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RASSEGNA STAMPA
lunedì 13 aprile 2015
L’ARCI SUI MEDIA
ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
WELFARE E SOCIETA’
ECONOMIA E LAVORO
CORRIERE DELLA SERA
LA REPUBBLICA
LA STAMPA
IL SOLE 24 ORE
IL MESSAGGERO
IL MANIFESTO
AVVENIRE
IL FATTO
PANORAMA
L’ESPRESSO
VITA
LEFT
IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Radio 24 – Si può fare dell’11/04/15
Intervista alla presidente nazionale dell’Arci Francesca Chiavacci in merito alla presenza
delle slot machine nel Circolo San Niccolò di Firenze
(a partire dal minuto 1:07)
http://audio.radio24.ilsole24ore.com/radio24_audio/2015/150411-paese-migliore.mp3
Da Redattore Sociale del 13/04/15
Esponenti della società civile democratica
tunisina in Italia dal 14 al 17 aprile
Conferenza stampa
Evento 14 aprile 2015
Luogo: Sala stampa della Camera dei Deputati - Via della Missione, 4
Organizzatore: Arci, Arcs, Cgil
Comune: Roma
Da Repubblica.it dell’11/04/15
Seriate, il sindaco leghista aumenta la tassa
allogiativa del 314% che penalizza gli
immigrati
Per protestare contro il provvedimento oggi alle 14,30 avrà luogo una
manifestazione che sfilerà per le strade del paese in provincia di
Bergamo, organizzata dal Comitato "Seriate per tutti". Il sindaco
Cristian Vezzoli e assicura che "non c'è nessun intento discriminatorio
verso gli immigrati". E spiega che l'aumento rientra in un programma di
riqualificazione del centro storico
di CINZIA GUBBINI
ROMA - Da 70 a 220 euro: un super aumento che farebbe saltare sulla sedia qualsiasi
cittadino, e che è toccato gli immigrati residenti a Seriate, provincia di Bergamo. Dal 1°
gennaio il costo per ottenere il certificato di idoneità alloggiativa ha subito un aumento del
314%, per volontà della giunta che guida la città, da vent'anni targata Lega Nord. Per
protestare contro l'incremento del costo del certificato, oggi - sabato 11 aprile - alle 14,30
è stata organizzata una manifestazione che sfilerà per le strade del paese. E' stata
organizzata dal Comitato "Seriate per tutti" a cui aderiscono associazioni e sindacati tra
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cui la Cgil, l'Usb, l'Arci, l'Unione inquilini, l'Unione degli studenti, le Acli. Non sarà un corteo
qualsiasi, nella sperduta provincia padana. Perché parla di un tentativo di resistenza "in
loco" alla campagna politica della Lega di Matteo Salvini a livello nazionale. Il giovane
segretario leghista punta moltissimo sulla questione dell'immigrazione, attaccando un
giorno sì e l'altro pure le comunità straniere che vivono in Italia, a partire dai Rom.
Una battaglia lunga un anno. Quello del certificato dell'idoneità alloggiativa è un fronte su
cui da almeno un anno si discute nel bergamasco. Cominciò il Comune di Bolgare che
fece passare il costo del certificato - obbligatorio per gli immigrati quando devono
rinnovare il permesso di soggiorno, fare un ricongiugnimento famigliare e per altre
incombenze - da 150 euro a 500. La delibera in quel caso faceva esplicito riferimento a
questioni di sicurezza dopo varie risse scoppiate nel paese, ma fu bocciata dal tribunale
che la ritenne ingiustificata e discriminatoria. Ne seguì una riunione di tutti i sindaci di area
Lega Nord che difesero la decisione del collega di Bolgare, sostenendo che un aumento
del costo del certificato fosse giustificato dai controlli che i Comuni hanno il diritto di fare.
Il sindaco: serve per riqualificare il centro storico. Il sindaco di Seriate si chiama Cristian
Vezzoli e assicura che "non c'è nessuna intenzione discriminatoria nei confronti degli
immigrati". Per questo si dice "dispiaciuto" per la manifestazione di oggi che "non coglie
nel segno". Vezzoli spiega che l'aumento rientra in un più vasto programma di
riqualificazione del centro storico: "Abbiamo deciso di cambiare l'iter del rilascio del
certificato di idoneità alloggiativa facendo più controlli proprio perché stiamo riqualificando
il centro di Seriate con molti investimenti. E i controlli costano: 70 euro non coprivano la
spesa". Il punto, però, è che il certificato di idoneità alloggiativa lo presentano solo gli
immigrati, non tutti gli affittuari. E nel centro storico non abitano solo immigrati: "No, sono il
45-50% della popolazione del centro - conferma Vezzoli - Io spero che chi avrà il
certificato negato poi andrà dal proprietario per farsi mettere a posto gli impianti".
Intanto, però l'immigrato avrà sborsato 220 euro. "Il Comune sta facendo investimenti
ingenti per il centro storico, non mi sembra giusto spandere il peso dei controlli
aumentando le tasse di tutti. D'altonde il Comune sta spendendo molti soldi per
riqualificare, e a beneficiarne sarà chi vive nel centro storico. Al limite potrebbe accusarmi
di discriminazione i cittadini che non abitano lì e che non hanno, per dirne una, incentivi
quando ristrutturano. Comunque - conclude il sindaco - se fra due anni vedrò che con
questi controlli non migliora la situazione, cambieremo rotta".
"Tassa razzista, guerra tra poveri". Di tutt'altro avviso le associazioni e i sindacati che
lavorano sul territorio e che oggi sfileranno contro la "tassa razzista". Cheik Ndiaye,
senegalese che da otto anni vive a Seriate non ci sta: "Noi immigrati lavoriamo,
collaboriamo al 10% del Pil italiano, paghiamo l'Imu, la Tasi, tutte le tasse. Ma non ci
possono chiedere di pagare cifre altissime per un certificato in Comune. Questa è
discriminazione. A Roma il certificato costa 35 euro, ci sono città in cui costa 50 centesimi.
Perché noi dovremmo pagare 220 euro?".
Oltretutto Ndiaye non abita neanche nel centro storico. "Io abito in una zona residenziale,
e se mi dessero una casa nel centro storico non ci andrei neanche gratis, perché spesso
sono malridotte. Il sindaco, se vuole riqualificare il centro, se la prenda con i proprietari
italiani, non chiedendo soldi a chi è già povero. E se va a vivere lì lo è di certo". Ndiaye
contesta anche i conti fatti dal Comune: "Si parla di costi da sostenere per la benzina, per
il lavoro dei dipendenti del Comune, e mi sembrano esorbitanti. Per controllare casa mia
basta venire piedi, e il lavoro non dura più di mezz'ora".
La delibera di Seriate. Dopo la batosta in tribunale del Comune di Bolgare, le delibere che
gonfiano i costi dei certificati di idoneità alloggiativa sono molto tecniche. Quella di Seriate,
per esempio, esplicita tutti i costi che il Comune deve sostenere: "L'istruttoria con
personale dell'Ente richiede almeno quattro ore di attività amministrativa (ufficio stranieri,
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protocollo, amministrativo), quantificabile in 62,00 euro, e un'ora di sopralluogo tecnico
effettuato da due dipendenti, al costo di 35,00 euro - si leggenella delibera approvata a
dicembre 2014 - oltre alle spese di materiale di cancelleria, carburante e altra
strumentazione per complessivi 100,00 euro. A tale costo si deve aggiungere il costo
orario dei tecnici esterni quantificabile in 60,00 euro per l'idraulico e 60,00 euro per
l'elettricista". Il Pd ha presentato una mozione, che è stata bocciata, in cui tra le altre cose
sottolineava come la stessa delibera parli di controli "eventuali", non obbligatori. Oltretutto
il certificato ha una validità solo di 6 mesi, per cui un immigrato potrebbe dover spendere
più di 500 euro in un anno per essere in regola nel Comune di Seriate.
http://www.repubblica.it/solidarieta/immigrazione/2015/04/11/news/gubbini-111674829/
Da il Tirreno del 09/04/15 (Livorno), pag. IV
Tagli agli stipendi per gli operatori del terzo
settore
Parola ad Arci, Caritas e Cesdi dopo la sforbiciata del Comune
Suor Raffaella: «Ma il welfare e di tutti, serve più dialogo»
Tanto tuonò che piovve: dopo che il Comune ha tagliato le convenzioni con il terzo settore,
all'Arci sono arrivati riduzione del personale e delle ore di lavoro (quindi degli stipendio)
per gli operatori. Mentre anche la fondazione Caritas si trova a fare i conti con possibili
ricadute sul personale. E emerso chiaramente - seppur con grande dignità e toni fermi- nel
corso della lunga commissione che ieri ha visto l'audizione di Arci solidarietà, fondazione
Caristas e Cesdi (la presidente Shahrazade Al Basha e le sue colleghe hanno descritto
attività e servizi rivolti fino a oggi a immigrati e popolazione carceraria). Presenti gli
assessori Gianni Lemmetti e Ira Dhimgjini. Al centro non solo i tagli al terzo settore
(«sarebbe stato meglio incontrarci prima di arrivarci », hanno ripetuto dalle associazioni),
ma il futuro dei servizi. In particolare del «front-office dell'emergenza e delle povertà»,
come lo chiama il volto di Arci solidarietà, Marco Solimano. È lui il primo a mettere qualche
puntino sulle ì, mentre i consiglieri di opposizione - Marco Ruggeri (Pd), Pietro Caruso
(Pd), Elisa Amato (Fi) e Andrea Raspanti (BI) - incalzano sul fronte politico i consiglieri
M5S che difendono le scelte della giunta. «L'amministrazione è legittimata a fare le scelte
che vuole», dice Solimano: «Ma abbiamo notato un pregiudizio nei confronti della nostra
associazione, con frasi lesive della nostra dignità, professionalità e storia». Primo punto:
«Per i servizi che abbiamo gestito e che gestiamo sono sempre stati fatti bandi». Arci
gestisce tre centri di accoglienza: Sefa, casa delle donne e centro homeless. «Non ci sono
mai stati affidati a trattativa privata», sottolinea Solimano. Capitolo a parte per la gestione
delle residenze di soccorso, ora passata agli uffici del Comune, e per le ex social card. Nel
primo caso, «in via del Porticciolo eravamo arrivati a gestire la posta di 180-190 persone,
un servizio delicatissimo che non poteva essere gestito dal volontariato, così negli anni
siamo arrivati alla contribuzione di 12.500 euro». Gli uffici del Comune riusciranno ad
accollarsi il servizio che Arci non ha più dal 12 marzo? Poi le card per oltre 450 famiglie:
«Le ha sempre gestite la Caritas che a un certo punto non ce l'ha più fatta, così il Comune
ci ha chiesto di intervenire». «L'amministrazione era perennemente in ritardo nei
pagamenti e siamo arrivati anche a dover anticipare 300.000 euro - conferma suor
Raffaella Spiezio, della Fondazione Caritas - e poi non riuscivamo a vivere sempre nel
conflitto, dovevamo stare con i carabinieri alla porta» . Anche in questo caso la
contribuzione era di 12.500 euro. «In un anno ci abbiamo rimesso 3.500 giuro», sottolinea
Solimano. Che aggiunge: «Così si tagliano soldi alle persone, non all'Arci, se mi sono
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arricchito qualcuno mi faccia vedere dov'è il malloppo». Al posto delle card il Comune
erogherà contanti, per poi arrivare ai voucher. Eppure, sottolineano dall'Arci, le card erano
strategiche per il monitoraggio delle spese, come quando «ci accorgemmo che un
assegnatario aveva speso 200 euro in una sera alle Scimmie e la card gli fu tolta». Dopo
le intemalizzazioni e le riduzioni, «abbiamo subito un taglio di circa il 30% e dovuto
licenziare l'operatrice delle card e quello delle residenze, mentre le ore di lavoro dei 24
operatori dei centri sono state ridotte e il mensile è passato da 900 a 750 euro». Sono 17,
invece, gli assunti negli anni dalla fondazione Caritas, 3 addetti alla mensa. «Perché i
volontari sono un dono - ri - pete suor Raffaella - nia per dare continuità e qualità ai servizi
servono anche operatori formati». La Caritas, diretta espressione della Chiesa, gestisce
un mare di servizi per poveri e famiglie: dal fondo di solidarietà al progetto Pane
quotidiano, dal centro di ascolto Savio alle borse lavoro. Con un budget che negli ultimi
due anni è cresciuto da 680.000 a 820.000 euro grazie a un incremento delle donazioni
(solo una parte, circa 300.000 giuro, sono soldi pubblici che arrivano da convenzioni o da
rette ). La Caritas può contare su una rete di 278 volontari, 170 nelle mense che sfornano
180 pasti al giorno. «E ogni pasto - Inette in chiaro suor Raffaella dopo le dichiarazioni
arrivate in consiglio dai banchi M5S - costa 4.80 euro, non 13.50!». Il Comune ha
dimezzato il contributo alla mensa dei poveri. «Non ci aspettavamo un taglio del 50% ammette suor Raffaella - mi devo confrontare con il vescovo : forse ricadrà su personale,
servizio e accessi. Anche noi abbiamo persone con mutui da pagare, mariti o mogli che
non lavorano, non ho dormito per mesi: vediamo se ci sarà un aumento delle donazioni
prima di arrivare a una scelta drastica». E poi, insieme a Enrico Sassano, direttore della
Caritas diocesana, raccomanda il dialogo verso un «welfare di comunità», perché «il
welfare non è del Comune, è di tutti ». «È vero - le risponde Dhimgjini - dobbiamo tutti
mettere in campo azioni concrete, non c' è un'amministrazione restia, tutti i suggerimenti
sono graditi» ma «neanche a noi fanno piacere i tagli del governo».
