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Catia Giaconi
NELLA COMUNITÀ
DI CAPODARCO DI FERMO
Dalle pratiche all’assetto
pedagogico condiviso
Report di ricerca
ARMANDO
EDITORE
Sommario
Introduzione: Una via per la pratica educativa
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PARTE PRIMA: PER UNA “ANCORATA” VISIONE PEDAGOGICA
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DI ANNI DI COMUNITÀ
Il quadro della ricerca
La specificità del contesto di ricerca:
una comunità “in movimento”
L’organigramma e i partecipanti all’indagine
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L’impianto metodologico della ricerca
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Il processo operativo della ricerca
I Step. Individuazione di un ambito di ricerca e focalizzazione
della questione generativa dell’indagine
II Step. Scelta del metodo e degli strumenti per la ricerca e
condivisione del progetto di ricerca con l’intera Comunità
di Capodarco di Fermo
III Step. L’avvio della ricerca: contesto specifico,
campionamento teorico, raccolta dei dati e prima codifica
IV Step. La restituzione, l’integrazione delle prime interviste
e l’analisi condivisa e comparata di tutti i testi e dei relativi
documenti di analisi e di sintesi
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V Step. Individuazione delle categorie, delle macrocategorie
e delle rispettive proprietà
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VI Step. Individuazione delle categorie centrali e di una mappa
condivisa
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VII Step. Stesura della descrizione
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VIII Step. Riesame del percorso di ricerca e rilettura dei memo
e dei diari di ricerca e confronto con gli scritti della Comunità
di Capodarco. Stesura del report di ricerca
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IX Step. Valutazione, socializzazione dei risultati e
pubblicazione dei risultati
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PARTE SECONDA: L’ASSETTO PEDAGOGICO CONDIVISO
DELLA COMUNITÀ DI CAPODARCO DI FERMO
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Il significato del fare Comunità
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Mettere al centro la persona
Accogliere la persona
Prendere in carico e aver cura della persona
Far star bene
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Promuovere un clima e uno stile comunitario
Creare un clima familiare
Tendere ad uno stile educativo fondato sulla comunità
Curare la relazione
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Essere aperti alla progettualità
Gettare lo sguardo in avanti e “sporcarsi le mani”
Progettare per e con la persona
Progettare a livello locale ed internazionale
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Coniugare passione e professionalità
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Tendere ad un profilo di competenze adeguato senza cadere
nell’iperspecializzazione
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Appassionarsi al progetto di Capodarco e fornire servizi dal lato
umano
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Riflessioni pedagogiche
Dalle finalità educative…
…all’organizzazione del personale
…all’organizzazione educativa
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ALLEGATI
Allegato 1: Quattro tappe significative della storia
della Comunità di Capodarco di Fermo
Allegato 2: Organigramma della Comunità di Capodarco
Allegato 3: Organigramma della Comunità di Capodarco
di Fermo
Allegato 4: Schede didascaliche delle strutture afferenti
alla Comunità di Capodarco di Fermo
Allegato 4.1: Comunità di Capodarco di Fermo
Allegato 4.2: Centro socio educativo riabilitativo
Allegato 4.3: Comunità Sant’Andrea
Allegato 4.4: Società Solaria cooperativa
Allegato 4.5: Associazione Mondo Minore Onlus
Allegato 4.6: Associazione L’Arcobaleno
Allegato 5: L’assetto pedagogico condiviso dalle Comunità
di Capodarco di Fermo: il significato di fare Comunità
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Bibliografia di riferimento
Sulla Comunità di Capodarco
Statuti
Periodici della Comunità di Capodarco
Sulla parte teorica e sulle procedure della ricerca e
dell’analisi qualitativa
Sui riferimenti allo scenario della pedagogia speciale,
delle comunità e delle professioni educative
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Introduzione
Una via per la pratica educativa
[…] le pratiche dell’educazione forniscono i dati,
gli argomenti, che costituiscono i problemi dell’indagine; esse sono l’unica fonte dei problemi fondamentali su cui si deve investigare. Queste pratiche
dell’educazione rappresentano inoltre la prospettiva
definitiva del valore da attribuire al risultato di tutte
le ricerche.
J. Dewey, 1984, p. 24.
Prima di entrare nel cuore di questo report di ricerca, riteniamo opportuno tracciare lo stato dell’arte della riflessione in merito allo studio delle pratiche educative per fornire al lettore le
coordinate essenziali per comprendere le motivazioni sottese al
lavoro che presenteremo in questo testo.
La riflessione che andiamo brevemente a ricostruire si inserisce nel consolidato dibattito scientifico sul rapporto tra teoria e
prassi. Nel tempo, accanto a posizioni che riconoscevano il primato esclusivo della teoria sulla pratica, quest’ultima sempre e
comunque in uno stato di subordinazione rispetto alla teoria, si
sono consolidati orientamenti che hanno legittimato la validità
epistemologica anche della conoscenza pratica accanto a quella
teorico-scientifica.
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Sul fronte del posizionamento scientifico e metodologico nelle
ricerche in campo educativo e didattico, oggetto di questo lavoro,
non è neutro da parte del ricercatore aderire alla visione del monismo epistemologico, che identifica solo la teoria come conoscenza epistemologicamente apprezzabile; o, di contro, sostenere la
posizione del dualismo epistemologico che riconosce la reciproca
validità della conoscenza pratica e della conoscenza teorica.
In altre parole, cambia radicalmente il modo di concepire e
di fare ricerca in ambito educativo e didattico. Vediamo in che
modo.
Da un lato, nel primato della teoria sulla pratica gli insegnanti,
gli educatori e quanti “lavorano direttamente sul campo” sono
considerati i detentori delle esperienze, mentre i ricercatori sono
ritenuti i possessori delle conoscenze, con un palese rapporto di
asimmetrìa a favore del ricercatore-teorico che ha il compito di
dir loro come pensare l’insegnamento e l’educazione e di conseguenza di prescrivere quello che “devono fare” per concretizzare
la “sua teoria”.
In questo caso, le ricerche hanno il compito di dar vita a “teorie” da cui i pratici possono poi trarre degli orientamenti, molto
spesso prescrittivi, per le loro pratiche.
