il punto - Centro Studi Calamandrei

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il punto - Centro Studi Calamandrei
IL PUNTO
Le notizie di LiberaUscita
Febbraio 2008 - N° 43
SOMMARIO
LE LETTERE DI AUGIAS
701 - Spada e aspersorio dei crociati antiaborto
702 - Il mio parroco e la semplicità della sua fede
703 - Cosa significa interrompere una gravidanza
704 - Adoro mia figlia ma avrei scelto l’aborto
705 - Ipocriti e fanatici al capezzale delle donne
706 - Il dolore di una donna per un figlio mai nato
707 - Io, medico dell’infanzia, vorrei parlare di pietà
708 - I cattolici adulti delusi dalla chiesa
ARTICOLI E INTERVISTE
709 - Sempre più distanti chiesa storica e Gesù risorto – Luigi De Paoli
710 - Indietro tutta (if you think Islam is) - Mark Steel
711 - Il pericolo dell’ondata neoguelfa – Aldo Schiavone
712 - I medici sacerdoti ai confini della vita – Adriano Prosperi
713 - La gamba tesa del vaticano - Gad Lerner
714 - Gli infermieri: “no all’eutanasia” – Mario Reggio
715 - Le antiche strade della chiesa – Aldo Schiavone
716 - Se è in pericolo il destino dei diritti - Stefano Rodotà
717 - Feti, embrioni e scienziati - Ignazio Marino
718 - Il cristianesimo semplice – Francesco Merlo
719 - Quanto è costata la battaglia per l’aborto - Federico Orlando
720 - Valori e diritti nei conflitti della politica – Gustavo Zagrebelsky
721 - I diritti dimenticati – Stefano Rodotà
722 - Le religioni, la fratellanza e il totalitarismo - Ulrich Beck
723 - Ingerenze e condiscendenze - Margherita Hack
DALLA ASSOCIAZIONE
724 - Presentazione a Bologna del libro “non sono un assassino”
725 - “Non sono un assassino” – Recensione di giuseppe licandro
726 - Lettere dai soci
PER SORRIDERE….
727 – Le vignette di Ellekappa – Relativismo etico
LiberaUscita
Associazione per il testamento biologico e l’eutanasia
Sede: via Genova 24, 00184 Roma
Telefono e fax: 0647823807
Sito web: www.liberauscita.it - email: [email protected]
701 - SPADA E ASPERSORIO DEI CROCIATI ANTIABORTO - CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di mercoledì 6 febbraio 2008
Gent. mo Dott. Augias, un’offensiva contro la legge 194 in nome dei valori cristiani. Alcuni
medici discutono in astratto di rianimazione ad ogni costo. Non importa a quale prezzo,
rianimato anche per poche ore o costretto a una breve vita impossibile, l’importante è
assecondare le teorie dei vescovi: anche mezz’ora di vita impossibile servono a dimostrare
che l’aborto è un omicidio e che quindi le donne sono assassine. L’uso strumentale e politico
dei feti per imporre la sovranità della gerarchia cattolica sulla libertà del popolo è un crimine
degno di una dittatura.
Roberto Martina – [email protected]
Caro Augias, il ‘pronunciamento’ delle Università dice in sintesi:
A) il feto, se vivo, è da considerarsi un ‘prematuro’; se può essere rianimato, deve esserlo.
B) «anche» se la madre non vuole! Perché questa insidiosa aggiunta? Solo per tirare in
ballo la 194 la quale di suo, all’articolo 7, prevede appunto quanto riassunto sotto il punto A.
Insomma la Sapienza (mai nome fu meno appropriato) ha colto l’occasione per uscire
dall’angolo: che abbia associato le altre università fa sospettare che l’iniziativa abbia registi
(romani) più autorevoli e manovrieri.
Paolo Todescan - Vicenza - [email protected]
Risponde Augias
L’articolo 7 della 194 dice appunto che quando sussiste la possibilità di vita autonoma del
feto, il medico che segue l’intervento deve adottare ogni misura idonea a salvaguardarne la
vita. Allora perché quell’uscita di alcuni medici se non per aggiungere un ulteriore elemento
emotivo a una discussione che ha assunto toni da crociata? Già l’equiparazione con la pena
di morte è una forzatura priva di logica; già lo slogan “sì alla vita” è assurdo; c’è forse
qualcuno che vuole sostenere “no alla vita”? E poi di quale vita si sta parlando? Qualche
giorno fa il caso di una bambina sopravvissuta a un aborto terapeutico dopo la diagnosi che
al feto mancavano i globi oculari. Non cieca, completamente priva dell’organo della vista.
Nata alla 22esima settimana, pesava 500 grammi. Dopo dieci giorni ha subito un intervento
al cuore, un’emorragia cerebrale le ha provocato una quasi totale sordità, a 15 mesi pesa 6
chili e le sue condizioni continuano a rimanere critiche.
Riferisco questo tragico caso non per accrescere a mia volta l’enorme emotività del tema ma
solo per dire che ogni aborto è un caso a sé, ogni dramma è diverso da un altro dramma, e
che una donna non decide (quasi) mai di abortire a cuor leggero. Bisognerebbe ragionare di
più sulle persone e meno sui principi, accantonare le ideologie e scendere nella vita delle
persone, dialogare e non brandire la spada e l’aspersorio. Soprattutto, come ha detto il prof
Veronesi, se si vuole evitare l’aborto bisogna mettere in atto misure preventive adeguate,
insegnare davvero l’uso corretto delle pratiche anticoncezionali.
702 - IL MIO PARROCO E LA SEMPLICITA’ DELLA SUA FEDE - CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di sabato 9 febbraio 2008
Gentile dottor Augias, giorni fa sono stata al funerale del parroco del mio paesino di
provenienza, nell’Altopiano di Asiago. Un parroco legato alla sua tonaca nera, sempre
sorridente, che andava a trovare gli ammalati all’ospedale e portava la Comunione ai vecchi
delle contrade. Una vita sobria, semplice, quasi povera, dedicata all’amore per Dio e i suoi
parrocchiani, anche per quelli non praticanti.
Vedendo la bara con sopra solo la sua stola e il vangelo, profondamente commossa, non ho
potuto fare a meno di pensare agli avvenimenti che in questi giorni hanno riguardato la
Chiesa. E ho pensato che la Fede e la ricerca spirituale sono ben altro da quello che
abbiamo visto e sentito. L’amore per Dio e il desiderio di sacro non hanno bisogno di colti
discorsi teologici, di esibizioni di titoli accademici, di prove matematiche dell’esistenza di Dio
come pretenderebbe il deputato Buttiglione.
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La Fede sgorga dal cuore, nonostante i segni e i miracoli che molti di noi non cercano, e
passa tramite l’esempio di vite anche semplici, dedicate all’Assoluto e all’amore per il
prossimo, più che a quello per la filosofia e per lo studio dei sacri testi.
Se la Chiesa tornasse a questo, forse recupererebbe anche le pecore che, come me, si
sono allontanate, per continuare a credere.
Monica Lunato - [email protected]
Risponde Augias
La forza della chiesa cattolica si misura anche da questo: traffico di capitali attraverso il
mondo ma anche parroci che si affannano a fare del bene; fasto e ricchezza ma anche
dignitosa parsimonia; raffinate esegesi teologiche ma anche la fede che ‘sgorga dal cuore’,
come scrive Monica Lunato.
Pochi giorni fa, per la giornata della Memoria, discutevo con altre persone del
comportamento di papa Pio XII durante il nazismo. Su un piano diverso si possono dire
anche per quegli anni tragici le stesse cose. La straordinaria prudenza, c’è chi dice
complicità, del Vaticano verso il nazismo ma anche l’aiuto di conventi e case cattoliche che
si aprirono generosamente ad ospitare e nascondere i perseguitati.
Se volessimo allargare il discorso per tentare, dal funerale di un parroco di montagna,
un’osservazione più generale, si potrebbe aggiungere che l’intera storia della chiesa si è
sviluppata lungo questo doppio registro: il potere e la lotta al potere, il fasto e la povertà,
l’accomodamento e l’eroismo.
Somma astuzia, o sapienza, è stato riuscire a tenere insieme per tanti secoli questi due
livelli facendo anzi in modo che il secondo, quello più umile e nascosto, servisse come
schermo per meglio dissimulare il primo. Più la vera fede s’è rarefatta, più questo schermo
ha funzionato, più è avanzata la secolarizzazione e il disinteresse più è stato facile
nascondere la differenza abissale tra la chiesa del potere e quella della cura di anime e di
corpi.
I soldi né danno la felicità né sono sterco del demonio. Con la fede avrebbero pochissimo a
che fare, però aiutano, come scrive Petronio arbitro, a navigare con vento sicuro.
703 - COSA SIGNIFICA INTERROMPERE UNA GRAVIDANZA – CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di domenica 11 febbraio 2008
Caro Augias, ho 37 anni e poco tempo fa ho fruito dei diritti sanciti dalla legge 194: ho
abortito, volontariamente. Non le descrivo (per riservatezza e perché ciò non aggiungerebbe
nulla) le circostanze e i sentimenti che mi hanno indotto a interrompere la gravidanza. Però,
dopo aver vista la 194 attaccata in ogni sua piega, ascoltato sentenze pronunciate da chi,
sentendosi senza peccato, ha scagliato la prima pietra (e molte altre), non resisto più. Vorrei
chiedere a questi censori che ne sanno dell’amarezza e del dolore di constatare che un figlio
non è - in certi frangenti - opportuno né auspicabile.
Che ne sanno dello sforzo sovrumano che una donna dovrebbe accollarsi per allevare una
creatura non potendo provvedere - come si deve — nemmeno alla propria esistenza? Come
si permettono di decidere della nostra vita, di definirci assassine? Se la 194 dovesse esser
sovvertita, io ho la possibilità economica e “culturale” di andare a Lione o Berlino o Madrid:
abortire e poi prendermi — forti come un pugno - le conseguenze di una decisione amara
perché così è: molto amara. Ma la donna che non può recarsi altrove, che fa?
Valeria Serra Sassari
Risponde Augias
Ho ricevuto molte lettere di donne con esperienze simili. Hanno in comune due elementi: la
rivendicazione di un diritto acquisito, il ricordo del dolore provato. Mi ha scritto Francesca
Pieri ([email protected]):
«A ottobre 2006 ero in attesa di una bambina e mi sono sottoposta a un’ ecografia che ha
riscontrato nel feto una gravissima malformazione cerebrale, di quelle che capitano una
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volta su diecimila. Sarebbe nata (e anche su questo c’era da dubitare) una creatura
gravemente malata, con scarsissime possibilità di sopravvivenza. Da lì la decisione di
interrompere la gravidanza.
La trafila è stata faticosissima, piena di formalità e di intoppi. Tra medici obiettori e
burocrazia, c’è voluta una settimana vissuta in totale sospensione di spazio e di tempo. Poi il
ricovero. Due giorni di travaglio senza supporto emotivo da parte della struttura, senza la
possibilità di avere qualcuno accanto. Solitudine, sofferenza fisica, un senso di abbandono e
di violenza che non riesco ancora a raccontare senza sentire il carico di tanto dolore e
umiliazione.
Che cosa significa per una madre interrompere una gravidanza? Cosa sarebbe successo se
non avessi avuto la possibilità di scegliere? E come raccontare tutta la sofferenza? E
soprattutto chi ha il diritto di parlare e di decidere per me? Chi può puntarmi il dito contro?
Chi più di me conosce il valore di una singola vita?
A distanza di più di due anni, con un figlio nato e il progetto di un altro, ancora mi sento
chiamata in causa, ancora non riesco a dimenticare».
Anche se questa è particolarmente toccante, le lettere che le donne scrivono sono così.
Ci vuole davvero molto coraggio, potrei dire cinismo, per contrapporvi la fredda sterilità di
un’ideologia.
704 - ADORO MIA FIGLIA MA AVREI SCELTO L’ABORTO - CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di martedì 12 febbraio 2008
Gentile Augias, un «bravissimo» medico non è stato in grado di leggere da una ecografia
che mia figlia sarebbe nata con una grave malformazione cerebrale. Oggi la mia bimba,
poco più di 2 anni, è persona pluridisabile, invalida al 100 per 100. Frequentando i reparti di
neuropsichiatria infantile incontro decine di bambini nati prematuri. Sono per lo più ciechi o
ipovedenti, come la maggior parte dei nati pretermine. Quasi sempre il deficit visivo si
accompagna ad altri danni, cerebrali o motori, irreversibili.
Ho conosciuto famiglie sbriciolate, unioni distrutte, donne sprofondate nella depressione.
Non tutti hanno la forza fisica, gli strumenti psicologici, i mezzi economici, la cultura che ci
vuole per combattere contro la burocrazia, la crudeltà di certi medici e l’inciviltà imperante, la
solitudine e la stanchezza, infine, contro se stessi e la propria inadeguatezza. E’ per queste
persone, soprattutto, che le scrivo.
La chiesa, la politica, la medicina smettano di guardare alle donne come a puttane che
uccidono i propri figli. L’aborto è una scelta dolorosa per chi la compie, ma è una scelta e va
garantita. Anche se mi ha stravolto la vita, io adoro la mia meravigliosa figlia imperfetta. Ma
se avessi potuto scegliere, quel giorno, avrei scelto l’aborto terapeutico. Ai medici che
vogliono rianimare i feti anche senza il consenso delle madri dico di uscire dai reparti di
terapia intensiva, andare a vedere cosa sono diventati quei bambini, a quale eterno
presente hanno condannato quelle madri.
Ada d’Adamo - [email protected]
Risponde Augias
Dalle tante lettere di madri come Ada d’Adamo che ricevo, ricavo l’impressione di donne
magnifiche, consapevoli, capaci di esprimere con rigore e partecipazione il dolore. Se posso
dirlo applicandolo a un tema tragico: anche stilisticamente molto belle.
Ma ne deduco anche un’informazione che va nel merito della campagna scatenata dalla
chiesa. Ogni affermazione di principio sull’aborto, che prescinda cioè dalle circostanze
personali sempre diverse da caso a caso, è crudele e irricevibile. La saggezza della legge
194 di cui parlava il ministro Livia Turco è proprio nel cercare di prevedere, di distinguere, di
offrire alcune garanzie proporzionate. Ovviamente nei limiti in cui può farlo una legge; al
resto deve pensare la coscienza dei genitori in primo luogo, del medico poi.
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Mi ha scritto da Firenze Cristina Gucciarelli: «E’ una pena sentir parlare di prematuri del
peso di 500 gr mentre scorrono belle immagini di bimbi di 4 kg. E’ riprovevole che si dia
notizia del miracolo, quando si tiene artificialmente in vita un prematuro di 21 settimane,
vittima di gravissimi e irreversibili danni, e si nasconde il drammatico futuro di non-vita che
avrà, se sopravvive».
Questa campagna è cinica, soddisfa solo il fanatismo, prepara il terreno a nuovi diritti negati.
Non è un caso che non si osi sondare direttamente il parere delle donne e si proceda invece
per le vie traverse della politica.
705 - IPOCRITI E FANATICI AL CAPEZZALE DELLE DONNE - CORRADO AUGIAS
Da: la Repubblica di giovedì 14 febbraio 2008
Caro Augias, sono una donna di 49 anni che ha sempre pensato di vivere in un paese dove
certi diritti erano acquisiti dopo lotte e democratici referendum; dopo ciò che si legge sui
giornali, in relazione a quella sala operatoria in un ospedale di Napoli mi viene da chiedere
se sia possibile una tale barbarie. Una donna ha il sacrosanto diritto di decidere se volere o
no una maternità. Basta con i falsi perbenismi di alcuni ipocriti
Gabriella CotoIa - gabry [email protected]
Gentile Dott. Augias, non ho mai abortito e il mio bambino è nato forte bello e sano. Ero
considerata a rischio e mi sottoposi ad amniocentesi. Ricordo ancora l’ansia mentre
aspettavo il risultato. Mi dicevo “e se?...”
L’idea di un aborto per una donna è devastante, forse gli uomini non riescono a capirlo.
Ancora pochi giorni fa, un’amica che aborti quando aveva 17 anni mi diceva: «ci penso
sempre, adesso avrebbe 23 anni». E’un dolore che ti porti dentro per sempre. Ho letto di
Napoli: è una vergogna!
Antonella Schiaretti - [email protected]
Risponde Augias
Ci vorrebbero più consultori, ci vorrebbe più informazione anticoncezionale. Invece tutto si
riduce a una campagna furibonda che a Napoli ha dato frutti adeguati al fanatismo che la
distingue. Poi c’è la strumentalizzazione politica. Berlusconi in un primo momento aveva
aderito all’idea della cosiddetta ‘moratoria’ che in pratica vorrebbe dire sospendere o abolire
la legge 194. Ben consigliato, forse da se stesso, ha poi frenato per vari motivi non esclusi,
ritengo, quelli personali.
Nel 2005, alla vigilia del referendum sulla procreazione assistita (Legge 40) sua moglie
Veronica Lario confidò al Corriere della Sera (8 aprile) di aver abortito al settimo mese cioè
ben oltre i termini di cui ora si discute: « Ho avuto un aborto terapeutico, molti anni fa. Al
quinto mese di gravidanza ho saputo che il bambino che aspettavo era malformato e per i
due mesi successivi ho cercato di capire, con l’aiuto dei medici, che cosa fosse più giusto
fare. Al settimo mese di gravidanza sono dolorosamente arrivata alla conclusione di dover
abortire. E stato un parto prematuro e una ferita che non si è rimarginata. Ancora oggi è
doloroso condividere pubblicamente quell’esperienza». Veronica Lario aggiunse
opportunamente: «Negli anni Settanta, ricordo, la discussione sull’aborto ruppe quel muro di
silenzio e di vergogna che opprimeva l’animo di una donna costretta a quella scelta.
Nell’aborto non c’era soltanto il rischio di morire e la morte che dolorosamente si infliggeva,
ma anche il silenzio, tremendo, che accompagnava la scelta».
Parole che possiamo fare nostre, che ritrovo nelle decine di lettere che ricevo. Abolire o
sospendere la legge che regola l’aborto significherebbe semplicemente tornare alla barbarie
della situazione precedente, quando l’aborto voleva dire spesso mettere a rischio la propria
vita.
706 - IL DOLORE DI UNA DONNA PER UN FIGLIO MAI NATO – CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di giovedì 21 febbraio 2008
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Gentile Augias, ho 42 anni, sono sposata da 14, dai 30 ai 35 mi sono sottoposta invano a
tecniche di fecondazione assistita per sterilità di coppia. A 38 anni resto incinta. Alla 20a
settimana si scopre nel feto una gravissima malformazione cardiaca (Sindrome del
ventricolo sinistro) incompatibile con la vita se non con l’ausilio di tecniche invasive di
assistenza circolatoria fin dai primi minuti. Si sarebbe dovuto procedere poi con interventi di
ricostruzione anatomica, senza il conforto di un ragionevole risultato.
Sono infermiera presso un Centro di Rianimazione Cardiologica, la mia esperienza e le
spiegazioni dei ginecologi mi hanno permesso, nonostante il trauma, di decidere con mio
marito in piena coscienza. Abbiamo affrontato l’aborto terapeutico per quel figlio desiderato
che la natura aveva deciso di non farci abbracciare solo per evitare l’accanimento
terapeutico cui sarebbe andato incontro. Tutto è avvenuto attraverso i dettami della 194,
dopo ulteriori consulenze mediche, la mia valutazione psichiatrica e l’autorizzazione del
responsabile di Ostetricia.