J.G.
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ESTERI
del 13/04/15, pag. 1/2
Il Papa: “È stato genocidio il massacro degli
armeni” L’ira turca: “Inaccettabile”
Ankara protesta con il nunzio, quindi richiama l’ambasciatore Il
pontefice: fu il primo del ’900 e cita nazismo e stalinismo
PAOLO RODARI
CITTÀ DEL VATICANO .
Basilica di San Pietro, pieno giorno. Papa Francesco celebra la solenne messa per il
centenario del martirio armeno e, per la prima volta in forma ufficiale nel suo pontificato,
per definire il massacro compiuto cento anni fa dall’impero ottomano allora sotto il governo
dei “Giovani turchi” (1915-1917) parla esplicitamente di «genocidio». Esattamente, di
«primo genocidio del XX secolo». È accaduto ieri, in una giornata segnata
immediatamente dalla durissima reazione delle autorità turche che definiscono le parole
del Papa «inaccettabili». Ankara convoca subito il nunzio apostolico, monsignor Antonio
Lucibello, per esprimere il proprio «disappunto» e poi, nel pomeriggio, richiama il proprio
ambasciatore presso la Santa Sede «per consultazioni». Due mosse che dicono di
rapporti diplomatici segnati da una tensione che rischia di deflagrare anche a livello
europeo, con la Turchia sempre pronta a vedere nel vescovo di Roma il rappresentante di
un’Europa cristiana e, dunque, ostile e nemica del mondo islamico. Già nel 2005, a
seguito dell’elezione di Benedetto XVI al soglio di Pietro, in Turchia si parlava apertamente
del Papa «che non ci vuole in Europa». Tanto che Ratzinger, nei suoi quasi otto anni di
pontificato, non parlò mai di genocidio, bensì di «grande male».
Bergoglio vuole la riconciliazione fra Turchia e popolo armeno. Per questo ieri ha parlato.
Egli è consapevole che non può esservi pace senza che il male venga smascherato. Per
combatterlo occorre parlarne, almeno riconoscerlo. Un auspicio, tuttavia, che ancora la
Turchia dimostra di non volere fare proprio. Nonostante non sia stato il genocidio
perpetrato dai turchi l’unico “bersaglio” papale. Francesco, ieri, ha citato anche le altre due
«grandi tragedie inaudite » del Novecento, «quelle perpetrate dal nazismo e dallo
stalinismo ». E più recentemente, ha detto, ci sono stati «altri stermini di massa, come
quelli in Cambogia, in Ruanda, in Burundi, in Bosnia», che dicono di come «l’umanità non
riesca a cessare di versare sangue innocente». E, fra questa umanità, sono state presenti
nelle parole del Papa i cristiani che in varie parti del mondo vengono trucidati.
In Vaticano la reazione di Ankara è prevista. Ma, nello stesso tempo, come già fece
Giovanni Paolo II che in una dichiarazione comune del settembre del 2001 con il patriarca
armeno Karekin II parlò di «genocidio» armeno, si ritiene che la verità non debba essere
tradita. Del resto, Bergoglio già quando era arcivescovo di Buenos Aires coltivava ottimi
rapporti con la comunità cristiana armena; aveva persino fatto murare in una chiesa
cattolica della città una targa in onore delle vittime del primo genocidio del ventesimo
secolo. Nel 2006, sempre a Buenos Aires, parlò del massacro armeno come del «crimine
più grave della Turchia ottomana». E, ancora, il 3 giugno del 2013, ricevendo in Vaticano
una delegazione di cattolici armeni, parlò durante un colloquio privato proprio del «primo
genocidio del XX secolo», senza tuttavia subire una reazione così dura da parte di Ankara.
In quell’occasione, il ministero degli Esteri turco espresse «delusione» per l’espressione
utilizzata da Francesco e definì «assolutamente inaccettabili» le sue parole.
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Il fatto che il governo turco, sebbene lo scorso anno il premier Recep Tayyip Erdogan
abbia presentato per la prima volta le «condoglianze » della Turchia ai discendenti delle
vittime, continui a rifiutare di riconoscere l’esistenza del genocidio non è senza
conseguenze soprattutto rispetto alle aspirazioni di Ankara verso l’Unione europea che in
merito auspica passi in avanti. Ma proprio rispetto all’Europa, un banco di prova
importante sarà la commemorazione del genocidio che avrà luogo il 24 aprile prossimo ad
Erevan. Hollande e Putin hanno già assicurato ufficialmente la propria partecipazione. Se
l’elenco dei leader europei e anche di altri Paesi crescerà, la pressione su Ankara diverrà
sempre più grande.
del 13/04/15, pag. 1/2
UN SECOLO DAL GENOCIDIO ARMENO
A Kars, la frontiera tra i due popoli che
Francesco vuole far riconciliare
Un ponte spezzato è il simbolo della separazione e delle difficoltà a
riaprire il dialogo. Venti metri che segnano la distanza tra isolamento
dolore, nazionalismo e crisi economica
MARCO ANSALDO
DAL NOSTRO INVIATO
KARS
UN PONTE spezzato. L’arco caduto e i piloni recisi come monconi inanimati, gettato in
una gelida gola nelle acque del fiume Akhurian. Questo è quel che resta oggi fra l’Armenia
e la Turchia. Venti metri di distanza. Confine non solo ghiacciato per la neve perenne sulle
montagne. Ma ermeticamente chiuso, sbarrato, fra due Paesi che non si parlano più e che
dopo le parole del Papa si guardano anzi con un rancore incontenibile. Confine che a 100
anni esatti dall’anniversario di quel genocidio che l’Armenia celebra e la Turchia nega
diventa il simbolo della freddezza e dell’incomunicabilità.
Sul lato turco la città di Ani, un tempo capitale medievale del regno armeno, antagonista di
Costantinopoli, è adesso l’immagine della desolazione: una rovina gigantesca, mangiata
da un mare di erba. Intorno, una landa spazzata dal vento e dalle ombre del milione di
persone trucidate a partire dal 24 aprile 1915, notte in cui le prime vittime furono catturate
nelle loro case, e deportate nelle lunghe, sfinenti marce della morte.
L’Armenia ora ricorda i propri cari, quasi ogni famiglia ne ha uno, e depreca il suo
isolamento. Ma la Turchia non ride, attanagliata in questa marca di confine da una crisi
economica aggravata dalla mancanza di scambi, fossero solo turistici e commerciali. E il
fallimento continuo dei colloqui fra Erevan e Ankara sulla riapertura delle frontiere pesa
tanto sulle coscienze quanto sulle tasche.
Emblema di tutto ciò è la città di Kars, ultimo pezzo di terra turca a 50 chilometri dalla
frontiera. «Signore, dov’è diretto?», aveva chiesto l’impiegato alla reception dell’albergo di
Istanbul prima della partenza. «A Kars, davvero? Alla fine della Turchia, allora». Certo,
Istanbul è il principio e Kars l’epilogo della Mezzaluna turca. Là dove difatti cominciano le
comunità cristiane dell’Armenia e della Georgia.
In questo centro lontano e affascinante, incrocio di genti diverse, crebbe il filosofo e
mistico Gurdjeff. E proprio qui, pochi anni fa, il premio Nobel per la Letteratura, Orhan
Pamuk, decise di trasformarsi in reporter e con una tessera giornalistica in tasca ambientò
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nella più scomoda delle città turche il suo romanzo dichiaratamente più politico, “Neve”.
“Kar” in turco, dove a Kars, il protagonista Ka si imbatte in un’atmosfera plumbea e
misteriosa. Donne velate, uomini in nero, fanatici islamici, polizia segreta. Un guazzabuglio
di etnie, simboleggiato per strada dallo sbalorditivo numero di architetture russe. Lunghi
viali silenziosi, dove i passi si perdono scricchiolanti nella neve persino ora che è aprile
inoltrato. Bettole da cui escono fumi spessi e odori di montoni arrosto. Negozi di formaggi
e miele insieme, rinomati in tutta la regione per la loro purezza. Una città però desolata,
ultimo lembo di una terra oltre la quale non si va. Non si può. Una città senza uscita.
Quella notte di 100 anni fa a Costantinopoli governo nazionalista dei “Giovani Turchi”,
adducendo fra i vari motivi l’appoggio degli armeni allo Zar di Russia, fece partire l’ordine
degli arresti. Un’operazione lunga un mese, fino a quando prima l’élite, poi la gente
comune, compresi i vecchi, le donne, i bambini, furono deportati verso l’interno
dell’Anatolia e massacrati per la strada. Stragi poi ripetute. Inequivocabili le dichiarazioni di
testimoni non di parte, come il fotografo tedesco Armin Wegner, l’ambasciatore americano
Morghentau, il console italiano Gorrini.
Controverso però, ancora oggi, il numero delle vittime, a significare la distanza fra le parti:
un milione e mezzo per gli armeni, 300 mila per i turchi. Sul piano internazionale, una
ventina di Paesi hanno finora riconosciuto la definizione di genocidio.
Ankara non ci sta. Oggi reagisce furibonda. Non ritiene il massacro una pulizia etnica
pianificata, come fece il nazismo con gli ebrei, e rifiuta di caricarsi di colpe che ascrive
all’Impero ottomano e non alla Repubblica di Turchia, nata solo nel 1923. Il nazionalismo
imperante, poi, sembra avere la meglio su una ammissione pubblica di colpa che
convincerebbe molti all’estero, ma sarebbe distruttiva in un Paese dove l’orgoglio ha un
peso più forte che altrove. Così «genocidio» è parola proibita, come lo era «Kurdistan»
fino a qual- che tempo fa. La legge punisce con l’arresto e la reclusione fino a tre anni chi
lo nomina in pubblico, in quanto azione anti-patriottica. Ne sa qualcosa lo stesso Pamuk,
mandato a processo, messo in testa alla lista dei nemici da eliminare, costretto infine alla
fuga in America per un’intervista concessa nel 2005 a un giornale svizzero in cui
pronunciava la seguente frase: «In questo Paese sono morti 30 mila curdi e un milione di
armeni. Nessuno lo dice, e allora lo faccio io».
E infatti va sottolineato con altrettanta chiarezza, che nonostante le testarde negazioni dei
nazionalisti, presenti in forze in più schieramenti dell’arco costituzionale turco, nel Paese
da anni c’è chi tenta di riflettere su questa pagina di storia per la gran parte dei cittadini
ignota, non presente nemmeno nei libri di testo.
Pochi anni fa la Turchia aveva avviato il dialogo, riaperto chiese armene, e soprattutto gli
esponenti più liberali della società civile, non senza rischi, avevano riunito studiosi e
intellettuali a discutere dei massacri, definendoli senza remore un «genocidio». Primo fra
tutti una delle figure più limpide dell’intelligentsija locale, il professor Murat Belge, amico e
sodale di Orhan Pamuk e di Hrant Dink, il direttore del giornale turco-armeno Agos ,
trucidato da un giovane fanatico nel gennaio del 2007.
Negli anni più recenti le posizioni sembravano così essere più vicine, e un timido negoil
ziato aperto. Nel 2008 l’allora Capo di Stato turco, Abdullah Gul, sfruttò abilmente il
sorteggio per le qualificazioni dei Mondiali di calcio, che aveva visto capitare nello stesso
tabellone le Nazionali di Turchia e Armenia. Contattato il suo omologo Serzh Sarksyan,
Gul andò a vedere la partita di calcio a Erevan, intavolando una trattativa parallela, e
invitando il Presidente armeno al match di ritorno a Istanbul. Qualcosa sembrava
muoversi. Ma dopo poco le parti tornarono a guardarsi in cagnesco. Il premier turco Recep
Tayyip Erdogan invitò gli storici turchi, armeni e internazionali a rivalutare i «fatti del
1915», come li definì, usando gli archivi reperibili in Turchia, Armenia e altrove. Il nuovo
presidente armeno Robert Kocharyan rifiutò l’offerta, preferendo la soluzione politica a
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quella storica, e invitando a riaprire quella frontiera chiusa dai primi anni Novanta, dalla
guerra fra Armenia e Azerbaigian (sostenuto dalla Turchia) sul Nagorno Karabakh,
enclave armena in territorio azero. Con Erevan più conciliante rispetto al passato, nella
diaspora armena ci fu infine chi ci mise del suo, saldandosi con l’estremismo dei
nazionalisti turchi nel rifiutare qualsiasi compromesso.
