Sovranazionalismo illegittimo. la marginalizzazione del Parlamento

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Sovranazionalismo illegittimo. la marginalizzazione del Parlamento
Sovranazionalismo illegittimo:
la marginalizzazione del Parlamento Europeo nella crisi dell’euro.
!Nome: Alessio Sacchi
Affiliazione: IMT Istituto Alti Studi, Lucca; PhD in Political History
Indirizzo mail: [email protected]
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Abstract. La crisi economica che si è abbattuta recentemente sull’Europa,
e sull’Eurozona in particolare, ha determinato dinamiche complesse di
evoluzione della governance dell’Unione Europea. Sul fronte
istituzionale, il Consiglio Europeo ha guadagnato visibilità e poteri,
determinando una fase di intergovernamentalismo di ampiezza inedita.
Tuttavia tale processo non ha automaticamente indebolito le altre
istituzioni: la Banca Centrale Europea si è ritagliata un ruolo di
primissimo piano e la Commissione Europea, pur delegando in parte il
proprio potere di iniziativa, ha aumentato le proprie prerogative nei
confronti degli Stati membri. Il grande sconfitto di questo
rimaneggiamento istituzionale è dunque il Parlamento Europeo,
marginalizzato nel processo - più o meno consapevole - di riforma della
governance comunitaria. Il modello di integrazione che ha caratterizzato
recentemente l’Unione può dunque essere definito di sovranazionalismo
illegittimo. L’intergovernamentalismo di questi anni non ha cioè precluso
totalmente un aumento della sovranazionalità, ma questa si è realizzata a
vantaggio delle istituzioni comunitarie non rappresentative e con limitata
accountability. Del resto, il risultato delle recenti elezioni non è una
variabile capace di rinvigorire il ruolo del Pe nella governance
comunitaria nei prossimi anni. Fino a quando il Pe sarà nei fatti
estromesso dal decision-making che determina le grandi evoluzioni
dell’integrazione, l’impatto creato dalla distribuzione dei seggi sarà solo
limitatamente apprezzabile. Le condizioni strutturali di sovranazionalismo
illegittimo condizioneranno la prossima legislatura a difendere le proprie
prerogative in quanto istituzione, relegando in secondo piano le differenze
politiche.
La lunga crisi scatenatasi nel 2008 e non ancora del tutto superata ha determinato
in Europa un processo complesso di cambiamento istituzionale, ridisegnando la
governance della moneta unica e i rapporti tra le istituzioni comunitarie e tra esse e
gli Stati membri. Tali evoluzioni possono essere viste come una conseguenza diretta
della pressione che gli stravolgimenti economici hanno operato sulle strutture
comunitarie, strette tra la necessità di rinforzare le difese contro la crisi e le
comprensibili resistenze domestiche a tali misure (Macartney, 2013). La fase acuta
della crisi economica peraltro si è inserita in una dinamica di cambiamento in opera
in seguito all’entrata in vigore del Trattato di Lisbona a fine 2009 (Dinan, 2011). Di
conseguenza gli ultimi cinque anni hanno rappresentato per l’Unione Europea nel suo
complesso un periodo di intenso cambiamento istituzionale, sviluppatosi a prima
vista attorno ad alcune linee conduttrici ben definite, tra cui spiccherebbe l’aumento
del livello di intergovernamentalismo per la gestione della crisi con un rafforzamento
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del ruolo di iniziativa del Consiglio Europeo1 a discapito della Commissione
Europea. La semi-formalizzazione di alcuni incontri quali ad esempio l’Eurosummit,
o la moltiplicazione dei vertici intergovernativi ne sarebbero un segnale. Tuttavia,
l’analisi condotta nel presente articolo ridiscute in parte tale narrativa e suggerisce
una visione evolutiva secondo cui una prima fase di gestione intergovernativa della
crisi, forte dei cambiamenti introdotti dall’ultima revisione dei Trattati e dalla legacy
del Trattato di Maastricht, ha mostrato molti dei suoi limiti, non riuscendo ad offrire
soluzioni credibili ed efficaci nel breve e medio periodo, determinando un vuoto
politico e cedendo il passo ad un aumento della sovranazionalità. Difatti nel vuoto
politico creatosi si sono inserite due istituzioni genuinamente sovranazionali: la
Banca Centrale Europea (Bce), forte delle risorse organizzative e materiali di cui può
godere, e la Commissione, che è riuscita a ritagliarsi un ruolo non secondario nei
confronti degli Stati membri. In altre parole, l’Ue ha assistito al paradosso per cui
l’aumento esponenziale delle responsabilità dei governi ha avuto l’effetto collaterale
di mostrare i limiti della gestione intergovernamentale, determinandone se non il
completo fallimento, almeno una severa battuta d’arresto. In questo quadro il
Parlamento Europeo (Pe) ha subìto una marginalizzazione, determinando un assetto
istituzionale complessivo che può essere definito di “sovranazionalismo illegittimo”.
L’obiettivo del paper è duplice. In prima istanza esso si propone di affrontare in
una prospettiva empirica la serie di cambiamenti istituzionali intervenuti a livello
politico ed istituzionale nella governance della moneta unica degli ultimi anni. In
secondo luogo, ed a partire dall’osservazione empirica dei policy outcomes derivati
dalla lunga crisi in Europa, il paper intende introdurre e caratterizzare
un’interpretazione dell’assetto istituzionale scaturito dalla crisi, qui definito di
sovranazionalismo illegittimo. Tale interpretazione è il frutto dell’osservazione
empirica svolta e della contestuale analisi delle trasformazioni intervenute in Europa
negli ultimi anni, con un’attenzione particolare al ruolo del Pe. Lo sviluppo del
concetto di sovranazionalismo illegittimo vuole essere un contributo preliminare
all’analisi dell’evoluzione di cui l’Ue si è resa protagonista durante la crisi, fornendo
elementi per disegnare un quadro completo del complesso sistema di interazioni e
cambiamenti degli anni più turbolenti nella storia dell’integrazione comunitaria.
L’ambizione del paper è quella di presentare le tendenze di trasformazione che
hanno interessato e probabilmente continueranno ad interessare le strutture
istituzionali comunitarie, analizzandone le dinamiche e la portata, contribuendo
dunque ad una comprensione più approfondita degli affari europei. Esso si promette
di non oltrepassare i limiti della materia, senza inoltrarsi dunque nel campo della
filosofia politica per apprezzare le pur determinanti ricadute di un tale assetto per il
futuro della democrazia in Europa o per la legittimità delle scelte prese a livello
comunitario (ad esempio, qual è il diritto dei policy-makers comunitari di imporre le
loro decisioni ai cittadini in mancanza di una compiuta legittimità democratica? Può
ancora essere valida la logica dei benefici derivanti dall’integrazione se nel suo
complesso il sistema manca di legittimità?); allo stesso modo, esso manterrà il focus
dell’analisi sul livello sovranazionale, senza analizzare le ripercussioni di politica
interna di tale dinamiche di cambiamento (ad esempio, quali contromisure
domestiche vengono elaborate per far fronte alla presunta illegittimità delle politiche
comunitarie, sia dai Parlamenti nazionali sia dalle Corti Costituzionali?). L’analisi,
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Nell’articolo il focus è concentrato sui lavori e sul ruolo del Consiglio Europeo, anche se ovviamente ad esso va
associato il Consiglio dei Ministri quale ulteriore istanza di coordinamento intergovernamentale nelle strutture
istituzionali comunitarie. La scelta di trattare il Consiglio dei Ministri solo marginalmente deriva dalla constatazione
della preminenza assunta dal Consiglio Europeo negli ultimi anni, soprattutto per le decisioni relative alle politiche
economiche e monetarie, anche nel campo legislativo data la specificità delle decisioni prese, che ne fanno una sorta
di supervisore del Consiglio dei Ministri (Puetter, 2012, 162).
