Mariachira Manci1

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Mariachira Manci1
ZANAN BEDOONE MARDAN (WOMEN WITHOUT MEN)
di SHIRIN NESHAT
Mariachiara Manci
Donne dalle ali tarpate che vogliono spiccare il volo, donne dalle vite violate che agognano libertà,
redenzione e riscatto, donne senza uomini in un edenico giardino nel tumultuoso deserto dell’Iran
del 1953: sono le donne protagoniste di Zanan bedoone mardan (Women Without Men), esordio alla
regia dell’artista visuale iraniana trapiantata a New York, Shirin Neshat. Il film è un adattamento
dell’omonimo romanzo scritto da Shahrnoush Parsipuor attorno al 1979 e che, dopo la
pubblicazione nel 1990, è stato messo al bando dal governo iraniano. Non è la prima volta, però,
che la Neshat entra in contatto con i personaggi descritti dalla scrittrice, avendoli già indagati nelle
video installazioni Mahdokht (2004), Zarin (2005), Munis (2008) e Faezeh (2008), dalle ultime tre
delle quali provengono alcuni frammenti del lungometraggio presentato in concorso alla 66esima
Mostra del Cinema di Venezia. In caso di film tratti da romanzi s’incontrano sempre l’handicap del
confronto con l’originale e lo scoglio del creare un’opera autosufficiente ed autonoma: come si
vedrà, Shirin Neshat dribbla felicemente queste difficoltà compensando ciò che può perdere in
narratività e chiarezza degli avvenimenti rispetto al libro, in termini di potere evocativo e
traslazione delle vicende esistenziali di queste donne dal particolare all’universale.
Siamo a Teheran nel 1953. I servizi segreti britannici e americani stanno per portare a termine il
colpo di stato che destituirà il primo ministro Mossadeq, “colpevole” di aver forzato lo Scià ad
attuare la nazionalizzazione dell’industria petrolifera iraniana sottraendone il monopolio alle
potenze occidentali, e di aver avviato il paese verso la democratizzazione. In piazza il popolo
manifesta “Viva Mossadeq, abbasso gli inglesi”, la radio enuncia le ragioni degli iraniani: essi
hanno diritto di essere padroni del proprio petrolio e delle proprie risorse. In una casa una giovane
donna la ascolta, vorrebbe scendere in piazza ma non le è permesso. E’ suo fratello Amir ad
impedirglielo: Munis ha quasi trent’anni, deve prepararsi ad incontrare un possibile corteggiatore,
non spetta alle donne occuparsi di politica, ascoltare la radio, tentare di sovvertire l’ordine
costituito. Ma lei non ci sta, così, se l’unico spazio d’azione concessole è all’interno della casa, lei
sale sul tetto bianco, il corpo coperto dal velo nero e, mentre in lontananza si sentono le grida dei
manifestanti a cui non può unirsi, sceglie il silenzio e si lascia cadere: “per liberarmi dal dolore, ho
capito che dovevo liberarmi del mondo”. E’ su questo volo, rallentato, sospeso, che il film s’apre e
si chiude, il volo liberatorio di Munis, la prima delle quattro donne raccontate in quest’opera, il trait
d’union tra la loro vicenda specifica e le istanze civili e storiche che l’accompagnano. Le altre tre
sono Faezeh, Zarin, Fakhri: tutte unite da un comune destino di repressione e violenza, fisica o
psicologica. Faezeh, la migliore amica di Munis, è innamorata del fratello di lei, Amir, il quale sta
per sposare un’altra donna. Ligia alle regole islamiche, è sempre coperta dal velo e giudica la folla
di manifestanti un gruppo di idioti, perché è così che si deve pensare più che per convinzione. Zarin,
giovane prostituta, non riesce neanche più a distinguere i volti dei suoi clienti, il suo corpo è ormai
visibilmente consunto dal perpetuarsi dell’abuso così come la sua anima. Infine Fakhri,
cinquantenne rinchiusa in un matrimonio senza amore con un ufficiale dell’esercito, decide di
lasciarlo per ritrovare se stessa e far riaffiorare un sentimento passato per Abbas, un intellettuale
appena tornato dall’occidente, e si stabilisce in una casa di campagna circondata da un bosco ed un
giardino di orchidee. In questo luogo sospeso dal mondo, confluiscono i destini di queste tre donne
in fuga: Faezeh dal suo amore infelice e da uno stupro subito da parte degli avventori di un bar,
Zarin da un’esistenza di abuso e violazione, Fakhri dalla sudditanza a un marito che non ama e non
rispetta. Nella casa si dà vita ad una comunità perfetta e autosufficiente dove l’unica presenza
maschile è un giardiniere: un’armoniosa società di sole donne.