Oggi è solo gelo. Eppure la riconciliazione invocata dal Papa, sulla carta progetto non
impossibile, contribuirebbe non poco a stabilizzare una regione turbolenta come il
Caucaso. Con benefici economici indubbi. A Kars i cittadini più abbienti avevano ereditato
dai russi la passione per il balletto e per le cene a base di champagne. La riapertura del
confine non riporterebbe il caviale, ma aria nuova e denaro fresco. Una tregua in tutta la
regione. E chissà che un giorno, quel ponte sulla gola del fiume non veda l’arco spezzato
ricomporsi, e servire al suo scopo di unire finalmente le due sponde diverse.
del 13/04/15, pag. 5
Il massacro
Fino a pochi anni fa era vietato anche
parlarne perché Ankara non vuole affrontare
il passato
Antonio Ferrari
Spesso basta un accenno per provocare la reazione della Turchia. Reazione quasi
sempre scomposta, perché Ankara si rifiuta, ostinatamente, di riconoscere che nel suo
lontano passato (un secolo fa) c’è una macchia indelebile, che si chiama «genocidio del
popolo armeno». Genocidio di cui gli attuali governanti e i turchi di oggi non hanno alcuna
colpa, ma negandolo si comportano come se fossero colpevoli. Infatti processano scrittori,
giornalisti, intellettuali: insomma tutti coloro che non si sottopongono alla censura delle
istituzioni.
Che vi sia stato un «genocidio» è fuor di dubbio. Si può definire altrimenti lo sterminio di
quasi un milione e mezzo di armeni, nel 1915? Allora la Turchia, che nella Prima guerra
mondiale era alleata della Germania, e ormai consapevole della definitiva disintegrazione
dell’Impero Ottomano, decise una ruvida operazione di pulizia etnica, lanciando una feroce
campagna. Con un preciso obiettivo: eliminare in maniera radicale quell’indisponente
minoranza cristiana (una delle più antiche), che osava contrastare il potere centrale del
gigante musulmano.
Un’operazione dettata da mostruoso cinismo. Le deportazioni cominciarono proprio come
sarebbe accaduto, pochi decenni dopo, per gli ebrei. Lo stesso Adolf Hitler, nel 1939, si
riferì allo sterminio degli armeni come ad un fatto «di cui ormai nessuno parla più». Si
salvarono soltanto coloro che riuscirono a fuggire dalle città e dalle campagne più esposte,
che cercarono di nascondersi, o che furono protetti da qualche coraggioso «Giusto» (ve
ne erano tantissimi anche in Turchia), pronto ad aiutare le vittime mettendo in pericolo la
propria vita. Nella dolce Aleppo, la città siriana che ora è semidistrutta dalla terribile guerra
civile, c’è un albergo (chissà se le sue mura sono ancora in piedi) che si chiama «Baron»
e che ospitò clandestinamente centinaia di armeni, distribuendoli poi nelle case di coloro
che rifiutavano il diktat del potere centrale.
Fino a qualche anno fa, in Turchia, era un gravissimo reato parlare, a qualsiasi titolo, del
genocidio armeno. Bastava una dichiarazione (il caso di Orhan Pamuk), o un romanzo (il
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caso di Elif Shafak) per venir denunciato e doverne rispondere, in tribunale, come un
qualsiasi criminale. Adesso che tra Turchia e Armenia vi è una certa normalizzazione dei
rapporti, la tensione si è stemperata. Complici le passate qualificazioni per il mondiale di
calcio, quando le due nazionali si sono incontrate, e i rispettivi capi di Stato si sono
scambiati le visite stringendosi la mano.
Numerosi studiosi turchi dicono d’essere pronti a discutere di quella macchia di cent’anni
fa (l’anniversario è il prossimo 24 aprile). Molti ormai accettano l’idea che vi fu un
«massacro sistematico» del popolo armeno, anche se alcuni sostengono che la
popolazione armena, in territorio turco, non arrivava al milione di persone. Qualcuno si
spinge fino ad accettare quella parola, «genocidio». Certo, per le sensibilità di Ankara, è
stata come una frustata il duro e autorevole richiamo di papa Francesco, che ha parlato di
quello armeno come del primo genocidio del 20esimo secolo, seguito da quello degli ebrei
e, ora, quello dei cristiani massacrati dagli integralisti islamici assassini.
Numerosi storici e osservatori internazionali si interrogano, da decenni, sulle ragioni di
tanta ostinazione. Ambasciatori e consiglieri di una delle più efficienti diplomazie del
mondo, quella turca appunto, si fanno un punto d’onore di spiegare e rintuzzare le critiche
che si affollano su Ankara. In discussione non c’è soltanto il problema linguistico o
terminologico («genocidio» o «massacro sistematico»?), quanto un’accusa che, all’inizio
del secolo scorso, fu rivolta agli armeni: quella di essere stati al fianco del più grande
nemico della Turchia, la Russia. Che vi siano state compagnie di soldati inquadrate nelle
Forze armate di Mosca è indubbio. Ma tutto ciò non giustifica ovviamente lo sterminio di
un popolo. Anche oggi che l’Armenia è uno Stato indipendente, e che si pone come un
ponte tra l’Eurasia e la Ue, la Russia è sempre al centro degli interessi economici di
Erevan, come ha spiegato il presidente armeno ieri al Corriere .
del 13/04/15, pag. 16
Hillary Clinton si candida alla Casa Bianca
“Sarò il campione degli americani”
L’ex segretario di Stato dà l’annuncio in un video dedicato alle famiglie
e alla classe media multiculturale Obama: “Sarà un ottimo presidente”
FEDERICO RAMPINI
DAL NOSTRO CORRISPONDENTE
NEW YORK .
«Sono candidata per fare il presidente ». Hillary Clinton dà l’annuncio attraverso un video
di pochi minuti. Atteso, e tuttavia “storico”: nel 2016 l’America potrebbe avere una donna
presidente. Il lancio è un brillante prodotto di marketing, mix di professionismo e umiltà: la
faccia di Hillary arriva solo alla fine. Prima sfila una carrellata di personaggi dall’America
media. Una foto di famiglia della middle class, aggiornata al nostro tempo. Donne, neri,
ispanici, asiatici, giovani, gay: tutte le constituency che Hillary deve ri-mobilitare e
galvanizzare, per ripetere gli exploit di Barack Obama nel 2008 e 2012. I maschi bianchi
tendono a votare repubblicano, lei in questo video dà voce e visibilità soprattutto agli altri.
Una coppia di neri in attesa di un bambino. Una giovane neolaureata asiatica. Una
mamma che dopo cinque passati ad allevare i figli vuole tornare a lavorare. Due coppie di
gay. Una donna alla soglia della pensione che dice di “volersi reinventare” (allusione alla
67enne Hillary?...) e poi operai, piccoli imprenditori. Immigrati: un occhiolino alle etnìe in
crescita che la destra rischia di alienarsi con le posizioni xenofobe.
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Solo alla fine di questo viaggio tra tanti personaggi compare lei, Hillary. E si mette sullo
stesso piano: gli altri caratteri che l’hanno preceduta nel video hanno raccontato i progetti
a cui lavorano, le speranze concrete sul loro futuro. «Anch’io — dice Hillary sorridendo —
mi sto preparando per qualcosa. In gara per fare il presidente. Ogni giorno gli americani
hanno bisogno di un campione e IO voglio essere quel campione». Poi parla alla
preoccupazione più diffusa, quella del lavoro e del tenore di vita: «L’America si è
risollevata da una dura crisi. Ma siamo ancora su un piano inclinato». È il piano inclinato
delle diseguaglianze sociali, di una nazione molto diversa dall’immagine tradizionale
dell’American Dream, un paese dove la mobilità verso l’alto è peggiorata. Hillary non lo
declina in negativo: si presenta come una donna concreta, piena di empatia, che difenderà
la middle class, le sue opportunità di lavoro e di benessere. Il video è importante per
quello che mostra e per quello che non dice. Zero politica estera, nessun accenno a
problemi come il terrorismo, la Clinton farà dunque una campagna molto basata sui temi
economici e sociali. Parla di un’America che «è più forte quando le nostre famiglie sono
forti», ma vi include le coppie gay. Per scrollarsi l’immagine “dinastica”, annuncia che si
mette in giro per le strade del paese «a meritarmi il vostro voto».
Da ieri pomeriggio e con questo video, Hillary diventa l’avversario da battere. Barack
Obama le ha dato un vistoso endorsement: «Sarà un ottimo presidente». I repubblicani
concentrano su di lei il fuoco degli attacchi. E in campo democratico chiunque volesse
sfidarla deve decidersi in fretta. La sua forza è superiore a quella del 2008, quando venne
(a sorpresa) eliminata da Barack Obama. Oggi parte da livelli tali di popolarità in campo
democratico, che non si può escludere uno scenario da “incoronazione”, in cui le primarie
diventano un’investitura plebiscitaria. Il suo livello di notorietà fa sì che l’elezione 2016
rischia di trasformarsi in un referendum pro o contro Hillary. Il che significa, anche, un
referendum su... un terzo mandato di Obama.
La storia insegna che dopo due mandati di un presidente, per votare un candidato dello
stesso partito gli elettori devono essere molto soddisfatti del presidente uscente.
Eleggendo un suo seguace è come se dicessero: stiamo bene così, un terzo mandato ci
starebbe pure. Questo è avvenuto due volte soltanto. Truman fu rieletto, ed era il
successore di Roosevelt: cioè un presidente vittorioso sia contro la Grande Depressione
sia contro i nazifascismi. L’altro caso fu Bush padre, dopo i due mandati di Ronald
Reagan. Eleggendo Bush una maggioranza dei cittadini votanti volle un “terzo mandato
Reagan”, ovvero una prosecuzione di quelle stesse politiche. D’ora in avanti le chance di
Hillary si possono leggere, in parte, attraverso i sondaggi sulla popolarità di Obama. Il
resto, se lo deve conquistare lei, alla sua seconda e ultima chance.
del 13/04/15, pag. 15
Cuba, gli Usa pronti ad aprire i commerci
La nuova intesa e lo scoglio del Venezuela
PANAMA «Diciamolo francamente, la nostra politica anziché isolare Cuba, stava
confinando gli Stati Uniti nel loro cortile». In assenza di un documento ufficiale, bloccato
del veto del Venezuela e dei suoi alleati, queste parole di Benjamin Rhodes, vice
consigliere della Sicurezza Nazionale a Washington, possono riassumere bene il senso
politico del VII vertice delle Americhe, terminato sabato pomeriggio a Panama.
Il passaggio, ancora stretto, ancora difficile, per Cuba apre un nuovo scenario per la
politica estera di Barack Obama. Il presidente americano e il Comandante Raúl Castro
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sono stati i protagonisti assoluti del summit. Ma l’agenda congiunta e parallela Usa-Cuba
resta un elenco di opportunità, ancora da concretizzare.
Il numero uno della Casa Bianca ha rimandato la cancellazione dell’isola caraibica dalla
lista dei Paesi sponsor del terrorismo. «Voglio studiare meglio il problema», ha spiegato
Obama. La decisione ha colto di sorpresa gli osservatori, che si aspettavano invece
un’accelerazione su questo punto, considerato dall’Avana, con piena logica, la premessa
indispensabile per riaprire le ambasciate nelle rispettive capitali. È possibile che il
presidente non voglia dare la sensazione di sottovalutare i rischi per la sicurezza
nazionale, spuntando così una delle critiche che sicuramente arriverà dal Congresso
controllato dai Repubblicani. La Camera dei Rappresentanti e il Senato dovranno ora
decidere se e quali sanzioni cancellare dell’ultra cinquantennale blocco economico. Il
pacchetto dovrebbe comprendere il via libera ai turisti e agli scambi nel settore agricolo.
Anche il partito repubblicano deve fare attenzione: un «no» di principio all’apertura di
Obama irriterebbe moltissimo le grandi multinazionali americane (dalle auto ai fazzolettini
di carta), pronte a riversarsi nel mercato cubano.
Non sarà semplice neppure per Raúl Castro. Tocca all’ultimo líder máximo , 83 anni,
rivedere la dottrina ideologica per salvare il Paese. Le cifre dell’economia rivelano la
trappola politica più insidiosa. La bilancia commerciale è in rosso per circa 9 miliardi di
dollari (dati 2013). Le importazioni sono dominate dal petrolio venezuelano (37,1% del
valore totale). Seguono Unione europea (20,7%) e l’onnipresente Cina (12,1%).
Cuba e Castro, al momento, non possono fare a meno dell’appoggio di Nicolas Maduro,
presidente del Venezuela. Ma se le cose funzioneranno con gli Stati Uniti, gli equilibri
potrebbero capovolgersi. Fino al vertice di Panama il blocco «anti-imperialista», formato
da Venezuela, Ecuador, Bolivia, appoggiato dall’Argentina e guardato con simpatia dal
Brasile, sembrava in grado di condizionare l’orientamento generale.
Le mosse di Obama hanno scompaginato gli schematismi: gli Stati Uniti sono pronti a
uscire dal «loro cortile» .
del 13/04/15, pag. 1/19
Costruito da Assurnasirpal II nel IX secolo a.C. non aveva precedenti
nella storia artistica della Mesopotamia L’abbattimento era stato
annunciato dal Califfato il 6 marzo, ma solo oggi arriva l’incredibile
sequenza
“Così abbiamo distrutto il palazzo di Nimrud”
In un video la furia dell’Is sul Partenone
dell’Assiria
PAOLO MATTHIAE
ERA il Partenone dell’Assiria. Oggi è polvere dispersa dal vento. Era per gli assiri il
“Palazzo di ginepro”, la reggia costruita da Assurnasirpal II nella prima metà del IX secolo
a. C. a Kalkhu, il nome antico dell’odierna Nimrud. Fu inaugurato dal grande conquistatore
con uno spettacolare banchetto cui parteciparono 69.574 invitati con 16.000 abitanti della
città e 5.000 principi e dignitari di Paesi stranieri, come ricorda una sua celebre iscrizione.