Sono passati 4 anni, non siamo diventati genitori, abbiamo avuto la forza di risollevarci da
tanto dolore, ma l’assenza di questo bimbo è «presenza» costante. Chi per motivi ideologici,
politici o religiosi, si arroga il diritto di giudicare, dovrebbe fare un passo indietro, sospendere
il giudizio, avvicinarsi con pietà ai grandi temi che governano il diritto alla vita e alla morte.
Lettera firmata
Risponde Augias
Giorni fa il quotidiano dei vescovi ironizzava sulle lettere che molte donne indirizzano a
questa rubrica. Scrivetegli, si diceva, vi pubblicherà. Fare del sarcasmo su casi come quelli
che qui sono stati raccontati, compreso quello di oggi, non so se sia un atteggiamento
cristiano, di sicuro è ripugnante. Come è ripugnante lo sfruttamento della parola ‘vita’: sì alla
vita, vogliamo la vita. Come se gli altri volessero la morte.
Difende la vita chi si batte perché ci sia assistenza, aiuto alle donne, luoghi dove mandare i
bambini quando si lavora. Non difende certo la vita la signora Moratti che nega l’asilo ai figli
degli immigrati. Non la difende chi ostacola l’educazione sessuale, le tecniche di
contraccezione, i preservativi nelle scuole, la pillola del giorno dopo.
Quando c’è stata la manifestazione di donne a Napoli le croniste riferivano che un prete di
passaggio le apostrofava «Assassine, assassine!». So di una badante ucraina che lavora a
Roma. Clandestina, precaria, appesa solo alla sua possibilità di lavorare, di mandare i soldi
a casa grazie a quelle umilissime incombenze. E’ rimasta incinta, se avesse avuto il
bambino tutto il quadro della sua esistenza sarebbe fallito, non solo la sua vita ma anche
quella delle altre persone di famiglia. Ha abortito, clandestinamente, come clandestina è la
sua intera esistenza. E’ andata bene, non è morta. Due ore dopo l’intervento era di nuovo al
lavoro.
Vorrei vedere quel prete di Napoli chiedere perdono a questa donna.
707 - IO, MEDICO DELLINFANZIA, VORREI PARLARE DI PIETÀ’ – CORRADO AUGIAS
da: la Repubblica di mercoledì 27 febbraio 2008
Caro Dr. Augias, sono un medico, neuropsichiatra infantile. Ho lavorato per anni in un
reparto di neurologia infantile, ho seguito bambini prematuri con esiti di gravi lesioni
cerebrali. Nei dibattito attuale sull’aborto di feti malformati e sulla rianimazione di neonati
molto prematuri, non ho letto alcun cenno relativo al dolore fisico cui vanno incontro molti dei
bambini che sopravvivono. Tutti si pronunciano su aspetti etici, ideologici, sulle sofferenze
dei genitori, ma non si parla mai del dolore di questi bambini. Già nell’incubatrice, fra
cannule, aghi, elettrodi per monitorare i parametri vitali, la loro sofferenza viene spesso
trascurata perché l’attenzione è rivolta agli aspetti tecnici delle cure. Poi negli anni
successivi, i bambini con gravi cerebrolesioni presentano spesso complicazioni
gastrointestinali e del sistema muscoloscheletrico, che danno dolori cronici. Questa
sofferenza la possono esprimere solo con il pianto, che spesso i genitori non decifrano.
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Di fronte a un dolore non lenibile con i farmaci, il medico si sente impotente, si chiede
perché gli sia riservata una tale sofferenza. Mi auguro che nell’affrontare questi temi ci sia
posto anche per la «pietas», che non sembra alberghi né nella mente né nel cuore di chi
sostiene urlando di voler difendere la vita di questi bambini.
Ermellina Fedrizzi - [email protected]
Risponde Augias.
Chi sostiene urlando, come giustamente scrive la dottoressa Fedrizzi, di difendere questi
bambini, ha in mente solo un’ideologia da affermare, non pensa nemmeno per un istante
quale esistenza, quale vita, sarà quella che proclama di voler sostenere.
Ho letto con sgomento domenica scorsa le parole del cardinale polacco Grocholewski,
prefetto per l’educazione cattolica: «I cattolici devono sempre dire ad alta voce e senza
esitare che la vita va difesa in qualsiasi momento, che l’aborto non è mai lecito, che
l’embrione va sempre salvaguardato, che le manipolazioni genetiche non sono ammesse».
Chiusura totale, su tutta la linea: aborto mai, dunque nemmeno nel caso in cui il feto presenti
malformazioni orribili che renderebbero l’esistenza del nuovo nato una penosa caricatura
della vita, ne farebbero un povero essere portato alle sofferenze di cui la dottoressa Fedrizzi
è stata, come scrive, testimone impotente. Chiusura totale anche sull’educazione sessuale,
sulle tecniche contraccettive, che sarebbero il rimedio ideale e incruento per prevenire
gravidanze non desiderate o difficili da sostenere, che eviterebbero insomma il problema
prima ancora che si presenti.
Eppure nel recente documento dei rappresentanti degli ordini dei medici anche questo è
scritto: «sostenere la legge 194 incrementando l’educazione alla procreazione responsabile,
il supporto economico e sociale alla maternità».
Sono l’irragionevolezza, il fanatismo cieco, gli aspetti medievali di questa discussione. E’ la
mancanza di pietà che la rende orribile.
708 - I CATTOLICI ADULTI DELUSI DALLA CHIESA - CORRADO AUGIAS
Sig. Augias, un tempo mi ritenevo un cattolico praticante, ora, e non senza sofferenze, mi
sono allontanato dai modi e dalle scelte che ha questo clero di «proporre» la parola di Dio.
Attaccare i principi cardine della Costituzione, la libera coscienza individuale, non aiuta a
riempire le chiese vuote; fa aumentare il distacco, molti ormai coltivano la fede solo nel
proprio intimo.
A. Pietropaolo - Genova - tony.zena@fastwebnet. It
Caro Augias, che sconforto! E’ incomprensibile a chiunque non sia credente come mai la
Chiesa abbia bisogno di avere leggi che rispecchino il suo ordinamento; come se i credenti
non fossero all’altezza di comportarsi da cattolici. Una dimostrazione di sfiducia e disprezzo
verso i fedeli incapaci di osservare i precetti della religione se non costretti dalla legge.
Flavia De Petri - flaviadepetri@virgilio. It
Caro Augìas, dov’è finita la Chiesa profetica che ci ricorda che il Figlio di Dio si è fatto uomo
non solo per i credenti ma per tutti, ha condiviso la vita e la sofferenza degli uomini, è morto
per i loro peccati, il Gesù della salvezza, delle beatitudini, della misericordia, quello che parla
di amore, il Cristo che dà senso alla vita di ognuno di noi anche quando a qualcuno sembra
che questa vita non ne abbia nessuno.
Gisella Bottoli – Brescia - [email protected]
Risponde Augias
Il rapporto diventato così difficile tra cattolici e non cattolici diventa ancora più complicato se
si considerano anche i cattolici che una volta sono stati definiti ‘adulti’, quei credenti
consapevoli della loro fede ma che si sforzano di essere anche ‘boni cives’ che osservano le
leggi e, prima di ogni altra, la Costituzione della Repubblica. Ormai non passa giorno senza
che si ripeta l’offensiva delle gerarchie che entrano senza più ritegno nella vita politica, che
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anzi sono diventate parte della campagna elettorale e arriveranno certamente, prima della
fine, a dare precise indicazioni di voto come nei peggiori momenti degli anni Cinquanta.
D’altra parte non è certo un caso se la battaglia sui temi etici viene condotta passando al di
sopra delle persone reali, nella quale si evita di sondare l’opinione diffusa nel Paese, in
particolare delle donne. Una brutta guerra, nella quale si mettono a confronto da una parte i
principi, dall’altra la vita. Nulla è peggio di vedere contrapposto il gelo di un’ideologia alle
esperienze e ai drammi di chi ha dovuto affrontare una nascita, o una morte, difficili. Quella
che vediamo da noi (e in Spagna) è una chiesa che ha ridotto la dottrina a lotta per gli
interessi, che discute le candidature, ammonisce sulla famiglia ma tace, quando fa comodo,
su chi di famiglie ne ha due o tre, sui mafiosi che strozzano una città o una regione, purché
‘votino bene’, che concede funerali sontuosi ai dittatori più sanguinari mentre li nega ai
poveri cristi afflitti da troppa sofferenza.
Così lontana da Gesù, così vicina al potere.
709 - SEMPRE PIÙ DISTANTI CHIESA STORICA E GESÙ RISORTO - LUIGI DE PAOLI
da: ADISTA n. 34262
Di fronte alla carenza di ricerche psicoanalitiche su questo tema, "mente e passione mi
hanno progressivamente animato a intraprendere un viaggio nelle ‘viscere’ di un organismo
così complesso ed eterogeneo qual è il Cristianesimo".
Sono le parole con cui Luigi De Paoli – psichiatra, già coordinatore nazionale di "Noi Siamo
Chiesa" – introduce Psicanalisi del Cristianesimo (113 pgg., disponibile gratuitamente online sul sito www.tevere.org), una ricerca che intende "individuare l’evoluzione delle
dinamiche inconscie che caratterizzano l’organizzazione storica del Cristianesimo".
"La premessa d’obbligo per chi desidera fare un percorso ‘psicoanalitico’ – spiega De Paoli
– è che la mente umana lavora sulla base di due ‘logiche’": un processo di elaborazione
"primario" (inconscio-non razionale) ed un processo "secondario" (cosciente-razionale, tipico
delle scienze moderne). Queste due logiche convivono mantenendo in equilibrio libertà e
creatività da un lato, ordine e stabilità dall’altro.
Per studiare il Cristianesimo occorre dunque sapere che "in una prospettiva psicoanalitica
tutti gli aspetti fondamentali dell’esperienza ‘cristiana’, come la fede nel Figlio di Dio, il
Risorto, i miracoli, la salvezza, l’Eucarestia, la vita eterna, ecc., hanno la loro radice ‘anche’
nei processi primari, che per loro natura sono a-spaziali e a-temporali, totalmente incuranti
delle contraddizioni, per cui un soggetto può essere contemporaneamente umano e divino,
morto e vivente, adulto e infante".
Secondo De Paoli, riferendosi esclusivamente ad una logica di tipo secondario (come fanno
ad esempio le scienze cosiddette esatte), persino la Resurrezione, perno che fonda e
sorregge l’intero credo cristiano, rischia di apparire come una grande menzogna, o
quantomeno una ‘magia’ difficilmente corroborabile. Inoltre, i Vangeli sinottici non brillano
per coerenza: la testimonianza della resurrezione, infatti, è affidata a due (o tre) donne, che
hanno creduto alla testimonianza di due angeli (o un angelo o, forse, solo un giovane
raggiante). Dunque, nessuno ha ‘visto’ il Nazareno risorgere. E l’osservazione empirica è
proprio il requisito che valida la conoscenza nel mondo occidentale moderno.
"Detto ciò, ridurre la Resurrezione ad allucinazione collettiva (…) significa privarsi della
possibilità di spiegare come schiere di poveri, di infermi, di schiavi, di donne possano aver
sopportato montagne di ingiustizie, di vessazioni e di dolori identificandosi con le sofferenze
del Nazareno e con la speranza di una Vita Nuova". Mons. Romero, che - afferma De Paoli è "la copia fotostatica" di Gesù, così ha interpretato la sua ‘resurrezione’: "Se mi uccidete io
risorgerò nel popolo salvadoregno".
De Paoli sfrutta a piene mani le categorie della teoria psicanalitica per contestualizzare,
nell’ambito della disciplina, Gesù e la Chiesa di oggi, ricostruendo così le differenti
manifestazioni del Cristianesimo nei secoli successivi alla morte di Gesù. E non lo fa per
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desacralizzare un’eventuale menzogna millenaria, quanto piuttosto per svelare i meccanismi
di una visione del mondo fluida, in dialogo continuo con il contesto storico-sociale e con
l’inconscio individuale e collettivo, che sono alla base di ogni interpretazione della realtà,
compresa quella cristiana.
Rispetto alle prime comunità cristiane, ad esempio, il Concilio di Nicea (indetto nel 325 da
Costantino) ‘trasforma’ Cristo da "malfattore crocifisso" a "Re della gloria", da Figlio
sottomesso a "Signore che trionfa sul mondo". E i cristiani, da perseguitati che erano,
diventano i nuovi persecutori.
De Paoli parla anche dell’eredità di S. Agostino, divenuta poi patrimonio indiscutibile della
dottrina ecclesiastica. Agostino reinterpreta il "disordine pulsionale" – identificato da Gesù
nell’accumulo di beni e di potere – con la "concupiscenza della carne" e, passando per
Adamo ed Eva, istituisce una gerarchia tra uomo e donna, anima e corpo, "Città di Dio e
città terrena", sconosciuta ai primi cristiani.
Lo studio dell’"inconscio istituzionale" comporta quindi il disvelamento delle logiche sotto cui
la Chiesa cattolica si è allontanata dall’esempio del "falegname-profeta-guaritore-martire e
risorto" e si è discostata sempre più dalla "struttura fraterna, comunitaria, paritetica,
autogestita, povera, non stanziale inaugurata da Gesù". Questa affermazione acquista
maggiore rilievo se si considera che la morale, la dottrina e soprattutto l’organizzazione della
Chiesa non discendono da specifici dettami evangelici ma dai Concili ecumenici del primo
millennio, che hanno progressivamente distanziato il "Gesù Risorto" dal "Gesù storico".
710 - INDIETRO TUTTA (IF YOU THINK ISLAM IS) - MARK STEEL
da: The Indipendent del 16 gennaio 2008
Il papa avrebbe dovuto visitare l’università La Sapienza di Roma. Ma non l’ha fatto, avendo
avuto sentore di una protesta che avrebbe messo in ombra la coraggiosa sfida al regime dei
monaci birmani. La punizione per questa sfida sarebbe stata un’eternità da passare tra i
tormenti dell’inferno.
Il bersaglio della manifestazione, Benedetto XVI, è considerato da studenti e professori
dell’università un nemico della scienza. I capi delle Chiese contemporanee, in genere,
negano di esserlo e provano a trovare spiegazioni scientifiche per le idee bibliche, come la
teoria dell’intelligent design (alcune caratteristiche dell'universo e delle cose viventi sono
spiegabili meglio attraverso una causa intelligente, ndt). In questo modo, possono fare affermazioni del tipo: “I recenti studi sui fossili suggeriscono che un tempo c’era una specie di
balena nella zona della Galilea che aveva la gola delle dimensioni di una villetta odierna e
avrebbe potuto essere arredata come un appartamentino con riscaldamento centralizzato, il
che prova che è tranquillamente possibile che Giona abbia potuto vivere confortevolmente al
suo interno per vari mesi!”.
Il papa deve rispondere ad una critica specifica: cioè quella di aver citato, quando era
ancora un semplice cardinale, l’affermazione che il processo a Galileo da parte
dell’inquisizione nel 1633 fu “ragionevole e giusto”. Il risultato del processo, per il crimine di
aver ribadito che la Terra gira intorno al sole, fu una condanna a morte, poi ridotta agli
arresti domiciliari a vita.
Potrebbe sembrare una sentenza troppo dura, cosicché un tipico difensore moderno della
sentenza, lo scrittore Vittorio Messori, l’ha giustificata spiegando che “Galileo non fu
condannato per ciò che disse ma per la maniera in cui lo fece”. Questo è il problema, allora:
al Vaticano non davano fastidio le teorie sull’universo di Galileo ma il fatto che le difendesse
a bocca piena. Il problema di questa spiegazione è che la sentenza di Galileo era conforme
alla mentalità della Chiesa dell’epoca. Essa sosteneva che la ragione fosse “corrotta”, il che
suggerisce che una lezione di scienza tenuta dai cardinali del XVII secolo non prevedesse
degli esperimenti particolarmente convincenti. Un insegnante chiedeva, “Chi sa dirmi perché
il rame tende a diventare verde?”. E se un bambino avesse alzato la mano e detto “È la
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reazione degli atomi che si combinano con l’ossigeno in un processo noto come
ossidazione, signor professore”, questi avrebbe gridato “No, ragazzino. Diventa verde
perché è un miracolo!”.
In effetti, quando il filosofo Vanini cercò di trovare la prova dell’esistenza dei miracoli,
l’iniziativa venne considerata dal Vaticano un’interferenza con la volontà di Dio e quindi gli
tagliarono la lingua, lo strangolarono e lo bruciarono. Ragionevole e giusto, in effetti, perché
avreste dovuto sentire la maniera in cui lo diceva!
Le scoperte scientifiche dell’epoca di Galileo portarono al dissenso nei confronti della
Chiesa. Per esempio, c’era questo prete ricco e radicale, Picot. A quanto sembra, in punto di
morte, offrì una fortuna a quel prete che gli avesse amministrato l’estrema unzione senza
formule, litanie o incensi. Un prete accettò e, poco dopo, Picot entrò in coma. Dopo tre
giorni, il prete al capezzale di Picot non poté più trattenersi e cominciò a salmodiare, al che
Picot si alzò a sedere sul letto e disse: “Posso ancora toglierti i soldi, sai?”.
Ma forse, l’aspetto più interessante della difesa da parte di Benedetto XVI dei suoi
predecessori del XVII secolo è immaginare lo scandalo che scoppierebbe se un simile
atteggiamento fosse tenuto dall’Islam. Se un leader del mondo musulmano dichiarasse che
fu ragionevole e giusto mandare a morte una delle menti più brillanti della storia, decine di
commentatori ci direbbero che questa è la prova che l’Islam è un credo medievale, ignorante
e incompatibile con i valori occidentali. Ci si chiede perché allora Martin Amis (scrittore
inglese contemporaneo, ndt) non abbia scritto un libretto pieno di pompose insulsaggini sul
genere: “Nell’orbita degli studi di Galileo ci siamo io, te, la nostra sapientizzazione e la
nostra trionfante astuzità. Quindi, ponderando questo catechistico affronto del papa alla
cerebralità, sento un impeto dell’anima a schiacciare tutti i redentoristi in un enorme
confessionale e dare fuoco a tutti loro. Voi no?”.
Perché non ci sono articoli di persone che rivendicano il proprio femminismo, e spiegano
che “i cattolici devono capire che, se vogliono lasciare la Polonia o l’Irlanda per venire qui,
devono adottare i nostri valori tolleranti verso i gay e l’aborto”? Perché non ci sono politici
che annunciano che non parleranno con i loro elettori a meno che non si mettano il
preservativo?
Christopher Hitchens (scrittore e commentatore politico inglese, ndt) ha lamentato che
l’Islam è incapace di passare attraverso una Riforma. Ma allora neanche il cattolicesimo,
visto che la ragion d’essere della Riforma era quella di prendere il suo posto. Quindi perché
non chiede di bombardare l’Italia?
Presumibilmente, avremo presto degli intellettuali che ci spiegheranno che il rifiuto di Galileo
evidenzia che ci troviamo in mezzo a uno scontro di civiltà, e la prova è il fatto che i
sandinisti, l’Ira e Guy Fawkes erano tutti terroristi e cattolici.
I manifestanti di Roma avevano progettato di rovinare la visita del papa mettendo “musica
rock ad alto volume”, dato che una volta aveva detto che il rock è “opera del demonio”. A
volte mi sembra una scelta difficile: ateismo o satanismo… non riesco proprio a decidermi.
711 - IL PERICOLO DELL’ONDATA NEOGUELFA – ALDO SCHIAVONE
da: la Repubblica di martedì 5 febbraio 2008
Un’onda “neoguelfa” — lunga, persistente, di fondo—sta scuotendo il Paese.