Dall’altro, nella legittimazione epistemologica e scientifica
anche della pratica come conoscenza, il rapporto tra i conduttori
della ricerca e le comunità di pratiche si riqualifica in una “Nuova Alleanza” (E. Damiano, 2006), dove i cosiddetti “pratici” sono
considerati di fondamentale importanza per le indagini in ambito
didattico ed educativo, con un conseguente cambiamento di atteggiamento da parte dei ricercatori, i quali ritengono che solo a
partire dalla pratica si possa desumere una teoria. La ricerca dunque abbandona la presunzione di dire a quanti agiscono concretamente e quotidianamente nei diversi contesti educativi e didattici
come devono pensare l’educazione e l’insegnamento e cosa devono fare. Pertanto, come precisa puntualmente E. Damiano, la
necessità che viene a delinearsi in questi studi delle pratiche edu12
cative e didattiche è quella di “produrre parole – è questo il ‘mestiere’ proprio del teorico – ma le ‘parole del’ pratico, capaci di
dire quello che fanno, possibilmente nel senso che lui (il pratico)
assegna loro attraverso la sua azione in contesto” (E. Damiano, in
C. Giaconi, 2008, p. 23), al fine di “[…] diventare interpreti della
conoscenza pratica degli insegnanti, per restituirla agli insegnanti
stessi attraverso la formazione iniziale e ricorrente” (ibidem).
In un contesto di crescente richiesta di professionalizzazione,
aumenta dunque l’attenzione degli studiosi alle forme di “sapere
in azione”, all’agire didattico ed educativo e al “professionista riflessivo in azione” (D.A. Schön, 1993), il quale volge uno sguardo
critico sulla propria esperienza e sulle proprie rappresentazioni,
credenze, conoscenze tacite che, in modo consapevole o meno,
guidano le sue scelte progettuali ed il suo agire professionale.
Ed è così che, in contrapposizione al formato epistemologico
del monismo epistemologico che ha dominato per lungo tempo
le scene della ricerca in campo educativo e didattico, si fa strada un crescente filone di studi e di ricerca, in Italia denominato
“APRED” (Analisi delle Pratiche Educative), volto ad indagare
il pensiero degli insegnanti1 e degli educatori e le loro pratiche
didattiche ed educative in ragione anche della rilevanza di queste
indagini in rapporto allo sviluppo professionale e in vista di una
possibile documentazione dell’agire professionale.
Certamente chi vuole confrontarsi con il “sapere agito” deve
fare i conti con una serie di difficoltà e consapevolezze.
1
Il filone di ricerca dal nome “Il pensiero degli insegnanti” risale agli anni
Settanta, quando l’American Educational Research Association (AERA) esordisce con un gruppo di lavoro nel 1975 coordinato da R. Shuman, che formula
alcune ipotesi: 1. gli insegnanti pensano l’insegnamento in modo ricco e articolato; 2. il pensiero degli insegnanti ha rilievo sull’agire in classe. Tale movimento diverrà prima una sezione dell’AERA, poi una associazione a sé dal
nome ISATT (International Study Association on Teacher’s Thinking). In Italia
gli studi in questa direzione vedono coinvolti diversi professori delle Università italiane organizzati intorno ad un movimento denominato APRED (www.
apred.it).
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In primo luogo, le “azioni” che sono al centro del sapere pratico, dell’agire didattico ed educativo, non possono essere studiate
come meri oggetti statici ed immutabili, ma vanno rese nella loro
processualità che si svolge nel tempo, contemplando anche la categoria del cambiamento (cfr. E. Damiano, 2006).
In secondo luogo, chi studia le pratiche educative e didattiche
non si può limitare semplicemente a “ri-costruirle” senza sentire
direttamente l’attore principale dell’azione stessa, sarebbe come
pensare di studiare un’opera d’arte senza studiare l’artista, la sua
visione del mondo e dell’arte, il contesto generale in cui è inserito. Questo perché, come precisa E. Damiano: “Un’azione è pensiero incarnato, essa ha un legame immanente con le intenzioni
di chi la compie, con i suoi intenti, la sua sensibilità, la sua condizione. Per conoscere un’azione, veramente, non ci si può limitare
ad osservarla in superficie, per quel che si vede, ma comporta
rendere conto della parte di soggettività iscritta nella sua fisicità,
cultura, trama di relazioni significative, fase biografica… Quel
che si presenta allo sguardo come ‘lo stesso comportamento’ può
nascondere alla vista significati anche molto diversi, se non opposti fra loro” (cfr. E. Damiano, in C. Giaconi, 2008).
Per questo motivo, la comunità scientifica APRED apre la riflessione in merito ad una serie di questioni di grande rilievo per
l’analisi delle pratiche educative, come, ad esempio, quali metodologie di ricerca siano più appropriate per indagare le pratiche
didattiche ed educative che, come abbiamo brevemente illustrato, per loro natura, sfuggono ai classici schemi di oggettivazione
dell’epistemologia positivista. Quindi, i gruppi di ricerca APRED
delle diverse Università italiane hanno dato vita a percorsi di indagine per studiare le pratiche educative e didattiche; in altre parole, per richiamare il titolo di questa introduzione, hanno tentato
di trovare delle vie per dar voce alle pratiche educative.
In merito alla cornice di riferimento in cui si inserisce il lavoro che andiamo a presentare, occorre precisare che nel settore
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dell’analisi delle pratiche d’insegnamento, soprattutto di provenienza francofona, i diversi tentativi metodologici vengono raggruppati in due grandi filoni (cfr. A. Mercier, M.L. Schubauer, G.
Sensevy, 2002).
Il primo, definito osservazioni delle pratiche, si fonda sull’osservazione diretta in contesto delle pratiche didattiche ed educative o sulla registrazione del lavoro (lezione, ecc.) in aula o in altro
contesto educativo e dell’analisi a posteriori.
Il secondo, denominato discorsi sulle pratiche, si basa su “discorsi”, resi spesso in forma di testi scritti, sulle “azioni”, didattiche ed educative, da parte degli attori (insegnanti, educatori,
ecc.) che compiono queste pratiche nei diversi contesti educativi
di riferimento.
Il lavoro che andiamo a documentare in questo volume è “una
via per le pratiche educative” della Comunità di Capodarco di
Fermo che si inserisce, anche per il metodo usato dell’analisi
dei documenti scritti e delle interviste, sul piano delle rappresentazioni verbali dei significati presso i protagonisti delle sedi
operative della Comunità di Capodarco di Fermo (fondatori, responsabili, educatori, operatori socio-sanitari, famiglie e persone
accolte).
Nella storia di questo percorso di indagine la domanda emersa
è stata definita e puntualizzata all’esplorazione e all’analisi dei
significati attribuiti dagli operatori alla “Comunità di Capodarco
di Fermo” al fine di far emergere dalla pratica un eventuale assetto teorico pedagogico della Comunità di Capodarco di Fermo.
