il delitto matteotti - fncrsi

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il delitto matteotti - fncrsi
Maurizio Barozzi
IL DELITTO MATTEOTTI
Una inchiesta sul caso Matteotti e una analisi critica della
tesi, oggi di “moda”, avanzata dallo storico Mauro Canali
«I familiari di Matteotti hanno sempre sospettato che mandante dell’omicidio
fosse Re Vittorio Emanuele, secondo loro proprietario di quote della Sinclair.
Invece, io sono giunto alla conclusione che fu proprio Mussolini, che aveva
intascato tangenti direttamente da questa operazione, a ordinare l’eliminazione
del suo avversario politico».
[Mauro Canali - “Oggi” 13.12.2000]
«Si può essere sicuri solo di due cose: che Mussolini non c'entrava affatto, e che
i mandanti del delitto sono ancora sopra di noi, refrattari alle vicende giudiziarie,
potenti al punto da essere esonerati dal figurare tra i protagonisti della Storia».
[Franco Scalzo]
ROMA
- MARZO 2015 – TESTO NON IN VENDITA – AI SOLI FINI DI STUDIO
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INDICE GENERALE
INDICE GENERALE .................................................................
pag. 2
INTRODUZIONE.......................................................................
pag. 5
Giacomo Matteotti: cenni biografici ..........................................
pag. 9
PROLOGO: ...........................................................................
pag. 12
I documenti del “camioncino” e/o di Dongo .......................
pag. 12
Lo scetticismo su Silvestri di Mauro Canali .......................
pag. 15
La lettera memoriale di Dumini .........................................
pag. 18
Il teorema di Mauro Canali ...............................................
pag. 19
Il personaggio Mussolini ..................................................
pag. 23
IL DELITTO MATTEOTTI .........................................................
pag. 25
Le cronache del misfatto ..........................................................
pag. 27
I primi timori sulla scomparsa .............................................
pag. 33
La seconda auto e Otto Thierschald ...................................
pag. 34
Indagini e sviluppi ....................................................................
pag. 40
Primi arresti e dimissioni .....................................................
pag. 48
Mussolini nella bufera .........................................................
pag. 54
Ritrovamento del cadavere ......................................................
pag. 58
La borsa dei documenti ......................................................
pag. 60
La storiella della morte per emottisi ....................................
pag. 61
Rivelazioni di Benedetto Fasciolo & Co. ..............................
pag. 62
L’AFFAIRE MATTEOTTI ..........................................................
pag. 65
Menzogne, depistaggi e veri responsabili ...........................
pag. 65
2
Uno “strano” mandante chiacchierone ................................
pag. 67
Cause, movente e modalità del delitto ......................................
pag. 69
LA TESI DELLO STORICO MAURO CANALI ..........................
pag.72
Arnaldo Mussolini ..............................................................
pag. 75
Il petrolio ...................................................................................
pag. 80
Le vicende petrolifere degli anni ’20 ...................................
pag. 81
La convenzione con la Sinclair...........................................
pag. 85
C'era la Standard Oil dietro la Sinclair Oil? .......................
Pag. 91
Una lettera dello storico Giorgio Spini ................................
pag. 95
Le bische ...........................................................................
pag. 98
Altri interessi ......................................................................
pag.100
I SOCIALISTI AL GOVERNO? .................................................
pag. 105
Due piccioni con una fava ................................................
pag. 107
TESTIMONIANZE DECISIVE....................................................
pag. 109
Carlo Silvestri e altri ..........................................................
pag. 109
Ricordi di Edda Mussolini .................................................
pag. 119
Il parere del figlio di Matteotti ...................................................
pag. 122
Mandanti sconosciuti e implicazioni politiche ............................
pag. 127
La polemica “revisionista” .......................................................
pag. 132
Il misterioso assassinio di Bonservizi .......................................
pag. 138
Il memoriale di Dumini ..............................................................
pag. 144
AFFARI SPORCHI E PERSONAGGI AMBIGUI........................
pag. 150
Giuseppe Toeplitz .............................................................
pag. 152
Filippo Naldi ......................................................................
pag. 153
Aldo Finzi ...........................................................................
pag. 154
Emilio De Bono
.............................................................
pag. 156
Cesare Rossi .....................................................................
pag. 157
Giovanni Marinelli ..............................................................
pag. 159
Filippo Filippelli ..................................................................
pag. 160
Amerigo Dumini .................................................................
pag. 162
3
Vittorio Emanuele III ..........................................................
pag. 166
Ambienti invischiati nell’Affaire..........................................
pag. 169
I possibili organizzatori del delitto ............................................
pag. 171
La “bella vita” dei carcerati .......................................................
pag. 178
Il processo di Chieti e le condanne ..........................................
pag.180
Il processo bis di Roma e le condanne ....................................
pag. 184
Obiettivo: assassinare Mussolini.......................................
pag. 187
Un colloquio infuocato ......................................................
pag. 188
Perché Mussolini non andò fino in fondo ................................
pag. 189
Verso la dittatura ......................................................................
pag. 194
CONCLUSIONI ........................................................................
pag. 198
POST SCRIPTUM ....................................................................
pag. 213
Il sospetto di un tacito accordo Matteotti / Mussolini. ...............
pag. 213
L’articolo di Michelangelo Ingrassia ................................
pag. 215
Bibliografia ...............................................................................
pag. 221
NOTE .....................................................................................
pag. 222
L' autore, Maurizio Barozzi, è nato a Roma nel 1947. Ricercatore,
appassionato di Storia, si è dedicato ad accurate inchieste, in particolare
quelle relative alle vicende riguardanti gli ultimi giorni e la morte di Mussolini.
Ha collaborato con il quotidiano Rinascita, nel quale ha pubblicato articoli di
carattere storico e attualità politica, inchieste sulla morte di Mussolini, la
strategia della tensione e argomenti vari.
Altri suoi articoli inchiesta su la morte di Mussolini, sono apparsi anche nella
rivista Storia del Novecento, Storia in Rete e in importanti siti on Line dove
qui ha pubblicato anche saggi su l’intervento italiano nella seconda guerra
mondiale, ecc. Coautore del libro Storia della Federazione Nazionale
Combattenti della RSI (Ed. Fncrsi 2010).
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INTRODUZIONE
Per oltre mezzo secolo, comprendendo anche due processi
svolti in contesti
storici opposti: quello di Chiesti del 1926 sotto il regime fascista e quello di Roma del
1947, nel clima antifascista post resistenziale, si era suonato più che altro uno stesso
spartito, dove il movente affaristico del delitto era in secondo piano: un dittatore
megalomane, Mussolini, infastidito dalle denunce del segretario dei socialisti, il
deputato Giacomo Matteotti, circa le violenze e i brogli elettorali dell’aprile 1924 e per
il timore di altre denunce alla Camera nel suo imminente discorso per l’11 giugno, in
merito a tangenti e malaffare del governo, al culmine dell’ira, incarica un gruppo di
suoi giannizzeri, detto la “Ceka”, di rapire e far fuori il parlamentare.
I sicari eseguono, ma fanno notare la targa della loro auto, tanto che vengono tutti
individuati nel giro di 48 ore e siccome risultano attigui al Viminale e alla Presidenza
del Consiglio, il primo a trovarsi nell’occhio del ciclone è proprio il Duce.
Questa tesi, sposata dagli stesi socialisti e in cui gli aspetti affaristici erano in secondo
piano, era funzionale ad una certa propaganda antifascista (produrrà anche due film:
1956 e 1973), ma la sua indeterminatezza, le tante contraddizioni che poneva, non da
ultimo quella che solo se Mussolini fosse stato un demente, poteva compiere quell’atto
criminoso equivalente a un suo suicidio, non poteva reggere a lungo e venne ridimensionata dallo storico Renzo De Felice nella sua voluminosa biografia su Mussolini.
Cosicchè alla fine degli anni ‘70 del secolo scorso, prese quota la cosiddetta “pista
affaristica”, una ipotesi almeno molto più concreta della precedente e che già all’epoca
del delitto era stata sollevata dalla stampa, anche quella inglese vicina ai laburisti.
Accantonando, infatti, la follia vendicativa di Mussolini e dei fascisti, ci si indirizzò sul
delitto premeditato al fine di impedire a Matteotti di produrre le prove, di cui si
sosteneva era venuto in possesso, circa un grosso giro di tangenti che investiva il
governo e Mussolini.
Si sosteneva che Matteotti aveva le prove di tangenti petrolifere che erano state
pagata al partito fascista e membri del governo, a Mussolini o meglio al fratello
Arnaldo e al giornale il Popolo d’Italia. Si parlava poi anche di altre tangenti, inerenti il
gioco d’azzardo che si voleva sviluppare nel nostro paese, con bische e tutto un indotto
di alberghi, stazioni termali e trasporti ferroviari di lusso.
Da ultimo, dicesi, Matteotti voleva anche dimostrare che la previsione del bilancio dello
Stato, presentato dal governo era stato truccata. Ce n’era d’avanzo per compromettere
il regime, non ancora dittatoriale e quindi si giustificava un ordine omicida, sebbene le
prove che dimostrassero direttamente il coinvolgimento di Mussolini non c’erano, ma
soltanto congetture e illazioni.
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Movente a parte, però, tutto da dimostrare, chiunque indaghi su quegli avvenimenti si
trova alle prese con una serie di difficoltà insormontabili.
Per prima cosa si constata la scomparsa di importanti documenti, sottratti a Mussolini
nel ’45 nelle sue ultime ore di vita e fatti letteralmente sparire (particolare questo che
la dice lunga e non certo a sfavore del presunto “mandante”) e ci si deve arrangiare con
qualche sparuto documento rimasto celato negli archivi americani, come ad esempio,
una lettera-memoriale di Amerigo Dumini, il capo dei sicari sequestratori di Matteotti,
che apparentemente potrebbe far presumere il coinvolgimento del Duce.