Nell’oasi di salvezza al femminile, però, una delle protagoniste non giungerà mai. Si tratta di
Munis. La vediamo gettarsi dal tetto e assistiamo al ritrovamento del cadavere (composto e senza la
minima traccia di sangue) da parte di Amir e Faezeh che piangono la sua morte. Poi però, il giorno
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del matrimonio dell’uomo, Faezeh entra nel giardino dei due fratelli e, guidata dal richiamo della
voce dell’amica, si mette a scavare il terreno e la libera dalla terra. Da qui Munis “rivive” sulla
pellicola e, unitasi ad un gruppo di attivisti a favore di Mossadeq, la vediamo partecipare in prima
persona ai fervori politici che scuotono l’Iran. Ma dunque Munis si è davvero suicidata? Le
immagini delle manifestazioni a cui prende parte sono da considerarsi un flashback? O è forse il
suicidio iniziale un flashforward? E pertanto, gli eventi nella casa-rifugio di Fakhri avvengono
prima o dopo che Munis si uccida? E’ difficile comprendere cosa avvenga prima e cosa dopo, cosa
sia reale e cosa immaginato. Si palesa qui, infatti, la cifra stilistico-narrativa dell’opera, quel senso
di astrazione dalla realtà con un’indeterminatezza nella temporalità e nella spazialità che conducono
ad una sorta di realismo magico. Il film pullula di ambiguità e momenti che esulano da un reale
codificato, e di essi si nutre aumentando il proprio fascino. Shrin Neshat semina qualche indizio ma
lascia aperte le porte dell’esegesi. Proviamo ad imboccare una di esse, una delle molte possibili.
Attraverso l’instaurarsi di due canali privilegiati nelle relazioni che legano le quattro protagoniste,
la regista dà vita ad una coppia di diadi, Fakhri e Zarin, Munis e Faezeh, che riproducono i legami
più potenti, genuini e fecondi che possono crearsi tra donne. Si tratta del rapporto tra madre e figlia
e quello tra amiche-sorelle. Dal momento in cui Fakhri trova Zarin in fin di vita nel bosco, la prende
con sé, la nutre, la sostiene e la protegge così come una madre si prende cura della propria figlia. La
sua felicità dipende interamente dai progressi di lei, tanto che il suo giardino di orchidee finalmente
fiorisce quando Zarin migliora e riprende a mangiare. Allo stesso modo, l’impossibilità di una
nuova vita e di un nuovo amore si palesa nella sua definitezza con la morte della giovane, mentre
Fakhri sta cantando per gli ospiti della sua villa: Abbas con la nuova fidanzata occidentale, degli
iraniani filo britannici, un gruppo di soldati inglesi cui la donna viene presentata,
significativamente, come consorte del marito ufficiale. Il colpo di stato ha avuto successo, con esso
muoiono le speranze di rinnovamento della società iraniana legate a Mussadeq, così come quelle
personali della povera Fakhri. Munis è invece la migliore amica di Faezeh, una sorta di sorella
maggiore che la indirizza e la consiglia. E’ lei a spiegarle come i manifestanti tra cui ha dovuto
destreggiarsi in strada per venirla a trovare non siano un branco di idioti, bensì uomini (ma non
donne) che lottano per la libertà e la democrazia in Iran. Sempre lei la consola nel suo amore
infelice per Amir e, dopo lo stupro, la conduce alla casa di Fakhri dove Faezeh potrà ritrovare se
stessa. Le dinamiche dei rapporti di entrambe le coppie si organizzano attorno a una figura che
funge da guida ed un’altra da allieva/protetta. Non tutte però avranno successo.