Attraverso l’analisi delle interviste e dalle categorie emerse sono
state infatti individuate le relazioni reciproche, che sono state integrate fino a giungere alla core category della ricerca: l’assetto
pedagogico condiviso della Comunità di Capodarco di Fermo.
L’indagine si è spinta poi ad apprezzare come la Comunità di
Capodarco di Fermo abbia “incarnato” in questi quarantacinque
anni le finalità educative emerse grazie ad una peculiare organizzazione educativa.
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Al fine di coniugare la necessità di “partire dal basso”, da un
forte ancoraggio all’esperienza e, al tempo stesso, di rendere il
senso delle dinamiche dell’agire educativo nelle Comunità di Capodarco di Fermo, abbiamo scelto la metodologia di ricerca qualitativa denominata Grounded Theory.
Il testo che per volere della committenza si presenta come report di ricerca, si suddivide in due parti.
Nella prima parte, “Per una ‘ancorata’ visione pedagogica di
anni di Comunità”, viene presentato il quadro di ricerca, il contesto specifico della Comunità di Capodarco di Fermo, l’impianto metodologico e il processo operativo della ricerca fase dopo
fase.
Nella seconda parte, “L’assetto pedagogico condiviso della
Comunità di Capodarco di Fermo”, viene messa in luce la teoria
emersa dalla ricerca. Vista la specificità della ricerca che si colloca all’interno delle analisi delle pratiche educative, la nostra
scelta è stata quella di fondare la presentazione degli indicatori
emersi attraverso le parole dei “pratici” e dunque i passaggi più
significativi tratti dalle interviste di coloro che hanno partecipato
alla ricerca.
Il testo si chiude con alcune riflessioni pedagogiche: “dalle
finalità educative… all’organizzazione del personale… all’organizzazione educativa” delle comunità di Capodarco di Fermo. Lo
scopo è quello di rilanciare alcune linee di connessione tra la pedagogia di Capodarco, emersa dal percorso di ricerca, e l’assetto
epistemologico della pedagogia speciale per giungere a tracciare
sinteticamente come le finalità emerse si siano “incarnate” in una
peculiare organizzazione educativa.
In allegato, si riportano alcune brevi schede didascaliche delle
strutture afferenti alla rete di Capodarco di Fermo per permettere
agli studenti in formazione, futuri educatori e pedagogisti, di avere una panoramica della “geografia comunitaria” di Capodarco di
Fermo.
Si ringrazia il presidente Don Vinicio Albanesi per la possi16
bilità di condurre questo percorso di ricerca e di scendere direttamente all’interno delle comunità. Si ringraziano i comunitari, i
referenti di tutti le comunità, gli educatori, gli operatori sociosanitari che hanno partecipato al percorso di ricerca e che si sono
resi disponibili per le interviste e per i diversi confronti. Al termine di questo lavoro non posso infine non ringraziare sia quanti
hanno intensamente collaborato nel serrato ed intenso lavoro di
lettura incrociata dei materiali sia il Prof. Elio Damiano per i suoi
preziosi consigli.
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PARTE PRIMA
PER UNA “ANCORATA” VISIONE PEDAGOGICA DI ANNI DI COMUNITÀ
Il quadro della ricerca
Il quadro della ricerca prende corpo essenzialmente, da un lato,
dal florido filone di indagine e di riflessione orientato all’analisi
delle pratiche educative; dall’altro, dalla specificità del contesto
di ricerca della Comunità di Capodarco di Fermo resa da oltre
quarant’anni di azioni educative “sul campo”. Tale connubio ha
condotto i ricercatori, i fondatori e la comunità di pratiche di Capodarco di Fermo a credere in questo percorso di ricerca volto a
far emergere dalla pratica l’Assetto Teorico Pedagogico Condiviso della Comunità di Capodarco.
La motivazione sottesa a questo progetto attiene l’esigenza di
documentare e di formalizzare la teoria pedagogica della Comunità di Capodarco, presente da sempre, e depositata nelle pratiche
educative quotidiane e diffusa tra le persone privilegiate che ne
hanno fatto la storia ed il presente.
La scelta è stata dettata anche dalla rilevanza e dalla specificità
della valenza educativa della Comunità di Capodarco sia a livello
nazionale che internazionale: è stato uno dei primi tentativi negli
anni Sessanta, quando la cultura della pedagogia speciale era profondamente diversa da quella attuale, di vincere l’emarginazione, di
accogliere la diversità di ogni persona per offrire ad ognuno, attraverso una vita comunitaria, un riscatto della propria identità personale
e una dignitosa qualità della vita. Da questa esperienza è scaturita la
realizzazione, in risposta ai tempi ed alla complessità delle devianze, delle diversità e delle marginalità (non solo locali), di Comunità
Locali, della Comunità Nazionale e della Cominutà Internazionale.
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Tra le Comunità locali si rintraccia la Comunità di Capodarco di
Fermo, che nel tempo ha risposto ai diversi bisogni educativi speciali dando vita ad una serie di sedi operative. Da qui nasce questo
primo tentativo di provare a dar voce al “vento di Capodarco” con
una ricerca che mettesse in gioco tutte le strutture operative della
Comunità di Capodarco di Fermo, partendo dai quarantanni di “pratica” e quindi dalle persone significative che ne hanno fatto la storia
fino a coloro che tutt’oggi operano attivamente nel presente.
Questo esercizio di ricerca racchiude diverse valenze sia per la
Comunità di Capodarco di Fermo sia per il gruppo di ricerca.
Innanzitutto, rispondere all’urgenza di diffondere il patrimonio di vita, di valori, le linee di una “Teoria Pedagogica di Capodarco” e formare le nuove generazioni che intenderanno condividere lo spirito ed il progetto educativo della Comunità, che oggi,
come vedremo, si realizzano in diverse sedi operative.
In secondo luogo, apprezzare come la comunità di Capodarco abbia “incarnato” in una specifica organizzazione educativa le
finalità educative emerse e farla conoscere anche agli studenti e
agli operatori in formazione.
In terzo luogo, l’importanza di questo progetto di ricerca in
questo ambito di studi si rintraccia anche nella constatazione, ad
una prima azione di ricognizione dello stato dell’arte di precedenti o similari tentativi di esplorazione, dell’assenza di organici
assetti di indagine sulla Comunità di Capodarco di Fermo; così
come emerge l’assenza di una sistematica letteratura scientifica
della Comunità di Capodarco, che comunque è rintracciabile dagli scritti dei fondatori o dalle riviste e dai periodici realizzati
dalla stessa comunità negli anni. Pertanto, questa indagine viene
a costituirsi come un primo tentativo organizzato volto ad esplorare il patrimonio condiviso di valori pedagogici con una azione
estesa in tutte le Comunità di Capodarco di Fermo.