Ma il guaio è che questi scarni documenti sono estrapolati da altre documentazioni che
li accompagnavano, di contenuto prevedibilmente opposto, e che sono state fatte
sparire. Oltretutto il Dumini, emerito bugiardo, si è prodotto, nel corso della sua
tribolata esistenza, in tutta una serie di dichiarazioni, testimonianze e memoriali, una
più falsa dell’altra, tra loro contraddittorie e tutte finalizzate a sbarcare il lunario, ad
adeguarsi alla situazione del momento, a riservarsi possibilità ricattatorie e a pararsi
dal pericolo di essere fatto fuori. Grado di credibilità quindi: molto scarso.
Secondo poi, nel corso di questi ’90 anni dall’evento, tutta la vicenda del delitto
Matteotti, si è inflazionata di testimonianze, documenti, dichiarazioni, che anche a
causa del tempo trascorso, non è più possibile, con un certo grado di certezza,
distinguere il vero dal falso o dal solo parzialmente vero.
Scrive Giuliano Capecelatro, giornalista storico, di area di sinistra:
“…una materia complessa, imbrogliata, resa da ancor più difficile decifrazione da una
fioritura sterminata di bugie, lacune, omissioni, sparizioni, ambiguità che ancora
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oggi mantengono un velo sulla verità”.
In questa complessa situazione, comunque, si è finito per dare il massimo del credito
alla “ipotesi affaristica” del delitto e noi stessi condividiamo che questa tesi sia la più
convincente, ma aggiungiamo non è disgiunta da tutto un contesto politico che ha
creato le premesse per determinare l’atto delittuoso. Quindi movente affaristico, ma
finalizzato anche a certi effetti che il delitto doveva causare, di ordine politico e a
danno, non a vantaggio, del governo di Mussolini.
Ma se sul movente si riesce a intavolare con gli storici discussioni e confronti, magari
con molti distinguo, è sui “mandanti”, in particolare che questo sia Mussolini, e sulla
vera finalità del rapimento: assassinio o bastonatura, che le divergenze sono insanabili.
E sono insanabili perché, a rigor di logica, non si può uscire da una contraddizione:
se come si suppone, nel rapimento di Matteotti, era anche implicito un ordine omicida,
come è possibile che i “mandanti” (Mussolini) inveiscono in pubblico contro la vittima e
i sicari lo vanno a rapire con un auto che gironzolava in zona dal giorno prima e a cui
neppure celano il numero di targa?
Senza contare poi che non si portano dietro neppure una pala per seppellirlo, quindi:
mancata segretezza, mancata rapidità di esecuzione, incertezza sull’arma adoperata
per ucciderlo (assurdamente poi in una macchina noleggiata imbrattando l’abitacolo di
sangue), operazione eseguita in pieno giorno davanti a svariati testimoni, ecc., tutti
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elementi che negano a priori che fosse in atto un classico progetto omicida
premeditato con tanto di ordine impartito da Mussolina o da altri .
Tutto quindi starebbe a indicare, compresa una perizia medico legale del dicembre
1924 (ipotizza una uccisione non premeditata, ma forse durante una lotta), che era in
vista solo una specie di spedizione punitiva, magari una bastonatura per fargli rivelare
cosa esattamente voleva dire alla Camera nel suo intervento del giorno dopo e
minacciarlo in proposito, chiedendogli conto di eventuali documentazioni
compromettenti. Una spedizione punitiva degenerata e finita male.
Ma tanti altri particolari, come il fatto che anche una spedizione punitiva poteva ancor
più valorizzare le denunce che Matteotti voleva fare e si voleva impedire e comunque le
stesse gravi conseguenze del solo rapimento, di un massimo esponente dell’opposizione
antifascista, molto noto anche all’estero, che avrebbe potuto poi indicare i rapitori e
reiterare le denunce stanno, forse con più logica, ad indicare che il finale doveva essere
la soppressione del parlamentare socialista e solo per alcune contingenze (reazione
della vittima) la soppressione avvenne in quel modo affrettato e assurdo.
Da queste contraddizioni non si esce, tanto che oltre alla nota divisione tra innocentisti
e colpevolisti, rispetto ad un Mussolini mandante del rapimento, si sono praticamente
venute a determinare negli storici altre due posizioni: quella della premeditazione ed
esecuzione di un ordine omicida e, all’opposto, quelli che invece sono convinti della
preterintenzionalità del crimine, che doveva esplicarsi come una spedizione punitiva,
poi degenerata.
A nostro avviso è inutile cercare di dirimere questi dubbi, perché ci sono ragioni da una
parte e dall’altra e comunque: sia un rapimento con bastonatura, che un omicidio,
avrebbero ugualmente scatenato tante e tali di quelle reazioni, anche a livello estero,
che le cose non sarebbero cambiate di molto, se non per l’interessato.
Ergo i mandanti, avendo lo scopo di tacitare Matteotti e far saltare Mussolini
potrebbero, indifferentemente, aver ordinato un omicidio o una spedizioni punitiva.
Il fatto è che questo delitto è anomalo, nasce in un particolare contesto storico e la sua
commissione è trasversale e quindi non venne richiesto di agire con estrema segretezza
e professionalità criminale. Di certo se veramente ne fosse stato Mussolini il mandante,
non avrebbe agito in questo modo.
Occorre quindi riconsiderare tutto il contesto storico, soppesare bene quel poco di
prove reali e concrete che si hanno a disposizione, e analizzare la situazione evitando
ogni dietrologia.
Risulterà allora evidente che Mussolini non può essere stato il mandante di un delitto
del genere che per le prevedibili conseguenze lo avrebbe sicuramente danneggiato
ancor più se, al limite, Matteotti lo avesse chiamato in causa come corresponsabile di
una tangentopoli dell’epoca.
Cosa che invece non risulta evidente allo storico Mauro Canali, colui che ha indirizzato
l’ipotesi affarista in un vero teorema atto a ricostruire la figura di un Mussolini
corrotto e criminale, autore di un bieco e premeditato assassinio, praticamente più che
un capo di governo, un vero e proprio Al Capone con annesso sistema gangsterico.
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Ma la storia non si fa con i teoremi e le prove dedotte da congetture.
Tuttavia il Canali, a nostro avviso, rappresenta il testo principale e decisivo per coloro
che intendono dimostrare la responsabilità di Mussolini nel delitto Matteotti, e
pertanto noi, che abbiamo tutt’altra convinzione, saremo spesso costretti a citarlo e
a confrontarci criticamente con le sue tesi ed ipotesi.
Non abbiamo nuove o esplosive documentazioni da esibire per confutare il suo
“Teorema”, ma riteniamo siano sufficienti gli stessi documenti da lui considerati e
l’insieme di tutto quello che si conosce sul caso Matteotti e relativo periodo storico
per negare validità alle sue tesi.
Fatto sta che al Canali si sono aggiunti quei giornalisti che raccattando servizi a dir
poco ridicoli dalla stampa estera (che probabilmente aveva il fine di supportare un'altra
e più importate campagna stampa, quella dei beni ebraici sottratti dai nazisti e
occultati in banche estere svizzere, di cui si voleva richiedere la restituzione), hanno
inteso affermare addirittura un Mussolini che avrebbe esportato segretamente
all’estero ingenti patrimoni frutto di ventennali tangenti e speculazioni.
Si veda ad esempio il servizio del giornalista Gennaro di Stefano su la rivista “Oggi”
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dove ha pubblicato: “Matteotti fu ucciso perché scoprì le mazzette di Mussolini”,
elaborando anche tesi di Mauro Canali.
Su questo argomento, lo storico Alessandro De Felice, parente del più celebre Renzo,
dopo aver evidenziando i tanti dati carenti, e riferimenti sballati, ha così commentato:
«Praticamente sul sentito dire di un rapporto dell’intelligence USA, Canali e De Stefano
costruiscono un castello accusatorio di sabbia che assume poi la forma di un edificio
farinoso e friabile esclusivamente basato sul “collante” del fumus persecutionis quando
il De Stefano parla di fantomatici conti cifrati, di cui non si forniscono i numeri, di
fantomatiche banche svizzere (quali?) che avrebbero consegnato agli archivi
statunitensi fantomatici documenti inerenti i presunti conti cifrati. De Stefano dice poi
che le banche svizzere sarebbero “state messe colle spalle al muro”, e per questo –
affermazione altrettanto grave ed arbitraria – gli stessi imprecisati istituti di credito
elvetici, attraverso loro emissari-sabotatori occulti, avrebbero provocato negli Stati
Uniti gli incendi e la distruzione di “ben ottomila casse di documenti” conservate negli
archivi americani (quali?). E, ci chiediamo noi, il governo di Washington nulla avrebbe
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sospettato e nessuna inchiesta avrebbe aperto?».
Una dietrologia quindi senza capo né coda, quando poi sono ben noti i reali patrimoni
di Mussolini al momento della morte e quelli dei suoi eredi. La moglie e i figli, nel
dopoguerra, non sembra proprio abbiano condotto una vita lussuosa, anzi tutt’altro, e
neppure che rivendicarono particolari beni nascosti all’estero, cosa che non sarebbe
potuta rimanere nascosta. Basta per tutti l’ironia di Romano, il figlio di Mussolini:
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“ditemi dove sono questi soldi che me li vado a prendere” .
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GIACOMO MATTEOTTI
Giacomo Matteotti nacque a Fratta
Polesine (provincia di Rovigo) il 22 maggio 1885
e morì assassinato a Roma il 10 giugno 1924.
Era figlio di benestanti proprietari terrieri di
origine trentina e cittadini dell'Impero asburgico,
ma di modesto lignaggio. Laureato nel 1907 in
giurisprudenza a Bologna, si era forse iscritto al
PSI nel 1900 e già nel 1910 fu eletto nel
consiglio provinciale di Rovigo. Si distingue nel
partito socialista grazie alle sue conoscenze giuridiche ed alle
competenze economiche.
