MONTESQUIEU Considerazioni sulle cause della

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MONTESQUIEU Considerazioni sulle cause della
Storia
Politica
MONTESQUIEU
Considerazioni
sulle cause della grandezza dei Romani e della loro decadenza
1734
PERCHÉ LEGGERE QUESTO LIBRO
Montesquieu ha sviluppato per tutta la vita un grande interesse per Roma e per i costumi
di questo popolo antico che ha saputo dominare il mondo. Nelle Considèrations lo
studioso francese legge la storia romana, la interpreta nel suo sviluppo e ne intravede le
costanti e le dominanti. Ciò che lo incuriosisce sono i motivi per i quali la civiltà romana è
giunta tanto in alto e quelli per i quali è precipitata. Sulla linea interpretativa del
Machiavelli dei Discorsi, egli individua le ragioni ultime della decadenza nella perdita dello
spirito repubblicano delle origini. Il suo progetto potrebbe dunque essere definito come
“la storia romana secondo l’autore dello Spirito delle Leggi con lezioni per l’oggi e per il
domani”. L’aspetto stilistico-narrativo è un altro motivo per i quali leggere quest’opera.
Molti passi sono delle sentenze scritte con un tono sicuro, sintetico e assertivo, mentre la
bibliografia è un concentrato della migliore storiografia dell’epoca.
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PUNTI CHIAVE

Lo spirito virile romano originario è stato il fondamento della loro espansione

Le divisioni interne e l’abbandono delle virtù repubblicane inaugurano la
decadenza

Augusto è il demolitore della Repubblica Romana

Nell’epoca imperiale si verifica la progressiva corruzione dei costumi

Le invasioni sono la conseguenza e il compimento di una situazione già
drammatica