Inoltre, la significatività di questa esperienza per il gruppo di
ricerca che si è attivato sia per realizzare una reale “Alleanza”
con la comunità di pratiche di Capodarco di Fermo, sia per la
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scelta e per la realizzazione di una procedura di indagine che potesse dar voce al loro agire professionale.
La natura stessa dell’oggetto di ricerca, ovvero il pensiero e le
pratiche educative di quanti lavorano nelle Comunità di Capodarco, e dunque il delicato avvicinamento a queste questioni e a realtà
così consolidate nel tempo, ha richiesto, da un lato, un solido momento iniziale di condivisione con tutta la Comunità; dall’altro, la
scelta di una metodologia di ricerca, all’interno dell’ambito delle
metodologie qualitative, che l’attuale ricerca educativa propone
per la validità nell’esplorare e nel cogliere le specificità del mondo dell’esperienza e delle pratiche educative (L. Mortari, 2010).
In questo caso, tra le diverse proposte, il gruppo di ricerca
ha optato per la metodologia qualitativa denominata Grounded
Theory (B.G. Glaser, A.L. Strauss, 1998, trad. it. A. Strati, 2009,
B.G. Glaser, 1978; A. Strauss, J. Corbin, 1990; M. Tarozzi, 2008)
al fine di coniugare la necessità di “partire dal basso”, da un forte
ancoraggio all’esperienza e, al tempo stesso, di rendere il senso
delle dinamiche dell’agire educativo nelle Comunità di Capodarco di Fermo.
Seguendo la stessa procedura della Grounded Theory la domanda generativa della ricerca, che si è declinata e sviluppata
lungo il processo di indagine partendo da alcuni concetti sensibilizzanti, è stata quella di apprezzare se fosse possibile o meno far
emergere dalla pratica un condiviso Assetto Teorico Pedagogico
della Comunità di Capodarco, nonostante la presenza di diverse
sedi operative, le quali si riconoscono sotto l’alveo di Capodarco,
ma si differenziano per tipologia di interventi educativi con riferimento all’accoglienza sia di persone con disabilità fisiche, con
disabilità psico-fisica grave e gravissima, con patologie psichiatriche, con disagi e devianze varie; sia di minori italiani, stranieri
non accompagnati, adolescenti fino a 21 anni, ragazze in difficoltà, ragazze madri e persone con tossicodipendenze.
Di seguito, andiamo dunque a presentare il contesto e l’impianto metodologico della ricerca.
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La specificità del contesto di ricerca:
una comunità “in movimento”
Per permettere al lettore di questo testo di comprendere sia la
complessità e la specificità di questa Comunità, sia quanto poi
potenzialmente emergerà dalla ricerca, abbiamo deciso di stilare, parallelamente al report di ricerca, il contesto specifico della
Comunità di Capodarco di Fermo con particolare attenzione al
“processo di costruzione” e quindi all’evoluzione temporale delle
relazioni fra le diverse sedi operative della Comunità di Capodarco di Fermo.
I criteri procedurali seguiti per la ricostruzione del contesto
sono rappresentati essenzialmente dalle seguenti fasi.
Nella prima fase sono stati individuati ed intervistati i fondatori e le persone significative della storia della Comunità; nella
seconda fase sono stati raccolti e successivamente analizzati i
materiali scritti (personali, autobiografici, testi, statuti originali
della Comunità, ecc.).
Di seguito l’elenco delle persone significative e dei materiali (materiali narrativi, scritture private, interviste trascritte, ecc.)
utilizzati per l’approfondimento del contesto di ricerca.
1. Don Franco Monterubbianesi (fondatore): analisi del testo
La Comunità di Capodarco.
2. Don Vinicio Albanesi (attuale presidente della Comunità,
personaggio significativo per lo sviluppo della Comunità
e delle sedi operative locali): intervista con il ricercatore;
analisi del testo Fare Comunità. Riflessioni conseguenti a
convegni, seminari, ecc., tratti dal sito della Comunità di
Capodarco di Fermo.
3. Don Angelo Maria Fanucci (sacerdote che incontrò la Comunità di Capodarco e sullo stesso input fondò la Comunità di Capodarco di Gubbio): intervista. Analisi dei testi
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La logica dell’utopia. Quando nasce la Comunità di Capodarco; La casa di tutti. La condivisione diventa realtà: la
Comunità di Capodarco si presenta (con F. Bondì).
Comunitari storici sin dagli anni sessanta, tra i quali Marisa
Galli (una delle prime comunitarie con disabilità, ora nella
Comunità di Capodarco di Roma) autrice dei testi esaminati dal ricercatore quali Il Lato Umano e La Tentazione di
un sogno (Il lato umano trent’anni dopo).
Interviste ai comunitari “storici” della Villa.
Interviste ai responsabili delle sedi operative di Capodarco
di Fermo: Comunità Santa Elisabetta, Comunità Sant’Andrea, Comunità San Claudio, Comunità San Girolamo,
Comunità educativa Mondo Minore, Comunità educativa
Sant’Anna, Comunità alloggio San Giuliano, Comunità familiare Beato Giovanni della Verna, rete di famiglie affidatarie, Casa Betesda, Associazione L’Arcobaleno.
Analisi e ricostruzione dai periodici assemblati, ma non
ancora archiviati della Comunità di Capodarco dal 1983 al
2001.
Analisi dei diversi statuti e documenti storici tratti dal sito
della comunità.
Nella terza fase, grazie a questi strumenti epistemici è stato
possibile individuare una prima “punteggiatura” della storia della
Comunità di Capodarco stilata dal ricercatore, poi negoziata e
co-costruita con il Presidente e con la Comunità di Capodarco di
Fermo. Infine, la storia di Capodarco di Fermo è stata riletta, integrata nuovamente in seguito alle osservazioni e ai diversi punti
di vista dei “protagonisti” e resa nella versione definitiva.
Trascriviamo nel riquadro di approfondimento (Tab. 1) le
quattro tappe significative della storia di Capodarco di Fermo,
al fine di tracciare alcuni passaggi importanti per comprendere il
contesto generale della ricerca e per inserire significativamente le
riflessioni emerse dalla ricerca.
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Tab. 1. Approfondimento: Quattro tappe significative della storia della
Comunità di Capodarco di Fermo
Prima tappa della Comunità: superare la cultura dell’emarginazione attraverso la vita comunitaria.