Illuminista, interpreta l'anima riformista del partito, quella che rifugge
dalla prassi rivoluzionaria e che mira a cambiare la società attraverso
graduali riforme, anche se al Congresso socialista di Reggio Emilia del
1912 si schierò con i massimalisti chiedendo l'espulsione dell'ala
moderata di Bonomi e Bissolati.
Il suo è un riformismo anomalo, supportato “da una certa intransigenza
politica, che predilige il primato del momento economico, sulla
sovrastruttura politica, sostenendo la necessità di indirizza l’azione del
partito contro le strutture economiche del potere borghese”.
Non è chiaro da quando, né ovviamente provato, ma anche lui sembra
fosse iscritto alla massoneria, probabilmente quella vicino alle Logge
inglesi (a giugno 1914 comunque aveva scritto un articolo, in vista
della campagna elettorale, dal tono antimassonico su “La Lotta”).
Nel 1914, però, quando Mussolini al congresso socialista di Ancona
chiese l'espulsione categorica dei massoni dal partito, Matteotti prese
una posizione molto meno drastica e imperativa accettando
l’incompatibilità per i futuri iscritti, ma l’indulgenza per i vecchi socialisti
massoni.
Fu sindaco di Villamarzana e di Boara Polesine e consigliere in vari
comuni, grazie ad una legge del tempo che consentiva di candidarsi in
paesi dove si possedevano terre.
Intensa la sua attività nel campo sociale e amministrativo delle
province. Incorse in una forte critica quando si pronunciò, nel 1915 per
l’incompatibilità elettiva delle cariche amministrative per i consiglieri
che avevano attività di esazione dei tributi comunali nella provincia di
Rovigo , ma proprio lui (e la madre) risultava, per il decennio 1913 –
1922, fidejussore della Banca Provinciale del Polesine, nella esazione
dei tributi del Comune di Badia Polesine.
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Non disdegnava comunque di mettere in piedi, se necessario, anche
alleanze di tipo clientelare con uomini della ricca borghesia rodigina,
del resto nella vita privata si trova a suo agio nel proprio censo di
proprietario terriero. Per questo opportunismo venne redarguito dal
riformista Treves direttore dell’Avanti.
A quei tempi
gli avversari gli avevano affibbiato il nome di
“socialmilionario”.
Nel 1916 sposa Velia, sorella del celebre baritono Titta Ruffo, da cui
avrà tre figli (Giancarlo nel 1918, poi Gian Matteo e Isabella).
Credendo nell'internazionalismo avversò la Grande Guerra, durante la
quale, dapprima non fu arruolato in quanto unico figlio superstite di
madre vedova, ma poi venne richiamato, arruolato e spedito a Verona.
Durante il conflitto seguì la tendenza neutralista del partito socialista
cosicché, oltretutto, quando nel 1916, dopo che l'attacco austriaco di
Conrad procurò profughi che dal Veneto si riversarono sulla provincia
di Rovigo, lui si oppone a che gli venissero erogati sussidi.
Venne anche, praticamente, "internato" o parcheggiato in Sicilia e
infine congedato a marzo 1919.
Uomo dall'ideologia riformista si pose anche contro le posizioni
massimaliste nel partito e contro gli spifferi che venivano da Mosca e
portavano il comunismo. La sua avversione al comunismo era di
ordine ideologico, ma anche tattico:
«Voi siete comunisti per la dittatura e per il metodo della violenza delle
minoranze; noi siamo socialisti e per il metodo democratico delle libere
maggioranze. Non c’è dunque nulla di comune tra noi e voi».
«Il nemico è attualmente uno solo, il fascismo. Complice involontario
del fascismo è il comunismo. La violenza e la dittatura predicata
dall'uno, diviene il pretesto e la giustificazione della violenza e della
dittatura in atto dell'altro».
Ne
i confronti del fascismo ebbe sempre un atteggiamento di forte
contrasto e irriducibile avversione, ed una visione molto schematica
incapace almeno di cogliere i motivi e gli ideali che stavano a monte
del fenomeno fascista. Per lui il fascismo era soltanto lo strumento di
cui si serviva un capitalismo di speculazione per la sua ascesa al
potere. Posizioni intransigenti che non erano comuni tra i socialisti
moderati e che, almeno politicamente, stridevano con la sua
concezione socialista riformista, per la quale avrebbe potuto
“incontrarsi” con Mussolini e le sue offerte ai socialisti moderati, ai
Confederali e ai cattolici popolari, di un ampliamento della compagine
governativa Non sapremo mai se questo suo atteggiamento fosse
stato magari inspirato da qualche influenza massonica.
Venne eletto deputato nel 1919 nella circoscrizione Ferrara - Rovigo e
poi in tutte le legislature successive (1921 e 1924).
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Espulso, assieme a Turati e la corrente riformista o socialdemocratica,
dal Partito Socialista Italiano al congresso di Roma dell’ottobre 1922,
da questa rottura nacque quindi il Partito Socialista Unitario, anche con
Treves, di cui Matteotti ne fu segretario.
Vicino all’Indipendent Labour Party, nel 1924 venne pubblicata a
Londra, la traduzione del suo libro “Un anno di dominazione fascista”:
“The Fascists exposed; a year of Fascist Domination”.
La sua intransigenza verso il fascismo, che tra l’altro era anche nato in
reazione alle violenze del “biennio rosso” (1919 / 1920) gli fece
conseguire un certa notorietà, ma subì anche aggressioni.
Nel 1921,di fatto, il fascismo lo mise al bando e fu costretto a sloggiare
da Fratta Polesine. Abbandonato il polesano si trasferì a Padova.
Frequenti i suoi viaggi all’estero, indice di ampie relazioni
internazionali. Da giovane, nel 1910 aveva iniziato con un viaggio di
studi in Inghilterra. Nel 1912 va a Vienna e Budapest.
Nel 1923 lo troviamo a Lille al congresso dei socialisti francesi e poi a
Parigi. Dalla Francia viene incaricato di andare a Berlino dalla
commissione delle riparazioni (leggesi estorsioni) di guerra, in seguito
alla crisi che portò alla infame occupazione francese della Ruhr. A
Berlino incontra esponenti della socialdemocrazia francese.
Dopo questo viaggio il governo fascista gli ritira il passaporto, ma lui
clandestinamente ad aprile del 1924 va a Bruxelles, per il congresso
del partito operaio del Belgio e il 22 sbarca in segreto nell’Inghilterra
governata dal laburista Ramsay MacDonalds.
E’ questo un viaggio chiave che poi avrà un suo ruolo nelle successive
vicende. Il 26 aprile, lascerà l’Inghilterra per recarsi a Le Havre il 27, si
ferma quindi a Parigi e poi torna in Italia il 30.
Resterà famoso il suo forte discorso alla Camera del 30 magio 1924
dove denuncerà violenze e brogli elettorali, con una certa
esagerazione, visto che il “listone” dei fascisti e loro alleati, aveva
ottenuto uno straripante successo che non poteva essere stato
determinato da brogli e violenze:
« [...] Contestiamo in questo luogo e in tronco la validità delle elezioni
della maggioranza. [...] L'elezione secondo noi è essenzialmente non
valida, e aggiungiamo che non è valida in tutte le circoscrizioni. [...] Per
vostra stessa conferma (dei parlamentari fascisti) dunque nessun
elettore italiano si è trovato libero di decidere con la sua volontà... [...]
Vi è una milizia armata, composta di cittadini di un solo Partito, la
quale ha il compito dichiarato di sostenere un determinato Governo
con la forza, anche se ad esso il consenso mancasse».
Venne rapito e assassinato il pomeriggio del 10 giungo 1924.
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PROLOGO
I “documenti del camioncino” e/o di Dongo
Una inchiesta che cerchi di individuare, a circa 90 anni di distanza, i
mandanti dell’assassinio di Giacomo Matteotti e stabilire eventuali
implicazioni di Mussolini per l’ordine omicida, potrebbe ragionevolmente
chiudersi prima ancora di iniziare, stabilendo una impossibilità di fatto di
arrivare ai nomi dei mandanti e liquidando le responsabilità di Mussolini
con una piena assoluzione.
Il perché di questa asserzione è racchiuso in un certo avvenimento occorso
la sera del 25 aprile 1945 quando Mussolini, lasciata Milano, giunse a Como
con i resti del suo governo e poi arrivò a Dongo dove venne catturato il 27
aprile. In quel trasferimento Mussolini si portò dietro importanti
documentazioni, personali, militari e di Stato, tutte poi sparite.
Oggi, definitivamente caduta la illazione che Mussolini si apprestava a
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fuggire in Svizzera o in Spagna, quando invece stava semplicemente
allontanandosi dalle località dove stavano arrivando gli Alleati per non
cadere prigioniero e quindi restare in condizione di trattare una resa, forte
di documentazioni importantissime, come per esempio, un certo Carteggio
con Churchill (come sappiamo poi il britannico fece fuoco e fiamme per
recuperarlo), possiamo realisticamente ritenere che Mussolini aveva
raccolto documenti segreti e importanti, sia nell’interesse della Nazione
che per propria difesa personale e di governo.
Alcune documentazioni, le più importanti, le aveva appresso in un paio di
valige che arrivarono con lui fino a Dongo, altre definite poi i “documenti
del camioncino ”, una selezione di carte eterogenee e molto importanti,
viaggiavano, dentro un baule di zinco, su di un camioncino in coda alla
colonna dei ministri, militi e personale vario, assieme ad una cameriera di
Mussolini che era venuta via dalla precedente residenza del duce a
Gargnano da dove provenivano anche quei documenti.