Non trovo di meglio che questo aggettivo di sapore risorgimentale (ma la parola originaria
arriva dal cuore tedesco e italiano dell’Europa fra dodicesimo e quattordicesimo secolo) per
descrivere un atteggiamento culturale e politico che da qualche tempo si sta proponendo
come uno dei poli del nostro dibattito pubblico. Un compatto movimento di idee che tende ad
attribuire alla figura del Papa l’esercizio di una specie di protettorato “superpartes” nei
confronti dell’intera vita civile italiana, fino a fare del magistero della Chiesa il custode più
alto della stessa unità morale della nazione.
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E’ un pensiero forte e invasivo, che si riflette in mille segni e iniziative che stanno riempiendo
le nostre cronache: il Foglio e le sue campagne ne sono diventati ormai il simbolo e la
bandiera, capaci di mescolare con raffinata sapienza snobismo intellettuale e populismo
mediatico (Giuliano Ferrara ha così completato il suo percorso, concluso per ora in una sorta
di formula trinitaria, efficace ma non senza contraddizioni: Berlusconi in Italia, l’America nel
mondo, il Papa su tutto — il Papa, si badi, non Dio, che vorrebbe dire ben altra cosa).
Aver scomodato un nome che viene addirittura dal nostro passato medievale, per definire
l’orientamento cui misto riferendo, aiuta a capire come non vi sia niente di davvero nuovo nel
suo nocciolo concettuale. Siamo invece di fronte al ripetersi di un’antica tentazione della
storia politica e intellettuale italiana: quella del neoguelfismo come attitudine nazionale,
definitivamente fissata con la Controriforma negli infelici esordi della nostra dimezzata
modernità — quando a noi toccò la parrocchia, mentre gli altri, in Europa, costruivano gli
Stati. «Non si può tenere stati secondo coscienza, perché (...) tutti sono violenti (...) e da
questa regola non eccettuo (...) e manco e preti, la violenza de’ quali è doppia, perché ci
sforzano con le arme temporale e con le spirituale», così Guicciardini, nei Ricordi, intorno al
1528: la Francia ci aveva già invaso, e meno di venti anni dopo sarebbe iniziato il concilio di
Trento.
Questa inclinazione a sottomettere il Paese al sentimento religioso storicamente dominante
ha però sempre nascosto dentro di sé — nella sua lunga durata — un elemento oscuro, un
radicato vissuto di inferiorità e di impotenza: la percezione che L’Italia fosse troppo fragile e
debole per farcela da sola, e che ci fosse un insopprimibile bisogno di consegnarla nelle
mani di una potenza più grande, più efficace e più solida di quanto apparissero le sue
istituzioni e la sua vocazione civile: la forza universale del cattolicesimo e degli apparati che
su di esso si fondano. Si è determinato così una specie di riflesso condizionato, che riaffiora
nei momenti di crisi e di sconnessione. Esso spinge a rinunciare allo Stato, e ad affidarsi alla
comunità dei fedeli (oggi irrobustita dall’apporto degli atei devoti). È il segno di una
patologia, non ne è il rimedio: dobbiamo saperla curare, non abbandonarci a lei.
Il nome dell’Italia sembra ormai impronunciabile, se non accompagnato dall’evocazione del
suo declino. Fra i molti — veri o presunti — degradi, quello della nostra cultura politica e
della nostra etica pubblica sono certo i più visibili e pericolosi. Ed è nel vuoto lasciato aperto
da queste ferite che trova spazio la suggestione neoguelfa: se lo Stato si dissolve nelle sue
inadempienze, se il Parlamento diventa un’arena, se i partiti si decompongono nella
mancanza di progetti e di idealità, se la misura della moralità si identifica con l’interesse
privato o con il capriccio soggettivo, si metta fin dove possibile al loro posto la Chiesa e la
sua dottrina: l’assemblea dei vescovi sarà comunque migliore delle riunioni di qualunque
sgangherata maggioranza di governo.
Ora il problema è di riuscire a capire e a spiegare come in questa scelta non è sbagliata
tanto la preferenza in sé — e che quindi sia meglio anteporre Veltroni a Ruini, o Bobbio a
Ratzinger, oppure il Consiglio dei ministri alla Cei — ,no; è sbagliata l’idea stessa che sia
comunque possibile, oggi, nelle condizioni date, una supplenza, una sostituzione (totale o
parziale, esplicita o nascosta) della Chiesa e del suo magistero nei confronti dello Stato e
del dibattito etico di una società complessa; che una religione - quale che sia, anche una
religione di verità — possa occupare il posto della politica e del suo discorso, e mettere la
sfera pubblica sotto tutela. Ci sarebbe, in una simile scelta, un’attitudine così radicalmente
antimoderna (attenzione: non di critica ad alcuni aspetti, anche fondamentali, della
modernità, che è sempre benvenuta, ma di contrapposizione disperata e radicale con essa),
da renderla fallimentare e improponibile E non è un caso se anche la Democrazia cristiana,
negli anni del suo fulgore, ha evitato sempre di farla propria, decidendo di essere fino in
fondo un partito politico, e non una congregazione di devoti.
Non sarà la Chiesa a salvare l’Italia, mettendola sotto la sua protezione L’Italia si salverà da
sola, se ne sarà capace, rigenerando la sua cultura politica e ricostruendo la sua etica
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pubblica. Ma la Chiesa potrebbe contribuire a rovinarla, se, nella pretesa di sostituirsi allo
Stato approfittando della sua inconcludenza, volesse trasformarsi a sua volta in soggetto
politico, in parte impropriamente opposta a un’altra parte, come accade appunto nelle cose
politiche.
C’è tuttavia una ragionevole speranza che — a dispetto delle molte sollecitazioni — questa
strada non verrà intrapresa. Tutto il Cristianesimo moderno si è formato nella separazione
fra quel che è di Cesare e quel che è di Dio. Oggi per la Chiesa, per ogni credente, c’è più
che mai bisogno di definire ancor meglio questi confini capitali, di proiettarli con convinzione
su nuovi territori, non di confonderli o di cancellarli. È distinguendo, non oscurando, che la
parola di Dio rigenera la sua forza. Questo vale anche per l’Italia, anche per noi, per quanto
incerti si possa apparire.
Il nostro smarrimento chiede rispetto, non tutori. Perché dopotutto non siamo indifesi, e,
soprattutto, siamo diventati moderni.
712 - I MEDICI SACERDOTI AI CONFINI DELLA VITA – ADRIANO PROSPERI
da: la Repubblica di martedì 5 febbraio 2008
«Nell’ora della nostra morte»: la preghiera antica dei cristiani si chiude ancora con queste
parole. In quell’ora di tutti, una persona era chiamata al capezzale del morente: il prete. A lui
spettava confortare la famiglia sbigottita e assistere le persone nel momento del trapasso.
Oggi un’altra figura lo ha sostituito: il medico. Ma la sua non è più — salvo eccezioni sempre
possibili – la presenza sollecita e soccorrevole del medico di famiglia, amico e depositario
dei segreti e della fiducia delle persone al pari del (e per lo più insieme al) prete della
parrocchia.
Egli è l’emissario impersonale di una macchina della salute che si impadronisce del morente
e lo porta nella struttura sanitaria che potrà forse prolungargli provvisoriamente la vita ma
dove comunque un giorno dovrà morire. L’esperienza di cui era depositario il prete,
testimone di tutte le morti, gli serviva per portare speranza: quella di un’altra vita, certo,
perché il suo compito di «onesto mercante del Cielo» (così lo definì un generale dei Gesuiti
nel ‘600) era pur sempre fissato dalla Chiesa nel dovere di guadagnare un’anima al
Paradiso. Ma intanto quell’assoluzione da ogni peccato che la religione riservava ai morenti
aveva il potere di alleggerire l’angoscia estrema. E per i non credenti che resistevano
all’ultimo tentativo di convertirli restava il conforto recato comunque al morente dalla persona
amica, capace di ascoltare e di restare vicino nel momento estremo.
Il mondo cambia velocemente. Tutto questo appartiene a un passato che è diventato
improvvisamente remotissimo. Oggi quella preghiera deve essere cambiata: l’assistenza
religiosa si è trasferita all’altro capo dell’esistenza. Bisognerà dire: «Nell’ora della nostra
nascita». E qui che si è spostato il fronte della guerra per salvare non più le anime ma le vite
terrene. E i medici, che nella nostra tradizione cattolica hanno imparato presto a nascondere
o a cancellare del tutto l’abito dello scienziato positivista, scettico e irridente verso la fede,
sono mobilitati anche qui al posto delle presenze sacerdotali. Spossessati della morte, lo
saremo adesso anche della nascita? così pare. E ci prende un sentimento di nostalgia per
l’antica religione dei parroci di campagna che benedicevano le nascite e assistevano alle
morti come fatto di natura, da vivere dove si viveva normalmente, nel proprio letto, accanto
alle persone amate e alle cose d’ogni giorno. E’ difficile adattarsi a questa nuova religione
predicata da teologi «laici» e da consorzi medici attraverso gli schermi televisivi: una
religione che ha i suoi rappresentanti non più nei parroci ma nei medici. Sono questi gli
specialisti che decidono della nascita e della morte.
Ma vorremmo sommessamente osservare una cosa che forse non tutti hanno notato: quello
che la Chiesa chiede ai medici di fare essi lo stanno già facendo da tempo. La novità, se c’è,
è la proposta di una alleanza tendente a colorare religiosamente l’obbligo che l’intera società
contemporanea, i suoi poteri politici e i suoi più corposi interessi economici hanno delegato
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alla corporazione dei medici: farci nascere a ogni costo e farci vivere il più a lungo possibile,
allontanare la morte o almeno nasconderla come un rifiuto imbarazzante. E questo compito i
medici lo stanno svolgendo con risultati sotto gli occhi di tutti. Un solo esempio: la durata
media della vita si è allungata. Non importa molto se la vita più lunga che ci regalano
qualche volta la vorremmo ridare indietro. Si leggano le testimonianze raccolte dalla
dottoressa inglese lona Heath in un piccolo libro delicato e amaro di cui ha parlato su questo
giornale Umberto Galimberti e forse altri ancora parleranno: un libro che prova a insegnare
ai medici quel che dovrebbero fare per riprendere un ruolo antico e prezioso, per imparare
insomma che il loro mestiere non è far vivere a ogni costo ma rispettare i viventi e aiutarli a
chiudere la loro esistenza in modo umano.
Bisognerà comunque rassegnarsi. Non è il primo esperimento che si fa di un controllo del
potere sulla nuda vita. Non molto tempo fa — più o meno tre secoli — medici e giudici
controllavano le gravidanze di donne sole (vedove, prostitute, mogli di emigranti) per
prevenire il rischio di aborti procurati o di infanticidi: allora si trattava di salvare l’anima delle
creature perché rischiavano di morire senza battesimo e dunque di andare all’Inferno o al
massimo a quell’inferno mitigato che era il Limbo. E per salvare quelle anime fu praticato —
con la benedizione delle autorità ecclesiastiche e di alcune autorità politiche — il cesareo su
donna vivente: si apriva chirurgicamente il ventre delle gestanti quando il parto minacciava
di finire male, per estrarne il feto e battezzarlo, seppellendolo poi insieme alla madre.
Inutilmente le donne gridavano la loro disperazione quando vedevano avanzarsi il chirurgo
insieme al prete. La vita eterna dell’anima umana era un bene incomparabilmente superiore
a quello della loro esistenza. Già allora, dunque, i medici avevano invaso con delega
ecclesiastica il momento della nascita: ma si trattava della salvezza eterna dell’anima.
Intanto nel segreto delle famiglie la pratica degli aborti e degli infanticidi continuava senza
soste: uno studio di uno storico inglese, Gregory Hanlon, sulla demografia seicentesca di un
paese dell’Italia centrale — Torrita di Siena — ha dimostrato che la percentuale dei maschi
battezzati alla metà del ‘600 era più che doppia rispetto a quella delle femmine. Lo squilibrio
tra maschi e femmine aveva dimensioni che oggi si trovano solo in Cina o in India.
Vogliamo tornare a quel mondo? Anche se volessimo — e non lo vogliamo — sappiamo
bene che non è possibile. E l’argine legale eretto a fatica contro l’aborto clandestino avrà dei
difetti ma ha avuto anche in Italia il merito di ridurre quella che era la vera e propria
«sindrome cinese» del controllo nascosto delle nascite. Però è lecito almeno sperare in
un’alleanza di tipo diverso tra una religione che ha imparato a rispettare la vita terrena e le
coscienze individuali e una scienza medica che sta invece provando l’ebbrezza faustiana di
un patto col diavolo. Perché che altro è quello che si fa nei suoi santuari se non garantire
vita più lunga, corpo più giovane, capelli fluenti e rinnovati piaceri amorosi a chi vi entra con
le rughe, calvo e con istinti cancellati dalla vecchiaia? Cose del genere nella Chiesa di un
tempo erano condannate con asprezza e potevano portare sul rogo. Ma non ci
scandalizziamo dell’attuale benevola tolleranza; e comunque non è certo alla Chiesa che
vogliamo dare consigli.
Invece a questi medici vorremmo ricordare che non sono loro i padroni della vita e della
morte. Ne sono, nei casi migliori e se ci riescono, i servitori: in scienza e coscienza.
713 - LA GAMBA TESA DEL VATICANO - GAD LERNER
da: la Repubblica di lunedì 11 febbraio 2008
Ho provato molta curiosità, l´altra sera, quando il Tg1 ha annunciato con rilievo, nei suoi titoli
d´apertura, un´intervista al direttore di Avvenire, Dino Boffo. Che cosa sta per comunicarci di
così importante il mio amico Boffo, la cui relazione fiduciaria con il cardinale Ruini prosegue
da quasi vent´anni? Si esprimerà sulla difesa della vita, sul ruolo della famiglia, sulla
controversia teologica con gli ebrei? Macché, la parola gli viene data nei primi minuti del
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telegiornale, quelli dedicati alla politica interna, subito dopo un resoconto sul braccio di ferro
nel centrodestra fra Berlusconi e Casini.
Premesso, come di consueto, che la Chiesa non fa scelte di schieramento, il direttore di
Avvenire dice finalmente quel che premeva rendere pubblico a lui e a Ruini: "E´ interesse
dei cattolici, ma anche dello stesso centrodestra, che sia salvaguardata la presenza in quello
schieramento di un partito che fa direttamente riferimento alla dottrina sociale cristiana".
Così noi telespettatori abbiamo potuto arguire che dalla Cei viene trasmesso un duplice
invito: all´Udc perché rimanga nel centrodestra; e a Berlusconi perché rettifichi il suo
perentorio invito alla confluenza dell´Udc nel Popolo delle libertà, pena la fine della
coalizione elettorale.
Poco m´importa stabilire se la dichiarazione di Boffo al Tg1 vada considerata un´ingerenza
oppure no. Certo però che un tale singolare, minuzioso interessamento alla sfera partitica,
declina assai modestamente il diritto rivendicato dalla Chiesa a intervenire nel dibattito
pubblico. Va bene che la religione entra sempre più spesso, a proposito o a sproposito, nei
discorsi politici. Va bene che la Chiesa rivendica il diritto-dovere di esprimersi su leggi e
regolamenti, come si suol dire, "eticamente sensibili". Ma dubito esistano argomenti spirituali
in favore della salvaguardia di un partito cristiano nel centrodestra.
Di conseguenza vi sono altre domande che rivolgerei a Boffo. Forse Ruini avrebbe preferito
che un omologo partito di matrice cattolica sopravvivesse anche nel centrosinistra? La
speranza delusa della Chiesa era di ispirarli entrambi, magari nell´attesa che rinasca al
centro una nuova Democrazia cristiana?
Fatto sta che il sorprendente intervento a gamba tesa della Chiesa nel dibattito in corso nel
centrodestra, denota una sua preoccupazione mondana. Viene il dubbio che alla Chiesa
dispiaccia la formazione di due grandi partiti alternativi. Non per motivi religiosi, ma perché
un sistema tendenzialmente bipartitico indebolirebbe l´esercizio dell´azione lobbistica in cui
s´è specializzata, avvantaggiandosi della frammentazione parlamentare. La politica della
Seconda Repubblica è stata afflitta da un crescente degrado morale, ma ciò
paradossalmente ha favorito la Cei nel reperimento di interlocutori strumentalmente clericali.
La nascita del Pd e del Pdl da questo punto di vista rappresentano un´incognita. Ricordiamo
bene il rammarico con cui Ruini aveva preso atto dell´incontro fra la Margherita e i Ds.
Un´ostilità dedicata in particolare ai cattolici di sinistra, primo fra tutti Prodi, che hanno voluto
il Partito democratico anche perché lo concepivano come diversa relazione tra fede e
impegno politico, cioè come superamento degli anacronistici steccati religiosi. Oggi la
Chiesa si impegna pubblicamente per scongiurare che un´analoga fusione venga realizzata
sul versante conservatore. Poco le importa che questo sia già stato l´esito felice di una
democrazia matura nel resto d´Europa. Meglio che niente, si aggrappa alla possibilità che
sopravviva un piccolo partito cristiano a destra. Calcolando che i cattolici di sinistra già
ripetutamente accusati da Avvenire di subalternità al pensiero radicale e di disobbedienza
alla dottrina, tornino prima o poi sui loro passi.
Non ho la più pallida idea di come andrà a finire il braccio di ferro fra Berlusconi e Casini. Ma
in compenso adesso mi è più chiaro il disegno politico perseguito da Ruini. Guarda caso il
leader dell´Udc, non appena subito l´aut aut degli alleati di centrodestra –o vieni in lista con
noi, o corri da solo – s´è premurato di far sapere qual è stata la sua prima telefonata: al
vicario di Roma, che non è più presidente della Cei ma conserva l´anomalo ruolo di leader
politico dei vescovi italiani.
Dispiace che per diventare una democrazia matura l´Italia debba imbattersi pure in questo
ostacolo. Dispiace che la Chiesa viva con fastidio la nascita di due grandi partiti alternativi,
all´interno dei quali i cattolici possano trovarsi a loro agio. Senza bisogno di rappresentanze
parlamentari separate, che a me sembrano piuttosto dépendances curiali per cardinali
appassionati di politica.
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714 - GLI INFERMIERI: “NO ALL’EUTANASIA” – MARIO REGGIO
Da: la Repubblica di mercoledì 13 febbraio 2008
Obiezione di coscienza e no all’eutanasia. Il nuovo codice deontologico degli infermieri è
ormai in dirittura d’arrivo. La federazione nazionale dei collegi Ipasvi ha iniziato ieri a Roma
l’esame delle nuove regole che riguardano la professione di 360 mila operatori sanitari.
Le principali novità sono quelle che impegnano gli infermieri sui temi etici. Ecco i punti
principali.
Obiezione di coscienza: «nel caso di conflitti determinati da diverse visioni etiche, si
impegna a trovare una soluzione attraverso il dialogo. Qualora vi fosse o persistesse una
richiesta di attività in contrasto con i principi etici della professione e con i propri valori, si
avvale dell’obiezione di coscienza», facendosi però «garante delle prestazioni necessarie
per l’incolumità e la vita dell’assistito».
Accanimento terapeutico:
«tutela la volontà dell’assistito di porre dei limiti agli interventi che non siano proporzionati
alla sua condizione clinica coerenti con la concezione da lui espressa della qualità della vita,
quando l’assistito non è in grado di manifestare la propria volontà tiene conto di quanto da
lui espresso in precedenza e documentato.
Eutanasia: «l’infermiere non partecipa a interventi finalizzati a procurare la morte, anche se
la richiesta proviene dall’assistito».Le altre novità riguardano le modalità di assistenza:
l’infermiere orienterà la sua azione «al bene dell’assistito di cui attiverà le risorse
sostenendolo nel raggiungimento della maggiore autonomia possibile anche quando vi sia
disabilità, svantaggio, fragilità»
Sperimentazione: «riconosce il valore della sperimentazione clinica e assistenziale», ma «si
astiene dal partecipare a sperimentazioni nelle quali l’interesse del singolo sia subordinato
all’interesse della società».
