni Irpef, garantito da maggio a dicembre, con l’altra
mano dovrà tirare fuori 35 euro al mese in più rispetto allo scorso anno tra introduzione
della Tasi (la tassa sugli immobili che ha sostituito l’Imu da quest’anno), le addizionali Irpef
comunali (in rapido aumento) e le addizionali Irpef regionali (in sicuro aumento almeno in
quattro regioni).
Il lavoratore dipendente preso in esame dal «rapporto» è quello che sta sostanzialmente
nella media e dovrebbe prendere gli 80 euro pieni: guadagna 18 mila euro lordi all’anno
(1.200 netti al mese) e ha una casa di proprietà in una zona semiperiferica. Un condizione
modesta che gli consente di entrare in pieno nel target del governo e di beneficiare del
bonus che spenderà per le prime necessità. ma purtroppo la sua busta paga è esposta
alla voracità dei Comuni, che stanno mettendo in atto aumenti di Tasi e addizionali, e delle
Regioni che, con i conti sanitari in dissesto, sono costrette a ricorrere al rincaro delle
aliquote.
Alla fine dell’anno Cipputi, il lavoratore dipendente medio, si troverà in tasca i 640 euro
che saranno erogati per i prossimi otto mesi, ma dovrà sapere che il conguaglio
dell’aumento delle addizionali comunali Irpef gli sottrarrà 12 euro, quello delle addizionali
regionali gli toglierà 36 euro e l’effetto dell’aumento per l’intero 2014 della Tasi gli costerà
230 euro tondi considerando che lo scorso anno l’Imu non si è pagata (o si è pagata solo
parzialmente con la mini-Imu).
A conti fatti la “bolletta” da saldare all’erario sarà di 278 euro che, sottratti ai 640 sui quali
pensava di contare, fanno esattamente 362 euro che riducono al 56 per cento il beneficio
promesso dal governo. Il guadagno netto in busta paga in questo modo si dimezza.
«Renzi con la stessa tenacia con cui ha ridotto l’Irpef nazionale, dovrebbe fare altrettanto
per evitare gli aumenti della fiscalità locale», spiega Gugliemo Loy, segretario confederale
della Uil. Ed in effetti le notizie che arrivano dal fronte dei Comuni che avranno tempo fino
al 31 maggio per deliberare le nuove aliquote, non annunciano niente di buono: già dodici
capoluoghi di provincia su 107 hanno deliberato o annunciato ufficialmente che
posizioneranno la Tasi ben più in alto del minino dell’1 per mille arrivando al tetto massimo
del 2,5 per mille e creando, in assenza di detrazioni, un impatto superiore alla vecchia Imu
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pagata pienamente nel 2012. Tra i Comuni capofila degli aumenti ci sono grandi centri che
faranno tendenza: da Milano a Piacenza, da Modena a Mantova, da Pistoia a Cagliari.
C’è poi il problema dell’addizionale Tasi dello 0,8 prevista dal decreto enti locali (che oggi
passa con la fiducia alla Camera) e i cui proventi dovevano essere destinati proprio alle
detrazioni per i bassi redditi. I Municipi sono tentati di non applicarla per evitare che
l’aliquota monstre del 3,3 per mille faccia clamore, anche se ciò comporta la rinuncia alle
detrazioni (in questo caso obbligatorie) per le fasce più deboli e con figli.
La corsa delle tasse locali sugli immobili si affianca a quella sui redditi. I primi aumenti, sui
quali sono elaborate le proiezioni del “rapporto”, faranno aumentare l’Irpef municipale del
10,7 per cento rispetto al 2013 (da 140 medi pagati lo scorso anno ai 155 del 2014). E la
mano è pesante: su 181 Comuni che hanno già deliberato le nuove aliquote 2014 che
pagheremo in busta paga per quest’anno e il conguaglio del prossimo, 61 hanno messo in
campo aumenti, circa un terzo.
Stessa musica per l’Irpef regionale: quattro regioni (Piemonte, Liguria, Lazio e Umbria)
hanno già aumento le aliquote di quest’anno arrivando al tetto del 2,33 per cento. Il costo
medio salirà del 12,7 per cento passando da un costo medio di 363 euro ai 409 euro del
2014. Tutto in busta paga a mangiare il bonus di Renzi che si troverà nel corso dell’anno a
combattere con la lenta e inesorabile erosione che, malgrado le intenzioni positive, rischia
di diventare un mini-bonus.
del 10/04/14, pag. 5
Il Jobs Act in salsa Perugina
I dipendenti della multinazionale svizzera al congresso della Flai Cgil:
"No ai ricatti, si ascolti la nostra controproposta"
Antonio Sciotto
No al Jobs Act in salsa Perugina. La Cgil giudica “irricevibile e provocatoria” la proposta di
flessibilizzare i contratti avanzata dalla Nestlè, proprietaria dello storico marchio dolciario
italiano. La posizione è stata ribadita ieri al congresso della Flai Cgil, a Cervia, dove erano
presenti diversi delegati del gruppo alimentare svizzero. L’azienda ha specificato che “non
intende abolire il tempo indeterminato”, ma secondo la Flai sussiste comunque un “alto
rischio di precarizzazione” nella proposta di trasformare i contratti full time in part time.