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come accennato, non riguarderà l’insieme delle politiche comunitarie, ma sarà
circoscritta alle materie relative alla governance economica dell’area euro,
comprendente cioè l’insieme dei rapporti tra le istituzioni nella gestione della moneta
unica, ma anche la gestione delle politiche monetarie e l’insieme delle politiche
economiche che ruotano attorno alla moneta unica, quali ad esempio le regole di
supervisione degli indicatori macroeconomici dei paesi membri e le disposizioni
fiscali, materie per cui negli ultimi anni si sono testimoniati importanti cambiamenti.
Il paper è sviluppato come segue: la prima sezione è dedicata all’osservazione
empirica dei policy outcomes realizzati durante la crisi dell’Eurozona. Tentando di
tenere analiticamente separate le decisioni che hanno caratterizzato il lavoro dei
governi da una parte, per il tramite dell’istanza intergovernativa per eccellenza, il
Consiglio Europeo, e le istituzioni sovranazionali dall’altra, verranno brevemente
presentate le misure di gestione e prevenzione della crisi elaborate dallo scoppio della
crisi. A partire da questa narrazione, la seconda parte sarà dedicata ad una
interpretazione dei processi di cambiamento in atto in Ue, attraverso la
caratterizzazione del concetto analitico di sovranazionalismo illegittimo. Un’ultima
sezione sarà infine dedicata alla recente tornata elettorale di maggio 2014, che aprirà
degli scorci sull’assetto futuro dell’Ue. Una breve presentazione delle negoziazioni
per la scelta delle nuove cariche per le istituzioni suggeriscono che il trend del
sovranazionalismo illegittimo possa perpetuarsi nel futuro prossimo dell’Unione.
!Le risposte di policy alla crisi dell’Eurozona
! La crisi dell’Eurozona è una faccenda complicata, una sfaccettata serie di eventi
collegata ad uno shock finanziario, una recessione economica, una crisi dei debiti
sovrani e, soprattutto, una crisi politica tra gli Stati membri dell’Ue e dell’area Euro
in particolare con serie implicazioni istituzionali (Dehousse, 2012). Il rapido
susseguirsi degli eventi e lo stato di allerta vissuto dal continente negli ultimi anni ha
stimolato la creazione di numerose risposte di policy volte ad offrire una via d’uscita
dalla crisi, che ha avuto per protagonisti indiscussi i governi degli Stati membri,
rappresentati nel Consiglio Europeo e nel Consiglio dei Ministri, e le altre istituzioni
comunitarie, Bce in testa. Sfruttando la già ampia letteratura sul tema della crisi
dell’Eurozona2, risulta utile ripercorrere sinteticamente le principali risposte alla crisi
messe in campo, tentando di tenere analiticamente distinte le misure prese in ambito
intergovernamentale da quelle scaturite attraverso il metodo comunitario e l’azione di
istituzioni sovranazionali, a discapito di una narrazione strettamente cronologica e
con la consapevolezza di dover in qualche modo ridurre la complessità degli eventi
susseguitisi negli ultimi anni.
Le due direttrici di intervento nelle quali si sono concentrate le politiche di
risposta alla crisi sono state quella di gestione della crisi e quella di prevenzione. Il
primo ambito riguarda essenzialmente gli strumenti necessari a aiutare
finanziariamente i paesi colpiti più duramente dalla crisi, mentre il secondo
comprende gli strumenti legislativi atti a prevenire una ulteriore crisi, attraverso la
riscrittura ed il potenziamento delle regole di bilancio da rispettare, in materia di
deficit e debito, considerate le inefficienze via via emerse dal Patto di stabilità e
crescita (Psc) del 1997.
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Una presentazione, sicuramente non esaustiva, della letteratura sulla crisi dell’euro non può prescindere dalle
narrazioni effettuate da Bastasin (2012) e Irwin (2013), oltre che dall’eccellente saggio di Hall (2012); per una
comparazione critica con il recente passato dell’unione monetaria Lucarelli (2013); per una analisi preliminare delle
risposte di policy alla crisi Buti e Carnot (2012) e il numero speciale del Journal of European Integration (2013) per
un focus sui cambiamenti alla governance economica dell’area euro; De Witte et al. (2012) si concentrano sulle
conseguenze della crisi per la democrazia in Europa a livello domestico ed europeo.
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L’attore istituzionale nella posizione migliore per affrontare la crisi è stato
indubbiamente il Consiglio Europeo. I capi di Stato e di governo hanno infatti
affrontato i primi anni della crisi forti del potere e delle responsabilità conferitegli in
materia di politica fiscale dall’assetto uscito dal Trattato di Maastricht - una
sostanziale libertà di manovra accordata ai governi di coordinare lascamente le loro
politiche fiscali pur appartenendo ad una unione monetaria - e da quello di Lisbona,
che attraverso la figura del Presidente del Consiglio Europeo ha provveduto a dare
ulteriore legittimazione al consesso dei capi di governo, inaugurando un’inedita fase
di gestione intergovernamentale degli affari europei (Puetter, 2012; Fabbrini 2013).
La dinamica intergovernamentale si è ulteriormente rafforzata a partire dal 2008,
quando di fronte ad una situazione di emergenza in cui mancavano istituzioni
deputate a gestire una crisi inedita, gli Stati hanno assunto su di essi una funzione
quasi costituente (Dehousse, 2012). La storia della crisi dell’Eurozona è però, in
parte, anche la storia del fallimento di questo processo di gestione
intergovernamentale della moneta unica.
Ripercorrendo le vicende della crisi, un primo esempio di mancata coordinazione
tra i governi, con conseguente fallimento della risposta di policy predisposta, è da
ritrovare nelle settimane immediatamente successive al fallimento della Lehman
Brothers, nel settembre 2008. Allora gli Stati fallirono nel tentativo di offrire un piano
di aiuti coordinato a livello continentale al settore bancario fortemente sotto stress, e
all’insegna dell’imperativo di lavare i panni sporchi in casa preferirono ricorrere a dei
piani di aiuto finanziario nazionali (Bastasin, 2012, 15). Il risultato fu un programma
di aiuti patchwork in cui ogni Stato si impegnava a garantire un aiuto alle proprie
banche senza alcun respiro europeo (Summit dei paesi dell’area euro, 2008), in cui gli
interessi nazionali prevalevano sulle necessità europee, come sarebbe spesso accaduto
negli anni a seguire.
Tuttavia, il capolavoro delle mezze soluzioni è rappresentato dalla vicenda della
crisi greca, scoppiata a seguito delle elezioni vinte dal Pasok di George Papandreou di
ottobre 2009, trovatosi con dei conti pubblici gestiti con eccessiva spregiudicatezza
dai governi precedenti, risultati in livelli di deficit e debito di gran lunga superiori a
quelli dichiarati. I problemi fiscali ellenici sarebbero stati in teoria facilmente gestibili
agli albori della crisi, considerate le limitate dimensioni relative dell’economia greca
nel contesto dell’Ue, ma essi sono diventati a più riprese una minaccia all’esistenza
stessa dell’area euro, appesa per mesi sul filo del “grexit”, la temuta uscita della
Grecia dalla moneta unica. Lo spettro dell’azzardo morale, l’atteggiamento quasietico delle Germania nel richiedere una sorta di punizione per i paesi accusati di aver
vissuto al di sopra dei propri mezzi, oltre che i limiti dei Trattati che vietano
qualunque forma di salvataggio per uno Stato membro (art. 125 TFUE), sono stati gli
elementi che hanno determinato un allungamento eccessivo delle negoziazioni per
raggiungere un accordo sul piano finanziario di aiuti al paese ellenico. Sostegno
finanziario che non è arrivato prima di marzo 2010 sotto forma di un insieme di
prestiti bilaterali da parte dei paesi dell’area euro e con un’impronta marcatamente
tedesca (Bastasin, 2012, 180-182), cioè ad un tasso di interesse non preferenziale e
dietro draconiane misure di condizionalità, per un totale di 80 miliardi di euro
(Summit dei paesi dell’area euro, 2010), distribuiti in diversi pacchetti di aiuti
collegati al rispetto di impegni di bilancio prestabiliti.