Il clima era quello del post Concilio che preparava al Sessantotto, uno
scenario segnato da figure come Kennedy, M. Luther King, Papa Giovanni e dai movimenti di liberazione in Africa e in America Latina. Sul
versante della disabilità eravamo di fronte ad una gestione della disabilità
fisica da parte di grandi associazioni (invalidi civili, di guerra, eccetera).
Quella della disabilità era una “pentola che iniziava a bollire”: una società che relegava le persone con disabilità fisica, viste semplicemente
come malati, nelle istituzioni chiuse, nei ricoveri, negli istituti con una
distinzione tra maschi e femmine. Eravamo, inoltre, di fronte alla procedura dei pellegrinaggi degli “invalidi” a Lourdes e a Loreto, luoghi di
incontro e di conoscenza. A questo scenario si univa la vicenda personale
del protagonista di questa prima fase storica della Comunità, il giovane
sacerdote fermano Don Franco Monterubbianesi, il quale, dopo diverse
esortazioni a lasciare il seminario, decise di dedicarsi alle persone con
disabilità fisica, a quel tempo ammassati nell’Istituto di Santo Stefano di
Porto Potenza Picena e in altri istituti.
I tempi erano dunque maturi e con l’incrocio di questi elementi scoppiò
l’ipotesi e la tensione ideale di superare questa cultura dell’emarginazione delle persone disabili attraverso un’alternativa: la vita comunitaria.
Questa motivazione fu fortemente ancorata nel gruppo iniziale di persone, che fu molto coeso e guidato dalla personalità carismatica di Don
Franco Monterubbianesi accanto al quale, come motore fondatore, vi fu
la figura di Marisa Galli, ragazza disabile sin dalla nascita, che giocò un
ruolo fondamentale nella spinta continua a credere e a realizzare questo
progetto. Dunque, si credeva in una via per superare lo stato di emarginazione puntando sull’accoglienza, sul protagonismo delle stesse persone
disabili che nel mettersi insieme potevano realizzare una vita nel segno
della solidarietà e dell’uguaglianza. Certamente una prospettiva utopica
per il tempo che impiegò sei lunghi anni prima di concretizzarsi fisicamente in una “casa comune”.
Si forma il primo gruppo
Il primo gruppo si formò grazie ai pellegrinaggi a Loreto, prima, e ai
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viaggi a Lourdes poi. Il segnalibro fondamentale per la nascita del progetto e della futura Comunità fu il viaggio del 1965 a Lourdes di Don
Franco con una ventina di giovani con disabilità fisica provenienti da
diverse zone d’Italia, soprattutto da Porto Potenza Picena. In questi giovani Don Franco non vedeva né la malattia né la “croce”, ma apprezzava
il loro essere “Persone”. Dal famoso “basta” di Lourdes di Don Franco a
questa condizione dei ragazzi con disabilità fisica, che in realtà non venivano visti realmente per quello che erano, si tornò con questo progetto,
che sarà anche approvato dal vescovo, che celava il messaggio di una
vita autonoma per le persone con disabilità fisica e di un futuro diverso
da quello degli istituti. Ciò diede speranza e tensione, ma allo stesso tempo pressione per la nascita della Comunità da parte dei componenti del
gruppo, tra i quali Marisa Galli, che sottoscrissero il progetto nel ritorno
in treno da Lourdes. Questa idea della nuova comunità si fondava sostanzialmente sull’idea di dare anche a chi era disabile una dimensione di
“normalità” che era rappresentata dal rispetto della persona, dagli affetti
familiari, dal lavoro. In più vi era una “vera rivoluzione”, cambiare la
società, un mondo nuovo “dal lato umano”.
La ricerca della casa
Iniziò la ricerca del luogo ideale dove dare vita al progetto della Comunità. Dopo la vana ricerca di una casa a Loreto, nel 1960 venne avvistata
una villa abbandonata nel fermano, costruita già nei primi del Novecento
e che era stata precedentemente acquistata dal Centro Turistico giovani dell’Azione Cattolica. Dopo alcuni anni dediti ad accogliere i campi
scuola (tra il 1961 e 1962) scattò la richiesta della villa da parte di Don
Franco all’amministratore del tempo Enrico Dossi, presidente Cts, villa che peraltro presentava dei problemi dovuti al terreno molto friabile.
Dopo l’approvazione da parte del consiglio di amministrazione del Cts
e un’azione di personale relazione e convinzione con l’ancora indeciso presidente Dossi, nel novembre del 1966 venne concesso il contratto
d’affitto della villa. Presto circolò la voce tra i giovani disabili delle varie
parti dell’Italia che finalmente la “casa c’era”. Il gruppo in quei sei anni
(1960-1966) aveva maturato l’idea di “villaggio della felicità”, di “casetta dell’amicizia e della serenità”. Don Franco, in prima persona, iniziò
il giro per l’Italia per organizzare il primo gruppetto. In parallelo, grazie
agli alunni dell’istituto tecnico industriale “Montani” di Fermo, dove
Don Franco insegnava religione, iniziò la ripulitura e la ristrutturazione
della villa dopo sei anni nei quali era stata lasciata all’abbandono.
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Dall’utopia alla vita comunitaria
Le prime persone arrivarono a mezzanotte del 21 dicembre, gli altri da
Roma condotti a Fermo da Don Franco che aveva fatto il giro dei vari
istituti con un vecchio pulmino “Romeo” con il motore della Giulietta
che gli era stato regalato da un amico. Arrivarono a Capodarco, non senza vicissitudini, alle sette del mattino. Alla fine il gruppo era composto
da 13 persone con disabilità fisica che avevano fatto la scelta della vita
comune, metà di queste erano ragazze. Tra i comunitari Luciano Mencaroni, Lucio Marcotulli, Marisa Galli, Michele Rizzi. L’inizio è segnato
dalla messa di Natale di mezzanotte del 1966, dove Don Franco Monterubbianesi, tra amici e persone con disabilità fisica provenienti dalle
diverse zone dell’Italia, realizzò il “battesimo della casa”. Il gruppo si
chiamò “Comunità Gesù Risorto” per sottolineare la volontà di risorgere dalla precedente situazione, mentre la casa fu denominata “Casa
Papa Giovanni”, richiamando il “Papa buono”, che nel tempo prenderà il
nome di “Comunità di Capodarco”. L’utopia aveva preso forma: giovani
disabili, uomini e donne, vivevano insieme e autogestivano il proprio
presente progettando il proprio futuro. Certamente resta nella memoria di
chi fece il primo ingresso la paura di fronte ad una struttura sicuramente
meno attrezzata rispetto agli istituti, da dove molti provenivano, ma altrettanto forte è il ricordo dei valori comunitari: il rispetto profondo della
persona; l’uguaglianza; l’apertura senza riserve alle persone bisognose,
nella convinzione che, dalla vita comune, ogni persona avrebbe potuto
tirar fuori le proprie risorse e riscattare la propria esistenza. L’inizio povero e precario di questo gruppo, combattuto tra partecipazione attiva e
adattamento, è segnato da un basso tasso organizzativo e da un forte coesivo nella figura dell’“animatore-fondatore” che rappresentava il punto
di riferimento, di accoglienza, di gestione e garanzia di sopravvivenza.