Vi risiedettero tutti i maggiori sovrani dell’impero assiro fino alla fine dell’VIII secolo a. C. al
tempo di Sargon II che spostò la capitale a Khorsabad. La sua decorazione scultorea su
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grandi lastre d’alabastro per centinaia di metri con scene di soggetto storico e rituale non
aveva precedenti nella storia artistica della Mesopotamia. Era una fabbrica palatina
spettacolare di oltre 150 metri per 120, che fu il modello architettonico di tutti i successivi
palazzi reali d’Assiria. Chiamato dagli archeologi Palazzo Nord-Ovest di Nimrud, i suoi
rilievi, in gran parte oggi al Museo Britannico di Londra, sono dispersi in musei di tutto il
mondo, da New York a Cleveland e a Brooklyn, da Philadelphia a Boston, da Parigi e
Zurigo a San Pietroburgo, da Berlino e Copenhagen a Stoccolma e fino a Bombay. Era la
gemma di un parco archeologico unico che le autorità culturali di Baghdad avevano
allestito dagli anni Settanta del secolo scorso con una massa di rilievi, statue e iscrizioni
originali in posto, restaurando sala per sala un ambiente palaziale senza uguali.
“Là io fondai un palazzo di bosso, di cedro, di cipresso, di terebinto, di tamarisco, otto
settori di palazzo come mia residenza reale, per il mio signorile piacere, e li decorai in
modo splendido. Feci immagini di animali delle montagne e dei mari in calcare bianco e in
alabastro e le disposi alle sue porte… Presi in grandi quantità e vi riposi argento, oro,
stagno, bronzo, ferro, bottino dei paesi su cui avevo esteso il mio dominio… Costruii
questo palazzo per l’eterna ammirazione di governatori e principi”. Così orgogliosamente il
gran re celebra in una lunga serie di iscrizioni la sua memorabile impresa architettonica
della sua nuova capitale.
E alla fine delle sue rievocazioni getta una maledizione terribile su chiunque oserà
danneggiare o distruggere la sua opera: “Chi distruggerà questo monumento, lo
dismetterà, lo ricoprirà con olio, lo seppellirà nella sabbia, lo brucerà con il fuoco, lo
sommergerà con l’acqua, lo porrà sul cammino degli animali selvatici… possa il dio,
signore dei destini, maledire il suo destino…. secondo una maledizione terribile per lo
sradicamento dei fondamenti della sua regalità e per la distruzione del suo popolo; sia
afflitto il suo paese con l’angoscia, la carestia, la fame e l’indigenza…. e per il suo
ineluttabile verdetto sia decretata la sua infelicità e nel suo paese sia scatenata una guerra
infinita senza tregua.”.
Ecco, oggi ciò che non fecero Nabolassar di Babilonia e Ciassare di Media nel 612 a. C.,
quando misero fine con le armi all’impero d’Assiria, lo compie con un disegno di inaudita
barbarie il fanatismo cieco dell’Is. La distruzione di Nimrud era stata annunciata il 6 marzo,
ma solo ora viene divulgato un video agghiacciante in cui non solo si vedono all’inizio scalpellate e demolite sculture e iscrizioni dell’antico signore di Kalkhu, ma viene documentata
l’incredibile sequenza dell’allestimento dei barili di esplosivo disposti lungo tutte le pareti
della reggia. Alla fine del farneticante messaggio appare un’immane esplosione e si leva al
cielo un’altissima colonna turbinante di detriti e fumo. Poi solo l’immagine della
desolazione più sconvolgente e il silenzio del deserto, come se la natura stessa fosse
attonita spettatrice incredula di un massacro che non ha che remotissimi paragoni nella
storia tormentatissima delle distruzioni del patrimonio culturale dell’umanità.
Dopo tremila anni dalla sua creazione uno dei massimi capolavori dell’architettura e
dell’arte di tutti i tempi è annientato e ridotto fisicamente al nulla. Ciò che generazioni di
archeologi di diversi paesi del mondo avevano restituito alla conoscenza, dal lontano 1845
quando l’inglese Austen Henry Layard aveva affondato per la prima volta il piccone nel
terreno che celava le rovine, straordinariamente ben conservate, di Nimrud, un’esplosione
criminale ha ridotto in cenere per il tramite di un “fuoco” ben più micidiale di quanto
potesse immaginare la cancelleria di Assurnasirpal II. Gli scavi del Palazzo Nord-Ovest di
Nimrud, dopo l’epica impresa pionieristica del Layard, furono ripresi, dal 1949 al 1963, da
Max Mallowan e spesso documentati da una fotografa d’eccezione, sua moglie Agatha
Christie, fino a quando, dal 1974, prima un archeologo polacco, Janusz Meuszynski, e poi
un archeologo iracheno, Muzahim Mahmud Hussein, lo scopritore delle favolose tombe
delle regine d’Assiria, completarono le ricerche al fastoso palazzo di Assurnasirpal II.
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Malgrado la difficilissima situazione dell’archeologia in Iraq, le autorità culturali di Baghdad
avevano fatto di Nimrud un sito storico di una fruibilità inusuale, che testimoniava in tutto il
suo splendore il valore dell’arte preclassica dell’antico Oriente.
All’annuncio delle distruzioni a Ninive, a Nimrud e a Hatra, all’inizio di marzo, il segretario
generale dell’Unesco, Irina Bokova, condannando i massacri come un crimine contro
l’umanità, aveva rivolto un appello a tutti i responsabili politici e religiosi del Vicino Oriente
per un’aperta condanna di questa nuovissima barbarie. Oggi di fronte all’evidenza tragica
della documentazione visiva di questi atti infami, la comunità internazionale non può solo
restare sgomenta e interrogarsi sconvolta su quali saranno i prossimi disastri che
incombono sul patrimonio culturale universale. Nel video risuonano queste farneticanti
parole: «Eccoci, grazie a Dio, cancelliamo i segni dell’idolatria e diffondiamo il
monoteismo. Come vedete, distruggiamo ogni statua che fu fatta per essere uguale a Dio”.
Ciò che serve, oggi e subito, è che il mondo islamico levi la sua voce alta e chiara, per il
tramite delle massime autorità religiose di ogni Paese, in una ferma e inequivoca
condanna di azioni sulle quali ogni silenzio non può che apparire complice. Una voce alta
e chiara di civiltà che dichiari con fermezza e sdegno che distruzioni siffatte non possono
essere compiute nel nome dell’Islam.
del 13/04/15, pag. 23
La “legge di sicurezza cittadina” fissa una multa di trentamila euro per
chi marcia in carne e ossa sotto il Parlamento. Ma migliaia di
manifestanti hanno trasformato volti e slogan in una nuova e
tecnologica forma di dissenso
Il corteo di protesta con gli ologrammi così
Madrid “occupa” la piazza vietata
ADRIANO SOFRI
NELLA notte fra sabato e domenica, nel centro di Madrid, proprio davanti al Parlamento,
c’è stato un fantastico, inquietante corteo di protesta. Sono sfilati per un’ora gli ologrammi
di 17.857 manifestanti di ogni parte del mondo, al motto di “Libertà di espressione” e “No
alla legge mordacchia” (ley mordaza, che è più bello, più stringente di legge bavaglio). La
protesta era indirizzata contro la legge “di sicurezza cittadina” del governo Rajoy, in vigore
dal prossimo luglio, che riduce gravemente il diritto di manifestazione. Marciare in carne e
ossa davanti a quel palazzo del Parlamento comporterà una multa di 30.000 euro
(600.000 nella prima versione votata al Senato). Fare foto di agenti, “mancar loro di
rispetto”, formare assembramenti, e una minuziosa quantità di altre azioni cittadine
saranno punite senza passare attraverso la magistratura. Pesanti misure riguardano il
diritto d’asilo e le modalità di rigetto a Ceuta e Melilla.
I promotori della manifestazione si sono chiamati “No somos delito”. Avevano sollecitato
un’adesione internazionale, con un successo notevole, tanto più che si trattava della prima
volta. Bisognava prestare la propria faccia a una telecamera attraverso il web (ed
eventualmente anche la voce con gli slogan a piacere) per una scannerizzazione la cui
elaborazione avrebbe marciato nel corteo libertario. A parte la fierezza della prima volta
tecnologica di una protesta politica (in altri campi gli ologrammi impazzano) si voleva
mostrare come leggi sempre più censorie avrebbero spogliato le persone del diritto a
manifestare se non nei loro simulacri incorporei. Il video della manifestazione, benché
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abbia inevitabilmente qualcosa di spiritistico, di ectoplastico, è strepitoso, e aggiorna
l’esordio antico: “Uno spettro si aggira per l’Europa…”. Naturalmente, come per tutte le
creative applicazioni delle possibilità tecnologiche, induce a paventarne il rovescio. Non
so, la notte del prossimo sabato in cui gli ologrammi dei poliziotti manganellano di santa
ragione gli ologrammi dei nostri, davanti al Parlamento. O anche un ulteriore impigrimento
dello spirito civico in favore della partecipazione virtuale, già dilagante nei clic
parademocratici e nei videogiochi a mano armata, per cui si manderà in strada il proprio
avatar senza staccarsi dal divano.
Del resto, basta cercare alla voce “ologramma” su Google. Un ologramma di Virgilio e uno
di Teodolinda faranno da guida ai visitatori del padiglione della Lombardia all’incombente
Expo. Ologrammi del feto stanno per sostituire l’ecografia nelle gravidanze. L’uomo
anticiperà lo sbarco su Marte attraverso un ologramma. Morto nel 1996, il rapper Tupac
Shakur, alias Maklaveli, si esibì a Coachella nel 2012, mandando in visibilio milioni di fan,
che del resto avevano sempre saputo che uno come lui sareb be risorto. Lo fece
attraverso un ologramma, anzi un’illusione ottica discendente dal “fantasma di Pepper”
(XIX sec.), a sua volta erede delle geniali escogitazioni di Giovanni Battista della Porta
(XVI sec.). A settembre, l’ologramma di Assange ha partecipato a un dibattito nel
Massachusetts. Nei giorni scorsi, in un parco di Brooklin, artisti anonimi avevano collocato
sulla colonna dedicata ai prigionieri di guerra un busto bronzeo di Edward Snowden. La
polizia era intervenuta a coprire trafelatamente il tutto (video online) poi a rimuovere il
busto. L’Illuminator Art Collective — traduciamolo Collettivo di arte illuminista! — ha
rimpiazzato il bronzo rapito con l’ologramma di Snowden proiettato “in una nuvola di fumo”
— però “ephemerally”, destinato a durare poco. “Exegi monumentum aere perennius”,
aveva proclamato, e se lo poteva permettere, Orazio: “Ho eretto un monumento che
durerà più del bronzo”. Gli ologrammi invece passano, ma gli artisti anonimi di Brooklin
hanno già fatto sapere che moltiplicheranno con la stampante 3D le copie del busto di
Snowden e lo dissemineranno dappertutto, più che i nani da giardino.
Bravi dunque gli ologrammisti di Madrid, e però l’altra notizia con cui non possiamo fare a
meno di confrontarci è quella di Tv5M onde, hackerata giorni fa dal “Cyber-califfato”. Il
disgusto per questi tagliagole non impedirà di notare una brillantezza delle loro trovate,
come la scritta: “Je suIS IS” sovrapposta al sito oscurato. Simili imprese (chissà dov’è, se
ancora è, il disgraziato John Cantlie) correggono l’impressione che esistano due mondi:
uno sempre più olografico e virtuale, il nostro, e uno sempre più corporale, di colli segati e
membra amputate, il loro. Sapranno anche loro proiettare ologrammi impeccabili, e mentre
guarderemo ipnotizzati le uniformi nere e i salti mortali e le scimitarre roteate e i pii gridi, ci
arriveranno alle spalle.
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INTERNI
del 13/04/15, pag. 10
Poli Bortone, sì a Berlusconi contro il
candidato di Fitto nascono le due Forza Italia
In Puglia fallisce la proposta del ticket con i due nomi delle opposte
fazioni. Meloni: per ora Fdi con Schittulli
GIULIANO FOSCHINI
BARI .
Nel giorno in cui Forza Italia si rivolta contro Forza Italia, Adriana Poli Bortone è a un
passo dallo scendere in campo per la presidenza della Regione Puglia. Oggi l’ex senatrice
di An dovrebbe ufficializzare il suo sì alla proposta di Silvio Berlusconi di essere il
candidato di Fi. Un sì che però potrebbe costare un’implosione all’interno del suo partito,
Fratelli d’Italia, che invece continua a essere dalla parte del candidato di Raffaele Fitto e
Ncd, l’oncologo Francesco Schittulli.