Nei mesi successivi lo stesso schema è stato applicato ad alcuni dei paesi
periferici dell’Ue più colpiti dalla crisi, variamente ribattezzati in maniera più o meno
benevola e allusiva, e qui definiti con l’acronimo GIPSI (Grecia, Irlanda, Portogallo,
Spagna, Italia). Gli aiuti hanno dunque riguardato l’Irlanda (85 miliardi a novembre
2010), il Portogallo (78 miliardi a maggio 2011), poi di nuovo la Grecia per un
secondo piano di aiuti (130 miliardi a marzo 2012), oltre che la Spagna per la
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ricapitalizzazione del proprio sistema bancario (38,9 miliardi a luglio 2012)3. I
pacchetti di aiuto finanziario, elargiti dietro onerose misure di condizionalità, hanno
rappresentato il maggiore strumento di crisis management, difficili però da definire
come risposte di policy ottimali. Oltre alle diffuse critiche sull’inopportunità di
imporre pesanti misure di austerità a paesi in difficoltà fiscali (Blyth, 2013), e alla
mancanza di un’analisi specifica per ogni situazione nazionale all’insegna delle
soluzioni one-fits-all4, le aspre negoziazioni hanno visto posizioni inconciliabili,
determinando soluzioni troppo tardive e con condizioni non credibili poiché troppo
onerose. Negli anni della crisi si sono difatti acuite le divergenze economiche, e di
conseguenza quelle politiche, tra paesi considerati core (Germania, Olanda e
Finlandia) e la cosiddetta periferia dell’area euro, paesi mediterranei in testa. Oggetto
del contendere è stato ovviamente la modalità di gestione dei conti pubblici e la
necessità di perseguire ad ogni costo politiche di aggiustamento fiscale senza alcuna
possibilità di flessibilità, considerate dai falchi dell’austerità l’unica possibilità per
ristabilire i presupposti della crescita e riottenere la fiducia dei mercati, ma bollate da
altre parti come inopportune e controproducenti, soprattutto se applicate allo stesso
momento, collettivamente e - soprattutto - in una fase economica già recessiva (ibid.).
Abbandonata la logica dei prestiti bilaterali, nel corso del 2010 si è fatta largo la
necessità di creare degli strumenti finanziari che potessero elargire aiuti, qualora
necessari, con procedure più rapide, in modo da ovviare alle difficoltà intrinseche
nelle negoziazioni intergovernamentali. In questo senso l’EFSM - European Financial
Stabilization Mechanism, creato dalla Commissione nel maggio 2010 e capace di
raccogliere fino a 60 miliardi, è stato pensato come un primo strumento di emergenza.
La necessità di aumentare le disponibilità del fondo ha portato qualche mese dopo
alla creazione dell’EFSF - European Financial Stability Facility, un meccanismo di
salvataggio temporaneo, dalla capacità di prestito di 440 miliardi (Consiglio dei
Ministri dell’Unione Europea, 2010). Tuttavia, la natura temporanea del fondo (tre
anni, con scadenza dunque a luglio 2013) ha minato la sua credibilità, rendendo
necessaria la creazione di un ulteriore meccanismo, di natura stabile e per questo
inserito nei Trattati: lo European Stability Mechanism, Esm (Consiglio Europeo,
2011). Quest’ultimo è formalmente un’organizzazione internazionale di diritto
pubblico, con sede in Lussemburgo, i cui azionisti sono i paesi membri dell’area
Euro, che contribuiscono alle sue capacità finanziarie. L’Esm ha una capacità di
prestito complessiva di 500 miliardi, consistente se paragonata alle prime misure
messe in campo, ma ancora insufficiente se le vicende della crisi dovessero colpire
una delle principali economie europee, quali ad esempio Spagna o Italia. La
moltiplicazione stessa degli strumenti finanziari creati segnala quanti e quali limiti di
ciascuno strumento siano emersi progressivamente, una volta confrontati con la prova
del fuoco dei mercati finanziari. Da questo punto di vista è possibile sostenere che la
gestione della crisi da parte degli Stati è stata quantomeno non all’altezza della
situazione, inedita nella storia dell’integrazione comunitaria, determinando un
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Mentre il primo pacchetto di aiuti alla Grecia era strutturato come un insieme di prestiti bilaterali accordati dai
partner europei e dal Fondo Monetario Internazionale (FMI), il secondo pacchetto è stato finanziato dallo European
Financial Stability Facility (EFSF), gli aiuti all’Irlanda e al Portogallo attraverso un impegno congiunto di EFSF,
EFSM (European Financial Stabilization Mechanism) e FMI. Ulteriori aiuti sono inoltre stati accordati a Cipro e ad
altri Stati non membri dell’Eurozona (un quadro completo dei programmi di assistenza finanziaria è disponibile al sito
http://ec.europa.eu/economy_finance/assistance_eu_ms. Consultato il 9.7.2014)
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Significativamente, secondo O’Callaghan (2013) l’atteggiamento dei decisori europei di applicare indistintamente
misure di austerità per superare la crisi, retaggio di una visione economica improntata all’ordoliberalismo, è un
esempio di pensiero monologico (monological thinking), concetto sviluppato dal russo Bakhtin, ovvero di una
narrativa che una volta instaurata e diffusa impedisce qualsiasi falsificazione, contro-argomentazione o narrative
alternative.
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allungamento e un progressivo peggioramento delle difficoltà economiche e
finanziarie dell’Eurozona.
Dal lato delle misure di crisis prevention, gli Stati hanno progressivamente messo
in campo una serie di strumenti pensati per evitare che le condizioni di bilancio
interne degli Stati determinassero l’insorgere di nuove crisi, passando da una
modalità di coordinamento più morbida che caratterizzava le politiche fiscali a livello
continentale prima della crisi, all’introduzione di misure di hard law a maglie via via
più strette (Hennessy, 2014). Sulla base del Psc del 1997 che fissava i vincoli di
bilancio per i paesi appartenenti all’Uem, gli strumenti di prevenzione adottati mirano
a rafforzare tali paletti, prevedendo un sistema più credibile di sanzioni e
contestualmente un aumento dei poteri di monitoraggio degli organi ad esso
predisposti. Cronologicamente, sono stati messi in campo il Semestre Europeo a
settembre 2010, il Patto Euro Plus a marzo 2011, il Six Pack a dicembre 2011 (che ha
assorbito il Semestre Europeo), il cosiddetto Fiscal Compact (ufficialmente Trattato
sulla Stabilità, sul Coordinamento e sulla Governance dell’Ue) a marzo 2012 ed
infine il Two Pack a marzo 2013. Il Six Pack e il Two Pack sono due pacchetti di
regolamenti e una direttiva della Commissione Europea adottati con il metodo
comunitario, ed entrambi prevedono un insieme di misure volte a riformare le
disposizioni del Psc (Buti e Carnot, 2012). Tra le misure previste, spiccano
l’introduzione di sanzioni ad un livello meno avanzato della procedura di deficit
eccessivo, il meccanismo della maggioranza inversa, oltre che un coordinamento
rafforzato nelle procedure di bilancio nazionali, così da ottenere un timing condiviso
per tutti gli Stati membri sotto una supervisione rafforzata della Commissione. Le
misure del patto Euro Plus e del Fiscal Compact si inseriscono nello stesso scenario,
rafforzando i vincoli di bilancio degli Stati, anche attraverso l’inserimento in
Costituzione dell’obbligo di pareggio di bilancio, e imponendo un rientro del debito a
marce forzate. Questi ultimi due accordi sono formalmente dei Trattati internazionali
firmati al di fuori della cornice del metodo comunitario, e infatti non tutti gli Stati
membri sono tra i firmatari5 che coinvolgono tuttavia parte delle strutture comunitarie
in alcune delle loro misure (es. la Corte di Giustizia ha il compito di vigilare
sull’inserimento in Costituzione delle norme di bilancio previste).