All’interno la vita era estremamente collettiva, in comune, “tutti sotto
lo stesso tetto”, condividevano tutto: dal cibo agli affetti, dai momenti
di festa alle difficoltà, dalla cassa comune al lavoro. Il lavoro infatti sin
dall’inizio si qualificò come una via vincente per il riscatto della dignità:
il 13 gennaio del 1967 il gruppo di persone disabili lavorava nel settore
del calzaturiero e trasformava la sala da pranzo in laboratorio. Nel frattempo da 13 il gruppo passò a 20 poi a 30 e in breve, sempre nel 1967, dal
settore calzaturiero la Comunità si orientò al settore elettronico. Questo
non senza le diffidenze del territorio che guardava alla casa con timore
perché accoglieva “persone non affidabili”.
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Seconda grande tappa della Comunità: l’apertura ai giovani e al
“fare comunità nel territorio”.
Siamo in un anno di grande svolta: il 1970.
Innanzitutto, perché il gruppo della Comunità salì a 100 raccogliendo
ragazzi dagli istituti italiani anche a Salerno dove 6 ragazzi erano in uno
stato vegetativo nell’istituto di Eboli e alcuni volontari si “trasformarono” in comunitari trasferendosi alla villa.
In secondo luogo, perché nel 1970 la Comunità si aprì ai giovani del
servizio civile internazionale e ai volontari, una notevole risorsa per la
comunità che segnò la scelta comunitaria di un “fare comunità nel territorio”, nella società. I giovani frequentavano la Comunità in un clima di
grande entusiasmo (nell’estate del 1970 dormivano in tenda, mangiavano
e discutevano insieme). Nonostante alcuni giovani in quel periodo siano
approdati a strade di rivolta, lo spirito di Capodarco rimaneva quello del
valore comunitario, ritenuto una vera alternativa rispetto agli istituti e ad
altre realtà per i disabili fisici. Altri giovani del servizio civile si fecero
testimoni, in un convegno internazionale a Geneva, del modello di Capodarco.
In terzo luogo, il 1970 fu l’anno della definitiva trasformazione della vecchia fattoria, adiacente alla villa. In quest’anno furono organizzati anche
i primi corsi di formazione in Italia per persone con disabilità fisica ad
opera di Capodarco. Sempre il 1970 è segnato dalla venuta a Capodarco
in Comunità del ministro Ripamonti che riconobbe la Comunità come
forma delle autogestioni.
Infine, nell’agosto del 1970, Don Franco celebrò, con grande scalpore
nella società, i primi matrimoni tra persone con disabilità fisica, tra Michele Rizzi ed Emma, tra Lucio e Natalia, tra Memmo e Milli. Venne ad
istituirsi così la famiglia come paletto forte della comunità: “La comunità
dava loro la possibilità di far nascere la famiglia e la famiglia rafforzava
la comunità”.
In seguito, le famiglie comunitarie aumentarono e la comunità si arricchì
di famiglie di persone con disabilità e di famiglie di comunitari non disabili che nel tempo diedero la spinta a nuove forme di convivenza in nuove strutture. Questo segnò anche la necessità di emigrare da Capodarco
con la volontà per alcuni di portare lo spirito di Capodarco nella propria
terra d’origine. Iniziarono così i decentramenti e certamente anche gli accesi dibattiti. In questa direzione, si ebbero esperienze, più o meno felici
ed efficaci nel tempo, a Fabriano con don Angelo di Gubbio, a Udine, a
Domodossola e in Sardegna. Si ricorda nella memoria la volontà di don
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Franco di “Andare a Roma”, nei quartieri della periferia, dove solo negli
anni Settanta s’insediò il primo gruppetto di comunitari che dette vita al
Centro Ricerche Inserimento Handicap (C.R.I.H.).
Questi furono anche gli anni delle contestazioni e di dibattiti intorno alle
tematiche dell’handicap e della sessualità, dell’allargamento del concetto
di emarginazione come fenomeno sociale primario, della posizionatura
delle comunità locali. In questi anni la Comunità, a contatto con persone di provenienza ideologica diversa, si laicizzò senza rinnegare la sua
matrice religiosa. Altrettanto viva fu la partecipazione di Capodarco al
dibattito politico-istituzionale (chiusura dei manicomi, nascita dell’assegno di accompagnamento, eccetera) e all’ascolto dei problemi e delle
risorse del territorio. Tutto questo spinse verso la terza grande tappa della
storia della Comunità di Capodarco.
Terza grande tappa. L’emarginazione a livello sociale: il fare comunità a livello locale.
La terza tappa ebbe inizio con l’impostazione della questione dell’emarginazione come fenomeno non solo strettamente connesso alla disabilità
fisica, ma significativamente più vasto a livello sociale. La Comunità
dunque iniziò ad interrogarsi sul cosa fare e presero vita altre forme comunitarie: dalla disabilità fisica a quella mentale, psichiatrica, all’universo del disagio minorile e della tossicodipendenza.
Il punto che restò fermo, anzi che venne ad essere rilanciato, fu lo stile
comunitario dove la persona in difficoltà veniva accolta nel rispetto della
sua singolarità e della sua storia irripetibile. La vita comunitaria avrebbe
fornito ai “nuovi emarginati” la possibilità di riappropriarsi della propria
storia e di far emergere e promuovere le potenzialità sommerse. Il fare
comunità si qualificava ancora come “alternativa all’alienazione” e una
via possibile per riappropriarsi della propria vita. In questa fase figura
centrale fu Don Vinicio Albanesi che rilanciò il senso di fare comunità e
lavorò attivamente per la formazione e lo sviluppo della rete delle comunità locali. Questa tappa fu segnata da fasi significative: dal cambiamento dello statuto, alla nascita di comunità locali, alla riorganizzazione di
quelle esistenti, alla presenza di collaborazioni professionali (dipendenti),
al rapporto più stretto con le istituzioni, al rilancio della partecipazione
delle famiglie, alla Comunità Nazionale e alla Comunità Internazionale
di Capodarco (organizzazione non governativa). Nel tempo prese forma,
nel fermano, la seguente “geografia comunitaria”.