Osservando il film dal punto di vista della geografia umana, però, il sistema delle diadi perde la sua
efficacia. Due sono i luoghi dove le vicende esistenziali e fattuali delle protagoniste prendono vita:
la villa di Fakhri e la Teheran in fermento. Alla prima si giunge tramite una strada sterrata che
attraversa una distesa di campi fino a perdersi in profondità. Tre identiche inquadrature ci mostrano
le quattro donne percorrere la via che dalla realtà di Teheran porta allo spazio utopico della villarifugio. Prima Zarin, poi Fakhri, infine Munis e Faezeh attraversano questa strada, di spalle, con il
velo addosso: delle ombre che si dirigono verso l’orizzonte. Soltanto in tre, però, vivranno
l’universo femminile della casa di Fakhri. Il percorso di Munis s’arresta invece al di fuori del
cancello. Lei appartiene al mondo di Teheran e la seguiamo tra gli attivisti della città che lottano per
Mussadeq. E’ una figura singolare e isolata, agisce separata dalle altre tre donne e non condivide il
loro luogo-rifugio, con due di esse addirittura non entra mai in relazione. Ciò avviene perché in
realtà Munis è morta. E’ l’amica Faezeh a farla rinascere dentro di sé, a lasciare che il seme del suo
insegnamento germini e fiorisca in lei fino a renderla una ragazza consapevole, emancipata,
indipendente, una vera donna. Il dissotterramento il giorno del matrimonio di Amir simboleggia
l’apertura della timida e sottomessa Faezeh alla più indipendente visione del mondo dell’amica, da
quel momento lascia che il suo spirito riviva in lei e comincia il suo rinnovamento. Non è infatti un
caso che si veda la giovane giungere alla casa di Fakhri accompagnata da Munis, e che sia
quest’ultima a consolarla dopo lo stupro subito e a dirle di andarsene da Teheran. Munis rappresenta
la maturazione della coscienza civile della donna, lo spirito progressista, la consapevolezza della
situazione storica dell’Iran, la volontà di emancipazione. E’ colei che possiede una visione più
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ampia, che si stacca dalle vicende del singolo per salire sul tetto bianco di una casa e fornire uno
sguardo dall’alto sulla situazione di un intero popolo, un’intera nazione. Shirin Neshat se ne serve
per illustrare gli avvenimenti del 1953, conducendo lo spettatore tra manifestazioni e riunioni di
giovani impegnati per l’autonomia dell’Iran dall’influenza delle potenze straniere. Come chi guarda
il grande schermo, anche Munis è spettatrice di questi avvenimenti, non ne fa mai veramente parte.
E’ emblematica la scena del corteo dove i manifestanti sono tutti uomini vestiti di bianco mentre lei
spicca in questa candida fiumana, unica donna, vestita di nero, componente marginale, presenza
estranea. Quelli che vediamo non sono episodi reali della sua vita. Bensì è lo spirito di Munis a
seguire con apprensione questi avvenimenti, rappresentante dello spirito di tutte le donne iraniane
che hanno creduto e credono nel futuro, nella possibilità di riforma della propria condizione e di
progresso del proprio paese. Bisogna invece uscire da Teheran per raggiungere la casa di Fakhri, il
rifugio in cui nasce il mondo di donne senza uomini del titolo, un posto che mescola tratti reali a
elementi fantastici. Per accedere alla villa bisogna oltrepassare il bosco che la circonda, un luogo
della mente più che uno posto reale. Come in una sorta di spazio psicanalitico, qui le tre donne sono
chiamate ad affrontare i propri drammi esistenziali, rielaborali e superarli per uscire dal bosco
alleggerite, purificate, pronte a vivere in una società al femminile, armoniosa e perfetta. Shirin
Neshat sembra suggerire che la provenienza del male e della sofferenza sia da attribuire agli uomini.
E in effetti l’equilibrio di questa comunità sui generis viene spezzato proprio quando Fakhri decide
di aprire la villa al mondo esterno, all’universo maschile. Dà una festa per alcuni amici di città e
giungono allora Abbas, l’uomo di cui Fakhri è innamorata, con la sua nuova giovane fidanzata
inglese, e Amir che cerca Faezeh per prenderla come seconda moglie. In questo momento
l’incantesimo di quel mondo edenico si rompe e le tre donne sono chiamate a fronteggiare la vita
reale. Tra di esse, la fragile Zarin non regge alla prospettiva di un nuovo contatto con il maschile e
ciò che rappresenta, e si spegne, in silenzio, così come è stata per l’intero corso del film.
La forma dell’opera è improntata alla circolarità: il tempo è confuso, tutto ritorna. La pellicola si
chiude così come è iniziata, con il volo di Munis e il suo corpo steso a terra, composto, da cui la
macchina da presa s’allontana verso l’alto roteando su se stessa. Il velo della donna però resta sul
tetto: attraverso la morte Munis è finalmente libera dalle costrizioni che la società le ha imposto.