L’Impero d’Oriente prolunga la sua vita disinteressandosi delle sorti
dell’Occidente
RIASSUNTO
Fondamenti della grandezza romana
Montesquieu attraversa, con una cavalcata cronologica amplissima, un periodo che va
dalla fondazione di Roma sino alla fine dell’Impero d’Oriente, cioè circa duemila anni di
storia che presuppongono una grande conoscenza delle fonti, il coinvolgimento di eventi e
popolazioni eccezionalmente diverse ed un continuo rimando alla storia successiva ed alla
sua contemporaneità. I primi capitoli sono dedicati all’era della fondazione della città e,
diversamente da quello che ci si potrebbe aspettare, il suo giudizio sulla monarchia è
favorevole, eccezion fatta per Tarquinio il Superbo.
Questo è anche il periodo in cui si forgiano alcune tipiche virtù romane, come il desiderio
permanente di conquista attraverso la guerra, la grande perizia nell’arte militare, le paci
stipulate solo da una posizione di forza. I romani seppero darsi sempre una preparazione
accuratissima in guerra e una disciplina rigorosa, che accoppiate alla salute degli uomini,
al loro coraggio ed alla loro capacità di apprendere le tecniche belliche dai migliori
specialisti ne spiegano la potenza e le vittorie.
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Ma fu, secondo Montesquieu, lo spirito virile originario, basato sulla difesa
territoriale che ogni individuo aveva inculcato in sé della propria proprietà e della città a
rendere questo popolo e questa civiltà così tipici e degni di espandersi. Nel momento in
cui iniziano a dimenticare questo spirito, per loro iniziò la lenta, inesorabile discesa. Questi
aspetti sono evidenti nella grande guerra che più di ogni altra ha forgiato l’animo romano,
quella contro Cartagine. Le guerre puniche furono vinte grazie al carattere ed ai costumi,
più che in virtù delle armi o di singoli episodi.
Dalla conquista, umiliazione e distruzione di Cartagine inizia il percorso di conquista
romano del Mediterraneo: Grecia, Macedonia, Siria ed Egitto. È una conquista attuata
avendo sempre ben preciso avanti a sé il peculiare interesse di Roma, un interesse che
non esita a servirsi degli scontenti fra le fazioni in lotta, delle alleanze con gruppi o con
popoli al fine di dividere e meglio subentrare nel dominio.
L’inizio della decadenza
Anche nei momenti di maggior fulgore si intravedono però i germi di una decadenza. In
questo senso anche la Roma repubblicana, quintessenza delle virtù e delle peculiarità più
esplicitamente romane, presenta segnali di fragilità. Quando le discordie interne dividono
la città, i segnali diventano espliciti e le divisioni rendono l’opera di conquista del mondo
un castello costruito sulla sabbia. Il potere poté essere ancora corretto e controllato nei
suoi abusi più evidenti. Ma il disfacimento sarà solo una questione di tempo, sotto i colpi
della corruzione, anche ideologica, con l’abbandono delle virtù guerresche, la progressiva
fine del senso civico, la trasformazione indiscriminata degli alleati in cittadini romani che,
di fatto, rese nullo il sentimento di cittadinanza.
La spaventosa guerra civile è solo la conseguenza di tutto questo, di un Impero capace di
espandersi, ma profondamente malato nel suo nucleo. Le figure di Silla, Mario, Cesare,
Pompeo e Augusto sono tutte accomunate da un’inequivocabile condanna da parte
dell’autore, che scorge in loro degli avventurieri, degli approfittatori, dei capi militari
capaci solo di pensare all’estensione del proprio dominio personale.
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L’impero
Montesquieu si rivela fuori dagli schemi storiografici del suo tempo e, per molti versi,
anche dei secoli a venire, laddove esprime, per esempio, la sua critica a Cicerone oppure
ad Antonio. Ma è con Augusto che questa originalità di dispiega maggiormente. Il primo
imperatore di Roma viene presentato come un cinico e spietato dittatore, un vile portato
alla gloria da un esercito che con il suo appoggio di fatto decide i destini di Roma. Augusto
segna la fine di una civiltà fondata sulle libertà repubblicane: «Non c’è tirannide più
crudele di quella che viene esercitata all’ombra delle leggi, e con l’apparenza della
giustizia» (p. 170).
La storia travagliata, tragica e drammatica del succedersi di imperatori che ascendono al
trono romano dopo Augusto dimostra un progressivo ampliamento del potere statuale
oltre che dell’arbitrio del regnante, la noncuranza in cui sono via via tenute le leggi e le
