Il Sud non è più periferia ma non se ne è accorto

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Il Sud non è più periferia ma non se ne è accorto
LA SICILIA
24.
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DOMENIC A 19 GIUGNO 2011
Le idee
‘
L’INTERVISTA. Il sociologo Franco Cassano parla della possibilità nuova per il Meridione offerta dalla Primavera araba
LA SVOLTA POSSIBILE
GIUSEPPE DI FAZIO
C
on le rivolte arabe, a sorpresa, è caduto un
altro Muro e la Sicilia si ritrova ad essere in
prima linea, non più periferia dell’impero. In
prima linea come approdo dei profughi in fuga, ma
anche nel dialogo culturale ed economico con la
sponda meridionale del Mediterraneo. E’ una finestra che s’è aperta in maniera imprevista sul futuro, un’occasione storica che sarebbe assurdo non
cogliere. Ne parliamo col sociologo Franco Cassano,
a Catania come relatore ai Dialoghi d’Aragona diretti da Pietro Barcellona. Cassano, teorico del
"pensiero meridiano", è autore di alcuni fortunati
saggi sul Sud e sulle sue classi dirigenti che hanno
animato i dibattiti culturali in questi ultimi anni.
Professore, col "pensiero meridiano", lei ha sviluppato una riflessione su un nuovo paradigma
che ha l’obiettivo di svincolare il Sud e il Mediterraneo dall’ideologia dominante e di liberarli dalla
subalternità a cui sembrano destinati. Alla prova
dei fatti ci sono segnali che confortano questa sua
ipotesi o essa è destinata a restare una pura teoria?
«A lungo mi è stato obiettato che queste fossero
prospettive belle, ma utopiche. Credo che la situazione negli ultimi mesi sia cambiata. Le rivoluzioni in Tunisia ed Egitto hanno mostrato un fatto
nuovo, di rilievo, che cambia il quadro: per la prima volta sulla sponda sud del Mediterraneo s’è affacciata la possibilità di avere un interlocutore nella costruzione della politica mediterranea. Prima
c’erano dittatori, tenuti al potere con l’aiuto delle
grandi potenze dell’Occidente, oppure movimenti integralisti. In questa alternativa era difficile scegliere. E muoversi».
Qual è la novità reale dei fatti accaduti negli ultimi
mesi?
«Le rivoluzioni nel Nord Africa testimoniano l’apertura di un processo diverso. Si viene affermando un
movimento di massa, giovanile e popolare, che
non condivide le parole d’ordine dell’integralismo,
né il potere dei despoti. Le parole d’ordine di questo movimento sono: libertà, democrazia, giustizia
sociale. Sono parole che non rientrano nel paradigma dell’integralismo».
Perché mai questo fatto dovrebbe favorire una
nuova politica mediterranea?
«Perché fa cadere un possibile muro fra le due
sponde, facilita la possibilità di conoscersi da parte di quei Paesi con l’Europa e viceversa».
La primavera araba, però, è ancora agli inizi.…
«I movimenti di cui abbiamo parlato non sono solidi, stabilizzati e non possono prescindere da quello che noi - come italiani e come europei - faremo.
Di fronte a quello che sta accadendo in Nord Africa non possiamo stare a guardare. Si apre un’occasione che bisogna cogliere, attraverso politiche di
collaborazione, di consolidamento delle spinte democratiche e, soprattutto, di collegamento fra le
aree che si avviano allo sviluppo sull’una e sull’altra sponda. Nessuno ha interesse a favorire modelli economici già deboli che darebbero vita a nuova
«E’ caduto il Muro fra le due
sponde del Mediterraneo. Il
Mezzogiorno non può stare
a guardare. Si apre
un’occasione che bisogna
cogliere anche attraverso
politiche di collaborazione
e di consolidamento delle
spinte democratiche»
I DIALOGHI D’ARAGONA
Quaranta giovani studiosi di
tutt’Italia e quattro stranieri
partecipano fino a sabato prossimo a
Catania ai Dialoghi d’Aragona diretti
da Pietro Barcellona su «Lo spazio
umano e le culture mediterranee».
Domani la manifestazione, che si
svolge al Camplus d’Aragona, vedrà
le relazioni dello storico Giovanni
Filoramo ("Il confine tra sacro e
profano come vettore di
organizzazione spaziale") e dello
scrittore Luca Doninelli ("Cattedrali,
teatri, abitazioni nella città").
«Il Sud non è più periferia
ma non se ne è accorto»
emigrazione e a un risentimento sempre più forte.
Insomma, il fatto nuovo c’è stato, ora è il tempo di
una grande responsabilità».
Il nostro Paese è chiamato direttamente in causa….
«C’è un baratro immenso fra quello che si fa e quello che si dovrebbe fare. La finestra s’è aperta, abbiamo un’occasione unica a portata di mano, se non la
cogliamo rischiamo di trovare la finestra di nuovo
chiusa, con tutti i problemi che ne derivano».
La storia bussa alle porte di casa nostra. Qual è il
passo che dobbiamo fare noi meridionali?