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1. Comunità di Capodarco di Fermo (disabilità fisica e centro di riabilitazione): ubicata a Capodarco di Fermo è sia “casa abitata” per persone con disabilità e famiglie, sia struttura riabilitativa per l’insufficienza respiratoria ed il trattamento della sclerosi laterale amiotrofica
(Sla).
2. Centro socio educativo riabilitativo. Comunità Santa Elisabetta: centro diurno attivo dal 1996 per disabilità psico-fisica medio-grave, sito
nella Contrada Abbadetta di Fermo.
3. Comunità Sant’Andrea, centro diurno fondato nel 2004 per disabilità
psico-fisica grave e gravissima.
4. Solaria società cooperativa a r.l. che gestisce strutture protette per
persone con problemi psichiatrici come la Comunità di San Claudio
nata nel 1998 ed ubicata nella Contrada San Claudio di Corridonia
(Mc) e la Comunità di San Girolamo fondata nel 1999 e sita presso la
Contrada San Girolamo di Fermo.
5. Associazione Mondo Minore Onlus, nata nel 1999, coordina le seguenti sedi operative volte all’accoglienza di minori italiani, stranieri
non accompagnati, adolescenti fino a 21 anni, ragazze in difficoltà e
ragazze madri.
• Comunità educativa Mondo Minore (minori maschi dai 13 ai 17
anni) che si trova a Capodarco di Fermo.
• Comunità educativa Sant’Anna (minori femmine da 9 a 13 anni e
ragazze in difficoltà, ragazze madri), ubicata nel fermano.
• Comunità alloggio San Giuliano (adolescenti maschi 16-21 anni)
sita a Macerata.
• Comunità familiare Beato Giovanni della Verna (minori 7-12
anni) collocata a Corridonia di Macerata.
• Rete di Famiglie affidatarie (affido di bambini 0-12 anni) sita a
Capodarco di Fermo.
6. Associazione L’Arcobaleno (tossicodipendenze) ubicata a Porto San
Giorgio (Fm).
7. Cogito società cooperativa a d.l. (Formazione e opportunità lavorative per persone socialmente deboli) nata nel 1998 e Agenzia Redattore Sociale (Informazione, Comunicazione sui fenomeni del disagio e
dell’impegno sociale) nata nel 2001, site a Capodarco di Fermo.
Capodarco ed il territorio
Il territorio ora non guardava più alla casa con timore, ma, al contrario,
vi riconosceva sia un insieme di persone specializzate per rispondere alle
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emergenze locali, sia una importante fonte lavorativa per le persone del
posto.
Nel tempo il rapporto con il territorio si consolidò, trasformando gli
iniziali pregiudizi. Capodarco diventò un affidabile “datore di lavoro”,
ma non solo. Le porte della villa si aprirono al territorio: accolsero ed
ospitarono le famiglie e i parenti delle persone accolte che provenivano
dalle diverse regioni d’Italia, donando un posto per dormire e un pasto
caldo tutti insieme in comunità; accolsero e svilupparono le iniziative
“ludiche” del territorio (feste, ricorrenze, ecc.), trasformando il grande
salone della Villa in una stanza per la condivisione con le persone locali.
Furono azioni semplici, di vita quotidiana, ma intenzionali da parte della
Comunità di Capodarco di Fermo che vedeva in questi momenti delle
importanti occasioni per far vivere concretamente al territorio il loro spirito di accoglienza e di condivisione.
Quarta grande tappa: Il fare comunità a livello internazionale.
Continui momenti di confronto e di discussione animarono la vita della
Comunità di Capodarco soprattutto sul senso di “fare comunità oggi”,
perché continuare a fare comunità, con chi e come. Il fare comunità era
partito dalle persone con disabilità fisica ed era giunto alle altre emarginazioni fino ad approdare al fare comunità a livello internazionale.
Nel1992 il movimento di Capodarco si era dato anche una dimensione
internazionale attraverso la costituzione della Comunità Internazionale
di Capodarco (CICa), di cui la Comunità di Capodarco di Fermo era una
comunità associata.
La CICa si proponeva di promuovere lo sviluppo integrale della persona
con particolare attenzione agli emarginati; di rimuovere ogni ostacolo
alla salute fisica e psichica delle persone, al pieno dello sviluppo della
personalità; di favorire la partecipazione alla vita sociale delle persone
più emarginate attraverso tutta una serie di iniziative (salute, servizi, lavoro e animazione), caratterizzate dalla condivisione e dalla base comunitaria intese come “valori portanti” della vita. Un fare comunità con i
poveri della terra, soprattutto con le nuove generazioni, oggi in crisi, che
metteva in evidenza la tensione di sempre di Capodarco alla Mondialità
e ai Giovani.
Sulla base di questi presupposti la CICa dal 1992 si è impegnata a lavorare a beneficio dei gruppi sociali più emarginati, con particolare attenzione alle persone portatrici di handicap soprattutto nei Paesi in via
di sviluppo. Un elemento che era alla base di ogni tipo di intervento era
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la valorizzazione delle potenzialità locali: il soggetto riceveva strumenti
e mezzi per emanciparsi nella società del Paese in cui viveva. Il primo
approccio di partenariato si realizzò alla fine del 1992 in Ecuador con i
responsabili del centro socio-sanitario Cebycam di Penipe che cercava
di far fronte ad una povertà diffusa e ad una percentuale elevatissima di
persone disabili. L’iniziativa riuscì non solo dal punto di vista tecnicooperativo, ma soprattutto servì a definire un nuovo modello di operare.
Dal 1993 ad oggi la CICa ha esteso il suo intervento attraverso un progetto che tocca 4 province dell’Ecuador e coinvolge una rete di soggetti
locali: da quelli istituzionali come il Ministero della Salute e la Chiesa, alle organizzazioni locali e di base. L’area di intervento è cresciuta
esponenzialmente coprendo più soggetti (emarginati, disabili, bambini a
rischio, donne, indigeni) attraverso programmi integrati (salute – educazione – formazione – lavoro) di base comunitaria.