La sera del 25 aprile, forse a causa di un guasto al mezzo che rimase in
panne, il camioncino non arrivò alla Prefettura di Como, ma fu
abbandonato in zona Garbagnate. Testimonianze ci dicono che non
appena Mussolini seppe di questo incidente, andò su tutte le furie, tanto
che il prefetto Luigi Gatti, suo segretario, mitra alla mano e con una guardia
del corpo, partì immediatamente, ma invano, alla ricerca del mezzo.
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Orbene, quei documenti furono presi da certi “partigiani bianchi”
(democristiani) della zona di Garbagnate agli ordini dei fratelli Arturo e
Carlo Allievi i quali, il 2 maggio del '45, li consegnarono, assieme al neo
sindaco di Garbagnate Vittorio Lamberti-Bocconi, al presidente del CLN
milanese avvocato Luigi Meda democristiano.
Con il consenso di Meda venne quindi scritta una edificante pagina della
nostra storia patria: un gruppo di questi documenti infatti (per lo più
riguardanti gli aspetti militari) furono consegnati dall'Allievi e dal LambertiBocconi al brigadiere inglese Jeffries della PWB (Psychological Warfare
Branch), che promise una ricompensa, sulla entità della quale si “trattò”
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poi con Londra penosamente per mesi.
Tra i documenti del camioncino, tutti in un primo momento inventariati al
Cln da una certa signorina Broggi, c'era anche un fascicolo, chiuso da un
nastrino tricolore, contenente un dossier nomato “Processo Matteotti ”
consistente in alcune cartelline con argomenti correlati, e sembra un
fascicolo intestato a Cesare Rossi”, ecc.
Ai documenti del camioncino (riferimento al caso Matteotti), bisognerebbe
poi aggiungere, forse, anche quelli nelle valige arrivate a Dongo. Diciamo
forse perché, mentre per i documenti del camioncino abbiamo dei riscontri
e poi dei reperti ritrovati all’Archivio Centrale di Stato, dove furono
consegnati, ma in tranche successive e dopo anni, per un eventuale
cartellina, intestata a Matteotti presente nelle valige sequestrate a Dongo il
27 aprile, abbiamo solo testimonianze vaghe e poco d’altro. Si è anche
presupposto che Mussolini si portò dietro nella valigia, qualche documento
estratto da questo dossier poi messo nel “baule zincato”.
Quello che qui importa conoscere comunque, Garbagnate e/o Dongo, è
che fine fece il risultato di una lunga inchiesta, commissionata durante la
RSI, da Mussolini a Nicola Bombacci ed al suo segretario, l’ex giovane
prefetto Luigi Gatti ed i cui risultati dimostravano le responsabilità di quello
che venne definito da Mussolini un putrido ambiente di finanza e
capitalismo corrotto, ispiratore di quell'infame delitto.
Da quel poco che si è potuto sapere, infatti, grazie alle testimonianze di
Carlo Silvestri (un socialista, ex eccellente firma del Corriere della Sera,
già acerrimo nemico di Mussolini ai tempi del delitto Matteotti e proprio a
causa di questo delitto, ma nel 1944 totalmente convinto dal Duce,
documenti alla mano, della sua estraneità), sembra che vi era riportata
una inchiesta e documentazione convincente che faceva risalire le
responsabilità del delitto, in particolare, ad ambienti di capitalismo e
finanza corrotta, implicati nell’affaire, oltre a un biglietto scritto a mano da
Giovanni Marinelli, condannato a morte dal tribunale di Verona per il
tradimento del 25 luglio 1943 con il quale, dal carcere, l'ex segretario
amministrativo del PNF, già all’epoca implicato in quel caso, chiedeva
perdono a Mussolini e Cesare Rossi (altro elemento a suo tempo implicato)
13
per averli coinvolti nella vicenda Matteotti. Secondo Silvestri, che lo vide,
questo “biglietto” doveva trovarsi nella cartelletta “Cesare Rossi”.
Da qualche parte poi doveva anche esserci un dossier su Emilio De Bono (al
tempo del delitto Capo della polizia), che il segretario del PFR Alessandro
Pavolini aveva sequestrato al vecchio generale e consegnato a Mussolini.
Specificò nel dopoguerra il Silvestri, che aveva visionato quei documenti:
«Neppure per un istante ho supposto che la documentazione da me
esaminata fosse di pubblicazione postuma... Il mio esame non è stato nè
sommario, nè affrettato... mi rimase affidata per un paio di giorni... ebbi
anche agio di copiare qualcuno dei più rimarchevoli tra gli originali di
Mussolini».
Non è dato sapere se Bombacci e Gatti, erano poi riusciti a chiudere quella
inchiesta, indicando i nomi precisi dei mandanti del delitto. Al tempo dei
colloqui di Mussolini con Silvestri, l’inchiesta non era ancora chiusa, ma a
buon punto. Del resto ebbe a dire Bombacci al Silvestri, certi personaggi
sono oramai al sicuro, passati, magari dopo aver fatto i manutengoli dei
tedeschi, nel campo degli Alleati.
Di queste testimonianze di Silvestri ne riparleremo ampiamente più avanti,
nel capitolo dedicato alle “Testimonianze importanti”.
Fatto sta che Silvestri, con coraggio e grande rischio personale, riportò
molti di questi particolari al processo Matteotti bis di Roma nel 1947 e in
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alcuni suoi libri scritti nel dopoguerra.
Ma ritorniamo ai documenti in viaggio da Milano a Como e a Dongo,
perché una parte di questi documenti, quelli nel camioncino e della cartella
legata con nastrino tricolore, non arrivarono al Ministero degli Interni e si
dovrebbe ritenere responsabile il presidente del CLN milanese Luigi Meda
che poi disse di averli consegnati, a Pier Maria Annoni Commissario per
l’interno del comitato regionale CLN Lombardo preposto a questi incarichi
e presieduto dal comunista Emilio Sereni.
Come accennato è anche probabile che Mussolini aveva con sé, in una delle
valige, poi sequestrate a Dongo quando venne fermato, anche un'altra
cartellina dedicata all’Affaire Matteotti e in questo caso si dovrebbe, per
logica. dedurre che vi erano documenti ancor più “scottanti”, ad esempio si
dice che la famosa lettera-memoriale di Dumini, poi consegnata agli Alleati
e rintracciata nei National Archieves di Washington negli anni ’80, venne
requisita a Dongo, ma questa indicazione è superficiale e non si sa se
magari si riferisce ai “documenti del camioncino” o effettivamente ad una
valigia di Dongo.
Di questi documenti oggi se ne trova una parte consegnata poi agli
Archivi di Stato, ma una parte non tutti: si può a ragione presumere che a
suo tempo furono sequestrati, evidentemente vagliati e quel che c’era di
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“scottante” fatto sparire!
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Lo scetticismo su Silvestri di Mauro Canali
Per uno storico come Mauro Canali (già allievo di Renzo De Felice,
professore ordinario di Storia contemporanea all’Università di Camerino)
avvinghiato alla sua tesi di un Mussolini mandante della soppressione di
Matteotti, le testimonianze di Silvestri e soprattutto la scomparsa di questo
dossier su Matteotti, sono uno scoglio molto duro da superare, ed infatti
questo storico, ha cercato d inficiare le testimonianze di Silvestri,
aggrappandosi ad ogni sua inesattezza o contraddizione, ma a nostro
avviso, non riuscendoci pienamente (del resto le testimonianze della
esistenza di un dossier su Matteotti, a cui aveva lavorato Bombacci, non
sono del solo Silvestri).
[Da qui in avanti, tutti i riferimenti ai testi di Mauro Canali, se non
diversamente riportato, sono alla sua opera: Canali M.: Il delitto Matteotti.
Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997 – e/o
– alla Edizione riveduta 2004].
Canali, ovviamente, ha cercato anche di minimizzare l’importanza del
dossier “Processo Matteotti” asportato dai partigiani dal camioncino di
Garbagnate, affermando che i fascicoli in esso contenuti furono poi
ritrovati depositati nell’ Archivio Centrale di Stato, anche se al tempo delle
ricerche di Renzo De Felice ancora non c‘erano e per questo non vennero
rinvenuti, ma comunque il famoso dossier Bombacci - Gatti, non ci sarebbe.
Mauro Canali, che dedica un intero capitolo a Carlo Silvestri e le “carte del
camioncino”, scriverà, riportando una osservazione di Renzo De Felice:
“Tra i documenti della segreteria di Mussolini – oggi presso l’Archivio
centrale dello Stato – mancano i fascicoli riguardanti il delitto Matteotti e
Cesare Rossi. Tali fascicoli erano tra quelli che Mussolini nell’aprile 1945
portò con sé… La prefettura di Milano consegnò tutti questi documenti –
compresi i due fascicoli in questione – al governo italiano. I due fascicoli
non sono però stati versati, come gli altri che Mussolini aveva con sé,
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all’Archivio centrale dello Stato”.
Effettivamente il Canali ha rintracciato e citato i fascicoli legati al caso
Matteotti, ma deve però ammettere: “È evidente che mancano almeno due
fascicoli”, confermando, almeno in parte la tesi di Renzo De Felice sulla
sparizione dei fascicoli su Matteotti (compreso il ruolo di Cesare Rossi).
Quindi nella sua edizione del 2004, dopo aver riassunto tutto quello che è
stato inventariato, il Canali confermerà che: “è evidente che mancano
almeno due fascicoli”, ma la sua meticolosa ricostruzione delle mancanze
gli fa escludere che si tratti del fascicolo con il dossier Bombacci – Gatti.
Su questo non ci pronunciamo, anche perché, d’accordo per la sua
ricostruzione, ma nessuno può giurare, anche se il Canali lo esclude
(“niente misteri… niente asportazione dolosa”) che in quei fascicoli
rintracciati e inventariati, non sia stato asportato qualcosa.