La decisione della Poli Bortone è arrivata al termine di una giornata schizofrenica,
cominciata con il più clamoroso dei colpi di mano da parte dei fittiani. In mattinata a Lecce
e a Corato i parlamentari Roberto Marti e Luigi Perrone hanno autoconvocato le segreterie
cittadine contro i commissariamenti di Vitali e dunque di Berlusconi: «Quello - hanno
attaccato - è un atto incomprensibile e illegittimo politicamente prima ancora che
statutariamente ». Via dunque alle elezioni dei nuovi coordinatori, «una festa della
democrazia» hanno gridato, provocatoriamente, i due parlamentari, annunciando che al
voto avevano partecipato l’80 per cento degli iscritti.
Mentre in Puglia si votava, nella tarda mattinata, da Roma, Fitto chiedeva un ticket
Schittulli-Poli Bortone. «Solo se il ticket è Poli Bortone-Schittulli» ha risposto Vitali. A
sbloccare il tutto è arrivata la Lega, che dopo aver arricciato il naso ha annunciato
l’appoggio alla meridionalista per eccellenza, appunto la Poli Bortone: «Troviamo un
programma comune per battere le sinistre» hanno detto Raffaele Volpi e Giancarlo
Giorgetti per conto di Matteo Salvini. L’appoggio della Lega ha convinto la Poli ad
accettare la proposta di Berlusconi. Anche se, per paradosso, il problema principale è ora
all’interno del suo partito. La Meloni non vuole mollare Schittulli, fortemente appoggiato dai
dirigenti regionali di Fdi. E il partito rischia di implodere: «Forza Italia - dice Ignazio La
Russa - deve valutare ed evitare la frattura in Puglia e l'effetto domino che ne potrebbe
derivare in altre Regioni». Ma ormai la strada sembra scritta. E la Poli Bortone è pronta
anche a uscire dal partito: «Dopo le dichiarazioni della Lega ci sono le condizioni per
arrivare in Puglia alla composizione di un centrodestra nuovo. Il fatto che siano presenti
nel progetto in primo luogo Forza Italia e la Lega di Salvini, che mostra attenzione anche
alle problematiche del Mezzogiorno, ma anche i rappresentanti del Nuovo Psi, dei
Socialdemocratici e della Democrazia Cristiana, mi fa pensare che può nascere un
interessante laboratorio politico, pronto ad ampliarsi». Oggi alle 16 il faccia a faccia con la
Meloni.
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del 13/04/15, pag. 12
La faida dem di Ercolano dove gli inquisiti
resistono al repulisti del Nazareno
Avvisi di garanzia per sindaco e vicesindaco, primarie annullate Resta
solo un candidato. Renzi: “Si va con lui o vi commissario”
CONCHITA SANNINO
DAL NOSTRO INVIATO
ERCOLANO .
Da giornata delle primarie a domenica della faida. Niente soluzione «unitaria », la tensione
resta alle stelle e il drappello di irriducibili anti-Renzi staziona sempre sulla strada tra la
costa e il Vesuvio, occupando la vecchia sede del Pci: eccetto che per la pausa deserta di
Napoli-Fiorentina, si capisce. Così, alla vigilia delle amministrative già sporcate dalla
presenza di famiglie di camorra inserite nell’improvviso boom dei tesserati Pd, esplode il
caso amministrative avvelenate di Ercolano. Il gruppo dei “ribelli” si dà appuntamento per
un’altra infuocata assemblea, questa sera. Così dal Nazareno piovono, nel cuore del
napoletano, sms di fuoco: «O si va con l’unico candidato presentabile che c’era già da
prima, o sarà commissariamento. Attenti, ci giochiamo una lunga storia sul territorio».
Ma è solo il più acceso dei punti dolenti, nel Mezzogiorno delle contraddizioni democrat. A
Giugliano c’è Antonio Poziello, scelto dalle primarie per sindaco ma su cui pende un
imsiedono minente rinvio a giudizio per truffa. Per non dire del partito spaccato in
Campania sul candidato governatore Vincenzo De Luca, su cui scatterà, se eletto a
maggio a Palazzo Santa Lucia, la sospensione della legge Severino.
E ora Ercolano. Sulla roccaforte del centrosinistra da oltre vent’anni, dove le
amministrazioni degli ultimi lustri erano perfino riuscite nell’impresa di de-rackettizzare il
territorio e spingere alla coraggiosa denuncia frotte di commercianti, cala quattro giorni fa
l’inchiesta su corruzione e appalti truccati che azzoppa sindaco e vicesindaco, Vincenzo
Strazzullo e Antonello Cozzolino. I due, indagati anche per associazione per delinquere,
sono costretti a ritirarsi dalle primarie, ma non accettano che sul campo resti il terzo
candidato: il renziano della prima ora Ciro Buonajuto, già consigliere comunale entrato in
direzione nazionale, calato dall’alto come unico nome. Soluzione che appare ai fedelissimi
di Strazzullo e Cozzolino, e soprattutto ai parlamentari della minoranza a loro collegati,
come un diktat. Esplode la protesta, viene aperta e occupata la sede di via IV Novembre.
Surreale la scena dell’altra sera: al tavolo tutti e quattro gli indagati («totalmente estranei»
alle ipotesi di reato, dicono), il sindaco Strazzullo, il vice Cozzolino, l’assessore Salvatore
Solaro e il consigliere Pasquale Romano sostenuti da iscritti, parenti e cittadini. Con loro, il
segretario cittadino Pd, Antonio Liberti, che è stato nella stessa giunta ex assessore al
Bilancio. Non una riflessione sulla gravità delle accuse, sullo scenario ipotizzato
dall’inchiesta. Nella mattina in cui esplode la notizia dell’inchiesta, Liberti è in casa del
sindaco; si decide che sia lui il candidato unitario, ci stanno lavorando anche alla
segreteria provinciale, immediatamente parte una raccolta di firme. Ma da Roma non la
pensano così. Stando al regolamento, se due candidati su tre si ritirano dalle primarie,
resta il terzo. Esplodono i malumori.
Liberti ora spiega: «Intanto non esacerbiamo gli animi più di quanto non stia già
avvenendo. Io sono anche amico di Buonajuto, vogliamo cercarla una soluzione, tutti
insieme. E poi la nostra non è proprio un’occupazione. È un presidio». Ma come mai
neanche una riflessione sulla questione morale? Tutto normale nel fatto che un sindaco
uscente e il suo braccio destro rispondano di corruzione su appalti per oltre 20 milioni?
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«Non è così. Io sono settimane che chiedo e mi chiedo: cosa ci è successo? Io stesso
andai dai carabinieri quando capii che poteva esserci qualcosa di strano in quel
tesseramento», replica Liberti. Difatti c’erano 36 nomi a rischio di camorrra, poi la
commissione regionale ha cancellato le liste del boom, riportandole da 1200 a poco più di
200 iscritti, e il sindaco Strazzullo ha fatto ricorso. Spiega, dall’altro lato, Buonajuto:
«Dicono che sia stato l’87 per cento degli iscritti a scegliere Liberti. Ma parliamo quindi
della percentuale sui veri, e vecchi iscritti, ovvero circa 200 persone». In agenda,
ufficialmente, il premier Renzi era atteso a Ercolano entro sabato prossimo, per inaugurare
la campagna di Buonajuto. Ipotesi ora congelata. Anche se al consigliere sarebbe arrivato
un messaggio incoraggiante dal sottosegretario Luca Lotti. Ma se la tensione dovesse
ancora salire, si profila l’ipotesi commissariamento. Accade nella regione dei vari
“capolavori“ democrat: i casi De Luca, Ercolano, Giugliano.
del 13/04/15, pag. 8
Il Pd da Ercolano a Enna Quando i potentati
locali imbarazzano Renzi
Scollamento tra Roma e il territorio, missione del premier al Sud
Milano
Massimo Rebotti
Per Matteo Renzi, Luca Lotti è l’uomo delle missioni difficili, colui che mette il sigillo del
segretario sulle situazioni da risolvere.
Venerdì scorso Lotti è andato in Campania, una regione che da tempo impensierisce il
vertice del partito (le primarie che hanno incoronato Vincenzo De Luca, per dirne una,
sono state rinviate per quattro volte prima di essere svolte). Ad Avellino l’emissario di
Renzi ha detto due cose: «De Luca è il candidato del Pd; lui ha vinto le primarie e tutti
sapevano chi andavano a votare». Il caso del sindaco di Salerno (con una condanna in
primo grado per abuso d’ufficio) sospeso, poi reintegrato, poi ancora sospeso, è quindi
chiuso: il candidato è lui. Ma non per questo la Campania ha smesso di preoccupare
Renzi.
Il caso più imbarazzante in questi giorni è a Ercolano: la sede locale del Pd è occupata per
protesta contro la decisione di indicare da Roma il candidato sindaco. La mossa si era
resa necessaria per due ragioni: sul circolo di Ercolano c’è un’inchiesta della Direzione
distrettuale antimafia e due dei pretendenti pd alla poltrona di primo cittadino si erano già
dovuti ritirare perché indagati per corruzione e turbativa d’asta. Insomma, a Roma hanno
ritenuto che ce ne fosse abbastanza per intervenire, ma a Ercolano si sono ribellati: qui
decidiamo noi. È la spia di una difficoltà più generale: le situazioni locali sfuggono sempre
più spesso al controllo del partito centrale. A Giugliano (terzo comune della Campania per
numero di abitanti), a marzo ci sono state le primarie, «una vera festa di popolo» secondo
il Pd locale con oltre diecimila votanti. Il vincitore, Antonio Poziello, quasi 4 mila
preferenze, tra qualche giorno rischia di essere rinviato a giudizio per associazione a
delinquere. Renzi è intenzionato a intervenire, come per Ercolano, e sostituire il candidato,
magari già sabato quando è atteso a Pompei. E chissà se poi qualcuno non si ribella
anche qui.
Poco lontano, a Pomigliano d’Arco, il problema era stato risolto alla radice: le primarie,
vinte con uno scarto di tre voti sono state annullate nel caos (la Casa del popolo fu anche
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occupata da un gruppo di cassintegrati mentre la gente era in coda per votare). E anche in
questo caso il Pd locale ha protestato per il voto «usurpato».
In Sicilia, ad Agrigento, un caso più unico che raro: le primarie del centrosinistra le ha vinte
(oltre duemila preferenze) un candidato indicato da un deputato di Forza Italia. Imbarazzo,
polemiche, il presidente del Pd siciliano Marco Zambuto che si deve dimettere dopo che si
viene a sapere di un suo incontro riservato con Berlusconi che, secondo i suoi oppositori,
servì proprio per definire quell’insolita candidatura. Alla fine il Pd disconosce il risultato, ma
i tormenti non finiscono. Indica come candidato sindaco l’ex presidente della Regione,
Angelo Capodicasa, che però poco dopo si ritira. A Enna, se possibile, la faccenda è
perfino più rognosa: in discussione non c’è, come ad Agrigento, una candidatura tanto
spregiudicata da risultare imbarazzante, ma un pezzo di storia (controverso) del Pd, e
prima ancora del Pci, siciliano.
Vladimiro Crisafulli, che nel 2013 il comitato nazionale dei garanti pd considerò «non
candidabile» alle Politiche a causa di diversi trascorsi giudiziari, decide di correre come
sindaco. A Roma il vicesegretario Debora Serracchiani avanza dei dubbi e Crisafulli, 65
anni, davanti all’assemblea cittadina del Pd, piange: «Ho dedicato la vita a questo partito».
Di sé una volta disse: «Io a Enna vinco sempre, con il maggioritario, il proporzionale e
pure con il sorteggio», e anche questa volta, visto che «i voti ce li ha lui» (per diventare
segretario ha ottenuto un surreale 98,5%), dovrebbe spuntarla.
In giro per l’Italia di casi difficili per il Pd, tra infiltrazioni criminali e primarie contestate, ce
ne sono altri. Macroscopico quello di Roma, il partito è commissariato ed è stato descritto
dall’ex ministro Fabrizio Barca, incaricato di una mappatura dei circoli, come «pericoloso»
e in preda «alle scorribande dei capibastone».
È politica invece la questione in Liguria dove la candidata alla presidenza Raffaella Paita
ha ricevuto alle primarie l’appoggio di esponenti del centrodestra. Sergio Cofferati, che fu
sconfitto, denunciò irregolarità e la commissione dei garanti decise di annullare oltre
cinquemila voti per gravi anomalie. Paita risultò comunque eletta e Cofferati lasciò il
partito, annunciando che avrebbe portato in Procura i verbali dei seggi. Di quell’eventuale
strascico giudiziario per il momento non si è saputo più nulla ma, c’è da scommetterci, il
tema delle primarie «inquinate» tornerà d’attualità con la campagna elettorale e il duello
che si preannuncia a sinistra.
del 13/04/15, pag. 12
GRANDI OPERE
Un decreto per eliminare le procedure
d’emergenza
ROMA Telefonate, messaggi, appelli pubblici. Il ministro delle Infrastrutture, Graziano
Delrio, ha cercato di mettere le mani avanti, ma la cura dimagrante da lui inflitta alla lista
delle opere strategiche, ridotte nell’Allegato infrastrutture del Def (Documento di economia
e finanza) a appena 25, ha creato allarme sul territorio. Le infrastrutture escluse che fine
fanno? Si chiedono gli interessati.