Nel contempo, è emersa la necessità di identificare e di attuare politiche
e strategie di cooperazione internazionale in grado di valorizzare le incrementate capacità dei cittadini ad attivarsi e ad autorganizzarsi. Attualmente la Comunità di Capodarco di Fermo interagisce organicamente in
Ecuador con un coordinamento e un progetto che ha come scopo il miglioramento sostanziale delle condizioni di vita dei minori svantaggiati
(disabili, orfani, bambini e ragazzi di strada, ecc.) e delle loro famiglie.
Dal 1999 ad oggi sono state attivate una rete di adozioni a distanza, una
Comunità di Capodarco a Penipe ed un ambulatorio pediatrico qualificato dal punto di vista medico. Oltre all’Ecuador, le opere della comunità di
Capodarco si sviluppano in Albania, dove è funzionante un centro diurno
denominato “Primavera”, destinato all’accoglienza e alla presa in carico
di bambini con gravi handicap fisici e sensoriali ed in Camerun, dove è
attivo un progetto di accoglienza dei “minori” abbandonati. L’azione comunitaria internazionale si estende anche in Guatemala, Kosovo, Brasile
e Guinea Bissau.
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L’organigramma e i partecipanti all’indagine
Per comprendere la complessa organizzazione della Comunità
di Capodarco proponiamo una rappresentazione schematica sia
del contesto più generale dove si inserisce la Comunità di Capodarco di Fermo, quale comunità locale della generale Comunità
di Capodarco e struttura afferente alla Comunità di Capodarco
Internazionale (Tab. 2); sia dell’architettura specifica della Comunità di Capodarco di Fermo che nel tempo ha dato vita a diverse strutture afferenti a vario titolo alla Comunità di Capodarco di
Fermo2 e che rispondono a diversi domini di emergenza sociale e
di intervento qualificato (Tab. 3).
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Per comprendere l’organigramma della Comunità di Capodarco di Fermo
si precisa che alcuni servizi, come il centro socio-educativo riabilitativo Santa
Elisabetta e la Comunità Sant’Andrea, fanno capo direttamente alla Comunità;
altre strutture operative sono collegate alla Comunità tramite la costituzione di
apposite associazioni (come per la Cooperativa Solaria per l’ambito della psichiatria; l’associazione Mondo Minore onlus e l’associazione L’Arcobaleno,
rispettivamente per i servizi ai minori e alla tossicodipendenza). Ci sono infine sedi operative direttamente riferite all’opera della comunità di Capodarco
come Cogito società cooperativa a d.l., che ha la finalità di creare formazione
e opportunità lavorative per i soggetti socialmente deboli; Agenzia Redattore
Sociale, che si dedica all’informazione quotidiana sui fenomeni del disagio
e dell’impegno sociale. Fanno riferimento all’opera del Presidente tre scuole
dell’Infanzia situate sempre nel territorio del fermano e Casa Betesda, volta
all’accoglienza e alla presa in carico di adulti con devianze e marginalità sociali.
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Tab. 2. Organigramma della Comunità di Capodarco
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Tab. 3. Organigramma della Comunità di Capodarco di Fermo
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Di seguito trascriviamo le strutture ed il numero dei partecipanti e dunque delle interviste tralasciando, per questioni di privacy, i nomi di coloro che hanno aderito alle interviste.
In realtà, come vedremo nell’impianto metodologico, la seguente schematizzazione ripercorre, in retrospettiva temporale,
quello che l’approccio metodologico della Grounded Theory
definisce “campionamento teorico” (theoretical sampling), che
dunque non è stato scelto a priori, ma si è allargato in sinergia
con l’emergere della teoria ed è terminato con la saturazione delle
categorie emerse.
Nel complesso sono state effettuate 83 interviste. Essendo una
analisi di “sistema”, la ricerca si è estesa anche alle rappresentazioni “esterne” identificate in un gruppo di 10 persone dell’“ambiente esterno” alla Comunità di Capodarco di Fermo, ma residenti sempre nel territorio del fermano.
Nel seguente elenco vengono riportati il nome della comunità
e tra parentesi l’ambito di presa in carico a cui si riferisce, il numero e la qualifica degli intervistati.
1. Comunità di Capodarco di Fermo (disabilità fisica e centro di riabilitazione): 25 intervistati tra cui il responsabile
e coordinatore della Comunità, comunitari – persone che
abitano nella Comunità (persone disabili e famiglie che
abitano in comunità) – ed operatori (infermieri).
2. Centro socio educativo riabilitativo. Comunità Santa Elisabetta (disabilità psico-fisica medio-grave): 5 interviste
(responsabile e coordinatore della Comunità, 4 educatori).
3. Comunità Sant’Andrea (disabilità psico-fisica grave e
gravissima): 7 interviste (1 responsabile e coordinatore,
1 psicologa, 3 educatori, 1 operatore socio sanitario e 1
genitore).
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4. Società Solaria cooperativa a r.l.:
• Comunità di San Claudio (psichiatria): 8 interviste
(responsabile e coordinatore della comunità, psicologa, 3 educatori, 3 operatori socio-sanitari).
• Comunità di San Girolamo (psichiatria): 9 interviste
(2 responsabili e coordinatori, psicologo, 4 educatori,
2 operatori socio sanitari).
5. Associazione Mondo Minore Onlus:
• Comunità educativa Mondo Minore (minori maschi
dai 13 ai 17 anni): 3 interviste (1 responsabile e coordinatore della Comunità, 2 educatori).
• Comunità educativa Sant’Anna (minori femmine da 9
a 13 anni e ragazze in difficoltà, ragazze madri): 3 interviste (responsabile e coordinatore della comunità, 2
educatrici).
• Comunità alloggio San Giuliano (adolescenti maschi
16-21 anni): 3 interviste (responsabile e coordinatore
della comunità, 2 educatori).
• Comunità familiare Beato Giovanni della Verna (minori 7-12 anni): 2 interviste (2 responsabili e coordinatori della Comunità familiare).
• Rete di Famiglie affidatarie (affido di bambini 0-12
anni): 1 intervista (responsabile e coordinatore della
rete).
6. Associazione L’Arcobaleno (tossicodipendenze): 3 interviste (responsabile e coordinatore dell’associazione, psicologa, educatore).
7. Cogito società cooperativa a d.l. (Formazione): 1 intervista (responsabile).
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8. Agenzia Redattore Sociale (Informazione, Comunicazione): 1 intervista (responsabile).
9. Comunità Internazionale: 2 interviste (presidente e responsabile della Comunità di Capodarco di Fermo).
10. “Ambiente esterno alla Comunità”: 10 interviste (persone
inserite nel fermano).
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