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E sappiamo i giri che fecero prima di arrivare all’Archivio Centrale di Stato,
dai capi del CLN, probabilmente vennero visionati, tanto per citarne alcuni,
i più importanti, oltre che dal Luigi Meda, anche da Emilio Sereni, preposto
nell’immediato dopoguerra a queste operazioni (e quindi, in caso di
materiale “scottante”, ne informò sicuramente Togliatti), poi quel Pier
Maria Annoni (come ha raccontato il suo sodale Luigi Carissimi-Priori, ebbe
una certa parte, assieme a De Gasperi, su documenti riguardanti il
Carteggio Mussolini Churchill, anche questi poi spariti), quindi Luigi Re a cui
venne affidato il coordinamento per il ritorno a Roma di tutti gli archivi dei
Ministeri trasferitisi al Nord con la RSI, e quindi dalla Presidenza del
Consiglio al Ministero degli Interni che finalmente li consegnò, nel luglio
1969, all’Archivio Centrale di Stato.
Quanti occhi li visionarono e soppesando certi personaggi, possiamo
supporre che ci furono maneggi massonici. Certamente queste sono nostre
congetture e d’altronde non possiamo conoscere il contenuto di questi due
sicuri fascicoli spariti, ma il buon senso suggerisce che non fu una
sparizione fortuita e forse il loro contenuto, non riguardava solo i
finanziamenti del regime alla vedova Matteotti.
Vi era in questi due fascicoli il famoso dossier visionato da Carlo Silvestri?
Non possiamo dirlo con certezza, ma noi, a differenza del Canali, non
escludiamo che vi fosse, anche se forse propendiamo più che il dossier
decisivo fosse nelle valige di Dongo, del resto, altrimenti, dove sarebbe?
E dove sarebbe il fascicolo su Emilio De Bono e su Giovani Marinelli?
Alessandro Minardi, unico giornalista ammesso alle udienze del processo di
Verona, confidò nel 1975 a Marcello Staglieno che i due fascicoli sul delitto
Matteotti, rinvenuti in una borsa di Mussolini al momento dell’arresto a
Dongo (27 aprile ‘45), erano verosimilmente quelli con i documenti di
Matteotti sottratti da De Bono nel ’24 (anche se c’è chi nega questo
possesso da parte di De Bono). Vi è una fotografia del verbale di consegna
dei dossier (pubblicata sul “Tempo illustrato” il 16 giugno 1962) che
funzionari della prefettura di Milano il 2 maggio 1945 pretesero dagli
emissari governativi che presero i dossier. Essi però non sono stati versati,
all’Archivio centrale dello Stato.
O dobbiamo supporre come fa il Canali che il dossier Bombacci – Gatti,
forse non è mai esistito, se non nei racconti del Silvestri e sempre secondo
lui, i fascicoli ritrovati dimostrano che non ci sono misteri o sparizioni?
Come detto vi è anche l’ipotesi che il fascicolo in questione, quello
determinante o Bombacci - Gatti, Mussolini per non separarsene lo
avesse portato seco in una valigia e gli fu poi preso e Dongo.
Occorre infatti domandarsi: da dove venne la lettera - memoriale di
Dumini, finita agli Alleati e dove sono gli altri fogli che sicuramente
l’accompagnavano, perché Mussolini non poteva essere così scemo da
portarsi appresso una “prova a carico” senza altri documenti che la
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confutavano? Il Canali potrà trovare tutte le spiegazioni possibili, per
mettere in dubbio le testimonianze di Silvestri, ma non potrà mai
spiegare e soprattutto convincere, perché Silvestri andò anche al
processo di Roma su Matteotti a riportare e dettagliarle, fatti,
testimonianze e particolari, a discolpa di Mussolini, tirandosi addosso le
ire e le vendette degli antifascisti.
Si potrebbe obiettare che il Silvestri, magari voleva giustificare il suo
precedente riavvicinamento a Mussolini, ma è assurdo che per trovare
qualche giustificazione e attenuare le critiche (ne avrebbe potute trovare
molte, compresa la sua attività nella Rsi con la Croce Rossa Socialista,
autorizzata appunto dal Duce che aveva permesso di salvare dalla
prigione, dalla morte o dalla deportazione in Germania, tanti antifascisti),
si andò invece ad avventurare, in pieno clima antifascista, con la “volante
rossa” che ogni tanto faceva ancora fuori qualcuno, proprio su questo
pericoloso argomento quale la innocenza di Mussolini nel delitto
Matteotti, inventandosi addirittura un dossier, a discolpa del Duce.
Ma oltretutto è noto che Silvestri aveva avuto un ripensamento circa la
colpevolezza di Mussolini già durante il ventennio, ma venne invitato dagli
antifascisti a non esternarlo; ebbene il Silvestri invece di pronunciarsi
durante il ventennio quando avrebbe ottenuto onori e vantaggi lo va a fare
durante la RSI, con una guerra chiaramente perduta e sapendo a cosa si
andrà incontro nel dopoguerra. E nel clima infuocato del dopoguerra, in
vece di defilarsi, si espone con coraggio e conferma tutto.
No, la cosa non regge proprio.
Anche se il dossier Matteotti di Bombacci e Gatti, non si trova, e non si
trova proprio perché è stato fatto sparire, non è un buon motivo per
sostenere che non esiste, quando la logica degli eventi, le coincidenze e le
testimonianze ce lo confermano. Come accennato, neppure il Canali potrà
mai facilmente spiegare e convincere perché Mussolini che si portava
quelle carte su Matteotti, appresso nelle sue ultime ore di vita, fece fuoco
e fiamme, quando seppe che il camioncino si era smarrito. Va bene che
su quel camioncino c’erano anche altri documenti importanti, anche di
ordine militare, ma se quel dossier non esisteva o non aveva poi questa
grande importanza, perché Mussolini se ne preoccupava eccessivamente e
come scrive il Canali stesso “lo precipitò in uno stato di grande agitazione”?
Oltre a considerare che molto probabilmente Mussolini aveva seco e si
portò fino a Dongo, anche un'altra borsa con importanti documenti sul
caso Matteotti. Era evidente la sua intenzione, a guerra finita e una volta
prigioniero, di dimostrare le sacrosante ragioni per le quali l’Italia era
entrata in guerra (e qui riguarda il famoso Carteggio con Churchill, fatto dal
britannico sparire) e se il caso di dimostrare la sua innocenza nella
uccisione del parlamentare socialista, non di certo la sua colpevolezza!
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La lettera – memoriale di Dumini
Avendo accennato alla famosa lettera – memoriale di Dumini,
addirittura determinante per il Canali per accusare Mussolini, diciamo
subito che, a nostro avviso, questa lettera resta di effimera importanza.
Del suo contenuto in cui Dumini scrive che Marinelli gli avrebbe ordinato
l’azione contro Matteotti dicendogli che era voluta da Mussolini e inoltre
che tutto avvenne per ragioni affaristiche dello scandalo del petrolio dove,
si diceva al tempo, fosse implicato Arnaldo, il fratello del Duce, ne
parleremo più avanti nel capitolo dedicato appunto al Memoriale di
Dumini.
Qui interessa un altro aspetto nella storia di questo “memoriale”.
Si dice che questa lettera venne sequestrata, con un fascicolo che
Mussolini aveva con sè a Dongo, consegnata agli Alleati e ritrovata molti
anni dopo (nel 1986 quando quei documenti, negli Usa, erano stati
desecretati) negli’Archivi di Washington.
Evidenti le contraddizioni: Mussolini, giunto all’epilogo, che si porterebbe
dietro un documento per lui compromettente e gli Alleati, una volta
avutolo, non lo utilizzano per denigrarlo, ma lo lasciano giacere in un
Archivio. Qualcosa stride, e occorre anche ridimensionare quella che è una
delle tante versioni di Dumini, confezionate per vari scopi tutti a suo uso e
consumo, e semmai considerarla facente parte di qualche fascicolo messo
insieme da Mussolini (ovviamente smembrato e sottratto!) e che letto nel
complesso attestava ben altro che la sua responsabilità.
Come già accennato, infatti, sarebbe assurdo presupporre che Mussolini si
porti dietro una prova contro sé stesso, senza allegarvi tutte le
documentazioni che la inficiano.
Potremmo anche chiudere qui la nostra controinformazione, visto che per
mancanza di documentazioni concrete, sarebbe oltremodo difficile
attestare qualcosa di dimostrabile, ma oltretutto perché non possono
esserci dubbi sulla estraneità di Mussolini al delitto e sulla esistenza del
famoso “dossier Matteotti” preso in visione da Carlo Silvestri:
se infatti in quel dossier scomparso, riguardante il delitto Matteotti, ci
fosse stata una sia pur minima prova riguardo alle responsabilità di
Mussolini nel delitto del parlamentare socialista, ne avremmo avuto la
denuncia pubblica, con stampa e ristampa delle prove a carico, in tutte le
possibili vesti editoriali.
Viceversa quei documenti sono letteralmente spariti ed è questa la prova
migliore, sia pure indiretta, ma inequivocabile, della estraneità di Mussolini
a quel delitto.
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Il “teorema” di Mauro Canali
Riflettendo sui lavori e le analisi di Mauro Canali, considerando quanto
abbiamo già avuto modo di esprimere per le sue osservazioni su Carlo
Silvestri (più avanti vedremo quelle sulla faccenda del Petrolio), possiamo,
rilevare che questo storico, che per il delitto Matteotti si sostiene sia
andato oltre Renzo De Felice, basa il tutto su una sua convinzione:
Mussolini trafficava in tangenti. Una convinzione che, lo diciamo subito,
non condividiamo, ma ne parleremo anche perché il “potere”, da sempre,
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ha comportato sistemi di finanziamento ai quali si affianca il malaffare.
Di certo anche Renzo De Felce conosceva i sistemi di finanziamento che si
praticano dalla notte dei tempi e sono ancora il mezzo consueto di
finanziamento dei partiti anche della Repubblica democratica del
dopoguerra e nonostante che ora i partiti abbiano finanziamenti di Stato.