«Parto da un’esperienza personale vissuta nella
mia Puglia. Noi abbiamo avuto 20 anni fa uno
shock analogo a quello di questi mesi: allora si verificò sulle coste pugliesi lo sbarco di migliaia e migliaia di immigrati dall’Albania. Fu uno schiaffo che
ci faceva capire che era finita la storia del mondo
con due sfere d’influenza e con un confine che
passava anche attraverso l’Adriatico e il Mediterraneo. I vicini tornavano a essere vicini. Si apriva la
possibilità di una storia diversa, perché fino ad allora noi abbiamo sempre raccontato storie che
non producevamo noi, ma che avevano il cuore nel
Nord Ovest del mondo».
L’analogia coi fatti di questi mesi è calzante….
«Il fatto che il confine si rompa e si affacci una nuova possibilità nella nostra storia ci chiede una responsabilità. Ci fa capire che non siamo una periferia dove le cose arrivano sempre dopo, come ci
hanno fatto credere per tanto tempo, ci ritroviamo
invece in prima linea con rischi e responsabilità più
forti. Saremo capaci di uscire da una lunga e passiva collocazione marginale? Tutta la questione si
gioca nel passare dallo stadio in cui ci si concepisce
come periferia a quello in cui si è protagonisti. Il
problema è lo scarto che viene a realizzarsi fra saper accogliere questo appuntamento, questo
schiaffo e il rischio di ricadere nel vecchio torpore,
o che tutto questo porti a una specie di sublimazione retorica della questione mediterranea, che diventa solo oggetto di altri convegni».
Come si esce dalla retorica mediterranea?
«Dobbiamo chiederci quale sia lo stato dei collegamenti diretti da Catania, da Palermo, da Napoli o da
Bari verso i territori del Nord Africa. Fino a quando
il sistema infrastrutturale dei collegamenti rimarrà
quello attuale siamo con le mani legate. Per diventare centro occorre, invece, che il Sud riarticoli il sistema delle infrastrutture, per rendere facile a imprenditori, a docenti, a studenti dell’una e dell’al-
tra parte, spostarsi. Inoltre bisogna provare a creare lì meccanismi virtuosi di sviluppo. Ancora: dobbiamo chiederci quanto e come si studiano la loro
lingua e la loro cultura. Quanti insegnamenti ci sono, in qual modo si investe su questa possibilità?»
I meridionali, però, hanno ancora il problema di
come spendere utilmente i fondi europei. Ci ritroviamo in un pantano, come facciamo a pensare in
grande?
«Dobbiamo ammettere di avere una classe dirigente pigra, che non investe sul futuro. Il Sud, nel caso
della politica mediterranea, non può fare da solo,
occorre una politica nazionale che finora non c’è
stata».
Eppure ci sono anche responsabilità della classe dirigente del meridionale….
«La polemica nei riguardi di tutte le forme di passività e negatività del Mezzogiorno è sacrosanta,
ma non si può usare questa polemica per ridurre
tutto a questo. E vale anche un altro problema.
Chiediamoci: il Sud non ha voce, o non ha microfono? La sua voce c’è, ma non si sente, mancano i grandi mezzi di informazione di portata nazionale. La maggior parte dei giornali con profilo nazionale sono al Nord. Quando si dice che il Sud ha
anche una classe dirigente addormentata, in parte
corrotta, collusa, si dice una cosa giusta, ma non si
può dire solo quello. Non ci sto al fatto che questo
divenga l’inizio e la fine del discorso».
C’è, a Roma, chi ha ormai chiuso i cordoni della
borsa nei confronti del Sud perché ritiene le classi politiche meridionali incapace di spendere bene.
«Lo Stato centrale deve fare, sì, la predica e dimostrasi duro, ma deve dare anche strumenti operativi al Sud, altrimenti tutto questo diventa frustrazione o rimozione. Occorre innescare un circolo
virtuoso nel quale ci sono le ruote dentate di una
serie di politiche e un atteggiamento nuovo che
mette in discussione il vecchio parassitismo, il
metodo di usare le risorse pubbliche solo per costruire le fortune elettorali di un ceto politico. E’ interesse anche del Nord che il Mezzogiorno divenga una grande area e questa è una battaglia culturale che bisogna fare. Non esiste un’Italia senza
questa sua collocazione mediterranea. E’ mostruoso pensare che il Paese possa essere tagliato a
metà. Tutto questo per potersi convertire in qualcosa di positivo deve avere un ceto politico capace
di pensare nel lungo periodo. Se no la storia la si subisce».
Anche l’Ue, d’altronde, ha una politica debole nei
confronti del Mediterraneo.
«Sì, l’Europa non sembra aver maturato un’attenzione verso il Mediterraneo. Il Vecchio Continente
oscilla fra nostalgia coloniale (vedi i casi di Francia
e Inghilterra) e la freddezza della Germania. Chi,
come l’Italia, dovrebbe risvegliare la politica mediterranea ha dimenticato il proprio compito. Ma l’Italia tutta, da Trieste e Genova, è nel Mediterraneo.
Se dimentichiamo questa dimensione, censuriamo
la storia del nostro Paese e ne freniamo lo sviluppo futuro».
da A.B.
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