istituzioni classiche, prima fra tutte il Senato, che divenne un organo servile di pura
emanazione della volontà del principe. Si verifica inoltre un aumento esponenziale della
tassazione e la militarizzazione della società imperiale.
Per ogni imperatore l’autore traccia un ritratto con rapide pennellate che ne sintetizzano
l’opera. Emerge di frequente l’incapacità di evitare la catastrofe, tra proscrizioni, violenze,
confische, leve obbligatorie, ma soprattutto la noncuranza assoluta per la situazione
finanziaria ed amministrativa, in un quadro di dimenticanza della visione d’insieme del
bene della Res Publica Romana: il dispotismo di Tiberio, l’arbitrio crudele di Caligola, la
fine dell’amministrazione della giustizia con Claudio, i tentativi di restaurazione operati da
Vespasiano, l’amatissimo Tito opposto al mostruoso Domiziano, gli ultimi bagliori con
Traiano, Adriano e gli Antonini.
L’impero in crisi cessa di espandersi. Il suo interno diventa terra di conquista degli animi
per le dottrine stoiche ed epicuree, oltre che, soprattutto, per il cristianesimo. Traspare, e
Montesquieu lo dirà esplicitamente, la convinzione che all’indebolirsi dell’Impero faccia da
contraltare il rafforzarsi del cristianesimo. E, parallelamente, che all’innalzarsi del peso
dell’esercito, si registri una conseguente perdita di autorità della politica: «l’Impero fu
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messo in condizioni tali che non poteva sopravvivere senza soldati, ma non poteva
nemmeno sopravvivere con loro» (p. 190).
Diocleziano tenta un estremo salvataggio dividendo l’Impero in una parte occidentale ed
in una parte orientale. Questo frazionamento diventa radicale con Costantino, che
privilegia l’Oriente e trasporta tutte le funzioni, le ricchezze e i traffici verso la sua nuova
città, la nuova Roma, Costantinopoli. Questo Imperatore grandemente lodato viene invece
presentato da Montesquieu come colui che conduce alla rovina l’Occidente e che,
sguarnendo le frontiere, di fatto apre le porte ai barbari. Ma le ragioni delle invasioni
venivano da molto lontano.
Le invasioni
Le cause delle invasioni erano interne e Montesquieu le ha già adeguatamente illustrate in
precedenza. L’impero implode sotto il carico di una crisi finanziaria e fiscale, di una
eccessiva militarizzazione e soprattutto per la perdita della propria più intima identità, in
un travaglio spirituale che gli fa negare la propria storia. I barbari, in altri tempi e con un
altra temperie, avrebbero potuto tranquillamente essere tenuti fuori dai confini. Ma era
finita l’epoca della grandezza di Roma e la responsabilità va cercata all’interno delle
complesse dinamiche dell’impero stesso. La perdita della grandezza coincide con
l’abbandono dei costumi e dell’amore per la patria che furono proverbiali in questo
popolo. La rovina è la conseguenza di un misconoscimento delle proprie radici prima che
dell’avanzata inarrestabile di popolazioni aliene.
Le invasioni sono delle continue ondate di piena di popoli che ne sospingono altri, in cui
uomini terrorizzati da altri che prendono le loro terre si riversava nei territori dell’impero
e ne restringono il limes fino all’Italia. Montesquieu, anche in questo caso, non manca di
sorprenderci, mostrando una grande ammirazione per la figura di Attila, un re potente,
astuto e fiero, simile a un romano dei primi tempi. La situazione precipita fino a quando,
nel 476, con la deposizione di Romolo Augustolo cade definitivamente anche il simulacro
del potere. L’Impero Romano d’Occidente si chiude in un crepuscolo di morti e distruzioni,
mentre la parte orientale dell’Impero rifiuta il suo aiuto.
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È quindi la volta dei Visigoti, e poi degli Eruli, che con Odoacre espugnano quello che
rimane della grande città di Roma. Il tentativo di Giustiniano di restaurare l’impero
mediante la riconquista dell’Africa e dell’Italia, ha breve ed effimera durata. Il giudizio su
Giustiniano è duro: fu un tiranno intollerante, capace di farsi dominare da una prostituta,
ma deciso ad obbligare tutti ad un’unica fede: «Credette di aver aumentato il numero dei
fedeli, ma aveva solo diminuito quello degli uomini» (p. 224).
L’Impero d’Oriente
Nel frattempo anche la situazione nell’Impero d’Oriente precipita. Ed anche qui la
conquista araba, velocissima e strabiliante, deve moltissimo alle discordie, ai disordini, alle