De Felice conosceva queste cose, magari non fino a dove ha proseguito il
Canali, ma non è solo in questo modo che si possono sciogliere certi dubbi
storici ed interpretare le vicende del delitto Matteotti.
Per altri versi sarebbe come stabilire che siccome Lenin prese ingenti
finanziamenti da Wall Stret e dal servizio segreto tedesco, se ne deducesse
che Lenin era un uomo dell’Alta finanza e uno strumento del Kaiser.
Oppure che Hitler avendo avuto finanziamenti anche da banche ebraiche
era uno strumento dell’ebraismo; o ancora Mussolini, visto che prese
finanziamenti per creare il Popolo d’Italia da tutti quegli ambienti, in
genere massonici, interessati a portare l’Italia in guerra a fianco dei franco
britannici, e durante la guerra venne anche finanziato dagli inglesi per
tenere in piedi il pericolante “fronte interno” del paese, questi era uno
strumento al servizio della massoneria e un agente inglese.
Chi ragiona in questo modo dimentica le leggi storiche, leggi che
attestano che sempre e comunque ci sono poteri e interessi che hanno
convenienza, per paura o per interesse, a finanziare “qualcosa” o
“qualcuno” e uomini e movimenti che hanno necessità di farsi finanziare.
Per la verità le presunte tangenti che Mauro Canali pretende di aver
scoperto a vantaggio di Mussolini, il fratello, il Popolo d’Italia e il partito
fascista, di fatto vengono fatte passare anche quale un interesse personale,
un arricchirsi, sfruttando la raggiunta posizione di potere e questo assume
un diverso aspetto, finendo per configurare Mussolini e il suo governo
come una specie di Al Capone con tutto il suo sistema gangsterico.
Resta il fatto, però, che tutti questi illeciti arricchimenti, per la famiglia
Mussolini, non si sono poi manifestati né per lui, né per gli eredi, ed allora,
ci chiediamo: come può lo storico Canali, preso da fazioso furore nel
dimostrare la corruzione del Duce, dedurre che alcuni documenti, una
certa ricevuta, un certo finanziamento, da far risalire a Mussolini o al suo
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governo , sarebbero la prova della sua personale corruzione? Non è però
la corruzione la prassi e l’essenza politica di un uomo che poi realizzerà lo
Stato del Lavoro e lo Stato sociale; la creazione, al tempo rivoluzionaria,
dell’IRI; la società socialista con la RSI, e la formulazione dottrinaria del
“tutto nello Stato, niente fuori dello Stato e soprattutto niente contro lo
stato”, e che invece, qui si sottende, che avrebbe preso il potere per il
potere, addirittura per arricchirsi.
E la stessa sicumera “tangentista”, il Canali la ripete quando afferma, in
una intervista, di aver trovato almeno tre prove di tangenti a Mussolini e
una lettera delle ferrovie circa la vendita di residuati bellici e il versamento
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che Mussolini riceve e sigla “riservatissimo”.
E non si presume, invece, che quel versamento, può avere destinazioni che
non si conoscono, tanto che sigla “riservatissimo”, ma a quanto pare non
lo fa poi sparire? Sono vicende consuete in un sistema di governo, ma
sono relative alle contingenze del tempo, con la pluriennale politica di
Mussolini, anche perché qui non stiamo facendo valutazioni di correttezza
e moralità, nel qual caso, non potremmo dimenticare il particolare periodo
dell’epoca, in un certo senso “rivoluzionario”, laddove la stessa
rivoluzione, è un atto illegale, ma non come tale può essere valutato.
Tutte le vicende e le confidenze dell’epoca attestano che Mussolini
disdegnava del tutto il denaro, aborriva la corruzione e ne aveva come fine
ultimo la sua estinzione; che poi per opportunità tattiche o costrizioni di
potere lasciava che ci fosse chi la esercitava, è un altro discorso.
E attestano anche che non poteva essere stato il mandante del delitto
Matteotti, che anzi quel delitto lo danneggiava enormemente, molto più di
una ipotetica denuncia per presunte tangenti; che l’attitudine di potere del
Duce, il suo dirigismo nella prassi governativa dà enormemente fastidio a
certi “poteri forti” , questi si che invece hanno interesse a tacitare
Matteotti; che il Duce, non a caso, si è rimangiato certe promesse che
aveva fatto all’Alta Banca che lo aveva finanziato, come quelle di creare
uno Stato non ferroviere, non postelegrafonico, ecc., quindi una stato
totalmente liberista, ingolosendo gli interessati alle “privatizzazioni” e
invece ora mira a rafforzare lo Stato, a riportare gli interessi privati sotto
l’interesse pubblico, e così via.
Si ripete spesso che Mussolini sarebbe il responsabile delle aggressioni ad
Amendola, Forni, Misuri, Gobetti, l’assalto alla casa di Nitti, ecc. Non è
sempre così, ma ammettiamolo pure e magari per tutti costoro, ma
consideriamo che in quel periodo la politica si faceva anche con la violenza.
Del resto, per i socialisti, che nel famoso biennio rosso attuarono in Italia
un violento tentativo sovversivo, chi ne era responsabile, chi ordinava le
azioni aggressive e le violenze? E ritorniamo al contesto dell’epoca.
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Uno “storico” veramente singolare questo Mauro Canali, nonostante gli
indubbi meriti nelle sue ricerche, visto che costruisce un vero teorema, al
pari di un giudice inquirente, laddove prima interpreta la eventuale
tangente, l’eventuale finanziamento, da lui scoperto, come un interesse
privato dei Mussolini (in primis il fratello Arnaldo) e quindi trasforma,
questa che è più che altro una sua congettura, in un movente, laddove
asserisce che Matteotti, sarebbe a conoscenza di questi scandali e li sta per
denunciare. Ma che Matteotti intendeva denunciare il malaffare sul
petrolio e per il gioco d’azzardo (e non si sa fino a che punto e in che
termini lo avrebbe denunciato), sembra indiscutibile, ma che Matteotti
voleva chiamare in causa personalmente Mussolini non risulta proprio.
E quindi il Canali, presumendo di avere il movente, indica anche il
mandante dell’omicidio di Matteotti, incurante del fatto che poi questo
“mandante”, cioè Mussolini, prima, durante e dopo il delitto da lui ordito si
comporta come un imbecille sbraitando in pubblico contro Matteotti.
Strabiliante poi che il Canali in questo suo “teorema”, tutto preso a
scoprire tangenti e il movente di Mussolini nel delitto, non trovi spazio per
analizzare il ruolo malefico della Massoneria, Lobby a cui sono
praticamente iscritti tutti gli implicati in questo delitto; né quello della
onnipotente Banca Commerciale di Toeplitz che, di fatto, sottintende, per
suo esclusivo interesse, a buona parte della finanza nazionale e che ad un
certo momento va in collisione con la politica del capo del governo con
tutte le conseguenze immaginabili. Ma ci sono anche personaggi, come
Aldo Finzi, Filippo Filippelli, soprattutto Filippo Naldi (un burattinaio che
traffica svolazzando dalla prima alla seconda guerra mondiale e anche
oltre, svolgendo importantissimi compiti e maneggi politico finanziari)
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tutti personaggi legati alla Commerciale e all’affaire Matteotti.
E in ogni caso, come presupporre, ammesso e non concesso, che Mussolini
avesse avuto paura di eventuali denunce di Matteotti alla Camera e quindi
decida di risolvere il problema con il mezzo, l’assassinio, più pericoloso e
deleterio per lui, e non invece di confutarlo, di negarlo, di batterlo sul
terreno a lui più consueto quello della abilità dialettica, del carisma, della
forza che gli conferiva una inattaccabile maggioranza al parlamento?
Oltretutto era improbabile che Matteotti pubblicasse documenti
“esplosivi”, tali da non poter essere confutati da un Capo di governo, tanto
è vero che poi questi “documenti esplosivi” nessuno li ha mai tirati fuori!
Nel suo teorema, infine, il Canali deve supporre che Rossi, Marinelli e ci
mette anche il Fasciolo (segretario stenografo del capo del governo), sono
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direttamente implicati nella organizzazione delittuosa.
In sostanza: abbiamo l’asserzione di tangenti a Mussolini basata su
congetture interpretative di certe documentazioni; un movente basato
sulla congettura che le denunce di Matteotti potessero gravemente
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danneggiare Mussolini tanto da doverlo far eliminare; un ordine omicida
che non si può dimostrare ma si dedurrebbe dalla supposizione che gli
organizzatori del delitto siano Rossi e Marinelli e il Fasciolo, tutti stretti
collaboratori del Duce che non potevano aver agito di loro iniziativa
all’insaputa di Mussolini e quindi il vero mandante è Mussolini.
Aggiungendoci anche che il Canali si contraddice tra la data in cui il
progetto delittuoso prese il via (per sua stesa ricostruzione dal 20 maggio
quando Dumini chiama a Roma gli altri sequestrator) mentre l’ordine
definitivo impartito da Mussolini (presume il 2 giugno, quando invece era
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già in esecuzione) cosi, tutto diventa fumoso e irreale.
Da storico attento, quale del resto è, il Canali avrebbe dovuto rendersi
conto che il delitto Matteotti e le circostanze che lo precedettero, erano
una questione di “affari”, ma anche “politica“ in un certo contesto storico.
Per prima cosa avrebbe dovuto valutare la figura di Mussolini, che non
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risulta un santo, ma neppure un freddo assassino, ma un rivoluzionario,
di stampo “politico”, uso a prediligere i mezzi della politica per prendere e
difendere il potere e in questi mezzi c’è anche l’uso di una certa violenza.