Critico sull’obiezione di coscienza Amedeo Santosuosso, docente all’università di Pavia e
magistrato presso la corte d’Appello di Milano. «Il richiamo all’obiezione di coscienza» così
come presentato nel nuovo codice deontologico degli infermieri, «non solo non è vincolante,
ma è illegittimo», commenta Santosuosso. «L’obiezione di coscienza — spiega il giurista— è
una eccezione che va riconosciuta dalla legge, e che risponde al principio dettato dalla
Costituzione della libertà di coscienza. Dove non esista una legge specifica non esiste la
possibilità di violare il contratto di servizio che si ha con il proprio datore di lavoro ma anche
con i pazienti».
Il pericolo maggiore sta «nel riferimento non solo ai valori etici della professione — aggiunge
— ma a quelli personali. Sembra che ci sia l’intenzione di estendere al di là della legge 194
la possibilità dell’obiezione di coscienza, che potrebbe coinvolgere anche i trattamenti
estetici, la fecondazione assistita, il cambiamento di sesso. Non si può fare infermierismo ‘a
la carte’ — conclude — l’obiezione non può essere esercitata in modo ‘privato’, senza leggi
che la vincolino».
Replica Annalisa Silvestro, segretaria nazionale dell’Ipasvi: «Rispetto il pensiero di
Santosuosso, anche se sono convinta è doveroso che gli operatori sanitari vengano tutelati
nella difesa dei propri valori etici. Siamo pronti al dialogo con tutti».
Commento. La federazione nazionale degli infermieri sta approvando un nuovo codice
deontologico che prevede, tra l'altro, che in presenza di richieste dei pazienti "in contrasto
con i principi etici della professione e con i propri valori, l'infermiere si avvale dell’obiezione
di coscienza". Mi chiedo:
1. Il diritto all'obiezione di coscienza da parte degli infermieri può essere fissato da un
semplice codice professionale oppure deve discendere da una legge, come per esempio il
servizio militare? Ossia, il cittadino ha diritto alle prestazioni sanitarie per le quali paga le
tasse oppure dipende dai principi etici dei codici professionali e dei singoli infermieri?
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2. Il diritto all'obiezione di coscienza - ammesso che esista - appartiene soltanto agli
infermieri o a tutti gli italiani? Ossia, se i "valori etici" di un tassista palestinese fossero
contrari a trasportare un infermiere israeliano, o viceversa, che cosa succede? Si va dal
giudice e si attendono 10 anni per la sentenza?
Non soltanto questo paese sta scivolando dallo stato di diritto allo stato etico, ossia dai
principi votati dal popolo ai "superiori" valori stabiliti dalla Chiesa cattolica (vedi il caso di
Napoli), ma con l'obiezione di coscienza generalizzata scivoleremmo addirittura
nell'anarchia. Motivo di più per non riconoscerla a pochi (gps).
715 - LE ANTICHE STRADE DELLA CHIESA – ALDO SCHIAVONE
Da: la Repubblica di mercoledì 13 febbraio 2008
Fra le storie dei grandi Paesi europei, la storia d’Italia è insieme la più ricca e complessa, ma
anche la più incompiuta. Le due cose — molteplicità e incompletezza — si tengono insieme,
come in certi romanzi, o in certe musiche.
Ognuno vi cerca (e i trova) quel che vuole, senza che lo sguardo riesca mai a stringersi
davvero su un punto fermo, su un “questo siamo” che non ammetta repliche, e non possa
rovesciarsi nel suo contrario. Abbiamo aperto la strada della modernità — con il
Rinascimento — e l’abbiamo subito perduta. Abbiamo gettato le basi teoriche e politiche
dello Stato nazionale, ma non abbiamo saputo costruirne mai davvero uno. Abbiamo
inventato il fascismo e la forma occidentale del comunismo, senza aver mai elaborato in
profondità e non semplicemente rimosso, il nucleo drammatico (e incomparabile) di quelle
esperienze, superandolo in una matura sintassi democratica.
Il filo di questo pensiero mi è ritornato in mente leggendo le riflessioni lucide e appassionate
che Ernesto Galli della Loggia ha dedicato (sul “Corriere” di martedì) a quanto avevo scritto
su “Repubblica” di qualche giorno prima a proposito dell’ondata neo- guelfa che sta
attraversando il nostro Paese. Proverò a dire perché.
Mi sembra che Galli della Loggia non neghi l’esistenza del fenomeno in quanto tale
(“l’impressione — come egli dice — di un che di eccessivo, di strabordante, del discorso
religioso specialmente su temi etici”), ma contesti in modo deciso la spiegazione che ne
prospettavo. E lo fa opponendomi due ragionamenti, anch’essi centrati su una valutazione
della storia d’Italia — singolarmente simmetrica alla mia, ma in modo rovesciato, speculare.
Il primo argomento si rivolge alla mia concettualizzazione di quanto sta accadendo. Parlare
neoguelfismo, secondo lui, è fuorviante. Sarebbe solo il segno di una (cattiva) abitudine
della cultura italiana a riportare ogni novità, anche la più radicale, nell’ambito di dicotomie
tradizionali — “Stato-Chiesa, laico-clericale, — ormai vuote di contenuto, eredità inerte di
“un’impalcatura ideologica Otto-novecentesca” oggi diventata non più di “un reperto
archeologico”. Bisogna invece saper cogliere tutta la portata inedita del ritorno in grande stile
del discorso religioso nel mondo contemporaneo, come risposta alle domande e ai bisogni di
spiritualità e di eticità indotti dalla rivoluzione tecnologica che sta sconvolgendo le nostre
esistenze (un punto su cui insiste molto anche Gaetano Quagliariello, nella sua risposta al
mio articolo).
Ebbene: sono del tutto d’accordo nell’enfatizzare al massimo il carattere di assoluta novità
del tempo che stiamo vivendo, dove il rapporto fra tecnica e vita sta assumendo aspetti
impensabili fino a qualche decina di anni fa. E sono d’accordo a collegare l’inatteso
riemergere della religiosità alle angosce indotte da quello che appare letteralmente come un
salto nel vuoto dell’umanità oltre se stessa, per così dire. Ma il problema è come la Chiesa
stia rispondendo - soprattutto in Italia - a questa domanda, e che capacità essa per prima
stia dimostrando di accogliere il nuovo e di darvi spazio. Se ce lo chiediamo davvero, la
risposta è preoccupante.
La Chiesa sta reagendo arroccandosi, invece di guardare avanti. Sta resistendo a fatica alla
tentazione di politicizzare il proprio messaggio, riempiendolo di dogmi, quando avremmo
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bisogno piuttosto di profezia. E gli “atei devoti” la stanno spingendo esattamente su questa
china, mentre dovrebbero metterla in guardia. La cultura italiana sarà anche arretrata, come
dice Galli della Loggia, ma qui non c’entra. E’ la Chiesa che sta rischiando di ripercorrere
antiche strade, non noi. Se la cosa è vecchia, non può essere che vecchio il nome per
indicarla. E’ vero: neoguelfismo è una parola che viene dal profondo del nostro passato.
Saremmo felici di poterla dimenticare in pace. Ma come, se c’è chi non sa far altro che
cercare di riproporne i contenuti?
E che il futuro del Cristianesimo, e in particolare della versione cattolica, sia nella totale
depoliticizzazione del suo insegnamento, come unica condizione perché la sua voce entri
davvero nell’intreccio fra tecnica e vita, e gli possa dare un senso: quello dell‘emancipazione
e della libertà - se vogliamo, del ricongiungimento con Dio, oltre la naturalità costringente
della specie. La disconnessione del legame originario fra religione e politica - di cui Jan
Assmann (un autore ben noto al Papa) ha magistralmente descritto l’archeologia — è la
grande missione che aspetta la Chiesa nel tempo che si apre.
Il secondo argomento di Galli della Loggia riguarda il giudizio storico sul nostro Stato e sulla
nostra politica. Se oggi la Chiesa e il suo discorso hanno da noi tanto ascolto, ciò non
nascerebbe - come a me pareva - dal vuoto della politica e dello Stato, ma al contrario da
un’eccessiva “iperpoliticizzazione (...) della compagine statale italiana”, che avrebbe origini
lontane, sin dalle debolezze del nostro Risorgimento (ancora la storia d’Italia), e arriverebbe
fino a una sorta di paralizzante “corto circuito politica-cultura”, in grado di produrre ormai
solo vaniloqui (la “cultura del nulla” cui allude Giuliano Ferrara nella sua sobria e pacata
replica al mio intervento).
Di nuovo, credo di condividere il cuore di questo ragionamento; al di là dell’immagine del
“vuoto” che avevo usato, la sostanza resta, anche se forse leggiamo in modo diverso - ma
tutti e due legittimamente - alcuni passaggi della nostra storia: siamo di fronte a un
desolante silenzio di pensiero critico “di fronte ai grandi temi del Paese e dell’epoca”,
sostituito da un chiacchiericcio politico quasi sempre settario e ideologicamente prevenuto.
Ma tuttavia: siamo sicuri che a questa patologica ”iperpoliticizzazione” la cultura cattolica più
direttamente riconducibile alle posizioni della Chiesa non abbia dato nel corso del tempo e
sino a oggi il suo potente contributo, confondendo troppo spesso quel che è di Cesare con
quel che è di Dio, mischiando sacralità e potere, etica e precettistica, Vangelo e ragion di
Stato?
A me pare che noi si debba tutti lavorare a un ricongiungimento storico fra religione e
modernità, nel segno di un’etica dell’eguaglianza, della speranza e dell’emancipazione.
Questo non presuppone confusione e indistinzione, né tantomeno abdicazioni e supplenze,
ma il disegno di nuovi confini e di nuove mappe: nei paesaggi dell’anima, non meno che nel
tessuto delle nostre istituzioni.
716 - SE È IN PERICOLO IL DESTINO DEI DIRITTI - STEFANO RODOTÀ
da: Repubblica di giovedì14 febbraio 2008
Quale sarà il destino dei diritti e delle libertà civili nel nuovo tempo della politica che si è
appena annunciato, e che assumerà tratti più netti dopo il voto del 13 aprile? Da Napoli è
appena arrivata una inquietante risposta, tanto più grave perché dà la misura di un
mutamento di clima. Un mutamento di clima che, senza bisogno di cambiare le norme in
vigore, determina una vera e propria aggressione nei confronti di chi altro non ha fatto che
valersi dei diritti che le riconosce la legge sull´interruzione della gravidanza. Il racconto della
donna è davvero un caso di scuola di violazione della dignità della persona, dunque di uno
dei principi fondativi della convivenza, come si legge nella nostra Costituzione e nell´articolo
1 della Carta dei diritti fondamentali dell´Unione europea: «La dignità umana è inviolabile.
Essa deve essere rispettata e tutelata».
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Non basta dire, infatti, che s´era ricevuta una segnalazione anonima e che era necessario
effettuare accertamenti. Proprio il carattere anonimo delle segnalazioni esige sempre
prudenza nella loro utilizzazione, altrimenti la libertà e la dignità di ciascuno di noi vengono
consegnate nelle mani di qualsiasi mascalzone. Vi erano molti modi per accertare se
davvero si stava violando la legge, senza bisogno di piombare addosso alla donna e di farle
domande assolutamente illegittime, come quella riguardante il padre. Ma ci si comporta così
quando si ritiene di essere assistiti da un consenso sociale, quando si pensa che l´aria sia
cambiata e che nell´agenda politica ed istituzionale a diritti e libertà spetta ormai un posto
marginale.
La vicenda napoletana ci ha purtroppo dato la tragica conferma di una regressione civile già
in atto. Sarebbero urgenti, a questo punto, una reazione politica ed una istituzionale.
Chiunque abbia il senso delle istituzioni, merce purtroppo sempre più rara, dovrebbe
esigere, nell´interesse di tutti, un chiarimento del modo in cui magistratura e polizia si sono
comportate a Napoli, e l´individuazione delle specifiche responsabilità, come hanno chiesto
le componenti del Csm. Siamo di fronte ad una violenza di Stato, che esige un immediato e
pubblico ristabilimento della legalità. Solo così sarà possibile cancellare, almeno in parte,
l´effetto intimidatorio che quella irruzione può avere nei confronti di tutte le donne che
intendono far ricorso alla legge 194.
Per quanto riguarda la reazione politica, sono ovviamente benvenute le proteste, le
condanne. Ma non bastano. Non siamo di fronte ad un caso isolato ed isolabile, ma appunto
alla rivelazione di un clima. E questo clima può essere cambiato solo se, con adeguata
forza, si rifiuta l´agenda politica che l´ha determinato e a questa se ne oppone una più civile,
rispettosa delle persone e della loro umanità, che rimetta al primo posto il riconoscimento e il
rispetto dei diritti.
Dal centrodestra sono venuti segnali insistiti e chiarissimi. La radicale messa in discussione
dell´aborto è netta, ha ormai una forte evidenza nella campagna elettorale, ben poco
offuscata dalle variazioni tattiche di Berlusconi rispetto alla lista di Giuliano Ferrara, visto che
lo stesso Berlusconi ha rilanciato proprio la parola d´ordine di Ferrara di proporre all´Onu
ben più di una moratoria sull´aborto - il pieno riconoscimento del diritto alla vita del
concepito. A queste proposte si aggiungono la posizione ostile ad ogni aggiustamento della
legge sulla procreazione assistita, anche a quelli che una provvida giurisprudenza ha
rigorosamente introdotto, mettendo in evidenza gli eccessi di potere del governo Berlusconi;
la dura linea sulle questioni della sicurezza; la "questione privacy" proposta sostanzialmente
come mezzo per limitare il ricorso alle intercettazioni anche in materie dove appaiono
necessarie e per incidere sulla libertà d´informazione; e l´ipotesi di procedere ad una
revisione anche della prima parte della Costituzione, quella appunto delle libertà e dei diritti.
Se questo è il catalogo, ormai evidentissimo, del centrodestra, quali segnali sono venuti dal
Partito democratico e dalla Sinistra arcobaleno? Flebili, comunque privi finora della evidenza
necessaria per presentarsi come un programma forte e coeso, capace di imporsi
all´attenzione dell´opinione pubblica e modificare così l´agenda politica. Per il Partito
democratico questo è anche il frutto di una difficoltà interna, testimoniata dalla pubblica
adesione della senatrice Binetti alla proposta berlusconiana sull´aborto. Per la Sinistra
arcobaleno è probabilmente l´effetto determinato dal ritardo di una effettiva elaborazione
comune.
La passata legislatura lascia un´eredità pesante. Testamento biologico, unioni di fatto,
disciplina delle intercettazioni sono lì a ricordarci una impotenza dell´Unione, la difficoltà
estrema nel gestire politicamente situazioni complesse. Soprattutto per i primi due casi, si
constatò in modo sbrigativo che non v´era la necessaria maggioranza parlamentare, e
questo favorì all´interno dell´Unione le operazioni di chi volle chiudere nel cassetto testi
significativi. Non si tenne conto che si trattava di materie che riguardano la vita di tutti, le
decisioni sul morire e l´organizzazione delle relazioni affettive (e il nascere, legato alle nuove
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linee guida sulla procreazione assistita), sì che sarebbe stato necessario avere non solo un
più netto atteggiamento davanti all´opinione pubblica, ma anche più coraggio parlamentare,
portando in assemblea i disegni di legge, obbligando i senatori ad assumere esplicitamente
le loro responsabilità e consentendo così ai cittadini di valutare meriti e colpe all´interno di
entrambi gli schieramenti.
In altre materie, quelle legate alla sicurezza pubblica in particolare, vi è stata una eccessiva
propensione a soluzioni sbrigative, con una riduzione di problemi complessi a questioni di
puro ordine pubblico, rendendo indistinguibile la posizione del governo da quella
dell´opposizione.
Di queste debolezze si è avuta una conferma ulteriore nelle materie sbrigativamente indicate
con il termine privacy, che sono poi quelle che riassumono molti dei diritti legati al diffondersi
delle nuove tecnologie. Un solo esempio. Con il decreto "milleproroghe" si è portato ad otto
anni e mezzo il tempo di conservazione dei dati sul traffico telefonico, un non invidiabile
record mondiale. Che cosa potrà accadere nel prossimo Parlamento? La previsione più
facile induce a concludere che, se prevarrà il centrodestra, la linea sarà quella della
riduzione dell´autonomia delle persone nel decidere della loro vita (ricorso alla procreazione
assistita, aborto, rifiuto di cure, decisioni di fine vita, unioni di fatto), dell´indebolimento delle
garanzie in nome della sicurezza, della limitazione del controllo di legalità da parte dei
giudici, che è una componente essenziale della tutela dei diritti. Ma questo non significherà
necessariamente abbandono di una nuova normativa sul testamento biologico o sulla
procreazione assistita. Regole su queste materie potrebbero servire per una finalità
esattamente opposta a quella per la quale erano state finora pensate: chiudere ogni varco
alla possibilità di giungere comunque al riconoscimento di diritti delle persone sulla base
delle norme della Costituzione, come hanno fatto con grande rigore alcuni giudici.
La necessità di un diverso e chiaro programma in materia dei diritti è evidente. Questo
programma, in primo luogo, deve essere dichiaratamente "conservatore", nel senso che
deve consistere in una intransigente difesa dei principi costituzionali e in un loro coerente
sviluppo nelle direzioni segnate dall´innovazione scientifica e tecnologica. È vero che queste
innovazioni ci obbligano a confrontarci in modo assolutamente inedito con i temi della vita,
dell´umano. Ma questa riflessione, e le conseguenze pratiche che se ne traggono, devono
trovare la loro collocazione nel quadro di valori democraticamente definito, appunto quello
costituzionale. Questo non esclude il confronto, la discussione, la prospettazione di punti di
vista anche radicalmente diversi. Esclude, invece, la pretesa di imporre un altro quadro di
principi, imposto autoritativamente, ritenuto "non negoziabile" perché espressione di verità
non discutibili.
Giungiamo così al vero nodo politico e culturale, alla revisione costituzionale di fatto che si
vuole realizzare avendo le prescrizioni delle gerarchie ecclesiastiche come unica tavola dei
valori. Questo è uno dei punti condivisi di cui si vanta il Popolo delle libertà. Questa è la vera
radice del rischio che corrono libertà e diritti, che non ha nulla a che vedere con
l´anticlericalismo o con il "laicismo", ma ha molto a che fare con la democrazia. Un rischio
che si aggrava ogni giorno, visto che l´interventismo delle gerarchie vaticane si traduce
sempre più spesso in una precettistica minuta.
Quale società si sta delineando? Le debolezze politiche e culturali del passato centrosinistra
sono nate anche su questo terreno, e si è rivelata sbagliata la linea di chi ha ritenuto che un
atteggiamento morbido avrebbe consentito un progressivo superamento delle difficoltà. Il
"politicismo" del rapporto esclusivo con le gerarchie vaticane non ha pagato e, anzi, ha
aperto varchi sempre più ampi al loro intervento, mentre veniva trascurato e mortificato il
rapporto con il mondo cattolico più aperto. Chiedere maggiore consapevolezza di questa
situazione non significa incitare allo scontro. Significa mettere in chiaro, nella fase
democraticamente essenziale della campagna elettorale, i propositi e le prospettive di
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azione di ciascuno. Anche su questo si costruirà il consenso delle forze politiche di
centrosinistra e di sinistra.