“Così si riduce il salario, si mette a rischio il futuro di tante persone che da anni lavorano
per la Perugina”, dice Marco Ballerani, che come altre 1100 persone – tra fissi e stagionali
– produce cioccolatini, biscotti e caramelle nello stabilimento di San Sisto, a Perugia. Gli
operai dei Baci, peraltro, già da diversi anni non hanno vita facile: da quando è iniziata la
crisi, infatti, hanno dovuto tamponare i periodi di bassa produzione (primavera ed estate,
quando per il caldo si arresta la vendita di cioccolata) con sempre più pesanti iniezioni di
cassa integrazione e solidarietà.
Una situazione che per i conti della multinazionale svizzera si è rivelata sempre più
“inefficiente”, e così nell’ultimo faccia a faccia con i sindacati, lo scorso 4 aprile, si è
tentato il colpaccio: “Ci hanno detto che se volevamo confrontarci sull’integrativo di
gruppo, motivo per cui ci eravamo incontrati – racconta Sara Palazzoli, segretaria Flai
dell’Umbria – avremmo dovuto discutere insieme una loro proposta sulla flessibilizzazione
dei contratti. A quel punto abbiamo rotto le trattative, per noi i due temi devono restare
separati”.
Chi lo sa, forse stimolata dal decreto Poletti, che liberalizza al massimo i contratti a
termine, la Nestlè ha pensato bene di pigiare il piede sull’acceleratore della flessibilità.
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D’altronde, le lamentele delle imprese sono sempre le solite, e purtroppo i sindacati –
soprattutto se lasciati soli dalla politica – per replicare hanno armi ogni giorno più spuntate:
“Dicono che il dolciario con la crisi ha perso il 35% di vendite – spiega il delegato Perugina
– e che in altri paesi, come per esempio in Germania, dove producono le capsule per il
Nespresso, trovano condizioni migliori per investire. Su questo possiamo anche dargli
ragione: è vero che da noi la burocrazia e le tasse sul lavoro sono penalizzanti, ma sulla
flessibilità non ci stiamo. Abbiamo già dato”.
In effetti, dei 1100 addetti Perugina, 300 sono stagionali: vengono chiamati al lavoro solo
per i periodi di “curva alta” (da fine estate a Pasqua). Degli altri 800, tutti a tempo
indeterminato, circa 260 sono già part time, secondo una formula che ha fatto scuola
nell’industria alimentare italiana. Sono infatti contrattualizzati per 30 ore settimanali, ma in
realtà le fanno soprattutto nei periodi di “alta”: arrivando spesso anche fino a 40 o 48 ore a
settimana. Tutte le ore aggiuntive a quelle base, vengono poi “smaltite” nei periodi di
“curva bassa” (da aprile a fine luglio): pur restando a casa, così percepiscono comunque
lo stipendio.
Il problema si pone per gli altri 540 operai: essendo full time, sono diventati un rompicapo
per il gruppo, che li ritiene troppo “rigidi”, sempre meno adatti al mercato, che chiede ogni
anno una stagionalità più spinta. Per questi perugini, e analogamente per i circa 400
addetti delle industrie del gelato Nestlè di Parma e Ferentino, la multinazionale chiede
adesso la conversione in “altri contratti”, part time.
“Siamo disposti a confrontarci sulla stagionalità, ma niente ricatti”, hanno dichiarato ieri
Flai, Fai e Uila. E da Perugia i delegati Flai spiegano la contro-proposta del sindacato:
“Perugina potrebbe reinternalizzare tanti servizi che oggi dà in appalto, recuperando così
alcuni posti per gli interni: negli anni passati i lavoratori erano già addetti a diverse
mansioni, mica stavano solo sulle linee. Inoltre ci chiediamo che piani industriali si
propongono per l’Italia: se investissero su nuovi prodotti, forse potremmo lavorare di più”.
Il timore, per tutti i 4 mila dipendenti Nestlè italiani, è che la multinazionale svizzera sia
sempre più intenzionata a disimpegnarsi dal nostro Paese.
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