L’analisi delle politiche messe in campo in risposta alla crisi non può tralasciare
l’impegno profuso dalla Bce, che è spesso servito da contraltare ai fallimenti e alle
mezze misure previste dagli Stati membri riuniti nel Consiglio Europeo. Una
possibile narrativa della crisi è appunto quella che vede l’istituzione di Francoforte
trovarsi a supplire alle carenze dei governi, incapaci di trovare soluzioni all’altezza
della sfida (Bastasin, 2012). Forte delle proprie risorse materiali e organizzative, la
Banca Centrale ha messo in campo una serie di misure di politica monetaria al limite
del rispetto della parola e dello spirito dei Trattati, che limitano il suo mandato alla
difesa dell’Eurozona dall’inflazione, diventando un attore di primissimo piano nel
panorama della crisi (Irwin, 2013). Interessata formalmente al raggiungimento di una
trasmissione ottimale della politica monetaria all’economia reale, la Bce - oltre ad
essere uno dei tre membri dell’organo tecnico deputato a vigilare sul rispetto delle
clausole di condizionalità stabilite nei programmi di aiuto finanziario, sollevando non
poche polemiche sulla legittimità di tale posizione (Barbier, 2012) - si è impegnata in
due principali direttrici: il sostegno al sistema bancario e le misure a sostegno dei
paesi i cui titoli di debito si sono trovati sotto lo stress dei mercati. In relazione al
sostegno alle banche europee, la Bce ha previsto due azioni di finanziamento a lungo
!
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Il Patto Euro Plus, come suggerisce il nome, è stato firmato dagli Stati membri dell’Eurozona e da Danimarca,
Polonia, Romania e Bulgaria; il Fiscal Compact invece è stato firmato da tutti gli Stati membri dell’Ue ad eccezione
di Regno Unito e Repubblica Ceca.
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termine a tassi preferenziali (LTRO, Long Term Refinancing Operations) tra il 2011 e
il 2012 (Bce Monthly Bulletin, January 2012), ed un ulteriore recente programma di
quantitative easing con un numero ancora indefinito di tornate di prestiti a tassi
concorrenziali (The Economist, 5 giugno 2014).
Le attività che più hanno dato risalto al ruolo della Bce riguardano tuttavia il
sostegno dato agli Stati membri per facilitare il finanziamento del loro debito sui
mercati internazionali, attraverso operazioni volte ad abbassare il differenziale dei
tassi di interesse, arrivato in alcune fasi della crisi a livelli insostenibili per le finanze
dei GIPSI, facendo prefigurare a più riprese una loro possibile bancarotta.
L’atteggiamento della Bce, costretta dai limiti del suo mandato6 e dalle divisioni
interne ai suoi organi decisionali7, è stata a questo riguardo evolutiva, attuando
un’entrata in campo progressiva. La necessità infatti di assicurare una trasmissione
monetaria ottimale all’economia reale e l’indispensabile difesa della moneta unica si
è scontrata in questi anni con l’impossibilità oggettiva di operare da prestatore di
ultimo istanza (Hu, 2014), rendendo necessarie delle misure al limite del rispetto dei
trattati. Un primo esempio è dato dal cosiddetto Grand Bargain del 2009 (Bastasin,
2012, p. 111) attraverso cui la Bce ha allentato lo stress sui debiti sovrani prestando
grandi somme di liquidità alle banche europee, a loro volta caldamente invitate dai
rispettivi governi a reinvestire tale liquidità in titoli di Stato. Sospeso a pochi mesi dal
suo inizio a causa della reticenza degli Stati ad operare le necessarie riforme nella
supervisione dei loro sistemi bancari, il Grand Bargain è stato sostituito negli anni
successivi da programmi diversi rispondenti alla stessa logica: considerata la
pressione dei mercati sugli Stati, la Bce si sarebbe impegnata ad alleggerire tale
pressione sui titoli in cambio della promessa di implementare severe riforme
strutturali per adeguare i sistemi economici nazionali alle variate condizioni esterne.
Quanto tali pressioni vadano considerate un’ingerenza sulle politiche economiche
nazionali è argomento di aspro dibattito tra gli osservatori ma soprattutto tra le
componenti politiche interne agli Stati oggetto delle attenzioni della Bce. Di certo c’è
che nessuna violazione esplicita dei Trattati è stata commessa, quanto poi il loro
spirito sia stato adattato alle contingenze eccezionali di questi anni può essere
dibattuto. In questo senso potrebbe essere necessaria una formalizzazione delle
accresciute responsabilità dell’istituzione di Francoforte attraverso una revisione dei
Trattati, che tuttavia sembra di difficile attuazione nel contesto attuale.
Tra il 2010 e il 2012 la Bce ha messo in campo il Security Market Programme,
Smp (Banca Central Europea, 2010b), un programma di acquisti dei titoli di Stato
effettuato a più riprese sul mercato secondario, rispettando dunque l’impossibilità di
acquisto diretto degli stessi, per un totale di 220 miliardi di euro, a beneficio
soprattutto di Italia e Spagna. Gli Smp si sono tuttavia rivelati deboli poiché pensati
per periodi limitati di tempo senza alcuna forma esplicita di condizionalità. Essi
dunque mostrano i loro effetti solo quando la Bce agisce effettivamente, senza creare
alcun circolo virtuoso nei mercati (Eser e Schwaab, 2013). Alle deficienze delle Smp
emerse nel tempo, è stato posto rimedio attraverso le Outright Monetary Transactions
(Omt) il cosiddetto bazooka nelle mani della Banca Centrale per porre un freno alla
speculazione e alla pressione degli investitori sui titoli di Stato dei paesi
dell’Eurozona (Banca Centrale Europea, 2012). Esse prevedono acquisti illimitati di
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I Trattati (art. 123 Tfue) vietano infatti alla Banca Centrale l’acquisto diretto di titoli di debito degli Stati membri.
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Nonostante le trascrizioni delle riunioni del Board della BCE siano secretate per trent’anni, a maggiore garanzia
dell’indipendenza dei membri, è conosciuta l’avversione di alcuni membri ad ogni misura ch potesse in alcun modo
finanziare il debito pubblico dei paesi in difficoltà. In quest’ottica vanno viste le dimissioni nel 2011 di Juergen Stark,
capo economista tedesco della Bce, e poi quelle di Axel Weber, presidente della Bundesbank, oltre a quelle minacciate
da Jens Weidmann, suo successore, in aperto contrasto per le misure adottate dalla Bce a sostegno dei paesi in crisi.
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titoli di Stato qualora un paese faccia richiesta dell’Esm, accettando dunque
formalmente misure di condizionalità da concordare. Le Omt hanno finora funzionato
come arma di deterrenza, dato che non sono mai state azionate, e questo fa pensare
che possano essere uno degli strumenti di policy definitivi capaci di invertire la rotta
della crisi intrapresa cinque anni fa.
!La marginalizzazione del Parlamento Europeo
! L’osservazione delle risposte di policy della sezione precedente offre un quadro
fortemente polarizzato delle azioni intraprese dalle istituzioni europee negli ultimi
anni. Da una parte troviamo infatti un attivismo dei governi degli Stati membri che in
un susseguirsi di incontri formali ed informali8 si è rivelato meno efficace di quanto
ci si sarebbe aspettato: nonostante la moltitudine di misure messe in campo, spesso
mal concordate, implementate solo parzialmente o inadatte allo scopo, gli Stati
membri non sono riusciti a sconfiggere definitivamente lo spettro della crisi.