717 - FETI, EMBRIONI E SCIENZIATI - IGNAZIO MARINO
da: la Repubblica di venerdì 15 febbraio 2008
Caro direttore,
potremmo immaginare che al vertice mondiale di Davos partecipassero persone che non
hanno mai studiato economia? Oppure che al salone dell’automobile la novità dell’anno
fosse descritta da un esperto di gastronomia? Sono situazioni che fanno sorridere ma che
purtroppo accadono con preoccupante sistematicità quando si dibatte di scienza e delle sue
implicazioni.
Nei giorni scorsi abbiamo assistito, infatti, alla pioggia di commenti e dichiarazioni su due
importanti questioni: il documento sottoscritto da quattro università romane sull’ assistenza
ai neonati prematuri e la possibilità di curare malattie gravi grazie a quello che è stato
definito, impropriamente, un embrione con tre genitori.
Per chi lo ha letto, il primo documento è una dichiarazione di intenti che afferma principi
assolutamente condivisibili: se un feto, durante una normale gravidanza, nasce prematuro lo
si deve assistere con tutti i mezzi a disposizione della medicina. Se poi si valuta che tale
assistenza diviene accanimento terapeutico è opportuno sospendere le terapie e limitarsi
alle cure compassionevoli per far spegnere il bambino senza ulteriori sofferenze. I commenti
si sono invece concentrati sulla legge sull’aborto, se va modificata o se non va toccata, tutti
a dibattere di tutto ma soprattutto di concetti che nel documento non erano assolutamente
affrontati.
Pochi giorni dopo si è scatenato un secondo dibattito mediatico su un esperimento, condotto
all’Università di Newcastle in Inghilterra, riguardante il trapianto di mitocondri in un embrione,
alla ricerca di un metodo per fare nascere un bambino sano anche quando la madre è
portatrice di un difetto genetico.
Si è parlato di aberrazioni, di follia inglese e via di seguito. Ma qualcuno, prima di esprimersi,
si è chiesto in che cosa consiste questo azzardatissimo esperimento? Proviamo a
riassumere.
All’interno delle nostre cellule ci sono degli organelli, chiamati mitocondri, che funzionano da
fonte energetica: trasformano alcune sostanze del cibo in energia che il corpo usa per ogni
sua attività. Se questi organelli sono alterati a causa di un difetto genetico, le parti del corpo
che dipendono dall’energia come il cervello, il cuore, i muscoli, o funzioni come la vista o
l’udito, saranno danneggiati anche gravemente. Per esempio, il danno muscolare può
causare un deficit respiratorio sino a minacciare la vita. I dati più recenti indicano che nella
sola UE vi sono 350 mila persone affette da malattie dei mitocondri.
Gli scienziati inglesi hanno immaginato che con un trapianto di mitocondri, si potrebbe fare
nascere un bambino sano. Per capirci meglio, hanno pensato di conservare il nucleo di una
cellula fecondata con le informazioni genetiche del papà e della mamma e di sostituire la
parte della cellula contenente i mitocondri malati con mitocondri sani prelevati da un’altra
donna, con la stessa logica di un qualunque trapianto. In un paziente affetto da cirrosi, per
esempio, si toglie il fegato malato e lo si sostituisce con uno sano prelevato da un donatore.
Capisco che il fatto che questo procedimento venga eseguito su un embrione possa colpire
il nostro immaginario ma non può farci né spaventare né urlare contro una presunta
manipolazione della vita.
Posso assicurare che tutte le volte che si esegue un trapianto di fegato si trasferiscono nel
corpo del paziente, oltre al nuovo organo, anche alcune cellule del sangue con le
caratteristiche genetiche del donatore. La prova è riscontrabile nei linfonodi di donne che
hanno ricevuto il fegato di un uomo e che, anche dopo venti anni dal trapianto, presentano
cellule con il cromosoma Y che posseggono solo i maschi. Qualcuno si scandalizza oggi, o
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si scaglia contro il successo dei trapianti perché nell’impianto di un organo c’è stato uno
scambio di materiale biologico? Non mi pare, certamente non i pazienti trapiantati che
vivono mentre pensavano di morire.
Insomma, quello che la stampa ha definito la creazione di un embrione con tre genitori è in
realtà un esperimento di trapianto di materiale biologico.
Non mi sfugge che gli embrioni così costituiti non possano essere impiantati in utero e siano
stati distrutti dopo sei giorni, perché questo prevedono i regolamenti inglesi. Per tutti coloro
che si pongono dubbi sulla manipolazione dell’embrione umano questo atto costituisce
ovviamente un grande ostacolo etico. Ma perché non chiamare le questioni con il proprio
nome e spaventare i cittadini con giudizi fantasiosi quanto inesatti scientificamente come
quelli su fantomatici embrioni con tre genitori?
La conoscenza scientifica non può fare a meno della sperimentazione ed io, con sincera
umiltà, non me la sento di dire cosa sia giusto e cosa non lo sia per la società nel suo
complesso. Ho delle convinzioni personali, che ad alcuni sembrano troppo prudenti e ad altri
di frontiera ma non credo sia giusto anche solo immaginare di imporle ad altri o addirittura,
nel mio lavoro di legislatore, al Paese. Certamente non condivido una visione che descrive
gli scienziati come dei pazzi sconsiderati con manie di padreterno che creano, manipolano o
distruggono la vita e per questo da tenere sotto stretto controllo e da inibire il più possibile.
Penso invece che un organismo di valutazione e di giudizio su ciò che riguarda la vita debba
esistere ed avere poteri concreti e debba esprimersi in modo autorevole, così come accade
in altre nazioni; ma penso anche debba essere costituito da persone competenti,
scientificamente preparate e profondamente convinte di non conoscere a priori ogni verità. E
chiedere troppo?
718 - IL CRISTIANESIMO SEMPLICE – FRANCESCO MERLO
da: la Repubblica di sabato 16 febbraio 2008
Caro Giuliano Ferrara, hai trovato su Google «testicoli piccoli e mammelle grosse» che dici
di avere anche tu, come i malati di Klinefelter. Non sono un testicolologo nè un medico
specialista e dunque non contrappongo la mia ignoranza dinamica, attiva, a questa tua
lettura allegra della sindrome di Klinefelter, da te ridotta - come mi scrivi, sul Foglio, in una
lettera articolo - a una svirilizzazione. Pure a me capita di cercare i miei umori su Google e
anche a me di sentirmi, in certe mattine, un aborto mancato, inadatto alla vita extrauterina:
uno sfrattato.
Dici anche di volermi mostrare quanto sono piccoli i tuoi testicoli e mi viene in mente che
Hemingway voleva esibire a Scott Fitzgerald quanto erano grandi i suoi. Io non li tiro fuori
per nessuno e taccio sulla sindrome di Klinefelter. Non voglio fare l’errore di chi, come te,
pensa di sapere tanto chiaramente cos’è la vita da surrogare ogni genere di competenza,
anche medica, con le pienezze etiche della propria ideologia vitalistica.
E però il silenzio che, nel mio articolo su Repubblica, ti avevo proposto, e che tu mi hai
appunto rimproverato sul tuo giornale, non riguardava (ancora) le malattie cromosomiche,
ma le dolorose decisioni che aveva preso quella signora di Napoli sottoponendosi, nella
ventunesima settimana di gravidanza, all’aborto terapeutico previsto, e non imposto, dalla
legge 194.
Ora, io capisco bene che ti faccia più piacere avere di fronte non il silenzio triste e solidale di
quelli come me, ma il linguaggio a te più chiaro delle femministe che rivendicano in piazza il
diritto all’aborto: «Sono meno eleganti di te - scrivi - ma vivaddio si capisce di che cosa
parlano, che cosa vogliono o pensano di volere».
“Diritto all’aborto” è un’espressione che io non userei, e non perché coltivo l’eleganza, ma
perché mi fa pensare ad un altro dei tanti ossimori italiani, qualcosa come il diritto
all’amputazione. I diritti li coniughiamo con cose che potenziano la persona: il diritto di
esprimere il proprio pensiero, il diritto di andare in vacanza, il diritto al lavoro... Chiedere in
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una manifestazione il diritto all’aborto è, secondo me, una paradossale banalità intellettuale.
E non solo perché l’aborto è sofferenza. Penso che anche rivendicare in piazza il diritto alla
felicità sarebbe una sciocchezza. Né aborto né felicità appartengono al campo dei diritti, Il
primo è un drammatico meno peggio, una concreta disgrazia personale; la seconda è una
insondabile grazia personale.
E tuttavia quell’espressione così scopertamente perdente nasconde una questione
complessa perché rimanda ai tempi in cui rispondeva, semplificando, ad una proibizione
crudele dello Stato. Immaginiamo che ci sia qualcuno (qualche testimone di non so quale
Geova) che voglia impedirmi l’amputazione della gamba, della mia gamba malata, «perché
così te l’ha data Dio e bla bla». Come potrei semplificare la mia paradossale situazione di
aspirante sciancato se non rivendicando il diritto a farmi tagliare la gamba, a ridurre cioè il
dominio della sofferenza che è uno degli scopi della civiltà del diritto? In realtà nessuno si fa
amputare la gamba per esercitare un diritto: stringe i denti, e lo fa. E lui che decide e non c’è
nulla da dire.
Comunque sia, capisco che “il diritto all’aborto” è un’espressione che tu non molli perché ti
permette di sovrastare l’avversario nel senso di volteggiargli sopra come un rapace. Anche
la lite di ieri con Pannella, il tuo rifiuto all’ultimo momento di confrontarti con lui è stato un
volteggiare. Lo hai piantato nello studio tv dove eravate tutti e due invitati. Ma Pannella non
merita di essere trattato così. Neppure la polizia di Mario Scelba l’avrebbe fatto. Nessuno ha
il diritto di eliminare Pannella con il prezzemolo, di abortirlo già bello e fatto. E lo dico benché
in qualche misura anche io non condivida gli argomenti che usa oggi Pan- nella, gli stessi
del 1978, con un lessico e un tono che sono usurati come quelli delle vecchie femministe, un
linguaggio troppo duro per un tema di sofferenza viva. In realtà tu che parli di omicidi perfetti
e di eugenetica usi lo stesso identico linguaggio. Ti piace la piazza, ti è sempre piaciuta. E
apertamente dici di preferirla a me.
Molto più difficile è infatti contrastare il silenzio sbigottito che ti propongo, a meno di non
deformarlo polemicamente nel silenzio del tartufo, nel ponziopilatismo, nella deficienza
morale. Come io non deturpo la tua generosità e la tua passione, che conosco e apprezzo,
così tu devi trattare il mio silenzio per quello che è: la rispettosa malinconia davanti a una
donna che, assistita da uno, cento, mille dottor Google, e confortata da una legge rigorosa e
seria, ha preso una decisione che l’ha fatta soffrire e la farà soffrire. Il silenzio che ti
propongo è la modestia di non parlare per lei, di non arrogasti il diritto di metterti ai posto di
quella signora, o peggio di impartirle delle lezioni di medicina e di etica, spiegarle quando
nasce la vita umana, a che mese e giorno il nascituro diventa persona, e addirittura persona
giuridica. Nessuno può imporre agli altri le proprie soluzioni a problemi controversi che
dividono scienza e religioni, a problemi insolubili: quando uno è ancora feto e quando è già
bambino; e quali sono i protocolli affettivi e i protocolli medici davanti alle gravi anomalie
cromosomiche; e come rispettare ogni religione senza intolleranze laiche ma senza violare,
per intolleranze religiose, la volontà di una madre di non mettere al mondo un infelice
menomato. Ci sono cose essenziali, come il desiderio e il bisogno di maternità e di paternità;
come l’ottimismo radioso e il pessimismo cosmico; come l’amore di due persone che stanno
assieme, si stringono per le mani e decidono di riprodursi; come il momento nel quale la
scienza medica ti chiama a scegliere tra l’aborto terapeutico e il terribile futuro di un figlio
malato; ci sono insomma alcune cose che, alla fine, esigono un lungo, terribile momento di
solitudine e dalle quali i nostri umori, la politica, i giornali, le liste elettorali, le passioni
pubbliche, anche le più generose, devono restare lontani.
Uscendo dalla sala operatoria, ancora intronata dall’anestesia, quella signora non ha trovato
ad accoglierla il silenzio solidale delle persone più vicine, del suo compagno, dei medici, di
un fratello, di un amico o un’amica, di una società pronta a offrire dignità al suo dolore, ma le
domande della poliziotta, il sequestro del feto, le accuse, le indagini, i giornali, e poi le tue
lezioni sulla vita e sulla morte, una disputa da talk show... E vero che tra i poliziotti c’era una
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donna - oddio! - e io non l’ho scritto perché non lo sapevo. Ma ecco cosa ha dichiarato
questa poliziotta con involontaria comicità: «Non è stato un interrogatorio, le ho solo fatto
qualche domanda».
Dire adesso, da un giornale così importante come il tuo, che la signora di Napoli è
un’omicida o un’infanticida è fare molto peggio di quella poliziotta: è farle subire, a pistola
culturale spianata, non solo la predica, ma la condanna a vita. Che maniera è la tua di
soccorrere una donna in sofferenza? Perché non moderi i termini? Vuoi vendicare un feto
facendo impazzire la madre? E perché pensi che i medici siano tutti dei Goebbels che non
hanno neppure capito quanto è piacevole vivere con la sindrome di Klinefelter?
Non sono tanto illuminista da dire che tu sei il mandante morale di quel blitz della polizia in
sala operatoria: «In nome di Ferrara, alzate le mani». Ma io ho studiato dai preti, come tu mi
ricordi invitandomi a correre alla più vicina chiesa per confessare il peccato di averti invitato
al silenzio. Ti aggiungo che ho avuto più di un sacerdote tra i miei zii (anche un cardinale).
Ebbene, i migliori di loro mi hanno insegnato non «un cristianesimo semplice e distratto»,
come tu mi rinfacci.
Non distratto ma solo semplice, Giuliano, era il cristianesimo italiano prima che arrivaste voi,
da altre parrocchie armati, a tentare di fare di ogni cattolico un soldato di Cristo. Pensa: gli
italiani, che non sono mai stati soldati di niente, ora dovrebbero diventare soldati di Cristo.
Ecco il punto: qualunque cosa io sia diventato, ricordo bene che in quel cristianesimo
semplice il silenzio era la sconfinata via dello spirito. Io credo che ammutolire dinanzi
all’aborto terapeutico scelto da quella donna è sentire in se stessi l’abisso di un mistero
universale. Nel silenzio che ti propongo io non c’è il fracasso elettorale che renderebbe
incandescente e gonfierebbe di intolleranze qualsiasi dibattito su quella cosa strana che si
chiama vita, ma c’è la forza indagatrice dell’intelligenza, che è sempre stata la tua forza.
Non so il tuo Ratzinger, ma Sant’Ambrogio diceva che in casi come questi la parola è il
tugurio miserabile dello spirito: «Prigione dell’anima è la parola».
E dunque, visto che né tu né io possiamo sostituirci alla signora Silvana di Napoli, e che la
buona legge ce l’abbiamo, facciamo silenzio, Giuliano. Sssssss.
719 - QUANTO È’ COSTATA LA BATTAGLIA PER L’ABORTO - FEDERICO ORLANDO
da: Europa di sabato 16 febbraio 2008
Cara Europa, dobbiamo ringraziare Giuliano Ferrara: finalmente le donne sono tornate in
piazza. Adesso spieghino alle figlie perché.
Emanuela Riva – Pescara
Risponde Federico Orlando
Cara signora, credo d’aver capito il suo laconico messaggio: ragazze e ragazzi non sanno
che le liberta e i diritti di cui godono oggi nonostante i sabotaggi di medici e infermieri
trent’anni fa non c’erano. Non c’erano neanche le impiccagioni, le lapidazioni, le fustigazioni
in pubblico di cui godono tuttora le donne islamiche, ma la cultura del nostro codice penale e
di una parte della morale piccolo borghese era quella: talebana. E talebana si cerca ora di
farla tornare, attraverso una battaglia “culturale” che, se non sarà fermata dalla rivolta
femminile e maschile (senza le idiote separatezze femministe “di genere”), non avrà bisogno
di essere cancellata dalle minacce delle varie Burani Procaccini (che promette aborti solo
rarissimi e pene “severissime” per medici e parasanitari: speriamo che Berlusconi, anelante
al ruolo di persona seria, la faccia ricoverare).
Dunque, non ci sarà bisogno di retromarce legislative perché le donne non troveranno più
nessuno negli ospedali pubblici che le assista. In Italia sono obiettori (in pubblico) l’80 per
cento dei ginecologi, il 46 per cento degli anestesisti, il 39 per cento dei paramedici. Adesso
per aggirare le leggi dello stato anche i farmacisti fanno obiezione di coscienza sulla pillola
del giorno dopo o altri contraccettivi (che chiamano intercettivi) e altrettanto faranno gli
infermieri. Del resto, con tutti i medici che pullulano in Italia, meno aborti si fanno in ospedale
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e più se ne fanno negli studi privati (vedi San Timoteo di Termoli) e magari ben fuori dei
termini di legge (vedi clinica Spallone di Roma, definita anni fa “il macello”).
Ma per qualcuno di questi obiettori macellai finiti in galera, quanti sono a piede libero? Nel
rileggere La sfida radicale, un libro del 1977 (SugarCo), ritrovo decine di pagine sugli arresti
dei leader e delle leader del Partito radicale, quando insieme ai socialisti e a pochi liberali,
repubblicani e qualche dc, facevano le lotte contro la barbarie del codice fascista, fino alla
depenalizzazione.
Consiglierei a Pannella e a Bonino, anche in vista del dialogo col Pd, di farlo ristampare:
bisogna restituire alle vecchie generazioni la memoria perduta e che non hanno trasmesso
ai figli.
720 - VALORI E DIRITTI NEI CONFLITTI DELLA POLITICA - GUSTAVO ZAGREBELSKY
da: la Repubblica di sabato 23 febbraio 2008
Non si parla mai tanto dl valori, quanto nei tempi di cinismo. Questo, a mio parere, è uno di
quelli. Le discussioni e i conflitti sulle questioni che si dicono “eticamente sensibili” (come se
le questioni, non gli esseri umani, fossero sensibili) sono un’ostentazione di valori. Tanto più
perentoriamente li si mette campo, tanto più ci si sente moralmente a posto. Che cosa sono i
valori? Li si confronti con i principi. Principi e valori si usano, per lo più, indifferentemente,
mentre sono cose profondamente diverse. Possono riguardare gli stessi beni: la pace, la
vita, la salute, la sicurezza, la libertà, il benessere, eccetera, ma cambia il modo porsi di
fronte a questi beni. Mettendoli a confronto, possiamo cercare di comprendere i rispettivi
concetti e, da questo confronto, possiamo renderci conto che essi corrispondono a due
atteggiamenti morali diversi, addirittura, sotto certi aspetti, opposti.
Il valore, nella sfera morale, è qualcosa che deve valere, cioè un bene finale che chiede di
essere realizzato attraverso attività a ciò orientate. E’ un fine, che contiene l’autorizzazione a
qualunque azione, in quanto funzionale al suo raggiungimento. In breve, vale il motto: il fine
giustifica mezzi. Tra l’inizio e la conclusione dell’agire “per valori” può esserci di tutto, perché
il valore copre di sé, legittimandola, qualsiasi azione che sia motivata dal fine di farlo valere.
Il più nobile dei valori può giustificare la più ignobile delle azioni: la pace può giustificare la
guerra; la libertà, gli stermini di massa; la vita, la morte eccetera. Perciò, chi molto sbandiera
i valori, spesso è un imbroglione. La massima dell’etica dei valori, infatti, è: agisci come ti
pare, in vista del valore che affermi. Che poi il fine sia raggiunto, e quale prezzo, è un’altra
questione e, comunque, la si potrà esaminare solo a cose fatte.