«È assolutamente inaccettabile che un’opera di grande importanza strategica come
l’autostrada Catania-Ragusa sia stata depennata» attacca il sindaco di Catania, Enzo
Bianco. «La notizia del definanziamento della Cisterna-Valmontone, tratta fondamentale
della Roma-Latina è figlia di un malinteso» si autorassicura Raffaele Ranucci, senatore del
Pd, chiedendo spiegazioni. «Anni di lavoro della Regione Marche buttati all’aria: oramai è
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chiaro che la Fano-Grosseto non è una infrastruttura prioritaria per il governo Renzi» si
rassegna l’assessore marchigiano alle Infrastrutture, Paola Giorgi. Da Bologna il collega
Raffaele Donini chiede «subito un incontro col ministro per fare il punto sui principali
progetti strategici». Il Porto di Ravenna e l’autostrada E45-E55 non sono nella lista ma
l’assessore ci spera: «Delrio dice che questa del Def è una proposta e che ci sarà
un’interlocuzione con i territori».
E in effetti Delrio lo ha detto anche ieri: l’elenco non va «mitizzato» perché è solo
«un’indicazione di marcia» di quali siano le opere strategiche (assistite da programmi
europei) e di quando saranno completate. Con il piano triennale saranno portate avanti
tutte le opere, specie quelle «utili» di edilizia scolastica o contro il dissesto idrogeologico,
le cui due unità di missione sono passate da Palazzo Chigi a Porta Pia.
Ma se l’elenco delle opere prioritarie non è una lista esclusiva su cui mettere le risorse, a
cosa serve? Una volta le opere strategiche godevano, oltre che dei soldi, della corsia
preferenziale della legge Obiettivo, ma anche su questo punto Delrio ha in mente una
rivoluzione. Basta procedure di emergenza solo percorsi ordinari in base a regole
europee. Un chiaro richiamo alla delega sugli Appalti, attuativa di una direttiva Ue, che in
commissione in Senato la scorsa settimana si è consolidata in un nuovo testo proposto dai
relatori. Il viceministro Riccardo Nencini è persuaso che a fine aprile si passerà all’Aula e
che l’iter si concluderà a fine anno.
Ma il governo potrebbe decidere di anticiparne una parte tramite decreto, in particolare la
nuova disciplina del general contractor , che verrebbe depotenziato a favore di una
direzione dei lavori del committente più forte. «Speriamo che questa accelerazione
significhi che si riparte» auspica il presidente dei costruttori (Ance), Paolo Buzzetti, che
condivide l’approccio «minimalista» di Delrio.
Antonella Baccaro
del 13/04/15, pag. 1/25
I riflettori sui magistrati
ILVO DIAMANTI
IL PRESIDENTE Mattarella dopo il massacro avvenuto al palazzo di Giustizia, a Milano,
ha lanciato un messaggio esplicito. Contro la campagna di discredito che, da tempo,
investe i magistrati. Come, d’altronde, Gherardo Colombo, in passato pm di «Mani pulite»,
e il presidente dell’Anm, Rodolfo Sabelli. D’accordo nel denunciare il clima di rabbia e di
veleni, non estraneo all’azione criminale dell’assassino.
IL QUALE , non per caso, ha individuato il «luogo» responsabile del proprio fallimento (in
senso letterale) proprio nel palazzo di Giustizia. Dove ha ucciso il giudice Ciampi e altre
due persone (tra cui un avvocato). Naturalmente, non è possibile ricondurre a ragioni
sociologiche comportamenti criminali, che hanno radici largamente patologiche. Tuttavia,
l’idea che esista un clima d’opinione sempre meno favorevole ai magistrati e al sistema
giudiziario è sicuramente fondata. E il ri-sentimento verso l’ambiente della giustizia è, anzi,
cresciuto negli ultimi tempi. È lontana l’epoca di Tangentopoli, quando, nei primi anni
Novanta, gli italiani affidarono a pm e giudici il compito di decapitare (metaforicamente) la
classe politica che aveva governato l’Italia repubblicana fino ad allora. Corrotta e
delegittimata. Giudici e pm divennero, allora, gli esecutori della «volontà popolare». In
quegli anni, la fiducia nei loro confronti si avvicinò al 70%. Senza grandi differenze di
schieramento politico. Pochi anni dopo, però, questo atteggiamento divenne più tiepido e
sicuramente meno trasversale. Soprattutto perché l’interprete principale della nuova
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stagione (anti) politica, Silvio Berlusconi, insieme a Forza Italia, venne coinvolto da
indagini e inchieste «giudiziarie» compromettenti. E concatenate, come la trama fitta del
conflitto di interessi del Cavaliere. Così, la fiducia nei magistrati cominciò a declinare, in
modo sensibile, soprattutto a centrodestra. Questa tendenza, in seguito, si è allargata. La
fiducia nella magistratura, infatti, è scesa costantemente, fino a oscillare intorno al 3540%, fra il 2005 e il 2010. In seguito è calata ancora. Fino al 30%, rilevato da Demos
alcune settimane fa. Dunque, prima degli omicidi avvenuti al palazzo di Giustizia. Si tratta
dell’indice di consenso più basso registrato dal 1994 ad oggi.
Il clima di sfiducia denunciato dai magistrati, effettivamente, esiste. E ha diverse ragioni.
Alcune delle quali, sicuramente, «politiche». Come dimostra la profonda, differenza di
atteggiamenti, in base alla posizione politica e alle scelte di partito. Attualmente, infatti, la
quota di elettori che esprime fiducia verso i magistrati è intorno al 41%, nella base del Pd,
ma scende al 29% nella base del M5S, al 25%, fra gli elettori di Fi e, infine, al 18% fra
quelli della Lega. C’è, dunque, un’evidente «frattura» politica, che marca l’atteggiamento
verso i magistrati. Guardati con ostilità da destra, con diffidenza dal M5S. Visti, invece, con
maggiore favore a sinistra. Tuttavia, il pregiudizio politico nei confronti dei magistrati è
cresciuto in modo generalizzato e trasversale. Anche fra gli elettori di centrosinistra, infatti,
il consenso nei loro riguardi è calato, di quasi20 punti negli ultimi 5 anni.
La causa di questo mutamento d’opinione è, dunque, in gran parte, «politica». E ha alcune
spiegazioni precise.
Anzitutto, i magistrati, dagli anni di Tangentopoli in poi, hanno assunto un ruolo «politico».
Perché hanno contrastato l’illegalità cresciuta insieme all’intreccio fra partiti e interessi.
Sono, dunque, divenuti i controllori di un sistema compromesso e poco credibile.
Alessandro Pizzorno ha osservato che si sono trasformati nei «garanti della pubblica
virtù». In grado di delegittimare, con un’inchiesta, un leader o un amministratore.
In secondo luogo, i magistrati stessi, in alcuni casi, sono divenuti attori politici di rilievo. A
partire da Antonio Di Pietro. Fino a Antonio Ingroia. Ma sono molti, oggi, i magistrati in
Parlamento, alcuni eletti anche nelle liste di centrodestra. Altri, invece, impegnati come
sindaci in città importanti. Emiliano a Bari. De Magistris a Napoli. Mentre Casson è
candidato a Venezia. Difficile non venire coinvolti dai (ri) sentimenti politici quando si
diviene canale di formazione della classe politica. Perché l’identità del magistrato persiste.
E Di Pietro, De Magistris ed Emiliano restano «magistrati» anche se hanno cambiato ruolo
e attività.
Così, presso l’opinione pubblica, si è diffusa la tendenza a «politicizzare» l’immagine dei
magistrati. A percepirli come «attori », oltre che «controllori», della politica. In altri termini,
oggi l’orientamento dei cittadini verso la politica, i politici e i partiti è sempre più disilluso.
E, a differenza di vent’anni fa, non riconosce più i magistrati come moralizzatori.
Nonostante che la «questione morale», sollevata da Enrico Berlinguer all’inizio degli anni
Ottanta, sia sempre attuale. E colpisca settori politici e amministrazioni — regionali e
comunali — di destra ma anche di sinistra. Non per caso il 48% dei cittadini (Demos,
marzo 2015) ritiene che oggi la corruzione politica, in Italia, sia più diffusa che all’epoca di
Tangentopoli. Mentre solo l’8% pensa il contrario.
Per questo la preoccupazione espressa dal Presidente e dal Csm è fondata. Ma non
facilmente risolvibile. Perché lo spazio della magistratura si è allargato nel vuoto della
politica. Le sue funzioni di controllo e di intervento si sono moltiplicate parallelamente al
riprodursi della corruzione e degli illeciti. Nella realtà politica ma anche nella vita pubblica.
Al punto che oggi si assiste a una sorta di «giuridificazione della vita quotidiana ». Che
accompagna, a fini di controllo, le nostre attività — pubbliche, ma anche private.
Praticamente ogni giorno.
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Per alleggerire le tensioni sulla magistratura, dunque, dovremmo «rassegnarci» al ritorno
della politica. E dell’etica: nella vita pubblica e privata. Si tratta di un’impresa difficile, mi
rendo conto. Ma, voglio credere, non impossibile.
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LEGALITA’DEMOCRATICA
del 13/04/15, pag. 13
Fondazioni, stop alla giungla trasparenza sui
soldi ai politici
ANNALISA CUZZOCREA
ROMA . Un disegno di legge per censire le fondazioni politiche e sottoporle agli stessi
obblighi di trasparenza richiesti ai partiti. Lo presenterà nelle prossime settimane il
deputato ed ex tesoriere pd Antonio Misiani. Che su questo, potrebbe trovare l’appoggio
del Movimento 5 Stelle: «Sto facendo una ricognizione di tutte le fondazioni riconducibili a
personaggi politici - dice il presidente della Vigilanza Rai Roberto Fico - voglio tracciare
una mappa del potere comprensibile a tutti i cittadini».
A ritirar fuori una polemica venuta fuori già tre anni fa, nel momento in cui si mise mano al
finanziamento dei partiti senza regolamentare i contributi che si possono ricevere senza
l’obbligo di renderli pubblici con le fondazioni, è stato Raffaele Cantone. «Devono
diventare case di vetro, va imposta una trasparenza che consenta di individuare quanto
entra e quanto esce dalle loro casse», ha detto il presidente dell’Autorità Anticorruzione.
Mentre il premier Matteo Renzi, pur favorevole a norme che ne disciplinino i finanziamenti,
ha ricordato: «C’è una questione di privacy: se un finanziatore non vuole dirlo, c’è un diritto
soggettivo a non veder comparire il proprio nome».
«È così anche per la legge sui partiti - svela Misiani - è vero che i contributi oltre i 5000
euro sono pubblici, ma non possono essere resi noti attraverso Internet se il donatore non
dà il consenso». Devono essere comunicati agli uffici competenti, però: «È quello che
intendo chiedere per le fondazioni. Serve un registro che le censisca e poi, come i partiti,
dovranno essere sottoposte alla commissione per la trasparenza. Nel resto del mondo non
c’è privacy che tenga: è tutto pubblico». Una legge l’ha presentata alla Camera anche il
capogruppo del misto Pino Pisicchio che in un libro, nel 2011, aveva contato ben 80
fondazioni “politiche”: «Fino a poco tempo fa ogni leader ne creava una per finanziare la
sua attività, senza doverne rendere conto in alcun modo. La mia proposta si ispira invece
al modello tedesco: una fondazione per ogni partito, ma con gli stessi obblighi fiscali e di
trasparenza».
Con Raffaele Cantone non è affatto d’accordo il senatore pd Ugo Sposetti: «Vede
corruzione anche sotto le lenzuola. Ora ha scritto anche il libro. Lo seguo. Mi interessa
capire dove vuole arrivare». Per l’ex tesoriere ds, che nel 2010 aveva presentato un’altra
proposta sul modello tedesco, le fondazioni attuali hanno regole adeguate: «I bilanci sono
sottoposti al controllo delle prefetture, come per tutte le fondazioni. È difficile distinguere
tra politiche e non quando a crearle sono privati cittadini. Quello che bisogna chiedersi
sulla fondazione Open di Matteo Renzi non è quante donazioni liberali riceva, e da chi. Ma
perché mai debba esistere ancora la fondazione del dottor Renzi ora che è diventato
segretario del Pd».
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WELFARE E SOCIETA’
del 13/04/15, pag. 9
Il governo frena sulle Asl ma conferma i tagli
Il ministero della Sanità: nessun piano nazionale di riduzione della
aziende sanitarie, individuare il modello spetta alle Regioni I 2,3 miliardi
di risparmi dalla sanità arriveranno da nuovi contratti con i fornitori e
una stretta alla spesa farmaceutica
MICHELE BOCCI
UNA riforma che può essere avviata soltanto dalle Regioni. Dietro alle parole del premier
Renzi sul taglio del numero delle Asl non c’è, almeno per ora, alcun progetto del ministero
della Sanità. E del resto sarebbe difficile dettare da Roma le linee di un’operazione del
genere, visto che la competenza sanitaria spetta alla Regioni. Alcune di queste,
comunque, si stanno muovendo per ridurre la macchina organizzativa. È il caso di quella
del premier, la Toscana, che di recente ha approvato una riforma per portare le Asl da 12
a 3 (alle quali vanno aggiunte 4 aziende ospedaliere), e dell’Emilia Romagna. Già da un
paio d’anni ha fuso le 4 Asl della Romagna, con effetti che non sarebbero però del tutto
soddisfacenti, tanto che per ora non si parla di altre operazioni simili. La Lombardia ha in
tutto ben 44 aziende, e ridurrà quelle ospedaliere, che sono 29 e dovrebbero diventare 3.