Dall’altra, l’unica istituzione genuinamente federale, la Bce, forte delle proprie
risorse materiali e organizzative, si è ritagliata un ruolo di primissimo piano,
colmando quel vuoto politico lasciato dagli Stati e riuscendo - per ora - a garantire la
sopravvivenza della moneta unica, messa fortemente in dubbio in diverse fasi della
crisi, non senza aspre critiche sulla legittimità delle proprie azioni. Alcuni autori
sottolineano che tale incremento di potere della Bce possa essere una deliberata
strategia del Consiglio per contrastare gli oppositori interni ed esterni
dell’integrazione (Schimmelfennig, 2014), in linea con il modello di integrazione
postulato dal liberalismo intergovernamentale (Moravscick, 1998). Tuttavia, si
potrebbe obiettare che il peso della Bce risulta il contraltare dell’impotenza mostrata
dal Consiglio, più che un deliberato progetto di quest’ultimo, un ingresso di
emergenza nelle questioni più politiche per supplire alle mancanze dei governi. In
ogni caso, non può passare inosservata l’inadeguatezza, dei governi europei
nell’affrontare lo shock della crisi.
Tra i due poli troviamo la Commissione Europea che, nonostante abbia delegato
in buona parte il suo potere di iniziativa al Consiglio Europeo9 (Ponzano et al., 2012)
e si sia dimostrata più timida di quanto ci si potesse aspettare (Hodson, 2013), ha
aumentato le proprie prerogative, soprattutto in materia di vigilanza e monitoraggio
dei bilanci nazionali (Bauer e Becker, 2014). Essa ha visto cioè trasformare il suo
ruolo da agente predominante di agenda-setting a quello di policy management e
policy enforcement (Bauer, 2006). Sebbene in maniera più sfumata rispetto al palese
incremento di poteri della Bce, è possibile concludere che la bilancia della
Commissione penda dal lato di un rafforzamento delle sue prerogative nei confronti
degli Stati membri.
In questo quadro istituzionale, appare defilato il Parlamento Europeo. Un’analisi
del ruolo del Pe negli anni della crisi non può prescindere dal riconoscimento della
sua progressiva marginalizzazione (Schmidt, 2012a). Sebbene l’assetto istituzionale
!
8
Diversamente dalle disposizioni del Trattato (art. 15 TUE) che prevede che il Consiglio di riunisca almeno due volte
all’anno, durante gli anni della crisi i capi di Stato e di governo si sono incontrati almeno sei volte all’anno; a questi
incontri vanno aggiunti gli incontri informali e i vertici effettuati dai soli capi di Stato e di governo dei paesi
dell’Eurozona (Eurosummit). Allo stesso modo, per quanto riguarda il Consiglio dei ministri, si sono moltiplicati gli
incontri dell’Eurogruppo, che riunisce i ministri dell’economia e delle finanze dell’area euro.
!
9
Fermo restando il formale monopolio di iniziativa legislativa della Commissione, il carattere via via più esplicito e
puntuale delle risoluzioni del Consiglio che propongono misure concrete da adottare, suggeriscono che tale
monopolio sia nei fatti più sfumato e meno assoluto di quanto non lo fosse alcuni anni fa. Ponzano et al. (2012)
sottolineano come parallelamente le innovazioni del Trattato di Lisbona facciano scivolare il ruolo della Commissione
Europea da iniziatore autonomo a iniziatore reattivo alle richieste (o alle pressioni) delle altre istituzioni.
!8
dell’Unione Economica e Monetaria (Uem) battezzata a Maastricht non abbia
assegnato un ruolo centrale al Pe, e sebbene la materia delle politiche monetarie non
sia oggetto esplicito delle competenze affidate allo scrutinio del Pe, stupisce quanto
limitato sia stato il ruolo giocato dall’unico organo elettivo comunitario negli
sconvolgimenti degli ultimi anni. Se si esclude la partecipazione del Pe nella
definizione dei due pacchetti di regolamenti comunitari tra il 2011 e il 2013, il Six
Pack e il Two Pack10, l’istanza rappresentativa per eccellenza dell’Ue è stata tenuta ai
margini del processo decisionale sul riassetto della governance comunitaria. Tra
l’altro, nei due pacchetti legislativi non è promossa alcuna misura che aumenti le
responsabilità del Pe, se non la previsione nel Two Pack del diritto della commissione
parlamentare competente ad invitare le altre istituzioni a dei dialoghi economici
(istituito nelle disposizioni finali di uno dei due regolamenti). Né vi è alcun
riferimento al Parlamento all’interno del trattato che istituisce l’Esm. A dispetto della
necessità oggettiva di imprimere legittimità all’operato di organi tecnocratici quali la
Commissione e la Bce, le recenti revisioni della governance comunitaria non hanno
previsto un controllo del Pe sull’operato della Troika, né strette forme di
collaborazione tra il Pe ed i Parlamenti nazionali. Né i maggiori esponenti
dell’assemblea di Strasburgo si sono ritagliati un ruolo di primo piano tra i decisionmakers comunitari in questa fase di crisi: al fianco della cosiddetta “Task force Van
Rompuy”, il gruppo di lavoro guidato dal Presidente del Consiglio Europeo per
riscrivere le regole dell’area euro (Task force to the European Council, 2010), o alle
proposte della Bce per la ridefinizione della governance dell’Eurozona (Banca
Centrale Europea, 2010a), nessun documento firmato dai membri del Pe ha ottenuto
la ribalta mediatica inserendosi nel dibattito comunitario per la riforma del sistema.
Ne consegue che l’assetto istituzionale stabilito in Europa a seguito della crisi
può essere definito come un sistema di sovranazionalismo illegittimo, con cui si
intende l’indebolimento del metodo intergovernamentale, risultato inadatto a
prevenire e gestire la crisi, a favore dell’ampliamento delle prerogative delle
istituzioni sovranazionali non rappresentative (Commissione Europea e Banca
Centrale), ma a discapito essenzialmente del Parlamento Europeo. Paradossalmente,
cioè, sebbene al suo apice al principio della crisi, il metodo intergovernamentale ha
mostrato molti dei suoi limiti (Fabbrini, 2013), rendendo inevitabile un aumento del
sovranazionalismo, che ha però marginalizzato il Pe. Il sovranazionalismo illegittimo
presenta dunque due dimensioni tra esse collegate: la prima concerne il fallimento
dell’intergovernamentalismo nella risoluzione della crisi, che ha determinato un
affidamento di maggiori prerogative alle istituzioni sovranazionali (Commissione e
Bce); la seconda dimensione si presenta nel rapporto che tali istituzioni
sovranazionali hanno con il P.E, improntato alla non rappresentatività. L’illegittimità
qui sottolineata non riguarda dunque il progressivo distacco tra il policy-making
comunitario ed i cittadini, di cui gli indici di insoddisfazione sfiducia sono un chiaro
segnale, quanto la progressiva estromissione dell’unica istituzione che gode di un
potere di rappresentanza diretta dei cittadini stessi, e che da questa rappresentanza
trae legittimità. Nè essa ha che fare con la legalità del sistema emerso dalla crisi: per
quanto le operazioni della Bce possano ritenersi al limite della violazione dello spirito
dei Trattati, essa si è attenuta alla loro lettera, rientrando dunque pienamente nella
sfera della legalità, così come il Pe non è stato estromesso dal policy-making, semmai
le sue prerogative non sono aumentate in linea con l’evoluzione subita
complessivamente dalle strutture istituzionali europee.
!