Circolarità, eterno ritorno, impossibilità di cambiamento; Shirin Neshat sembra chiudere il film su
una nota negativa e pessimista: le cose sono immutabili. Oppure no? Vediamo che il tentativo di
riforma di Mussadeq fallisce, Zarin e Munis muoiono, Fakhri trova deluse tutte le sue speranze.
Eppure c’è Faezeh, la ragazza che più sembrava inquadrata nell’ordine costituito. Quando il
reazionario Amir finalmente le propone di diventare sua moglie come tanto aveva sognato, lei lo
rifiuta e con ciò respinge un intero mondo in cui la donna è sottomessa e insignificante. Lei mette in
pratica un processo di maturazione che ha il suo punto di svolta nella morte della povera Zarin. Le
due donne, accumunate da un’esperienza di abuso, poco prima della festa hanno un significativo
incontro nel bosco, luogo dell’elaborazione del proprio vissuto. Delle due l’una, Zarin, è troppo
debole per andare oltre, mentre l’altra è più forte. Faezeh assiste l’inerme prostituta sul letto di
morte, una morte catartica che permette alla giovane di lasciare andare con Zarin il trauma subito e
proseguire nel suo cammino, capace di tornare alla vita reale. E infatti Faezeh, raggiunta ormai
l’autoconsapevolezza e l’emancipazione, è l’unica che vediamo riattraversare la famosa strada che
unisce il mondo di Teheran a quello della casa di Fakhri: la percorre in senso contrario, senza il velo
nero a nasconderla, lasciando anzi vedere il suo volto truccato e il suo primaverile abito a fiori,
l’abito della rinascita.
Da ogni inquadratura di quest’opera prima di Shirin Neshat trapela con forza dirompente la sua
attività di artista visuale. La vista è stuzzicata da immagini il cui splendore visivo è esaltante,
mentre solo in un secondo momento esse si rendono veicolo di narrazione, caratteristica distintiva
ma forse in parte anche limite del film. Colpisce poi la coerenza formale dell’intera pellicola,
nonostante si faccia anche uso di frammenti di opere visuali precedenti. Non trascurando l’adozione
di effetti digitali, le quattro donne della vicenda vengono immortalate in spazi di surreale bellezza,
con una fotografia di Martin Gschlacht che raggiunge i suoi risultati migliori quando riprende la
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natura, ad esempio nell’immagine di Zarin che fluttua nell’acqua del ruscello in mezzo al bosco
come l’Ofelia del preraffaellita John Everett Millais. D’altronde la natura stessa è una dei
protagonisti del film. Il bosco e il giardino di orchidee avvolgono e proteggono le quattro donne, la
natura funge da rifugio, è madre, è lei stessa donna. E ad essa ritorna anche Munis, con il suo volo
iniziale che è subito seguito dalle immagini del bosco con il suo ruscello, luogo di pace e di
liberazione. In effetti, la grande cura formale contribuisce a creare quell’effetto di sospensione dal
reale ed indeterminatezza che più volte si è individuato nell’opera. Quest’aspetto era già presente, in
una certa misura, nel romanzo di Shahrnoush Parsipour. Rispetto al libro, però, Shirin Neshat da un
lato potenzia la dimensione semifantastica in cui le sue donne si muovono, specialmente nella villa
di Fakhri, vero luogo dell’utopia, ma dall’altro porta in primo piano l’ambientazione durante i fatti
del 1953, per la Parsipour più marginale. Realtà e astrazione si alternano in un gioco di
compenetrazione che trasforma queste donne senza uomini da soggetti particolari a figure
universali, che intessono relazioni universali affrontando problematiche universali. Sono i temi del
rapporto uomo-donna, donna-società che Shirin Neshat da sempre indaga nei suoi lavori non
cinematografici, ogni volta con una particolare attenzione al suo Iran.
La scritta finale del film fa sapere che questo lavoro è dedicato a tutti coloro che da cento anni, dalla
Rivoluzione Costituzionale del 1906 al Movimento Verde del 2009, lottano e danno la vita per la
democratizzazione dell’Iran. Nuovamente, dopo l’apprezzato Persepolis di Marjane Satrapi, una
donna che dall’Iran è emigrata propone in un festival internazionale un’importante opera sulla
propria società d’origine e sulla condizione femminile. Lo fa sostenuta da una produzione tedesca e
da un cast composto in gran parte da iraniani operanti nei vari paesi europei, quasi come fosse
necessario un certo distacco per poter affrontare con la giusta distanza l’esperienza del proprio
popolo attraverso la fiction. E’ la visione dall’alto di Munis, separata e al tempo stesso
visceralmente partecipe.
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