Se, ad esempio, una guerra preventiva promuove pace, e non alimenta altra guerra, lo si
potrà stabilire solo ex post. I valori, infine sono “tirannici”, cioè contengono una propensione
totalitaria che annulla ogni ragione contraria. Anzi, i valori stessi si combattono
reciprocamente, fino a che uno e uno solo prevale su tutti gli altri. In caso di concorrenza tra
più valori, uno di essi dovrà sconfiggere gli altri poiché ogni valore, dovendo valere, non
ammetterà di essere limitato o condizionato da altri. Le limitazioni e i condizionamenti sono
un almeno parziale tradimento del valore limitato o condizionato. Per questo, si è parlato di
“tirannia dei valori” e, ancora per questo, chi integralmente si ispira all’etica del valore è
spesso un intollerante, un dogmatico.
Il principio, invece, è qualcosa che deve principiare, cioè un bene iniziale che chiede di
realizzarsi attraverso attività che prendono da esso avvio e si sviluppano di conseguenza. Il
principio, a differenza del valore che autorizza ogni cosa, è normativo rispetto all’azione. La
massima dell’etica dei principi è: agisci in ogni situazione particolare in modo che nella tua
azione si trovi il riflesso del principio. Per usare un’immagine: il principio è come un blocco di
ghiaccio che, a contatto con le circostanze della vita, si spezza in molti frammenti, in
ciascuno dei quali si trova la stessa sostanza del blocco originario. Tra il principio e l’azione
c’è un vincolo di coerenza (non di efficacia, come nel valore) che rende la seconda
prevedibile. Infine, i principi non contengono una necessaria propensione totalitaria perché,
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quando occorre, quando cioè una stessa questione ne coinvolge più d’uno, essi possono
combinarsi in maniera tale che ci sia un posto per tutti. I principi, si dice, possono bilanciarsi.
Chi agisce “per principi” si trova nella condizione di colui che è sospinto da forze morali che
gli stanno alle spalle e queste forze, spesso, sono più d’una. Ciascuno di noi aderisce, in
quanto principi, alla libertà ma anche alla giustizia, alla democrazia ma anche all’autorità,
alla clemenza e alla pietà ma anche alla fermezza nei confronti dei delinquenti: principi in sé
opposti, ma che si prestano a combinazioni e devono combinarsi. Chi si ispira all’etica dei
principi sa di dover essere tollerante e aperto alla ricerca non della giustizia assoluta, ma
della giustizia possibile, quella giustizia che spesso è solo la minimizzazione delle
ingiustizie.
Passando ora da queste premesse in generale alle loro conseguenze circa il modo di
legiferare sulle questioni “eticamente sensibili” di cui si diceva all’inizio, avvicinandoci così
alle discussioni odierne sul tema dell’aborto, qui prese a esempio (ma ci si potrebbe riferire
anche ad altro, come l’eutanasia, la fecondazione assistita, ecc.), si può stabilire un’altra
differenza a seconda che si adotti l’etica dei valori o quella dei principi. Nel primo caso (il
caso del valore), saranno appaganti le norme giuridiche che proteggono in assoluto il bene
assunto come valore prevalente, e inappaganti le norme giuridiche che danno rilievo,
cercando di conciliarli relativizzandoli l’uno rispetto all’altro, a beni diversi. Possiamo parlare,
per gli uni, di assolutismo etico-giuridico; per i secondi, di pluralismo (non certo,
evidentemente, di relativismo etico, equivalente a indifferenza morale).
Nell’assolutismo, si trovano a casa propria tanto coloro che parlano dell’aborto, né più né
meno, come di un assassinio (oggi si dice “feticidio”), quanto coloro che ne parlano come
diritto incondizionato. Assassinio e diritto sono due modi per dire il riconoscimento assoluto,
come valori, della vita o della libertà. I primi, in nome del valore prevalente della vita del
concepito, si disinteressano di tutto il resto: la salute e la vita stessa della donna, messa in
pericolo dagli aborti illegali e clandestini; i secondi, in nome dell’autodeterminazione della
donna come valore prevalente, si disinteressano della sorte del concepito. Costoro, pur su
fronti avversi, si muovono sullo stesso terreno e possono farsi la guerra. Ma, tutti, si
troveranno insieme, alleati contro coloro che, ragionando diversamente, non accettano il loro
assolutismo.
Questo ragionar diversamente, cioè ragionar per principi, è certo assai più difficile, ma è ciò
che la Costituzione impone di fare: la Costituzione, ciò che ci siamo dati nel momento in cui
eravamo sobri, a valere per i momenti in cui siamo sbronzi. Orbene, la Costituzione,
attraverso l’interpretazione della Corte costituzionale, dice che nella questione dell’aborto ci
sono due aspetti rilevanti, due esigenze di tutela, due principi: l’uno, a favore del concepito
la cui situazione giuridica è da collocarsi, “con le particolari caratteristiche sue proprie”, tra i
diritti inviolabili della persona umana, il diritto alla vita; l’altro, a favore dei diritti alla vita e alla
salute, fisica e psichica, della madre, che può essere anch’essa “soggetto debole”. Quando
entrambe le posizioni siano in pericolo, occorre operare in modo di salvaguardare sia la vita
e la salute della madre, sia la vita del concepito, quando ciò sia possibile. Quando non è
possibile, cioè quando i due diritti entrano in collisione, deve prevalere la salvaguardia della
vita e della salute della donna, “che è già persona”, rispetto al diritto alla vita del concepito,
“che persona non è ancora”. Dunque: si parla di diritti della donna e del concepito, ma non si
parla mai di aborto come (dicono i giuristi) “diritto potestativo” della donna, né, al contrario, di
dovere di condurre a termine la gravidanza. Ci si deve districare tra le difficoltà e non ci sono
soluzioni a un solo lato.
Non interessa, ora, se la legge 194 bene abbia svolto il suo compito. Interessa il modo di
ragionare e di porsi di fronte a questo “problema grave”, un modo non intollerante, carico di
tutte le possibili preoccupazioni morali, aperto alla considerazione di tutti i principi coinvolti.
Se nel dibattito pubblico, si usano quelli che si sono detti “esangui fantasmi in lotta per
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diventare i tiranni unici delle coscienze”, cioè i valori, la legge che ne verrà sarà solo
sopraffazione.
C’è poi un altro aspetto della distinzione valore-principi, importante per il legislatore. Il
ragionare per valori è compatibile, anzi esige leggi tassative: tutto o niente, bianco o nero,
lecito o illecito, vietato o permesso. Il ragionar per principi spesso induce la legge a fermarsi
prima, rinunciare alle regole generali e astratte e a rimettere la decisione ultima alla
decisione responsabile di chi opera nel caso concreto. Prendiamo la discussione odierna
circa la sorte degli “immaturi”, i nati diverse settimane prima del tempo, portatori di
deficienze nello sviluppo di organi e funzioni destinate a pesare più o meno pesantemente
sull’esistenza futura, sempre che ci sia. C’è un qualunque legislatore che possa
ragionevolmente imporre una regola assoluta circa il che fare? Per esempio, la rianimazione
sempre e a ogni costo, senza considerare nient’altro? Solo la cieca assunzione della vita
come valore assoluto, della vita come mera materia vivente, potrebbe giustificarla. Ma
sarebbe, in molti casi, un arbitrio. Ogni caso è diverso dall’altro e i rigidi automatismi legali,
quando si tratta di principi da far valere in situazioni morali di conflitto, si trasformano in
sopraffazione.
C’è un dialogo classico tra Alcibiade e Pericle, riferito da Senofonte, che ci fa pensare. Il
discepolo chiede al maestro, semplicemente: che cosa è la legge? Pericle risponde: ciò che
l’assemblea ha deciso e messo per iscritto. Anche la sopraffazione, decisa e messa per
iscritto? No, questa non sarebbe legge. E’ legge solo quella che riesce a “persuadere” tutti
quanti, il resto è solo violenza in forma legaIe. Chi professa valori assoluti non si propone di
persuadere ma di imporre. Chi ragiona per principi può sperare, districandosi nella difficoltà
delle situazioni complicate, di essere persuasivo; naturalmente a condizione che si sia
ragionevoli, non fanatici.
721 - I DIRITTI DIMENTICATI – STEFANO RODOTA’
da: la Repubblica di lunedì 25 febbraio 2008
Negli ultimi giorni l’agenda elettorale è cambiata. Sembrava che i temi riguardanti i diritti
civili, le questioni «eticamente sensibili» dovessero rimanerne fuori, per una tacita intesa tra i
grandi contendenti, timorosi di discussioni difficili che potevano rendere più polemici i
confronti, e così provocare divisioni all’interno di Pd e Pdl. Le cose sono andate
diversamente.perché qualche irriducibile non si rassegnava a questa rimozione e,
soprattutto, perché una cronaca impietosa mostrava una realtà insensibile agli
ammiccamenti tra i partiti, com’è avvenuto a Napoli quando una donna che aveva appena
interrotto una difficile gravidanza si è trovata nelle mani della polizia. Da qui una fiammata di
consapevolezza, con le donne che si riprendono la piazza e la parola; con categorie
professionali abitualmente assai prudenti, come quella dei medici, che assumono posizioni
nette; conl’arrivo nel Pd delle candidature «scandalose» dei radicali e di Umberto Veronesi.
Qualcuno dirà, ancora una volta, che le elezioni si vincono dando risposte precise ai bisogni
materiali, che oggi sono quelli dell’economia, del fisco, del lavoro, della crescita dei prezzi,
della sicurezza. In tempi tanto difficili, i diritti civili vecchi e nuovi appartengono ad un
«secondo tempo» della politica, sono un lusso che ci si può permettere solo dopo aver
risolto le questioni davvero urgenti.
«Prima la pancia, poi vien la morale» - canta alla fine del secondo atto dell’Opera da tre
soldi di Bertolt Brecht «il re dei mendicanti», Mackie Messer. Ma può la politica vivere senza
ideali, senza gettare il suo sguardo al di là delle contingenze, non per sfuggire ad esse, ma
per coglierne il significato più profondo? «L’uomo non vive di solo pane, ma di ogni parola
che viene dalla bocca di Dio».Anche il non credente coglie in questo passo del Vangelo di
Matteo un insegnamento che non può essere trascurato, e che consiste appunto nella
necessità di trarre ispirazione da qualcosa che non consista solo nell’amministrazione del
quotidiano.
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Ma - si può ancora obiettare - tutti i sondaggi ci mostrano che temi come il testamento
biologico o le unioni di fatto raccolgono un consenso modesto.
Ora, a parte la considerazione che i risultati dei sondaggi sono fortemente influenzati dal
momento in cui sono effettuati e dal modo in cui sono strutturate le domande, l’esistenza di
un gruppo di elettori sia pur limitato, ma che farà le sue scelte proprio in base al modo in cui
i partiti si pronunceranno su quelle questioni, deve far riflettere quanti sottolineano che il
risultato elettorale dipenderà probabilmente dall’orientamento di fasce ristrette dell’elettorato.
E, se si vuole rimanere nella dimensione dei sondaggi, vale la pena di ricordare che,
quand’era ministro della Salute, Umberto Veronesi aveva un gradimento altissimo, superiore
a quello degli altri suoi colleghi di Governo.
Nasce forse da qui il risentimento di alcuni ambienti per le candidature dei radicali e di
Veronesi, per il comunicato sui temi della nascita della Federazioni dei medici. Si chiede
chiarezza, ma in realtà si è disturbati proprio dal fatto che quelle candidature sono
chiarissime, comprensibili per i cittadini senza distorsioni tattiche. Disturbano perché
rifiutano il monopolio dell’etica da parte di chicchessia, perché manifestano convinzioni forti,
ma in nome del dialogo e del confronto, non della pretesa di schiacciare gli altri sotto il peso
di «valori non negoziabili». E’ buona cosa per la democrazia quando tutte le opinioni
possono stare in campo con eguale forza e dignità.
Alle considerazioni contenute nel comunicato della Federazione di medici dovrebbero
essere riservati lo stesso rispetto e attenzione che ambienti e giornali cattolici dedicarono,
qualche settimana fa, a quel che disse un gruppo di primari medici romani sulla necessità di
rianimare i feti nei casi di aborti tardivi. Si è sostenuto, da parte dell’«Avvenire», che quel
testo non corrisponde al documento effettivamente votato. Chiarimenti a parte su questo
aspetto, è bene ricordare che lo stesso giornale riconosce che nella Federazione sono
ufficialmente emerse posizioni critiche sulla legge sulla procreazione assistite e di pieno
sostegno alla legge sull’aborto ed alla pillola del giorno dopo. Come si diede piena legittimità
alla privata presa di posizione dei primari romani, allo stesso modo si deve riconoscere
rilevanza ad una posizione espressa nell’ambito della massima organizzazione dei medici,
se non altro perché smentisce la tesi tante volte avanzata di un massiccio rifiuto dei medici
delle nuove tecniche che la scienza mette a disposizione delle donne.
Arricchita l’agenda elettorale con gli ineludibili temi che riguardano la vita delle persone e i
loro diritti, si tratta ora di vedere come questa novità sarà gestita politicamente. La salute si
presenta giustamente come un tema centrale, che sollecita l’autocandidatura di Giuliano
Ferrara ad occupare quel ministero e fa nascere il timore che, invece, il ministro possa
essere proprio Umberto Veronesi. Al futuro ministro, quale che sia, conviene ricordare che,
proprio in materia di salute, l’articolo 32 della Costituzione stabilisce che «la legge non può
in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana». E’, questa, una
delle dichiarazioni più forti della nostra Costituzione, poiché pone al legislatore un limite
invalicabile, più incisivo ancora di quello previsto dall’articolo 13 per la libertà personale, che
ammette limitazioni sulla base della legge e con provvedimento motivato del giudice.
Nell’articolo 32 si va oltre. Quando si giunge al nucleo duro dell’esistenza, alla necessità di
rispettare la persona umana in quanto tale, siamo di fronte all’indecidibile. Nessuna volontà
esterna, fosse pure quella coralmente espressa da tutti i cittadini o da un Parlamento
unanime, può prendere il posto di quella dell’interessato. Il governo del corpo e della vita
appartiene all’autonomia della persona. Un principio non ispirato da una deriva
individualistica, ma memore dell’orribile sperimentazione dei medici nazisti, processati
proprio mentre si scriveva la nostra Costituzione. E da quella esperienza nacque il Codice di
Norimberga, che subordina ogni intervento sul corpo al consenso dell’interessato.
Tornando al presente, si deve sperare che non si avvii una spirale «compensativa», un
bilanciamento affidato a candidature cattoliche. Se così fosse, il Pd diverrebbe prigioniero di
una schizofrenia paralizzante, la stessa che nella passata legislatura ha impedito ai disegni
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di legge sul testamento biologico e sulle unioni di fatto di arrivare in aula. E, poiché è tempo
di programmi e di promesse e Veltroni ha parlato della immediata presentazione in
Parlamento di una serie di proposte se vincerà il suo partito, si può chiedere un altro
impegno. Qualora il Pd non raggiunga la maggioranza, presenti lo stesso le sue proposte e
usi gli spazi e i tempi riservati alle opposizioni dai regolamenti parlamentari per chiederne la
discussione e sollecitarne il voto.
Certo, in questo modo si corre il rischio della bocciatura. Ma sarebbe peggiore il silenzio, e il
rifiuto di chiedere il consenso sociale, di promuovere in concreto la cultura dei diritti. Vi sono
comportamenti «impolitici» che sono il miglior antidoto all’antipolitica.
722 - LE RELIGIONI, LA FRATELLANZA E IL TOTALITARISMO - ULRICH BECK
Da: la Repubblica di venerdì 29 febbraio 2008
L’umanità della religione reca in sé una tentazione totalitaria. L’universalismo della religione
genera la fratellanza al di là della classe e della nazione, ma anche l’ostilità mortale. Così
come può civilizzare gli uomini, Dio può anche barbarizzarli.
Prima tesi. La religione presuppone un valore assoluto: la fede - tutte le differenze e i
contrasti sociali sono subordinati ad essa e irrilevanti. il Nuovo Testamento dice: «Davanti a
Dio tutti sono uguali». Questa uguaglianza, questa cancellazione dei confini che separano le
persone, i gruppi, le società, le culture è il fondamento sociale delle religioni (cristiane). Ne
consegue però che, con la medesima assolutezza con la quale sono superate le differenze
sociali e politiche, viene istituita una nuova distinzione fondamentale e una nuova gerarchia:
quella tra fedeli e infedeli, dove agli infedeli viene negato (in base alla logica di questo
dualismo) lo status di persona. Le religioni possono gettare ponti tra gli uomini là dove
esistono gerarchie e confini; nello stesso tempo, scavano nuovi abissi religiosi tra gli uomini,
là dove prima non ne esistevano.
L’universalismo umanitario dei credenti si basa sull’identificazione con Dio e sulla
demonizzazione del Dio che gli si oppone, quello dei «servi di Satana», per usare
l’espressione di San Paolo e di Lutero. Il germe della violenza che si richiama a motivazioni
religiose è radicato nell’universalismo dell’uguaglianza dei credenti, che toglie a chi non ha
una fede o ha una fede diversa ciò che promette al credente: la dignità umana in un mondo
di estranei.
Gli dei unici e le loro verità eterne creano le categorie, odiose e gravide di violenza, del nonuomo o del sottouomo - «eretico», «pagano», «superstizioso», «idolatra», ecc. Il «male»
rappresentato da questi «figli delle tenebre» si riferisce ad azioni e pensieri al di là di
qualsiasi immaginazione, di qualsiasi giustificazione, di qualsiasi possibilità di difesa. Questo
fa temere che, come rovescio della medaglia del fallimento della secolarizzazione, incomba
una nuova era di oscurantismo. I ministeri della Salute avvertono: la religione può uccidere.
La storia della colonizzazione è un esempio evidente di come la categoria dell’infedele, che
deve essere convertito per la salvezza della sua anima, sia servita a «legittimare»
inimmaginabili violenze e crudeltà. Lo confermano con aperta brutalità le parole di Cristoforo
Colombo, per il quale la diffusione della fede «e la riduzione in schiavitù degli infedeli sono
strettamente legate tra loro».
La demonizzazione religiosa dell’«altro» è efficacemente illustrata anche dalla «guerra dei
matrimoni misti» tra cristiani cattolici e protestanti, infuriata nel XIX e nel XX secolo e tuttora
in corso. Questo fondamentalismo confessionale, che non vuole vedere e riconoscere
nell’«infedele» l’altro cristiano, incontra un rifiuto sempre più deciso proprio da parte dei
fedeli praticanti. Qui, come riferisce Hans Joas, è avvenuta un’inversione dell’onere della
prova riguardo alla cooperazione ecumenica: «A dover essere giustificata è sempre più la
sua mancanza, non la sua presenza».
Seconda tesi. Già solo la domanda: Cos’è la religione? Rivela un riflesso eurocentrico.
Infatti, la religione è intesa come sostantivo, e questo sottintende un insieme ben definito di
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simboli e pratiche che costituiscono un aut-aut: vi si può credere o non credere e, se si
appartiene a una comunità di fede, non si può appartenere nello stesso tempo a un’altra. In
questo senso è opportuno e necessario tracciare una distinzione tra «religione» e
«religioso», tra la religione come sostantivo e come aggettivo.
Il sostantivo «religione» ordina il campo religioso in base alla logica dell’aut-aut. L’aggettivo
«religioso», invece, lo ordina in base alla logica del «sia ... sìa». L’essere religioso non
dipende dall’appartenenza a uno specifico gruppo o a una specifica organizzazione;
piuttosto, definisce un determinato atteggiamento nei confronti delle domande esistenziali
che riguardano la posizione e l’autocomprensione dell’uomo nel mondo.