10
Alcune delle dinamiche presenti nelle negoziazioni per i due pacchetti legislativi sono disponibili nel sito del
Parlamento Europeo, http://europarl.europa.eu/news/en/news-room/backgrounds. Nello specifico, le background
notes del 21 settembre 2011 si riferiscono alle negoziazioni per il Six-pack e quelle del 7 giugno 2012 al Two-pack.
!9
Tale dinamica è ancor più sorprendente se si pensa che il Trattato di Lisbona
aveva disegnato un sistema di pesi e contrappesi piuttosto equilibrato tra le
istituzioni. Il definitivo riconoscimento dello statuto di istituzione accordato al
Consiglio Europeo e alla Bce aveva un contraltare nell’adozione della codecisione
c o m e m o d a l i t à l e g i s l a t i v a o r d i n a r i a11 , s a n c e n d o u n e q u i l i b r i o t r a
intergovernamentalismo e sovranazionalismo.
Tale dinamica tra l’altro, sebbene inedita in Ue - che anzi nei decenni ha assistito
a un progressivo processo di empowerment del Pe - riflette dei cambiamenti ben noti
a livello nazionale (Andersen e Burns, 1996; Raunio, 1999). Le condizioni imposte
dall’ambiente economico e finanziario internazionale, il progressivo aumento delle
transazioni e il rapido incremento della loro velocità, hanno di fatto sfasato il timing
tra i mercati e la democrazia, rendendo le procedure legislative nazionali troppo
pesanti per competere con la velocità dei mercati, senza considerare che alcuni paesi
hanno visto durante la crisi l’instaurazione di governi tecnici. A livello comunitario
questo si concretizza nell’impotenza di reagire alla velocità dei mercati di Consiglio e
Pe, per loro natura istituzioni di confronto, dialogo e negoziazione che comportano
inevitabili tempi lunghi e dunque con un timing sfasato rispetto ai mercati, a
vantaggio di organi tecnicamente più adatti alle nuove sfide globali, sebbene prive di
legittimità democratica.
!Le conseguenze dell’assetto post-crisi e le possibili soluzioni
! La marginalizzazione del Pe, ed il conseguente assetto di sovranazionalismo
illegittimo qui descritto, non fa che acuire il deficit democratico delle istituzioni
comunitarie, sollevando seri dubbi sulla sostenibilità del processo di integrazione
(Habermas, 2012; Persson, 2012). Il ruolo del Pe ai fini della legittimità delle
politiche economiche e monetarie dell’Ue non è infatti di secondaria importanza.
Esso costituisce una garanzia di legittimità sia in fase di input sia in fase di output,
riprendendo la distinzione fatta da Scharpf (1999), secondo cui la input legitimacy è
la misura della partecipazione del popolo al processo decisionale attraverso gli organi
rappresentativi, mentre la output legitimacy attiene al benessere dei cittadini in
seguito alle decisioni prese, che conferisce loro una sorta di legittimazione
supplementare. Da questo punto di vista, un ruolo del Pe sarebbe auspicabile per
imprimere le due dimensioni di legittimazione ai processi di trasformazione intercorsi
in questi anni (Hallerberg et al., 2011): sul lato dell’input, un ruolo centrale del Pe
sarebbe fondamentale per conferire rappresentatività alle decisioni prese, mentre dal
lato dell’output il Pe conferirebbe chiarezza e trasparenza ai processi decisionali, che
se attuati a livello intergovernamentale o all’interno di organi tecnocratici possono
risultare oscuri. Del resto il Pe è l’istituzione meglio piazzata per conferire legittimità
ai processi decisionali comunitari, più che gli stessi parlamenti nazionali, per quanto
attiene le politiche economiche e monetarie dell’Eurozona. Come infatti avviene in
sede di negoziazioni all’interno del Consiglio, ogni singolo governo è strutturalmente
(e legittimamente) chiamato a difendere gli interessi del proprio paese. Allo stesso
modo, i parlamenti nazionali, se chiamati ad esprimere la loro visione, sarebbero
ovviamente orientati alla difesa degli interessi nazionali, contribuendo a frammentare
ulteriormente il quadro delle policies comunitarie (Fasone, 2012). Il Pe
rappresenterebbe dunque l’unica istanza capace non solo di dare rappresentazione ai
cittadini, ma di farlo al di là dei confini nazionali.
!
11
La codecisione (art. 294 TFUE) è la procedura legislativa secondo cui una norma comunitaria è adottata solo se
approvata dal Parlamento Europeo e dal Consiglio dei Ministri, con il sistema della maggioranza qualificata.
!10
Recentemente Schmidt (2012b) ha suggerito l’inserimento di una ulteriore forma
di legittimazione dell’Ue al di là delle legittimazioni input e output, definita
throughput legitimation, che consiste nel conferire legittimità ai processi decisionali
comunitari attraverso il coinvolgimento della società civile, la trasparenza e dunque
l’accesso alle informazioni, l’accountability e la responsiveness dei decisori politici.
A ben vedere, la marginalizzazione del Pe avvenuta negli ultimi contribuisce a
scalfire parzialmente anche questo ulteriore dimensione di legittimità, poiché
vengono eliminate potenziali sorgenti di legittimità throughput: il coinvolgimento
della società civile attraverso i rappresentanti al Parlamento non è attuabile, così
come ne risentono la trasparenza e la responsiveness dei processi decisionali
comunitari.
Il ruolo di controllo democratico del Pe è ancor più necessario se si considerano i
profili di legittimità delle istituzioni comunitarie che più hanno ottenuto visibilità e
responsabilità, la Bce e la Commissione. In quanto organi essenzialmente tecnici, alla
Bce e all’esecutivo comunitario non è richiesta rappresentatività. Tuttavia di fronte ad
un ingigantimento delle loro prerogative si sente quantomeno la necessità di
effettuare un controllo democratico sul loro operato, tanto più che negli ultimi tempi
esso ha a che fare con l’imposizione ed il controllo di misure di condizionalità agli
stati membri, che limitano addirittura il potere discrezionale dei Parlamenti nazionali
nella definizione del bilancio. Lo stesso rapporto tra il Pe e la Bce, considerato
l’esponenziale incremento delle prerogative di quest’ultima, fa della Banca di
Francoforte una delle istituzioni del suo genere più indipendenti al mondo. Di fatti,
negli Stati Uniti le modifiche allo statuto della Federal Reserve sono possibili
attraverso una decisione del Congresso, quando invece in Europa è necessaria una
ben più gravosa revisione dei Trattati (Barbier, 2012, 216), determinando
un’indipendenza della stessa unica al mondo, ed un conseguente limitato potere del
Pe nei suoi confronti. Se infatti il Presidente della Fed è responsabile (accountable)
nei confronti del Congresso, il suo omologo della Bce gode di un’indipendenza
maggiore (ibid.). Le stesse audizioni del Presidente di fronte alla commissione
parlamentare per i problemi economici e monetari, quattro volte all’anno, e il
resoconto annuale in seduta plenaria sono considerate poco più che formalità, vista
l’impossibilità del Pe di sanzionare in alcun modo l’operato della Bce, e dunque
lontane da quel controllo democratico richiesto dal Pe con l’istituzione del cosiddetto
dialogo monetario (Parlamento Europeo, 1996).
Se è vero che il Pe è formalmente escluso dalla gestione della politica monetaria,
non facendo parte di quelle istituzioni che regolano l’Uem, gli spazi che potrebbe
riempire relativi alle questioni di crisis management e crisis prevention sono ampi.
Per conferire maggiore legittimità democratica agli strumenti creati durante la crisi il
Pe potrebbe essere stato coinvolto in un controllo dell’operato della Troika, avrebbe
potuto esprimere con un voto l’opportunità delle sanzioni applicate agli Stati membri
risultati inadempienti ai limiti di budget, o si sarebbe potuto esprimere sulle misure di
condizionalità richieste per la concessione degli aiuti finanziari. Ancora, si potrebbe
immaginare un rapporto formale più stretto tra il Pe e l’Eurogruppo, o l’Eurosummit
dalla data della sua creazione informale12, pur con le difficoltà tecniche e politiche
!