Il Veneto invece ne ha 23, delle quali 21 sanitarie e 2 ospedaliere.
In Italia secondo i dati di Fiaso, la federazione delle Asl, ci sono 225 aziende (dieci anni fa
erano 347): 139 sanitarie e 86 ospedaliere. Non è detto che una loro riduzione produca
risparmi decisivi. I direttori generali non guadagnano tantissimo per essere manager
pubblici: 140 mila euro l’anno in media.
Anche tagliando il 20% delle Asl si risparmierebbero così spiccioli di stipendi, circa sei
milioni-dieci milioni, tenendo conto che insieme ai direttori generali si potrebbero tagliare
anche quelli amministrativi. Ma va ricordato che quasi sempre questi dirigenti sono
dipendenti del servizio pubblico in aspettativa, primari o dirigenti, e quindi tornerebbero a
svolgere il lavoro precedente, in qualche caso pagato meglio.
Cosa diversa sono gli accorpamenti di funzioni. Ad esempio la creazioni di centrali di
acquisto uniche, che permettono di strappare prezzi migliori dai fornitori, ma anche di uffici
amministrativi comuni, come ad esempio quelli che gestiscono gli stipendi. In una regione
come la Toscana, ha detto ieri il governatore Enrico Rossi, questi accorpamenti negli anni
hanno fatto risparmiare 70 milioni.
Renzi ha anche ribadito il taglio da 2,3 miliardi alla Sanità. I risparmi, su cui c’è già
l’accordo delle Regioni, riguardano varie voci della spesa. Intanto si rivedranno i contratti
con i fornitori di beni e servizi alle Asl. La ricontrattazione dovrebbe far risparmiare 1,4
miliardi. Il meccanismo è simile a quello solo proposto ai tempi del premier Monti. Altri 545
milioni arriveranno dalla farmaceutica, con la realizzazione del nuovo prontuario che
eliminerà medicinali vecchi e con l’abbassamento del tetto della spesa che serve a far
scattare il “pay back”, cioè il ripiano a carico dell’industria. Poi, tra l’altro, si lavorerà
sull’appropriatezza, chiudendo reparti e cliniche convenzionate con pochi letti.
del 13/04/15, pag. 12
GRANDI OPERE
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Un decreto per eliminare le procedure
d’emergenza
ROMA Telefonate, messaggi, appelli pubblici. Il ministro delle Infrastrutture, Graziano
Delrio, ha cercato di mettere le mani avanti, ma la cura dimagrante da lui inflitta alla lista
delle opere strategiche, ridotte nell’Allegato infrastrutture del Def (Documento di economia
e finanza) a appena 25, ha creato allarme sul territorio. Le infrastrutture escluse che fine
fanno? Si chiedono gli interessati.
«È assolutamente inaccettabile che un’opera di grande importanza strategica come
l’autostrada Catania-Ragusa sia stata depennata» attacca il sindaco di Catania, Enzo
Bianco. «La notizia del definanziamento della Cisterna-Valmontone, tratta fondamentale
della Roma-Latina è figlia di un malinteso» si autorassicura Raffaele Ranucci, senatore del
Pd, chiedendo spiegazioni. «Anni di lavoro della Regione Marche buttati all’aria: oramai è
chiaro che la Fano-Grosseto non è una infrastruttura prioritaria per il governo Renzi» si
rassegna l’assessore marchigiano alle Infrastrutture, Paola Giorgi. Da Bologna il collega
Raffaele Donini chiede «subito un incontro col ministro per fare il punto sui principali
progetti strategici». Il Porto di Ravenna e l’autostrada E45-E55 non sono nella lista ma
l’assessore ci spera: «Delrio dice che questa del Def è una proposta e che ci sarà
un’interlocuzione con i territori».
E in effetti Delrio lo ha detto anche ieri: l’elenco non va «mitizzato» perché è solo
«un’indicazione di marcia» di quali siano le opere strategiche (assistite da programmi
europei) e di quando saranno completate. Con il piano triennale saranno portate avanti
tutte le opere, specie quelle «utili» di edilizia scolastica o contro il dissesto idrogeologico,
le cui due unità di missione sono passate da Palazzo Chigi a Porta Pia.
Ma se l’elenco delle opere prioritarie non è una lista esclusiva su cui mettere le risorse, a
cosa serve? Una volta le opere strategiche godevano, oltre che dei soldi, della corsia
preferenziale della legge Obiettivo, ma anche su questo punto Delrio ha in mente una
rivoluzione. Basta procedure di emergenza solo percorsi ordinari in base a regole
europee. Un chiaro richiamo alla delega sugli Appalti, attuativa di una direttiva Ue, che in
commissione in Senato la scorsa settimana si è consolidata in un nuovo testo proposto dai
relatori. Il viceministro Riccardo Nencini è persuaso che a fine aprile si passerà all’Aula e
che l’iter si concluderà a fine anno.
Ma il governo potrebbe decidere di anticiparne una parte tramite decreto, in particolare la
nuova disciplina del general contractor , che verrebbe depotenziato a favore di una
direzione dei lavori del committente più forte. «Speriamo che questa accelerazione
significhi che si riparte» auspica il presidente dei costruttori (Ance), Paolo Buzzetti, che
condivide l’approccio «minimalista» di Delrio.
Antonella Baccaro
del 13/04/15, pag. 26
Abbiamo ottime scuole ma cattive università, una buona sanità ma
troppi obesi. Esercitiamo la libertà di pensiero ma in alcuni campi c’è
una censura strisciante È il nostro Paese come emerge da una
classifica del benessere, dove quest’anno abbiamo perso altre due
posizioni. Piazzandoci, per esempio, dietro il Cile
25
Progresso all’ italiana
ETTORE LIVINI
L’ITALIA archivia un altro anno in chiaroscuro nel Campionato mondiale della felicità.
Siamo l’ottava potenza mondiale, il nostro Pil – dopo tre anni di segni meno – ha ripreso
timidamente a crescere. I soldi però non sono tutto. E a raffreddare i facili entusiasmi è
arrivato il verdetto del Social Progress Index, la pagella messa a punto da Michael Porter
dell’Università di Harvard per misurare la qualità della vita in 133 paesi valutando – oltre il
prodotto interno lordo – 58 parametri “sociali” tra cui tutela dell’ecosistema, sicurezza,
sanità, libertà politica e d’espressione ed accesso a educazione e risorse.
Il risultato dell’edizione 2015 dello studio, visto da Roma, non è brillantissimo: il Belpaese
è scivolato dal 29esimo al 31esimo posto della graduatoria. Dietro a Slovenia, Estonia,
Cile e Costarica. Viviamo più a lungo di tutti tranne il Giappone (82,9 anni in media), non
conosciamo il senso della parola fame, abbiamo 1,59 abbonamenti a cellulari per abitante
— un lusso che pochi possono permettersi al mondo — un tasso di mortalità infantile
bassissimo e un ottimo sistema d’istruzione di base. Ma corruzione, criminalità, scarsa
attenzione all’ambiente, obesità (tocca il 17,6% degli italiani) e i troppi studenti universitari
fuori corso fanno precipitare la nostra media in pagella molto al di sotto di gran parte dei
Paesi europei. Un quadro grigio. Dove la ciliegina sulla torta è il dato sulle persone che
non si sentono davvero padrone della loro vita: solo il 61 per cento degli italiani, calcola lo
studio, dice di essere libero di fare le proprie scelte esistenziali. Cifra che ci condanna al
91° posto di questa graduatoria dietro Yemen, Mali, Nepal e Libia, Paesi nei quali c’è
evidentemente più ottimismo che da noi.
La testa della classifica del Social Progress Index è appannaggio dei soliti noti: nell’ordine
Norvegia, Svezia, Svizzera, Islanda e Nuova Zelanda, abbonati fissi del podio di tutte la
classifiche di vivibilità. Gli Stati Uniti — prima potenza globale se l’unità di misura è solo il
portafoglio — arrancano in 16esima posizione, penalizzati da voti non proprio brillanti
sull’accessibilità al sistema sanitario (gli Usa sono al 38° posto per mortalità infantile e al
55° per il numero di mamme morte di parto), razzismo, obesità e spreco dell’acqua.
Il nostro Paese ha un bilancio in chiaroscuro. Fatto di aree della quotidianità dove la
qualità della vita italiana non ha rivali e di buchi neri dove fatichiamo a ritagliarci uno
spazio tra i Paesi avanzati. L’acqua è la sintesi di questa realtà a due facce: è disponibile
per tutti (grazie a ma- dre natura), è ben distribuita anche nelle zone rurali, regalandoci
punteggi a cinque stelle nelle valutazioni di Harvard. L’unico problema è che, una volta
sfruttata, la abbandoniamo al suo destino, meritandoci una bocciatura piena per la
situazione di depuratori e fogne tricolori.
L’elenco delle insufficienze in pagella comprende pure la corruzione — non c’è bisogno di
spiegare perché — dove viaggiamo al 52esimo posto al mondo, l’accesso a edilizia
agevolata e internet (46esimi dietro Trinidad & Tobago e Azerbaijan) e la criminalità
percepita, categoria dove meritiamo un’inguardabile 93esima posizione. Roba da non
stare troppo allegri. E in effetti anche sui suicidi non ce la caviamo male, visto che con 5,8
persone che si tolgono la vita ogni 100mila abitanti veleggiamo a metà classifica, lontani
mille miglia da quel Bengodi della Giamaica (1,7 su 100mila) ma molto meglio della Sri
Lanka dove la tragica statistica segna quota 37.
La fotografia della ricerca racconta che i Paesi più aperti all’omosessualità sono Olanda,
Spagna e Islanda, mentre Pakistan, Afghanistan e Tajikistan sono in maglia nera (l’Italia è
27esima). Roma brilla sul fronte del controllo delle malattie infettive — siamo ottavi —
mentre segna il passo sull’accesso ai metodi di contraccezione dove sprofondiamo in
80esima posizione, testa a tesa con Laos e Malawi.
26
Dati attendibili? A Bruxelles sono sicuri di sì. Tanto che la Ue, stanca di misurare la febbre
dell’Unione tenendo conto solo del numero gelido del Pil, ha deciso di adottare il Social
Progress Index tra gli strumenti statistici per stabilire come allocare i 63 miliardi di aiuti
comunitari alle zone più in difficoltà. Mirando gli interventi sulle aree dove c’è più bisogno.
«La sorpresa della nostra ricerca è la mancata correlazione tra stato di salute
dell’economia e il progresso sociale » spiega Michael Porter. Il prodotto interno lordo del
Costarica vale la metà di quello italiano, ma il Paese ha una qualità “sociale” della vita
superiore alla nostra. Sarà un caso, ma a San José e dintorni hanno garantito l’accesso
universale all’informazione nel XIX secolo e smantellato l’esercito in quello scorso. E
nell’Happy Planet Index compilato dal Think tank olandese News economica foundation, la
nazione centramericana è saldamente al primo posto. Noi al 51°…
del 13/04/15, pag. 15
Il popolo degli Expoboh aspetta al varco
Milano
Gli italiani sono storicamente diffidenti verso le grandi opere. Anche
oggi prevale un atteggiamento di ambivalenza, con una frangia di
oppositori
Daniele Marini
Gli italiani hanno una sindrome allergica alle grandi opere. Le vivono perlopiù con sospetto
e disincanto. Prima di considerarne l’utilità, la funzionalità, le opportunità che possono
aprire, scatta un meccanismo pavloviano: il dubbio che dietro a un progetto si celi
qualcos’altro. Ruberie, raccomandazioni, speculazioni, danno ambientale: qualcosa
oscura sempre la finalità ultima, appannandone gli obiettivi. Va detto che un simile
sentimento trova ampia alimentazione nelle cronache quasi quotidiane. Dai reportage
giornalistici ai tg satirici, dagli articoli ai blog siamo sommersi da notizie che mettono in
luce scorrettezze, furti, lievitazione dei costi a danno dei contribuenti. I furbetti del
quartierino sono sempre dietro l’angolo.
Com’è noto, anche Expo 2015, ormai prossima all’avvio, è stata toccata da episodi di
corruzione, che vanno denunciati e perseguiti. Nello stesso tempo, però, non va
dimenticato ciò che l’Expo 2015 di Milano può rappresentare: non solo un evento, ma
un’infrastruttura volano per la nostra economia. In una fase in cui alcuni fattori di
miglioramento si stanno palesando, l’esposizione costituisce un’opportunità per il sistema
produttivo italiano. Molti consumatori dei Paesi in crescita guardano al Made in Italy come
un valore aggiunto importante. Di questo gli imprenditori sono consapevoli e non è un
caso che siano i più attivi e attenti all’evoluzione della manifestazione. Il cibo e
l’alimentazione, temi al centro dell’evento, costituiscono uno degli asset principali dell’Italia
a livello globale e funzionano da traino anche per gli altri settori.