La storia insegna che il potere rivoluzionario si prende con la forza e si
difende con la forza e questo spesso comporta lo spargimento del sangue e
i plotoni di esecuzione, ma forse dimentico di questo il Canali scrive:
«Che senso ha allora pretendere la presenza di una razionalità e
ragionevolezza tattiche nell’azione politica di Mussolini, se essa era già
dominata e guidata da un progetto politico che se ancora non ben definito ,
prevedeva in definitiva la liquidazione delle opposizioni e del garantismo
legislativo liberale?».
Ma lo storico sa come regolarono il potere e liquidarono le opposizioni,
interne ed esterne, Stalin o Hitler, tanto per stare a quei tempi o come lo
regolano nei paesi democratici, dove è di prassi l’omicidio mirato, la
strategia della tensione e lo stragismo? Non insegna forse la storia che la
“forza” e “guerra”, sotto varie forme, sono “la prosecuzione della politica
con altri mezzi” e fanno parte dell’archetipo umano?
In definitiva, se non fosse per l’importanza che ha assunto il testo del
Canali, uno storico di spessore, non ci sarebbe neppure bisogno di
confutarlo visto che gli elementi a carico di Mussolini, sono congetture su
alcune documentazioni e ipotesi, sia pure intelligenti e ben sviluppate, ma
spesso basate su testimonianze e particolari, di dubbia interpretazione o
contraddetti da altre testimonianze, ma tutte, nel complesso, lasciano a
desiderare.
Si dovrebbero opporre testimonianze e particolari dubbi, ad altri forse
ancora più dubbi, ma non è il caso. Ci limiteremo quindi ad un confronto
sul concreto, lasciando ai lettori il giudizio finale.
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Il personaggio Mussolini
Per la verità Mussolini, “rivoluzionario politico”, rispetto ad altri
rivoluzionari, ha utilizzato, tra l’altro al minimo possibile, l’uso della
violenza (spedizioni punitive, manganellate e olio di ricino), consistendo i
suoi mezzi principali in quelli “eterni” della politica nei quali era maestro
insuperabile, ovvero dividere e scompaginare i nemici con accordi e
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mediazioni, convincere ed entusiasmare, adulare e minacciare, ricattare,
promuovere e blandire, cinismo e magnanimità, ed inoltre il controllo delle
delazioni e la corruzione, con l’uso dell’Ovra che aveva a libro paga quasi
tutto l’antifascismo (soprattutto quello fuoriuscito, ma anche quello
rimasto in Italia) e via dicendo. Niente di diverso da tutti i grandi politici.
Ed anche, quando necessario, violente aggressioni, seppur non numerose,
a nemici particolarmente pericolosi. Una violenza che del resto, come
accennato, avevano anche usato i suoi avversari.
Anzi era proprio il mancato uso di una violenza più risolutiva, specialmente
contro i traditori, che gli veniva rimproverato dai camerati più decisi e che
poi portò il fascismo a finire come era finito il 25 luglio del 1943.
Durante la guerra civile innumerevoli furono gli antifascisti, compresi quasi
tutti i capi della Resistenza, salvati da Mussolini, il quale firmava ogni
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specie di grazia gli venisse sottoposta.
Questo in linea di massima era l’uomo, che per l’analisi e l’inchiesta sul
delitto Matteotti, che qui ci interessa, non deve né piacere, né non
piacere, ma che considerandolo nel suo più che ventennale periodo di
governo, non dimostra di essere un sanguinario e praticare il potere per il
potere o peggio l’interesse privato.
Si può avversare irriducibilmente e non condividere in toto il Fascismo, la
sua politica, ma dietro Mussolini, nel bene o nel male, volenti o nolenti, si
deve riconoscere che c’era una sua visione della vita e del mondo, un
progetto rivoluzionario, anche se poi era incline a mediare ed essere
pragmatico, e traspariva evidente che in questo progetto c’era il desiderio
di realizzare una società socialista (non marxista e realizzata nella nazione),
innalzare gli italiani e di fare dell’Italia almeno una media potenza in
Europa e soprattutto indipendente.
Viceversa non si sarebbe giocato tutto, vita compresa, con la guerra.
Se il Canali avesse valutato l’uomo e il contesto storico in cui era costretto
ad agire ovvero una nazione dove il potere era più che altro nelle mani
della Monarchia e dell’Esercito, della Chiesa (aveva una parrocchia in ogni
paese), della Confindustria, della Finanza massonica legata ad interessi
extranazionali, ecc., avrebbe compreso che il delitto Matteotti, pur
restando un delitto, che la pratica delle tangenti e la stessa Ceka, pur
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restando un qualcosa di oltremodo illegale, sono tutti avvenimenti di un
particolare periodo storico e legati allo scontro di potere in atto.
Il teorema di Canali può apparire convincente solo superficialmente:
“Mussolini compie azioni violente e illegali, il rapimento di Matteotti è
violento e illegale, ergo Mussolini ha fatto anche uccidere Matteotti”.
Tutto questo non viene avvertito dal “teorema” del Canali, anche perché la
parte “politica” è stata talmente sminuita da non esistere. Quando invece
gli aspetti politici, ovvero il modus operandi di Mussolini nel regolare amici
fascisti e opposizioni, poteri forti, ecc., realizzare un progetto politico,
l’unico che gli può dare soddisfazione ideologica e garantirgli la saldezza del
governo, ovvero aprire ai socialisti, sono importantissimi aspetti che
contribuirono a scatenare il delitto Matteotti.
Ma si sà, per il Canali, Mussolini, praticamente è un gangster e quindi la sua
“politica”, è solo finzione, tattica funzionale ai suoi disegni criminosi.
Un vero “teorema”, tutto incentrato sul postulato che Mussolini è un
assassino e un tangentista, mandate dell’omicidio Matteotti e di
conseguenza ogni aneddoto, ogni testimonianza, ogni illazione viene
piegata o interpretata a conferma perché, a nostro avviso, non scaturisce
dall’inchiesta e dalla analisi dei fatti, ma proprio come un postulato, senza
essere dimostrato, li precede e li elabora di conseguenza.
Lo storico Mauro Canali, che mostra di conoscere bene certi meccanismi speculativi,
perché non ci dettaglia quella che è la famigerata “truffa del debito pubblico”, ovvero quel
meccanismo perverso, di apparenti “aiuti” in realtà una imposizione agli Stati a cedere, non
solo l’emissione della moneta alle Banche Centrali, di fatto a banche private, mascherate a
volte come Enti di diritto pubblico, ma anche ad obbligarli a prendere certi “aiuti”, vendita e
acquisti di titoli di Stato, per i quali si innestano spaventosi interessi – inestinguibili -?
Nessuno se ne interessa: non si sa quale sia esattamente questa “bolla del debito pubblico”,
con chi sia stato contratto, in che modo, quando e perché. Di fatto l’imposizione di un “pizzo”
al cui confronto quello mafioso è una sciocchezza e che porta le nazioni alla totale rovina.
Un sistema perverso, che ha le sue origini nel Federal Bank System varato negli USA nel 1913 e
perfezionato poi a Bretton Woods nel 1944 (in Europa gestito dall privatissima Banca Centrale
Europea). Un sistema al quale le nazioni del campo occidentale non possono sottrarsi pena
l’essere mandate in rovina: come a dire la più grande rapina del secolo,
Se in Italia ci fu un governo che cercò di limitare questa “usura” fu il governo Mussolini, vedi
la sua legge sulla Banca d’Italia del 1936 e altri provvedimenti per una economia regolata
come uno Stato sociale e non un vampiresco mercato liberista. E soprattutto con il
commissariamento della Banca d’Italia, durante la RSI, che consenti, nonostante la guerra e i
debiti inerenti, al ministro delle finanze di Mussolini, Pellegrini Giampiero, di realizzare un
attivo di bilancio, rimasto nelle casse pubbliche, di 20,9 miliardi di lire!
Visto che nessun magistrato indagherà mai su questa “truffa legalizzata” , pena la carriera e
probabilmente la vita, lo faccia almeno un storico, che al massimo si gioca, di sicuro, la
carriera. Così facendo, crediamo, il Canali, comprenderà molte cose e ci penserà cento volte
prima di avanzare sospetti di malversazioni e accaparramenti per Mussolini!
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IL DELITTO MATTEOTTI
Martedì 10 giugno 1924, poco dopo
le 16, il segretario del partito socialista
unificato (PSU) Giacomo Matteotti,
trentanove anni, uscì di casa dalla
propria abitazione di via Pisanelli per
recarsi, come sempre ben vestito,
verso la biblioteca della Camera.
All'angolo di Lungotevere Arnaldo da
Brescia e via Antonio Scialoja, era
ferma una Lancia K in versione
Lambda scura (foto a lato) e
sguinzagliati attorno alcuni uomini di
una specie di organizzazione detta
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Ceka, che intercettarono Matteotti,
lo picchiarono e fuggirono con la
vittima caricata a viva forza in auto verso la via Flaminia.
Le reazioni all’evento furono notevoli e puntarono i fari sul governo di
Mussolini, visto che era nota non soltanto l’intransigenza di Matteotti verso il
fascismo, ma anche il suo ultimo discorso alla Camera, con il quale aveva
denunciato violenze e asseriti brogli elettorali alle ultime elezioni.
Il 16 agosto del 1924, dopo oltre due mesi di ricerche e di angoscia, il corpo di
Matteotti venne ritrovato, già in fase di decomposizione, nascosto in una
grossolana buca scavata in un bosco in località la “ Quartarella ”, vicino Roma.
Arrestati per questo delitto, in pochi giorni, furono alcuni elementi facenti parte
di questa Ceka (nomignolo mutuato da un corpo segreto di polizia politica
sovietica), ovvero una Organizzazione speciale fascista , in pratica un manipolo
di esecutori di ordini senza scrupoli, con a capo lo scaltro traffichino ex
squadrista Amerigo Dumini, massone dichiarato di piazza del Gesù e di cui si
sospetta fosse anche al servizio degli inglesi fin dal 1919/’20.