12
L’Eurogruppo è la riunione dei ministri dell’economia e delle finanze dei paesi appartenenti all’Eurozona, che negli
anni ha ottenuto uno status formale (ad esempio con la designazione di un Presidente per un mandato di due anni e
mezzo), mentre l’Eurosummit è la riunione informale, tenutasi per la prima volta nell’ottobre del 2008, dei capi di
Stato e di governo dei paesi appartenenti all’area euro.
!11
che questo incontrerebbe13 . Ancora, considerato l’aumento esponenziale delle
responsabilità assunte dalla Bce, si potrebbero immaginare meccanismi di
supervisione maggiore sull’operato della Banca di Francoforte da parte del Pe, pur
tenendo fermo il necessario principio di indipendenza di questa, intervento questo che
richiederebbe una complicata revisione dei Trattai. Infine, al di là delle misure
legislative qui elencate, sarebbe prerogativa del Pe, in quanto pilastro dei processi
legislativi comunitari, quello di imprimere una dimensione più politica agli stessi. Il
Pe dovrebbe cioè farsi veicolo di una visione politica degli affari europei, sfruttando
le maggioranze politiche che potrebbero risultare dalle elezioni europee, per
imprimere una visione che rispecchi quella dei cittadini. In questo senso, esso
diventerebbe un ‘normale’ parlamento che esprime una visione che spazia lungo la
frattura destra-sinistra, piuttosto che la consueta linea di frattura pro-anti Europa, che
si è rivelata incapace di far imprimere al Pe una sua visione sul corso degli eventi.
!Il valore delle elezioni europee 2014
! In vista delle elezioni europee di maggio 2014, da più parti veniva auspicata
un’inversione di rotta nel ruolo del Pe nella governance comunitaria, con una
maggiore responsabilizzazione dell’assemblea e un più stretto controllo democratico
sulle altre istituzioni (si veda ad esempio il manifesto elaborato dai due eurodeputati
Daniel Cohn-Bendit e Guy Verhofstadt, 2012). Gli stessi gruppi politici europei
hanno fatto campagna, comprensibilmente, per un aumento dell’accountability
elettorale del Parlamento Europeo, esemplificato nella candidatura di un proprio
membro alla presidenza della Commissione Europea14. Tuttavia, difficilmente la
prossima legislatura sarà la protagonista di una rivoluzione copernicana della
governance comunitaria, per ragioni strutturali e contingenti.
Le ragioni strutturali sono le stesse alla base della marginalizzazione del Pe in
questi ultimi anni, ed hanno a che fare con l’evoluzione istituzionale di medio-lungo
periodo dell’Ue, la crisi economica ed in generale le relazioni tra democrazia e
mercato della fase storica che viviamo. Per quanto riguarda l’evoluzione istituzionale,
è già stato ampiamente discusso di come a partire dal fallimento del Trattato
Costituzionale, ma più in generale dalle strutture create a Maastricht, l’Unione abbia
vissuto prima una lunga fase di intergovernamentalismo, in special modo nella
gestione delle politiche relative alla moneta unica. Si è poi detto di come la crisi abbia
contribuito a trasformare recentemente nell’assetto qui definito di sovranazionalismo
illegittimo, complice anche una tendenza generale alla deparlamentarizzazione delle
logiche politiche nazionali, sacrificate sull’altare della rapidità e delle tempistiche
imposte dai mercati. Di conseguenza, il Pe si trova in una posizione di svantaggio
relativo rispetto ad altre istituzioni per poter influire su una riforma della governance
dell’Eurozona.
I motivi contingenti derivano dal risultato elettorale e dalla composizione del
nuovo Parlamento uscito dalle urne. Esso non presenta una chiara maggioranza
partitica, costringendo i partiti al centro dell’asse politico (Popolari e Socialisti, più
!
13
L’Eurogruppo riunisce infatti i soli paesi Ue che hanno adottato la moneta unica, mentre ovviamente al Pe siedono
anche deputati provenienti da paesi che non appartengono all’euro; sebbene la linea del Pe sia stata da sempre quella
di permettere a tutti i deputati di esprimere il loro voto anche in materie riguardati solo misure relative ai paesi euro,
tale discordanza potrebbe aprire spazi di contestazione delle decisioni prese in caso di un aumento di poteri del
Parlamento stesso.
!
14
Il Trattato di Lisbona prevede infatti che la nomina del Presidente della Commissione Europea debba tenere conto
dei risultati delle elezioni europee (art 17.7. TUE). Tale disposizione è stata interpretata estensivamente dai gruppi
politici del Pe, che hanno avanzato delle candidature, tuttavia il procedimento prevede una deliberazione a
maggioranza qualificata del Consiglio Europeo che avanza una proposta da approvare in sede parlamentare.
!12
Liberali) ad una grande coalizione sui generis, che è oramai una costante
nell’emiciclo di Strasburgo dall’indizione delle prime elezioni a suffragio universale.
Complice il sistema proporzionale di rappresentanza, nessun gruppo parlamentare è
riuscito ad ottenere la metà più uno dei seggi. La prima seduta plenaria, a luglio 2014,
ha visto la presenza di sette gruppi parlamentari, con i seggi così ripartiti: 221 seggi ai
Popolari, 191 ai Socialisti, 70 ai conservatori, 67 ai liberali, 52 alla Sinistra Unitaria,
50 ai Verdi e 48 al gruppo Europa della Libertà e della Democrazia, più altri 52 seggi
tra altri e non iscritti15. Come da sempre accade nel Pe, la maggioranza non sarà
dunque espressione di un chiaro orientamento politico, in linea con l’asse destrasinistra che caratterizza le dinamiche di politics nazionali. L’assemblea di Strasburgo
continuerà a rispecchiare un altro cleavage, che pure si sta acuendo a livello
nazionale, e cioè quello della spaccatura pro/anti Europa, che divide da una parte i
partiti mainstream (Popolari, Socialisti e Liberali), tendenzialmente integrazionisti
sebbene con differenze anche marcate sul modello di integrazione da perseguire, e i
gruppi più o meno apertamente euroscettici16. Tale configurazione ripropone nei fatti
la necessità di un accordo tra i partiti al centro dell’asse politico, che secondo una
consolidata logica consensuale in seno al Pe, formeranno una sorta di grande
coalizione a livello europeo.
Un siffatto assetto politico non è senza conseguenze per il ruolo complessivo del
Parlamento all’interno delle logiche istituzionali comunitarie. Il principio consensuale
in seno al Pe, oltre a ridurre la possibilità di identificare i responsabili del policymaking e quindi ad offuscare ulteriormente l’accountability elettorale (Rombi e
Valbruzzi, 2014), limita di fatto i poteri del Pe nel triangolo istituzionale. Non
essendo presente una chiara maggioranza politica, i maggiori gruppi politici sono
costretti a trovare delle posizioni comuni che possano rappresentare un comun
denominatore tra le loro preferenze. In questo senso non prevale una chiara visione
politica, che farebbe probabilmente più incisiva nell’avanzare proposte di riforma,
bensì prevale uno spirito corporativo in difesa dell’istituzione di fronte agli altri
organi comunitari, Consiglio Europeo in primis, che rischia di annacquare le istanze
parlamentari in nome di un necessario compromesso tra le forze politiche. Da questo
punto di vista, potrebbe essere poco apprezzabile nel corso dei prossimi mesi il fatto
che la vittoria sia stata appannaggio dei popolari piuttosto che dei socialisti.