Forse, allora, l’ambiguità tra amore per il prossimo e inimicizia mortale deve essere riferita
non tanto al «religioso», quanto piuttosto alla «religione». Questo aut-aut monoteistico,
gravido di violenza, può essere relativizzato, aggirato, attenuato da una tolleranza
sincretistica del «sia... sia»?
L’autorità di principio della fede rianimata è l’Io sovrano, che si costruisce un «Dio tutto suo».
Ciò che cosi si delinea non è la fine della religione, ma la rinascita di una nuova anarchia
della fede soggettiva, che travalica tutti i confini di religione e si adatta sempre meno alle
strutture dogmatiche approntate dalle religioni istituzionalizzate. L’unità di religione e
religioso viene meno. Anzi, religione e religioso entrano in contrasto.
Nelle società occidentali, che hanno interiorizzato il principio dell’autonomia dell’individuo, la
singola persona si crea, in un’indipendenza sempre più ampia, quelle piccole narrazioni di
fede - il «Dio tutto suo» - che si adatta alla «propria» vita e al «proprio» orizzonte di
esperienza. Questo «Dio tutto suo» non è più il Dio unico che prescrive la salvezza
reclamando per sé la storia e autorizzando all’intolleranza e alla violenza. Stiamo assistendo a un ritorno dal monoteismo della religione al politeismo del religioso sotto il segno
del «Dio tutto nostro»?
Che questa tolleranza sincretistica non solo si diffonda nello spazio della religiosità
svincolata da appartenenze confessionali, ma venga praticata con grande naturalezza
anche in forme istituzionali, è un fatto che può essere osservato ad esempio in Giappone.
Qui le persone non vedono alcun problema nel frequentare in certi periodi dell’anno un
tempio shintoista, nel celebrare il matrimonio con una cerimonia cristiana e nell’essere
sepolti da un monaco buddista. Il sociologo della religione Peter L. Beger cita il filosofo
giapponese Nakamura, che riassume così la questione: «L’Occidente è responsabile di due
errori fondamentali. Il primo è il monoteismo - “c’è un solo Dio?” -; l’altro è il principio
aristotelico di non contraddizione - “qualcosa è A o non-A?”. Qualsiasi persona intelligente in
Asia sa che ci sono molti dei e che le cose possono essere sia A che non-A».
Terza tesi. Se le religioni hanno superato frontiere territoriali e nazionali che sembravano
invalicabili e hanno poi scavato nuovi abissi tra credenti e non credenti, qual è la novità,
allora? Lo sviluppo delle tecnologie della comunicazione e la vicinanza universale da esse
consentita porta al contatto e alla compenetrazione delle religioni mondiali, provocando un
clash of universalisms, cioè uno scontro onnipresente delle verità rivelate e una tendenza
alla reciproca demonizzazione dei credenti di altre fedi. Qualsiasi persona, credente o non
credente, di qualunque orientamento religioso o non religioso, si vede trasferita
contemporaneamente nella patria dei credenti (o degli atei) e nella potenziale condizione
exlege dei non credenti (agli occhi di chi appartiene a un’altra religione). Questo
trasferimento coatto risveglia e alimenta paure diffuse, che caricano di significati religiosi i
contrasti e i conflitti politici, facendoli esplodere violentemente.
Clash of universalisms significa che nella vita privata e nei dibattiti pubblici mondiali si
impone inevitabilmente un’esigenza di giustificazione e di riflessività, là dove prima
predominava la sicurezza circolare in sé stessi. Rifiutare queste esigenze di giustificazione,
cioè perseguire con ogni mezzo la riaffermazione dell’indiscutibilità delle certezze di fede
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divenute problematiche è l’impegno principale dei movimenti fondamentalisti di ogni parte
del mondo.
Qui emerge una nuova linea di conflitto, forse destinata in futuro ad acquisire una
straordinaria importanza, cioè la linea che separa le correnti religiose che danno spazio al
dubbio e anzi vedono in esso una possibilità di salvezza della religione da quelle che, per
difendersi dal dubbio, si barricano nella costruita «purezza» della loro fede. Il teologo
Friedrich Wilhelm Graf constata che «le religioni rigide offrono molto ai consumatori:
un’identità forte e stabile, un’interpretazione del mondo e del tempo, resistente alle crisi,
strutture familiari ordinate e fitte reti di solidarietà».
Nella lotta contro la «dittatura del relativismo» papa Benedetto XVI difende la gerarchia
cattolica della verità, che segue la logica dello skat (gioco di carte tedesco, simile alla
briscola, ndt): la fede vince sull’intelletto. La fede cristiana vince su tutte le altre fedi (in
particolare sull’Islam). La fede cattolica-romana è il fante di fiori che batte tutti gli altri
giocatori di skat della fede cristiana. E il papa è l’asso pigliatutto nel mazzo di carte della
verità dell’ortodossia cattolica.
Quarta tesi. Premesso che la speranza del secolarismo (più modernità avrebbe significato
meno religione) si è dimostrata sbagliata, la questione di una convivenza civile tra religioni
ostili si pone con rinnovata urgenza. Come è possibile un tipo di tolleranza interreligiosa
dove l’amore per il prossimo non significhi inimicizia mortale, cioè un tipo di tolleranza il cui
fine non sia la verità, ma la pace?
Mahatma Gandhi trasformò la sua esperienza religiosa in politica che cambia il mondo: si
tratta di diventare capaci di vedere il mondo, anche il mondo della propria religione, con gli
occhi degli altri. Da ragazzo Gandhi era stato in Inghilterra per studiare diritto. Questo
soggiorno in uno dei Paesi più importanti dell’Occidente cristiano non lo allontanò
dall’induismo, ma anzi glielo fece comprendere meglio e rese più profonda la sua fede.
Infatti, fu in Inghilterra che su consiglio di un amico Gandhi iniziò la lettura, per lui
illuminante, della Bhagavad Gita - in traduzione inglese. Solo in seguito egli si dedicò allo
studio intensivo del testo indù in sanscrito. Dunque, attraverso gli occhi dei suoi amici
occidentali era arrivato a scoprire la ricchezza spirituale della propria tradizione indù.
Ovunque si discute e si polemizza con foga sul «problema» dell’Islam nell’Europa
«secolarizzata». Al di sotto delle battaglie combattute dai guerrieri religiosi di tutto il mondo
per la difesa delle frontiere sta acquistando realtà e importanza l’astuzia del plusvalore
cooperativo: i gruppi possono essere intolleranti per quanto riguarda la teologia dell’altro, ma
possono comunque collaborare creativamente per realizzare obiettivi pubblici e condivisi. I
custodi e i difensori a oltranza dei dogmi teologici potrebbero imparare da questa «ragione
della doppia religione».
Oggi la questione decisiva per la sopravvivenza dell’umanità è fino a che punto la verità può
essere sostituita dalla pace. Ma la speranza in un amore del prossimo senza inimicizia
mortale non è la speranza più inverosimile, ingenua, folle, assurda che si possa concepire?
(Traduzione di Carlo Sandrelli)
723 - INGERENZE E CONDISCENDENZE - MARGHERITA HACK
da: “Il papa oscurantista. Contro le donne, contro la scienza” - Micromega - marzo 2008
Papa Ratzinger, anzi l’emerito professor Ratzinger, è proprio l’esatto contrario di quello che
fu papa Giovanni XIII, il papa di origine contadina, il papa dell’apertura, il papa padre
amorevole. Evidentemente non sempre la cultura accademica serve ad aprire l’intelletto.
Anche se il nostro cosiddetto Stato laico è sempre stato anche troppo accondiscendente
verso il Vaticano, ora si sta andando oltre ogni limite. I privilegi di cui gode il Vaticano sono
stati efficacemente ricordati in un bell’articolo di Flores d’Arcais apparso sull’Unità di qualche
settimana fa, dal significativo titolo: «Chiagne e fotte».
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In questi mesi di regno ratzingeriano sono stati ribaditi i no alle unioni di fatto sia etero che
omosessuali (vade retro satana!) e al testamento biologico, sono stati riaffermati la
supremazia della fede sulla ricerca scientifica e l’obbligo di accettare una vita comunque sia,
perché dono di Dio, anche se questo dono è una continua insopportabile tortura, sono
ricominciati, con l’aiuto degli «atei devoti», gli attacchi alla legge 194 fino a definire
assassine le donne costrette ad abortire eccetera.
Eppure sono dati obiettivi che indicano quanto siano diminuiti gli aborti da che è in vigore la
194.
Ma con quale logica la Chiesa combatte l’aborto e, allo stesso tempo, si scaglia con
altrettanto accanimento contro tutti i mezzi per evitare il concepimento: no al preservativo,
anche se non usarlo significa esporsi al rischio dell’aids, no alla pillola contraccettiva, no a
quella del giorno dopo, no a un aborto meno invasivo e traumatico, no a ogni forma di seria
educazione sessuale. E ora l’ultima novità: rianimare un feto ancora vitale, anche contro la
volontà della madre, per tirar su un povero individuo quasi certamente affetto da gravi
problemi fisici e psichici. Quindi no alla ricerca sulle cellule staminali embrionali perché la
vita di un embrione (che potrebbe averci già l’anima, anche se mi piacerebbe sapere che
cosa sia davvero l’anima) è sacra, ma sì a esperimenti di rianimazione di un povero
esserino, trattato come cavia, per donargli una vita da un futuro quanto mai incerto.
Quello che offende è vedere quanto poco si rispetti la volontà della donna, che è quella che
dovrà affrontare tutte le difficoltà connesse con la nascita di un figlio non voluto, per il quale
non si sente preparata psicologicamente o per problemi economici legati al proprio lavoro, e
come pontifichino sulle sue decisioni uomini che non hanno nessuna conoscenza o
esperienza dei problemi che una donna che decide di abortire affronta.
Come se non bastassero le polemiche sulla 194 e sulla ricerca sulle cellule staminali
embrionali, sulle assurdità della legge 40 (su cui è opportunamente intervenuta la
magistratura), c’è stata tutta una montatura sull’episodio dell’Università La Sapienza. Come
ormai sanno anche i sassi, il rettore, senza nemmeno aspettare il parere del senato
accademico, aveva invitato papa Ratzinger all’inaugurazione dell’anno accademico,
addirittura a tenere la lezione magistrale. Molti docenti hanno ritenuto inopportuno questo
invito e, come è loro diritto, hanno espresso il loro dissenso.
È bastato questo perché si parlasse di pericoli di contestazione al papa, della necessità di
mobilitare la polizia in sua difesa. Ora: un professore che tiene una lezione deve essere
disposto ad accettare confronti, discussioni e contestazioni. E invece tutta la faccenda è
stata gonfiata come se il papa corresse seri pericoli e fosse infine stato costretto a rinunciare
alla cerimonia di apertura dell’anno accademico.
Dovrebbe invece essere ben chiaro che il papa ha deciso liberamente di non partecipare,
come liberamente i docenti e gli studenti che ritenevano inopportuno l’invito del rettore
hanno espresso il loro parere, come si usa in ogni democrazia, che non c’è stata alcuna
minaccia, ma solo l’espressione dell’opinione che l’inaugurazione dell’anno accademico
dovrebbe essere l’occasione per fare un bilancio delle attività scientifiche e didattiche
dell’università e che sarebbe meglio evitare inviti chiaramente di parte, soprattutto a persona
che più volte ha ribadito la supremazia della fede sulla scienza, e di conseguenza anche il
«giusto processo» subito da Galileo. La storia si ripete, oramai nessuno dubita che sia la
Terra a girare attorno al Sole e non viceversa, ma rimane questione di fede che l’embrione
abbia l’anima e perciò si vietano ricerche che potrebbero portare a straordinari progressi
nella cura di malattie a tutt’oggi inguaribili.
I 67 della Sapienza non saranno processati. Ma hanno avuto severe critiche da laici e
credenti, da politici di destra e di sinistra per avere semplicemente esercitato un loro
sacrosanto diritto.
724 - PRESENTAZIONE A BOLOGNA DEL LIBRO “NON SONO UN ASSASSINO”
31
Venerdì 14 marzo, alle ore 17:00, presso la sede dell’Istituto storico Parri dell’EmiliaRomagna in Bologna, Via Sant’Isaia 20 (tel. 051.3397211), si terrà un incontro su: “Bioetica
e problematiche di fine vita: tra testamento biologico e diritto all’eutanasia. Il caso francese, il
caso italiano”.
Sono previsti interventi di: Giancarla Codrignani (istituto Parri), Mario Riccio (medico
specialista in anestesia e rianimazione), Paolo Vegetti (direttivo nazionale di LiberaUscita),
Christiane Krzyzyk (traduttrice del libro “Je ne suis pas un assassin”), Angelo Marchesini
(consigliere comunale di Bologna), Rino Tripodi (direttore di LucidaMente).
Nel corso dell’incontro, sarà presentato per la prima volta a Bologna il libro “Non sono un
assassino” - Il caso Welby-Riccio francese.
Come scrive nella prefazione all’edizione italiana Mario Riccio, il medico che ha assistito
Piergiorgio Welby nella fase terminale della sua vita e che è stato protagonista – anche sul
piano giudiziario – di una vicenda praticamente analoga a quella del medico francese
Frédéric Chaussoy, autore del libro, «è un testo forte, crudo, diretto. Non si perde intorno al
problema ma lo affronta direttamente. Così come non poteva non fare un medico
dell’emergenza».
Un libro che va alle radici del difficile dibattito sulle ragioni della vita e della morte.
“Non sono un assassino” - Il caso Welby-Riccio francese - Di Frédéric Chaussoy, scritto con
la collaborazione di Valérie Péronnet, prefazione di Mario Riccio, introduzione di Giancarlo
Fornari, traduzione dal francese di Christiane Krzyzyk. Edizione italiana a cura di
LiberaUscita, associazione nazionale laica e apartitica per la legalizzazione del
testamento biologico e la depenalizzazione dell’eutanasia. inEdition editrice, collane di
Lucidamente, pagine 176 - € 10,00.
725 - “NON SONO UN ASSASSINO” – RECENSIONE DI GIUSEPPE LICANDRO
da: www.bottegascriptamanent.it - anno II, n. 7, marzo 2008
Luca Coscioni, Giovanni Nuvoli e Piergiorgio Welby sono stati, in Italia, i casi più eclatanti di
persone inferme che hanno chiesto ai loro medici di interrompere un’esistenza ormai
gravosa. Pur rendendoci conto che il tema dell’eutanasia è molto delicato e ferisce i
sentimenti e le convinzioni etico-religiose di tante persone, ci domandiamo come si possano
biasimare i tetraplegici che chiedono espressamente di porre fine ai loro tormenti esistenziali
o i malati terminali che rifiutano inutili terapie, spesso consistenti in trattamenti medici coatti
e dolorosi, che finiscono solo per prolungarne l’agonia.
Nel 2004 Frédéric Chaussoy, medico responsabile del servizio di rianimazione dell’Ospedale
eliomarino di Berck-sur-Mer, ha pubblicato lo scritto Je ne suis pas un assasin (Oh!
editions), nel quale racconta il tragico caso di Vincent Humbert, un giovane pompiere
francese di diciannove anni che il 24 settembre 2000 fu coinvolto in un grave incidente
stradale.
Ricoverato presso l’Unità dei risvegli dell’Ospedale eliomarino di Berck-sur-Mer, Humbert,
dopo nove mesi di coma, si ridestò in condizioni disastrose: tetraplegico, muto e quasi cieco.
Qualche tempo dopo iniziò a muovere il pollice destro, per mezzo del quale riuscì a
comunicare con la madre Marie e a rivolgere all’allora presidente della Repubblica, Jacques
Chirac, un appello che fu diffuso dalla stampa ed emozionò la Francia intera.
In questa supplica Humbert chiese di poter esercitare “il diritto di morire”, ma la sua
preghiera rimase inascoltata per tre anni, finché la madre non tentò di esaudire il suo
desiderio, somministrandogli una forte dose di barbiturici. Trasferito d’urgenza presso il
reparto di rianimazione, il giovane ottenne, infine, grazie all’intervento del dottor Chaussoy,
quanto aveva lungamente richiesto.
Je ne suis pas un assasin – che ha avuto in Francia un gran successo editoriale, vendendo
ben 100.000 copie – è stato ora tradotto in italiano col titolo Non sono un assassino. Il “caso
Welby-Riccio” francese (Prefazione di Mario Riccio e Introduzione di Giancarlo Fornari,
32
Edizioni di LucidaMente/inEdition editrice, pp. 176, € 10,00), a cura dell’Associazione
“LiberaUscita”, che si batte per legalizzare il testamento biologico e depenalizzare
l’eutanasia, e con la collaborazione di Valérie Péronnet.
Nella Prefazione Mario Riccio – l’anestesista che ha aiutato Piergiorgio Welby nella fase
terminale della sua vita e che è stato protagonista in Italia di una storia molto simile a quella
di Chaussoy – così presenta il libro: «È un testo forte, crudo, diretto. Non si perde intorno al
problema ma lo affronta direttamente. Così come non poteva non fare un medico
dell’emergenza».
Un’appassionata autodifesa
Non sono un assassino è l’appassionata autodifesa di colui che ha permesso a Humbert di
porre fine ai suoi insensati tormenti.
Chaussoy narra tutta la sua vita e redige una sorta di diario, in cui ci fa capire come sia
maturata in lui la decisione di aiutare Vincent a morire, alternando il racconto dell’affaire
Humbert con brevi excursus sulla propria professione medica e su vicende personali.
L’autore, tra l’altro, ci informa, di un particolare molto importante: in un primo tempo, ha
provveduto a rianimare il giovane pompiere il 24 settembre 2003, lo stesso giorno in cui la
madre gli ha somministrato i sonniferi.
Due giorni dopo, essendosi nel frattempo interrogato a lungo sulla legittimità dell’eutanasia,
decide di confrontarsi con l’èquipe medica del suo reparto per stabilire come procedere:
Humbert, infatti, ha subito danni celebrali seri, non ha più ripreso conoscenza e sopravvive
ormai tramite un respiratore meccanico. I colleghi convengono con lui sull’opportunità di
«interrompere le terapie attive», cioè di non proseguire più il trattamento per mantenere in
vita artificialmente il ragazzo.
Chaussoy, a questo punto, compie un gesto coraggioso, senza pensare alle possibili
conseguenze legali: stacca la spina del respiratore che tiene artatamente in vita Humbert e
gli somministra due dosi di un neurosedativo, che ne accelerano la morte (altrimenti il
paziente, senza più ossigeno, sarebbe morto lentamente per asfissia, dopo un’atroce
agonia).
L’accusa di omicidio e l’assoluzione
Tutti gli atti compiuti da Chaussoy testimoniano la sua serietà professionale e la sua
scrupolosità: infatti, egli avrebbe potuto liberarsi subito da ogni impiccio, lasciando che
Vincent, giunto nel suo reparto già in coma, morisse avvelenato dai barbiturici. Il suo primo
impulso, però, è stato quello di rianimarlo, operando secondo l’usuale prassi deontologica;
solo in un secondo momento ha deciso di comportarsi diversamente, assumendosi fino in
fondo le responsabilità della propria scelta.
La notizia del decesso di Humbert rimbalza subito sui mass-media. E uno zelante giudice
istruttore incrimina per omicidio Chaussoy, dopo aver ricevuto il verbale di un lungo
interrogatorio cui è stato sottoposto dalla polizia locale.
Il dottore ha raccontato con lealtà l’andamento dei fatti, ammettendo di aver sedato il
paziente dopo avergli sospeso la “terapia attiva”. La sua sincerità gli costa una grave
imputazione, che rischia di rovinare la sua vita e quella dei suoi familiari (Chaussoy ha ben
cinque figli da mantenere!).