problematiche religiose, politiche e finanziarie interne all’Impero greco stesso. Ciò che
rimane di questa grande e ricca potenza dopo la conquista araba, che acquisisce Siria,
Egitto, Palestina, Africa del Nord, Persia e Spagna, fu una ridotta porzione di mondo, che
sopravvive a malapena, pagando tributi e sottomissioni. Oltretutto, ciò che rimane
dell’Impero d’Oriente si azzuffa in perenni dispute teologiche che invadono la gestione
politica della cosa pubblica, in una commistione deleteria e dannosa.
L’Impero d’Oriente dura così a lungo (perché è in realtà questa la domanda che bisogna
porsi, viste le premesse) grazie alle divisioni interne al mondo arabo, dilaniato tra califfati
ed osservanze, ma anche grazie al possesso di un’arma difensiva come il fuoco greco,
all’importanza che continua a rivestire il commercio, al predominio sul Mediterraneo e
all’accorta politica di pacificazione.
Le Crociate dimostrano che i Greci odiano i Latini. Ne hanno anche valide ragioni, viste le
efferate devastazioni compiute. Ma è indubitabile che anche prima di un’esplicita ostilità,
essi dimostrano di non voler sposare la causa dell’Occidente. Ma anche per l’Impero greco
giunge la fine, sancita dalla conquista dei Turchi Selgiuchidi: «sotto gli ultimi imperatori,
l’impero, ridotto ai sobborghi di Costantinopoli, finì come il Reno, il quale non è altro che
un ruscello quando si perde nell’oceano» (p. 249).
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CITAZIONI RILEVANTI
La flessibilità dei romani
«Ed occorre notare che quanto ha maggiormente contribuito a fare dei Romani i padroni
del mondo è il fatto che essi, avendo combattuto successivamente contro tutti i popoli,
hanno sempre rinunciato alle loro usanze, non appena ne hanno trovate di migliori»
(p.80).
La crisi di un sistema politico
«La tirannia di un principe non avvicina uno Stato alla rovina più di quanto non lo faccia
l’indifferenza verso il bene comune in una repubblica» (p. 97).
La tempra di Roma
«Roma fu un prodigio di costanza. Dopo le giornate del Ticino, della Trebbia e del
Trasimeno e dopo quella di Canne, più funesta ancora, benché abbandonata da quasi tutti
i popoli d’Italia, non chiese affatto la pace. Gli è che il Senato mai si allontanava dalle
antiche massime … Roma fu salvata dalle sue istituzioni. Dopo la battaglia di Canne,
neppure alle donne fu permesso di versar lacrime» (p. 103-104).
Le virtù del governo repubblicano
«Il governo di Roma fu mirabile per il fatto che, fin dalla sua nascita, la sua costituzione fu
tale – per lo spirito del popolo, per la forza del senato o l’autorità di certi magistrati – che
ogni abuso di potere sempre poté esservi corretto … In una parola, un governo libero,
ossia sempre agitato, non potrebbe durare se, in virtù delle proprie leggi, non fosse
suscettibile di correzione» (p. 135-136).
Non è la fortuna che domina il mondo
«Ecco, in una parola, la storia dei Romani: vinsero tutti i popoli con le loro massime, ma
allorché ci furono riusciti, la loro repubblica non poté più reggersi: si dovette cambiar
governo, e massime contrarie alle prime, adottate in questo nuovo governo mandavano in
rovina la loro grandezza. Non è la fortuna a dominare il mondo … Ci sono cause generali,
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sia morali che fisiche, che agiscono in ogni monarchia, che la innalzano, la
mantengono o la rovesciano» (p. 205).
L’AUTORE
Charles-Louis de Secondat, barone di Montesquieu, nacque a La Brède nel 1689 e si formò
negli studi giuridici. Dopo aver ricevuto i beni paterni ed il titolo, rivestì la carica di
Presidente del Parlamento di Bordeaux. Dopo viaggi e frequentazioni culturali, escono nel
1721 le Lettere Persiane. Visse tra Bordeaux, La Brède e Parigi. Dopo un ulteriore e più
lungo giro per l’Europa, diede alle stampe le Considèrations sure les causes de la grandeur
des Romains et de leur dècadence (1734). Nel 1748 pubblicò il suo capolavoro, l’Esprit des
lois e, nel 1750, una Dèfense de l’Esprit de lois. Prima di morire, il 10 febbraio 1755, fece in
tempo a scrivere per l’Enciclopedia il Saggio sul gusto.
NOTA BIBLIOGRAFICA
Montesquieu, Considerazioni sulle cause della grandezza dei Romani e della loro
decadenza, Rizzoli, Milano, 2001, a cura di Davide Monda, p. 256.
Titolo originale: Considerations sur les causes del la grandeur des Romains et de leur
decadence
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