La stessa elezione a Presidente della Commissione di Jean-Claude Juncker,
candidato dei popolari per la guida dell’esecutivo comunitario, avvenuta a luglio,
sebbene un indubbio progresso per il peso del Pe all’interno del triangolo istituzionale
ed un indiscutibile cambiamento di metodo, presenta dei caratteri che ne limitano la
portata. Se è vero che l’aspettativa di vedere a capo della Commissione il candidato
del partito di maggioranza relativa in seno al Pe non sia stata disattesa, la sua
designazione da parte del Consiglio non è il frutto del un braccio di ferro che ci si
poteva aspettare tra le legittime aspirazioni del Pe di vedere rispettato l’esito del voto
e la volontà degli Stati membri. Juncker cioè rappresentava di per sé un punto di
equilibrio tra i governi, ed anzi se c’è una notizia nella sua designazione, è che questa
!
15
Tra i non iscritti sono compresi gli eletti del Front National francese ed altri deputati euroscettici, tra cui i
parlamentari della Lega Nord, che non sono riusciti a formare un gruppi autonomo. Per un’analisi dettagliata dei
risultati delle elezioni europee a livello continentale e nazionale si rimanda alla recente raccolta di saggi curata da
Valbruzzi e Vignati (2014).
!
16
Può essere utile richiamare la condivisa distinzione tra euroscetticismo hard e soft (metti riferimento): il primo
sottintende una critica radicale a qualsiasi forma di integrazione sovranazionale, ed è tipico della galassia di partiti
nazionalisti, no-euro e xenofobi (FN, Lega Nord, Vlaams Belang…); l’euroscetticismo soft caratterizza quei partiti
che pur riconoscendo un valore all’integrazione europea, criticano i modi in cui le politiche sono condotte, o sono in
favore di una completa rifondazione del processo di integrazione su basi diverse (tra questi, il gruppo dei Verdi e la
Sinistra Unitaria).
!13
non sia stata presa all’unanimità all’interno del Consiglio Europeo, ma a maggioranza
qualificata con l’opposizione di Regno Unito e Ungheria. In altre parole, la
sensazione è che Juncker l’abbia spuntata perché é una figura capace di rassicurare i
governi, più che in veste candidato del gruppo più votato al Parlamento. Tra l’altro,
il sostegno dei socialisti al lussemburghese stride con le logiche politiche tradizionali
di destra-sinistra, ed è un sintomo di quella difesa corporativa dell’istituzione di cui si
è detto.
La tornata di nomine, nel suo complesso, non sono dunque il vero e proprio
inizio di quello scenario di politica realmente democratica preconizzato da Hix
(2011). Sebbene il cambiamento di metodo sia evidente, una vera e propria
riabilitazione del Pe è ancora lontana da venire, e le elezioni, creando una situazione
di stallo politico, non hanno certamente contribuito a dinamizzare lo scenario
politico.
!Conclusioni
! La lunga crisi economica e il parallelo processo di riconfigurazione istituzionale
inaugurato a fine 2009 dal Trattato di Lisbona hanno in larga parte ridisegnato il volto
dell’Ue, ridistribuendo poteri e responsabilità tra il livello nazionale e quello
sovranazionale, e all’interno di quest’ultimo tra i vari attori istituzionali. L’analisi
condotta nel paper, attraverso la ricostruzione delle risposte di policy più rilevanti in
materia di politiche economiche e monetarie realizzate in questi anni di crisi, e
attraverso un’interpretazione in chiave istituzionalista del ruolo svolto dalle
istituzioni europee, ha rivelato due dinamiche di cambiamento convergenti. La prima
riguarda il ridimensionamento della fase intergovernamentale: pur affrontando gli
albori della crisi forti della legacy lasciata da Maastricht nella gestione dell’Uem e
delle novità introdotte dalla recente riforma dei Trattati, l’approccio
intergovernamentale alla crisi nei fatti non ha prodotto gli outcomes desiderati,
rallentando il percorso di uscita dalla crisi ed anzi aggravando le condizioni di alcuni
Stati membri, a causa dei limiti di tale metodo emersi negli anni. La seconda
dinamica riguarda invece il rafforzamento delle prerogative delle due istituzioni
tecnocratiche dell’Ue, la Commissione e la Bce. Se la prima è riuscita ad ottenere
maggiori poteri di sorveglianza e vigilanza sul rispetto delle regole di bilancio da
parte degli Stati, la banca di Francoforte ha assunto il ruolo di dominus della crisi,
riempendo il vuoto politico lasciato dagli stati membri attraverso un insieme di
misure convenzionali e non convenzionali inedite. L’assetto determinato dalla
convergenza delle due dinamiche è stato definito come sovranazionalismo illegittimo.
Paradossalmente, cioè, la fase di intergovernamentalismo ha aperto gli spazi per un
rafforzamento di alcune istituzioni sovranazionali. Tuttavia, la marginalizzazione del
Pe ha ridotto ulteriormente il tasso di rappresentatività, e dunque di legittimità
democratica, delle politiche comunitarie.
Lo sviluppo di un assetto di sovranazionalismo illegittimo, ovviamente, non
presuppone l’annientamento tout court dei governi all’interno delle dinamiche
istituzionali comunitarie. Come la recente tornata di nomine comunitarie dimostra,
essi sono ancora un attore fondamentale in Europa, e per molti aspetti continueranno
ad esserlo. Piuttosto, si è assistito ad un loro ridimensionamento nella governance
economica dell’euro, nella quale sono emerse prepotentemente le figure della Bce e
della Commissione, a dispetto dell’idea prima diffusa che un semplice coordinamento
tra governi fosse sufficiente a gestire la moneta unica. Gli eventi della crisi hanno
mostrato che in un sistema di interdipendenze complesse le istituzioni sovranazionali
sono indispensabili per ridurre l’azzardo morale e i problemi di committment.
Tuttavia, se grazie al coinvolgimento attivo della Bce (palesi interferenze nella
!14
politica nazionale secondo alcuni osservatori) i problemi di efficacia delle policies è
stato momentaneamente risolto, il problema della legittimità democratica
dell’impianto comunitario resta intatto, anzi acuito se possibile.
Cosa il futuro riserverà all’Ue e alle sorti del Pe nell’assetto istituzionale
comunitario, è altamente incerto. La marginalizzazione del Pe potrebbe innescare
dinamiche di path dependency, tra l’altro diffuse nell’ambito istituzionale
comunitario durante la crisi (Gocaj e Meunier, 2013) per cui la sua figura potrà
difficilmente essere riabilitata nel breve periodo. La portata dell’assetto istituzionale
partorito negli anni di crisi può cioè potenzialmente portare ad un sistema di
perpetuata illegittimità democratica sui cui effetti a lungo termine è doveroso
interrogarsi: qual è lo spazio per il metodo comunitario nella gestione della moneta
unica considerando il fallimento della gestione integrovernamentale degli ultimi
anni? E soprattuto, come accennato in introduzione, quale valore attribuire ai benefici
dell’integrazione europea se questi vengono ottenuti a discapito della rappresentanza
dei cittadini? D’altra parte, le dinamiche in atto potrebbero rivelarsi essenzialmente
un adattamento temporaneo a delle condizioni eccezionali di crisi, la
marginalizzazione del Pe potrebbe rientrare nelle ricorrenti dinamiche di adattamento
dell’Unione e negli anni il sistema potrebbe riequilibrarsi, anche attraverso una decisa
riforma dei Trattati. La strada che apre a questi due scenari è tuttora in divenire e
difficile da interpretare. Gli eventi degli ultimi anni hanno dimostrato quanto
l’integrazione europea sia allo stesso tempo fragile e resiliente, capace di resistere
nonostante le debolezze che via via emergono nel suo cammino. Solo il tempo potrà
dunque fornire elementi di analisi ulteriori in questi scenari tutt’altro che nitidi per il
futuro della costruzione europea.
!!
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