Ma l’Expo non è solo un evento: va considerato al pari di una infrastruttura. E
opportunamente il Ministro Delrio, fin dall’assunzione del suo incarico, l’ha posto fra le
grandi opere. Perché come altre esperienze hanno dimostrato (Genova, Torino) queste
iniziative vanno considerate anche un’occasione per rivisitare lo sviluppo di un territorio.
Guardando oltre all’evento in sé, spostando l’ottica alle ricadute negli anni a venire.
Community Media Research in collaborazione con Intesa Sanpaolo per La Stampa, con
l’Indagine LaST, ha interpellato gli italiani per cogliere le aspettative verso l’Expo e i
fenomeni che esso potrà generare. L’esito complessivo non è però entusiasmante.
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Prevale un orientamento di ambivalenza, venato da un orientamento negativo. Al primo
posto, quasi inevitabilmente, gli italiani collocano una preoccupazione: l’infiltrazione di
criminalità e l’alimentarsi di fenomeni legati alla corruzione (62,6%), in particolare fra i
residenti nel Nord. Al secondo posto, invece, troviamo la speranza che si generi una
maggiore attenzione alla qualità dei prodotti e alla sicurezza dei consumatori (56,8%), con
una netta prevalenza fra gli abitanti del Centro e del Nord Est. Si tratta di due opzioni dal
segno opposto: la prima è un’apprensione, la seconda un auspicio. Che però convivono.
La classifica prosegue evidenziando posizioni che mettono in luce valutazioni
preoccupate: non sono maggioritarie, tuttavia sono assai diffuse. Il 43,3% ritiene che una
volta terminato l’evento, l’Expo non avrà ricadute positive, ma sarà stato un semplice
episodio. Una quota analoga (43,3%) pensa che i costi siano eccessivi per un paese come
l’Italia ancora in grande sofferenza economica. Il 40,7% teme un eccesso di
cementificazione e presume un impatto negativo sull’ambiente. Gli aspetti positivi
rivestono un minor grado di accordo. Se il 41,9% prevede che l’Expo creerà nuovi posti di
lavoro, solo il 38,4% immagina che vengano avviati nuovi centri di ricerca e sviluppo. E
una quota simile (35,8%) intravede un contributo al rilancio dell’economia.
Sommando le risposte ottenute dagli italiani è possibile costruire un profilo di sintesi delle
aspettative verso l’Expo. Il profilo prevalente è costituito da incerti, in bilico fra aspetti
positivi e negativi, in un gioco a somma zero: gli «Expoboh». Sono il 43,8% degli italiani, in
particolare donne, giovani, studenti, residenti nel Nord Est, laureati. Il secondo profilo è
composto da chi prevede solo ricadute negative: i «noExpo». Sono il 31,2% degli
interpellati soprattutto fra i 25-34enni, i disoccupati, i diplomati. Il profilo minoritario,
benché non marginale, è di chi immagina effetti positivi: gli «Expofan» (25,0%). Questo
gruppo annovera soprattutto maschi, ultraquarantenni, imprenditori e casalinghe, residenti
nel Mezzogiorno.
Solo una manciata di giorni e si taglierà il nastro della manifestazione. Ma gli effetti
sostanziali si potranno misurare solo una volta chiusa. Se l’Expo sarà stato progettato
anche come una infrastruttura, ne potremmo toccare con mano i risultati. E, una volta
tanto, avremo trovato un rimedio all’allergia italiana verso le grandi opere.
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ECONOMIA E LAVORO
del 13/04/15, pag. 7
Disoccupati, Italia divisa
tra inferno e paradiso
Il tasso dei senza-impiego a Bolzano è più basso che in Germania Bene
anche Veneto ed Emilia, ma nel Sud siamo come Grecia e Spagna
Paolo Baroni
Se la Provincia di Bolzano fosse uno Stato, in Europa sarebbe quello con la
disoccupazione più bassa: appena 4,4% nel 2014 contro il 5% della Germania. E anche il
resto del Nord Est si piazzerebbe nella zona di testa della classifica continentale, col
Veneto appaiato all’Olanda, il Friuli che tallona la Svezia, Lombardia ed Emilia Romagna
che fanno meglio di Belgio, Finlandia, Polonia e che assieme a Marche e Toscana
superano pure la Francia. Mentre Piemonte e Liguria battono Irlanda, Slovacchia e
Croazia, alla faccia della delocalizzazione e della bassa pressione fiscale.
Mezzogiorni d’Europa
Il problema è che oltre al vertice della classifica, purtroppo, dominiamo anche in coda: le
nostre regioni meridionali, Puglia, Campania, Sicilia e Calabria, tutte abbondantemente
sopra la quota drammatica del 20% di senza lavoro, vengono infatti superate solamente
da Spagna (24,5) e Grecia (26,5). Una situazione che lo scorso anno si è addirittura
aggravata, visto che nel 2014 il tasso di disoccupazione è sceso di 1 punto in Grecia e di
1,6 punti in Spagna, mentre nel Mezzogiorno è salito di un altro punto: +0,3 in Campania,
+1,2 in Sicilia e Calabria e addirittura +1,7 in Puglia.
Sono i «paradossi della disoccupazione», come li definisce una ricerca dell’Ufficio studi
della Confartigianato che ha incrociato gli ultimi dati Istat ed Eurostat, e che La Stampa è
in grado di anticipare. Se osserviamo i due versanti opposti del ranking e consideriamo
anche i dati provinciali, vediamo poi che oltre a Bolzano, che tra le altre condizioni
beneficia di una quota di dipendenti pubblici ben superiore alla media (ben 50mila occupati
su 192mila), anche Verona ha un tasso di disoccupazione (4,9%) inferiore a quello della
Germania, e Cuneo (5,3%) lo ha inferiore a quello dell’Austria, mentre si registrano
condizioni del mercato del lavoro peggiori di quelle della Grecia a Crotone
(disoccupazione al 27,2%), Cosenza (27,8%) e nel Medio Campidano (27,9%).
Una risalita difficile
Risalire la china non sarà facile. Il governo nel suo ultimo Def prevede che quest’anno il
tasso di disoccupazione scenda in maniera molto contenuta, dal 12,7 del 2014 al 12,3 per
toccare l’11,7 nel 2016, l’11,2 nel 2017, il 10,9 nel 2018 ed il 10,5 nel 2019 comprendendo
in queste stime anche l’effetto delle tante misure di sostegno varate negli ultimi tempi col
Jobs act che valgono 0,1 punti di disoccupazione in meno nel 2016, 0,2 punti nel 20172018 e mezzo punto l’anno seguente. Strada in salita insomma, ancora per molto.
Nonostante i venti di ripresa. La stessa Confartigianato, del resto, spiega che anche alla
luce dei dati dei primi due mesi del 2015 il recupero del mercato del lavoro appare ancora
debole: tra il picco pre-crisi (aprile 2008) e il picco negativo di settembre 2013 si è
registrata una perdita di 1.098.000 di occupati (-4,7%), con una velocità di caduta di
17.000 occupati al mese, mentre la successiva fase di risalita ha registrato una crescita di
143.000 occupati (+0,6%), con una velocità però dimezzata (+8.000 occupati/mese).
Complessivamente dal 2008 a oggi gli occupati sono così scesi di 954.000 unità (-4,1%).
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Mentre lo spread con l’Europa a fine 2014 ha toccato il massimo storico di 1,7 punti (1,4%
a febbraio 2015).
Il divario Nord/Sud
Dal 2012 il divario Nord/Sud non ha fatto che aggravarsi: in particolare tra il 2008 e il 2012
si è registrato un calo dell’occupazione in entrambe le aree del Paese. Nel complesso due
cicli ravvicinati di recessione hanno ridotto gli occupati nel Mezzogiorno di 520.000 unità (8,2%), oltre due volte e mezzo il calo di 193.000 unità (-1,2%) registrato nel Centro Nord. Il
2014 ha comunque fatto segnare un miglioramento generalizzato: il Centro Nord ha
invertito il segno passando dal -0,6% del 2013 a +0,7% e il Mezzogiorno è passato da -4 a
-1 per cento. La crescita più intensa si è registrata nel Lazio (+3,4%), quindi in Basilicata e
il Molise (+2,1) e nelle Marche (+1,6). All’opposto le maggiori criticità hanno riguardato
Abruzzo (-2), Puglia (-1,3) e Campania (-1,2%).
Bene la manifattura
Il settore manifatturiero ha dato segnali di recupero in quasi tutte le regioni, eccetto
Liguria, Friuli, Lazio e Sardegna. Le costruzioni continuano a far segnare ovunque i dati
peggiori, i servizi crescono a macchia di leopardo (bene in Veneto, Friuli, Marche, Lazio,
Puglia e Calabria, male in Piemonte e Campania). E sono anche queste dinamiche a
spiegare come in un colpo solo, nella classifica dei senza lavoro, riusciamo a conquistare
sia il Paradiso che l’Inferno.
del 13/04/15, pag. 9
Meno fondi a Comuni e Regioni
Rischio salasso sui contribuenti aumenti di
tasse fino a 650 euro
VALENTINA CONTE
ROMA .
Il fisco locale ha grattato quasi fino all’osso. Eppure qualche spazio tra addizionali e Tasi
ancora c’è. E potrebbe essere usato come arma di trattativa (o ricatto) da governatori e
sindaci alle prese con quasi 9 miliardi di tagli da gestire per quest’anno. Mercoledì il
governo incontrerà ancora le dieci Città metropolitane, decise a scongiurare il peggio. Ma
a temere, a questo punto, sono i cittadini. Nonostante i proclami, il rischio è sempre quello.
L’aumento delle tasse, con aggravi choc dai 92 euro pro-capite di Roma ai 651 di Firenze.
O l’erogazione di minori servizi. Che poi è la stessa cosa.
Sul tavolo, dunque, di nuovo i tagli: 5 miliardi chiesti alle Regioni (la metà dalla sanità), 2,2
ai Comuni, uno a Province e Città metropolitane. Più i 625 milioni che i sindaci aspettano
per compensare il passaggio Imu-Tasi. Quasi 9 miliardi in tutto. Con un dettaglio non da
poco: la metà dei sacrifici chiesti ai campanili serve a finanziare il bonus da 80 euro.
Cortocircuito irritante tra tasse tolte per qualcuno e (ri) messe a tutti. E con un paradosso:
le Province sono state cancellate, non i loro balzelli, come l’imposta di trascrizione e quella
sui premi Rc auto, portate già al massimo. Una mucca che dunque non si può mungere
più di tanto. Roma e Reggio Calabria, tra le dieci Città metropolitane, l’hanno fatto da poco
alzando la seconda al 16% del premio. Con un balzo per i romani (dal 12,5). Si capisce
dunque l’irritazione dei sindaci, specie quelli della Capitale, di Firenze e di Napoli, chiamati
in tre al 70% dei tagli affibbiati alle neonate Città metropolitane (181 milioni su 259).
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Il panorama è desolante. Se le Province hanno esaurito i mar- gini fiscali (tranne Firenze
sull’Rc auto), messi alle strette Comuni e Regioni possono però reagire. Gonfiando le
rispettive addizionali. I dieci sindaci nell’occhio del ciclone sono già al top dello 0,8%,
tranne Firenze che è allo 0,2 (Roma è addirittura allo 0,9 per via della gestione
commissariale), ma potrebbero escludere le esenzioni sin qui concesse. I governatori delle
rispettive Regioni godono di manovrabilità maggiore e tranne il Lazio (anche qui già al
tetto del 3,33%) possono accelerare a tutto gas. Di rimando, i sindaci possono ritoccare la
Tasi sulla prima casa, ad esempio dimezzando le detrazioni. Ecco quindi i rincari choc,
calcolati (in base a queste ipotesi del tutto plausibili) dalla Uil — Servizio politiche
territoriali. Con un minimo, non a caso, di 92 euro pro-capite a Roma dove si è già
raschiato il fondo del barile. E un massimo di 651 euro pro-capite a Firenze, laddove i
margini di intervento sono ancora ampi. Provincia, Regione, Comune possono davvero
fare strike, sotto la cupola del Brunelleschi. Non a caso, il primo cittadino di Firenze, il
renziano Dario Nardella, non nasconde la sua irritazione da giorni, prendendosela pure
con Bologna, colpita assai meno nel riparto dei sacrifici.
Qual è l’alternativa, se esi- ste? Il presidente dell’Anci e sindaco di Torino, Piero Fassino,
ha invocato una tassa aeroportuale da 3 euro per risolvere i nodi più scottanti (Roma,
Napoli, Firenze). Senza calcolare però che così si arriverebbe a 10 euro di prelievo extra
sui biglietti aerei, tra ritocchi e ritocchini degli ultimi anni per coprire buchi locali e
nazionali. Il premier Renzi pensa invece a tagli di spesa e sprechi vigorosi, calando ad
esempio il bisturi sulle Asl. A patto però che non ci siano ricadute sui cittadini. «I servizi
non diminuiranno», ripete. Possibile una spending review che non faccia male?
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