Il medico di Berck-sur-Mer diventa, suo malgrado, famoso e migliaia di attestati di stima e di
solidarietà gli giungono da vari colleghi, ma anche da tanti altri cittadini.
L’indagine si protrarrà per un paio di anni, concludendosi nel 2006 con la piena assoluzione
di Chaussoy e della madre di Humbert, perché, secondo il giudice, hanno agito in base a
ragioni di alto valore umanitario e «sotto l’influenza di una costrizione che esonera gli
imputati da qualsiasi responsabilità penale».
L’“imprudenza” di Chaussoy
Una frase del libro riassume pienamente la filosofia che sta dietro la scelta di Chaussoy:
«Dobbiamo sapere anche fermarci nella lotta contro la morte, con dolcezza e rispetto,
33
quando si è provato troppo a prolungare la vita, e questa diventa indegna». Non sarebbe
stato, dunque, un atto di violenza, bensì d’amore quello eseguito dal medico francese.
Bisogna, infatti, essere altamente altruisti per trovare la forza di compiere un gesto
umanitario che potrebbe comportare dure sanzioni penali.
Chaussoy ci fornisce, altresì, un significativo ragguaglio su ciò che spesso avviene, di
nascosto, nei reparti di rianimazione degli ospedali: «La gente che muore nei reparti di
rianimazione, superattrezzati di macchine per la vita, muore perché a un certo momento è
stata presa la decisione di non utilizzare più queste macchine per mantenerla in vita». La
cosiddetta “eutanasia passiva” – che consiste semplicemente nell’interrompere ogni cura per
le malattie gravissime e irreversibili – è spesso praticata in silenzio, talvolta
accompagnandola “attivamente” con iniezioni di anestetici che servono ad alleviare le
sofferenze dei degenti e ne affrettano l’inevitabile decesso.
L’“imprudenza” del dottor Chaussoy, quindi, è consistita proprio nell’aver detto la verità: se
avesse omesso i particolari e si fosse limitato a parlare di «sopraggiunte complicazioni», non
sarebbe stato coinvolto nell’inchiesta sulla morte del giovane pompiere.
Sull’onda del dibattito fra “colpevolisti” e “innocentisti” suscitato dal “caso Humbert” (che
ricorda in certo qual modo l’affaire Dreyfus di fine Ottocento), è stata poi approvata dal
parlamento francese una legge che prevede la possibilità per i medici di interrompere le cure
dei malati terminali, ma che non contempla, tuttavia, il ricorso ad alcuna forma di “morte
dolce”.
Eutanasia e testamento biologico
Nelle Appendici del libro sono riportati, oltre a una serie di utili informazioni sull’Associazione
“LiberaUscita”, anche la proposta di legge per la depenalizzazione dell’eutanasia e il
disegno di legge per la legalizzazione del testamento biologico (i due testi sono stati già
presentati in Parlamento nel corso della corrente legislatura).
Senza entrare nel merito delle due proposte di legge ancora da discutere, vorremmo
comunque fornire ai lettori alcuni chiarimenti in merito agli argomenti che vi vengono trattati.
L’articolo 32 della Costituzione italiana dispone che: «Nessuno può essere obbligato a un
determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in
nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana».
Un’interpretazione corretta di tale articolo dovrebbe comportare che ogni malato, purché sia
nel pieno possesso delle proprie facoltà mentali, possa rifiutare le terapie che gli vengono
prescritte, anche a costo di morire. Il disegno di legge sul testamento biologico recepisce
questa norma, permettendo a ciascuno di esprimere per iscritto – come spiega Giancarlo
Fornari nell’Introduzione del libro – «il proprio consenso o dissenso nei confronti di
determinate cure, esercitando così il diritto concesso a tutti i cittadini dalla nostra
Costituzione».
L’eutanasia, invece, consiste – usando sempre le parole di Fornari – nel «procurare, in casi
prestabiliti e con tutte le necessarie garanzie, la morte di una persona, pienamente capace
di intendere e di volere, che la richiede».
Quindi, le due questioni vanno ben distinte e opportunamente valutate.
Ci rendiamo conto che l’eutanasia è una pratica discutibile e assolutamente non
generalizzabile. Ma questo non significa che, in talune situazioni di malattia e infermità
particolarmente gravi e su esplicita richiesta dell’interessato, non possa essere quantomeno
depenalizzata.
Ci pare, viceversa, certamente auspicabile l’approvazione del “testamento biologico”, cioè di
una legge che consenta ai cittadini, tra l’altro, di decidere per tempo se accettare o meno il
trattamento medico coatto nel caso in cui incorrano in gravissime patologie o in traumi
estremamente invalidanti (impedendo così il cosiddetto “accanimento terapeutico”, che in
realtà è solo “accanimento” contro una persona indifesa, perché di “terapeutico” non ha un
bel niente!). Sarebbe molto più intelligente, in alternativa, ricorrere per i malati terminali alle
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“cure palliative”, ossia alla somministrazione controllata di farmaci antidolorifici e anestetici,
presso appositi reparti ospedalieri o in cliniche specializzate.
In conclusione, vorremmo citare un altro brano del bel libro di Chaussoy: « Al centro di ogni
decisione deve essere l’interesse del malato, e di lui solo». Condividiamo pienamente
questo punto di vista, perché siamo convinti che la medicina debba mirare a guarire gli
infermi e a lenire il loro dolore senza porsi l’assurdo obiettivo di prolungare all’infinito la vita
tramite opinabili artifici terapeutici, che forse servono solo a favorire i guadagni di gente
senza scrupoli.
726 - LETTERE DAI SOCI
Da: Margherita Fornari - [email protected]
Data: Wed, 27 Feb 2008 11:28:52
Carissimo Giampietro,
desidero informarti in merito all'interessante convegno organizzato dalla Parrocchia dei
paesi di Medolla-Villafranca in provincia di Modena sul delicatissimo tema che interessa il
faticoso confronto fra cattolici e laici riguardante il "Testamento di fine vita", oggetto:
"L'alleanza terapeutica medico-malato: utopia o realtà?".
Il pubblico numerosissimo, ha suscitato immediatamente la mia sorpresa, non avrei mai
immaginato che in un minuscolo paesino come Medolla un argomento, che so venire
affrontato con difficoltà dalla gente comune, riscuotesse un così vasto riscontro.
La nostra presidente Maria Laura Cattinari, mi ha incaricato di rappresentare
"LiberaUscita" in quanto impossibilitata a partecipare.
Fin da subito, mi sono resa conto di trovarmi in una "fossa di leoni" poiché l'auditorio era
composto, per la maqgior parte, da cattolici praticanti, mi sono comunque disposta ad
ascoltare serenamente e senza prevenzione alcuna, la dotta e documentatissima
esposizione del Prof. Melazzini che penso, si sappia essere affetto da una delle più terribili
malattie che, attualmente, non consentono nessuna speranza di vita: la SLA ovvero
sindrome laterale amniotrofica.
Il Prof. Melazzini è un'insigne clinico: primario oncologo presso un grande ospedale del nord
Italia ed è attivissimo nella battaglia contro l'eutanasia ed anche il testamento di fine vita,
essendo un cattolico (detto da egli stesso) integralista, ha affermato di amare la vita sopra
ogni altra cosa e che mai e poi mai, penserebbe di interromperla, avendo deciso di
prolungarla con ogni mezzo che la scienza gli potrà mettere a disposizione. Ha proseguito
esponendo le sue teorie di possibilità di prolungare la vita ad ogni malato in condizioni di vita
irreversibili, stabilendo una alleanza fra medico e malato (non vuol usare il vocabolo
paziente poiché lo ritiene umiliante) in maniera tale per cui il malato stesso diviene artefice
del suo "benessere" acquisendo una indiscutibile voglia di vivere.
Da quanto sopra esposto si può dedurre quanto la sua esposizione, sia verbale che
fotografica, sia stata mirata a convincere i presenti circa l'assoluta necessità di prolungare la
vita fino all'inverosimile.
Non mi sono stupita che per rafforzare i suoi convincimenti, la conferenza fosse punteggiata,
sovente, da frasi e scritti di papa Benedetto XVI che proiettava sul vidiwall. Ha proiettato,
infine, un elenco lunghissimo inerente la bibliografia esistente che dovrebbe servire a
divulgare ancor più ed ancor meglio le sue convinzioni. In coda, poi, ha effettuato la
promozione della sua ultima pubblicazione, in ordine di tempo, che si può trovare in tutte le
librerie.
A quel punto, concessami la parola (unica dissenziente), ho effettuato il mio intervento
incentrandolo sulle possibilità (se si abbiano delle convinzioni cattoliche) di poter esercitare il
libero arbitrio o (se si abbiano delle convinzioni laiche) di poter disporre della propria
vita/morte, perseguendo sempre e indiscutibilmente le regole che uno Stato laico detta e
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che non devono né possono essere limitate o prevaricate da credi di qualsivoglia carattere
religioso.
Ho proseguito poi, affermando che, pur essendo vicina e comprendendo il tipo di battaglia
che il prof. Melazzini persegue, osservata poi da un punto di vista così drammatico, doloroso
ed umanamente difficilissimo, non avrei mai potuto condividerla poiché il mio approccio
riguardante le tematiche afferenti la laicità, o come si usa dire attualmente con una locuzione
lievemente ipocrita (a mio dire) e brutta: "eticamente sensibili", parte dal presupposto, non
negoziabile (pur essendo io credente), che la libertà individuale è sacra più di ogni
convincimento di qualunque carattere esso sia, ed inoltre il professore agisce e svolge la
sua opera da un osservatorio privilegiato e di conseguenza il suo approccio logistico e
culturale, nei confronti della malattia, gli consente di viverla in modo più consapevole e
dignitoso rispetto a situazioni che ben si conoscono ma che da alcuni settori della società
(politici e non) non vogliono essere condivise pur di affermare logiche di supremazia e/o
convenienza.
L'alleanza terapeutica, quindi, fra malato e medico, non solo la ritengo attualmente
utopistica ma soprattutto retorica poiché inapplicabile vista l'organizzazione sanitaria del
nostro paese: non solo il personale medico non è pronto per affrontare situazioni del genere
ma il personale paramedico, al quale non è stato mai consentito di entrare nelle varie stanze
dei bottoni, non potrebbe dirimere situazioni tanto delicate se non lo si renderà libero di
poter decidere autonomamente (lo si sta di nuovo ricattando e intimorendo con l'obiezione di
coscienza!) quando in uno stato di grave e drammatica necessità si trovasse costretto,
sempre nell'ambito delle sue competenze, ad assumere decisioni rapide ed improcrastinabili
liberamente, senza condizionamenti o vincoli di sorta, e ciò si dovrebbe attuare
svincolandolo dalla subalternità che lo lega al medico.
Fra l'altro il prof. Melazzini ha lanciato la proposta di poter costituire in Italia una consulta di
medici, perchè le sue teorie possano essere attuate. Ho creduto opportuno controbattere
che a me sembra che nel nostro paese ce ne siano fin troppe di consulte, commissioni, .....
ma se questa sua proposta si dovesse realizzare, per le ragioni sopra citate dovrebbe, per
l'appunto, partecipare anche personale paramedico in maniera tale per cui le equipes che ne
derivassero iniziando percorsi specialistici altamente qualificati, potrebbero essere in grado
di poter veramente e coscientemente indirizzare i malati verso una sacrosanta, reale scelta
libera, senza condizionamenti o vincoli di sorta.
Forse così, (desiderio o meglio, sogno) cattolici e laici potrebbero, insieme, iniziare a
risolvere un problema di così difficile soluzione, partendo da concetti di libertà
imprescindibili.
Ho concluso affermando che proprio nella sofferenza, non si può ancor più gravare un
malato di problematiche che non lo riguardano perchè retoriche e lontane dal suo mondo e
dalle sue convinzioni e che servono ad aggravare il suo dolore, dovendo egli, se cosciente,
o la sua famiglia, se privo di coscienza, sopportare imposizioni contrarie alla sua volontà ed
al nostro dettato costituzionale.
Concludendo posso solo comunicarti che con mia immensa incredulità la platea mi ha
tributato un caloroso applauso, spero quindi, che nel trasmettere queste mie considerazioni
all'assemblea, possa essere stata in grado di lasciare, se non altro, una discreta
impressione di "LiberaUscita".
Un fraterno saluto.
Margherita Fornari
Da: Mina Welby - [email protected]
Data: Wed, 27 Feb 2008 19:04:36
Caro Signor Sestini,
36
dopo aver letto la relazione stupenda di Margherita dove riporta la sua esperienza a
Medolla-Villafranca voglio riportare quella mia avuta in un incontro dibattito a Firenze dove
insieme a me come relatore trovai il pastore valdese Pawel Gajevski.
Il titolo dell'incontro fu alquanto sconcertante: Diritto di morire. Come antagonisti trovai il
prof. Carlo Casini e il dott. Mario Melazzini. Naturalmente difesero la vita ad oltranza a
spada tratta come "bene indisponibile".
Il teologo valdese spiegò in modo veramente accessibile alle persone, anche
profondamente credenti, che prima della vita il bene e il valore più alto è la persona stessa.
Essendo nati come creature libere nella nostra coscienza anche la vita è un valore relativo
alle varie situazioni nella nostra esistenza. Spesso può avvenire che ci siano valori più alti
da difendere con la nostra stessa vita. Io cercai di sottolineare le escursioni teologicofilosofiche, di Gajevski che spesso si riferiva a Hans Jonas,con la mia esperienza personale
e come sia stata capace a conciliare una scelta di fine vita insieme a mio marito con la mia
fede di cattolica praticante.
Ho detto in modo molto chiaro che prima del medico è il malato stesso a poter dire se degli
interventi medici siano o no sproporzionati e di volerne rinunciare e ho citato l'articolo 1278
del catechismo cattolico che recita:"L'interruzione di procedure mediche onerose, pericolose,
straordinarie o sproporzionate rispetto ai risultati attesi può essere legittima. In tal caso si ha
la rinuncia all'accanimento terapeutico. Non si vuole così procurare la morte: si accetta di
non poterla impedire".
Ho ribadito che mio marito già due anni prima cominciava a dirmi che sentiva che "tutto è
finito". Naturalmente la platea era d'accordo con noi che abbiamo testimoniato per la libertà
della persona, della sua coscienza. Metto sempre il punto di forza sulla libertà di scelta sia a
favore che contro le terapie, dopo una esatta informazione da parte del medico e che sta lì il
dovere del medico di assistere il malato, alleviando il suo trapasso e di non abbandonarlo a
sofferenze estreme.
Ho avuto in questo anno dopo la morte di Piergiorgio molte richieste per intervenire in
convegni sui temi di fine vita e posso dire che sono sempre stata accolta con molta
gratitudine. Lascio, come è giusto, sempre la porta aperta verso la libertà della coscienza
delle persone.
Ho trovato anche sacerdoti che erano assolutamente d'accordo. Basti ricordare la bellissima
lettera del Cardinale Martini di un anno fa che è nota a tutti. Ora porto avanti il discorso per
una legge sul testamento biologico. Più in là si comincerà a discutere sull'eutanasia. Ora
non è il caso.
Voglio dire a Margherita che le persone molto spesso provate da gravi sofferenze dei loro
congiunti vengono in questi incontri per sentire queste parole di conforto e elaborare anche
meglio il loro lutto. Anche questo è un capitolo molto difficile.
Per oggi un caro saluto e grazie per avermi fatto partecipe di questa esperienza.
Mina Welby
Commento. Con piacere riporto il messaggio ricevuto da Mina Welby che, dopo aver letto la
testimonianza di Margherita Fornari, ci racconta della sua partecipazione ad un convegno
analogo tenuto a Firenze. Come a Medolla, a Firenze era presente l'ineffabile prof.
Melazzini, il quale ha tutto il diritto di disporre della sua vita come ritiene meglio, ma non
tollera che anche gli altri abbiano lo stesso diritto. A Mina e Margherita il grazie di tutta
l'associazione.(gps)
Da: Giuliano Degli Esposti
Data: Thursday, February 28, 2008 4:31 AM
< l'ineffabile prof. Melazzini, il quale ha tutto il diritto di disporre della sua vita come ritiene
meglio, ma non tollera che anche gli altri abbiano lo stesso diritto<
37
Ho letto con particolare ammirazione e partecipazione i resoconti delle Sig.re Margherita
Fornari e Mina Welby; sono state estremamente brave a sostenere le loro/ns opinioni
davanti ad un sì tanto personaggio.
Gli argomenti del testamento biologico e dell'eutanasia ritornano prepotentemente in campo
assieme ad altri argomenti di carattere specificamente etico soprattutto adesso nella attuale
contingenza politica.
Stiamo assistendo a sempre più pressanti interventi della chiesa di entrare nel mondo della
politica e, visto il periodo che stiamo attraversando, non si limitano più ad un confronto quasi
teorico tra ragione e fede, ma siamo arrivati alla richiesta esplicita di leggi in linea con i
dettati etici della chiesa cattolica, ad un richiamo ai parlamentari di fede cattolica, vera o
bislacca (cfr. Ferrara), a che strutturino un gruppo di centro che sia il riferimento politico
istituzionale della chiesa.
Questa entrata a "gamba tesa" del trio ratzinger-ruini-bagnasco (ricordate AlbertosiBurgnich-Facchetti?) ha scombussolato l'intera Italia, dai politici ai magistrati ai parlamentari:
e allora assistiamo a Veltroni che vagheggia la castrazione chimica per i reati di pedofilia (in
questa sede lasciamo perdere gli esempi degli Stati Uniti, della Francia, Danimarca, Svezia,
senza dimenticare il vastissimo uso della medesima da parte di delinquenti nazisti nei
confronti e dei soliti bersagli: Ebrei, Zingari, Omosessuali e persone definite socialmente
pericolose); pochi giorni fa un magistrato ha mandato i carabinieri in una sala parto a
sequestrare un feto abortito per sottoporlo ad autopsia.
Questa situazione italiana, rende più che mai attuale la questione della laicità dello stato,
messa così pesantemente in pericolo dagli interventi cattolici, sia teocons, sia istituzionali.
Non può non venirmi in mente una frase di Jacques Le Goff che a proposito della chiesa
dice: "un'organizzazione totalitaria al servizio di una religione totalitaria".
A proposito di questi argomenti, dalla laicità alle radici cristiane dell'Europa, consiglierei di
leggere nel sito www.filosofia.it quattro scritti molto interessanti: Mauro Visentin che risponde
ad un articolo sul Corriere di Emanuele Severino; Gianluca Miligi con un suo excursus
storico sulle radici europee (molto interessante); una videointervista a Giulio Giorello; uno
scritto di Paolo Flores d'Arcais dall'esplicativo titolo: "le tentazioni della fede e la necessità
democratica di un illuminismo radicale, egualitario e libertario ( preferibilmente ateo e
materialista-forse)".
un cordiale saluto.
Giuliano
Da: Lucia Benini - [email protected]
Data: Fri, 29 Feb 2008 17:29:11
Vi prego se potete di dare a Mina Welby tutte le mie più calorose congratulazioni per il
messaggio che sta portando avanti in questo particolare momento di "buio medioevo
moderno" e anche a voi "lodi" per il grande lavoro che fate!
Una vostra associata
Lucia Benini
Da: Mina Welby - [email protected]
Data: sabato 1 marzo 2008 5.43.05
Ringrazio la gentilissima Signora Lucia, sento unicamente di fare un mio sacrosanto dovere.
Un caro saluto a tutti
Mina Welby
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727 – LE VIGNETTE DI ELLEKAPPA – RELATIVISMO ETICO
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