Si trattava di una cellula estemporanea che non ebbe mai un organico e un
profilo ben definito ed i cui membri si riunivano quando chiamati in momenti di
bisogno. Resta il fatto che questa “Ceka” veniva pagata e aveva riferimenti nel
Viminale e nella Presidenza del Consiglio e lo stesso Mussolini non era estraneo
alla sua costituzione, avvalendosene a volte come “arma di pressione e di
minaccia” nei confronti degli avversari.
Cesare Rossi scrisse in un suo memoriale che Mussolini aveva ritenuto
necessaria la Ceka perché date le Leggi in vigore, di spirito liberale, contro cui il
fascismo era insorto, il governo non disponeva ancora di mezzi legali per colpire
i suoi nemici, quando tutti i governi allo stato di transizione hanno bisogno di
mezzi illegali per regolare gli avversari.
Tutti elementi questi che posero Mussolini e il governo nell’occhio del ciclone.
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Negli anni ‘20 eravamo in un epoca, post marcia su Roma, seguente alcuni anni
di cruenta guerra civile, dove si erano avuti, da una parte e dall'altra, un alto
numero di morti. Mussolini era andato al potere attraverso un processo
rivoluzionario, ovviamente violento, ma tutto sommato contenuto rispetto ad
analoghi eventi come la rivoluzione bolscevica in Russia. Anzi, quella fascista
poteva definirsi una rivoluzione (tra l'altro incompiuta visto che le Istituzioni
non erano state sovvertite) abbastanza mite e priva di plotoni di esecuzione,
rispetto ad altre precedenti e successive, e neppure vennero raggiunte quelle
barbarie ed esecuzioni sommarie, una vera mattanza che gli stessi antifascisti
misero poi in atto contro i loro avversari nelle “radiose giornate” del 1945.
Ricostruire oggi, con esattezza, le fasi e le vicende preliminari e successive del
delitto Matteotti è possibile solo con un certo margine dubitativo.
Nonostante i processi svolti, infatti, del resto influenzati da notevoli
spinte politiche, le tante testimonianze rese, poi modificate o
ritrattate, i memoriali, ecc., non è possibile avvalorare una
ricostruzione, invece di un'altra, basandosi su questo materiale, a
causa di troppi inquinamenti, interessi, speculazioni alle quali
nessuna autorità pose limiti, anzi sia il regime fascista che il contesto
antifascista del dopoguerra, ne furono il brodo di coltura.
Non si può fare neppure pieno affidamento ai verbali di interrogatorio e alle
deposizioni in tribunale perché spesso i testi mentirono spudoratamente, poi in
seguito ritrattarono o modificarono le versioni, insomma un vortice di versioni a
cui i “ricercatori” hanno attinto solo quello che gli tornava comodo per le loro
tesi. Anche l’incrocio delle testimonianze serve a poco, perché tanti protagonisti
dell’epoca rilasciarono o corressero testimonianze (e spesso gli fu possibile
anche concordarle tra le loro in carcere) in funzione degli interessi degli
incriminati o della linea del regime fascista o all’opposto altri le pronunciarono
negli interessi dell’antifascismo teso ad inguaiare il Duce ed abbattere il regime.
E’ pur vero che per i ricercatori storici è possibile verificare documentazioni per
accertarsi che almeno certi particolari siano coincidenti, ma la inaffidabilità
così alta e contradditoria dei testi è uno scoglio a volte insuperabile
Con il materiale oggi disponibile, pur scremato di quanto risulta palesemente
falso, incrociando deposizioni e testimonianze, rivelazioni e sentito dire, si
potrebbe allegramente confezionare più versioni, opposte tra loro.
E questo vale anche per le ipotesi avanzate dal Mauro Canali il quale,
nonostante porti a supporto varie documentazioni, deve spesso confermare le
sue ipotesi rifacendosi alla tal testimonianza o al tal memoriale.
Anche la nostra ricostruzione dei fatti, pur tratta dagli atti processuali,
testimonianze ecc., non sfugge a questa realtà, ed infatti useremo spesso il
“sembra” o il “si dice”, nell’introdurre fatti e testimonianze e comunque non
per confezionare una “nostra” versione dei fatti, ma soltanto per
fornire al lettore un sufficiente quadro di quegli avvenimenti e
metterlo in guardia da altri testi poco seri.
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LE CRONACHE DEL MISFATTO
Ritenendo importante, per la nostra controinformazione su cosa c’era
dietro quel delitto, che il lettore abbia anche la conoscenza dei fatti e delle
cronache del tempo nella maniera più precisa e attendibile possibile, vediamo di
ricostruirne gli avvenimenti.
La letteratura in argomento è molto contraddittoria, e gli stessi episodi sono a
volte riportati in modo diverso, e questo, come accennato, dipende anche dal
fatto che le documentazioni agli atti, a seguito di modifiche, ritrattazioni e nuove
aggiunte da parte dei testi dell’epoca, sono confusionarie.
Aprile – maggio 1924
Forse ai primi di aprile del ’24, nella testa della” banda del Viminale”
(Marinelli, soprattutto e poi Rossi, Finzi, De Bono) , cominciò a ruzzare, almeno
a dar retta al “memoriale americano” di Amerigo Dumini, l’idea di una azione
verso Matteotti (fase ideativa). Fatto sta che il 20 maggio Dumini chiama a
Roma, da Milano, alcuni elementi che gli necessitano (fase organizzativa).
In quei momenti però ci sono anche altri avvenimenti che lasciano perplessi.
Il 18 - 20 maggio, per esempio, Cesare Rossi capo dell’Ufficio stampa della
Presidenza del consiglio, se ne va in Francia ad un convegno con vari
personaggi: Carlo Bazzi, grosso affarista e faccendiere, direttore del Nuovo
Paese, Alceste De Ambris, potente sindacalista, Cesare Campolonghi, Pippo
Naldi, altro grosso faccendiere ed altri, tutti massoni.
Alcuni, come Franco Scalzo ritengono che stanno mettendo a punto il piano
contro Matteotti, ma noi sospettiamo che più che altro si discusse di un capo del
governo che a certi ambienti speculativi era oramai divenuto ostico.
Sempre in quei frangenti, Mussolini dovette ridimensionare la corrente,
ambigua, detta “revisionista” emarginando Massimo Rocca cioè il suo esponente
principale. Guarda caso Dumini, scrisse dall’Italia a Rossi dettagliandolo di
quest0 avvenimento che evidentemente era di comune interesse (vedere più
avanti il capitol0 sulla “corrente revisionista”).
Ma c’è dell’altro, perché precedentemente a febbraio era stato ucciso a Parigi
Nicola Bonservizi segretario del Fascio in Francia e giornalista del Popolo
d’Italia un delitto di antifascisti, ma alquanto misterioso che si potrebbe leggere
anche nel contesto di trame contro Mussolini (vedere più avanti il capitolo: “Il
misterioso delitto Bonservizi”).
A tutto questo si aggiunga che certi ambienti che lo paventavano fortemente,
erano ben informati dei sondaggi di Mussolini per aprire ai socialisti.
Comunque secondo Amerigo Dumini, questo scaltro traffichino,
spregiudicato, violento e bugiardo, a capo della cosiddetta Ceka (si vantava di
aver eseguito vari omicidi), che lo rivela in un suo memoriale nascosto in
America (sempre presumendo che sia veritiero e ci sono evidenti
dubbi e sorvolando su opposte sue testimonianze) egli ebbe ordine da
Giovanni Marinelli (in quel momento, è uno dei tre segretari del PNF con
Cesare Rossi e Francesco Giunta, e anche membro del Gran Consiglio del
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fascismo, massone e segretario amministrativo del partito) di organizzare il
rapimento di Matteotti (gli direbbe che è nell’interesse di Mussolini) e
possibilmente la sua soppressione facendone sparire il cadavere.
20 - 22 maggio
Il Dumini quindi si mette a organizzare la losca impresa e sembra che il 20
maggio 1924 manda a chiamare da Milano l’amico sodale Aldo Putato e lo
incarica di far venire a Roma anche Albino Volpi e qualcun altro della Ceka.
Costoro arrivano a Roma il 22 maggio, all’Hotel Dragoni (circa 40 metri dietro
la facciata laterale del Viminale), dove il Dumini ha instaurato, con il nome di
copertura di Gino Bianchi e usando anche lo pseudonimo Gino D’Ambrosio, il
quartier generale. Lui per la verità risiede anche in via Cavour con la sua donna.
[Queste datazioni sono importanti, perché stanno a significare che un
incarico preciso, di agire contro Matteotti, era stato dato precedentemente,
prima del famoso discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924]
Sono questi, arrivati da Milano, gli elementi che lo dovranno supportare
nell’impresa criminosa. Sembra che aveva anche chiesto di portare con loro un
chauffeur, un autista. Chiama anche un certo Otto Thierschald, un austriaco,
losco personaggio, una spia facilmente assoldabile da Intelligence straniere.
Sembra che il Thierschald fosse venuto in contatto con Giovanni Marinelli
(segretario amministrativo del PNF e assieme a Cesare Rossi tra quelli che
manovravano il Dumini) ad aprile e poi questi, dopo averlo assunto come
informatore, a fine mese lo mise a disposizione di Dumini.
Nel frattempo però il Thierschald il 6 maggio era stato arrestato a Napoli
mentre al porto fotografava non si sa bene cosa ed era finito in carcere a
Poggioreale per cui era stato necessario trovare il modo per farlo uscire.
30 maggio venerdì
Forte discorso antifascista di Matteotti alla Camera che denuncia brogli e
violenze alle elezioni di aprile e ne chiede l’invalidazione. Forti reazioni e
minacce verbali da parte fascista e governativa. Il deputato socialista, già da
tempo inviso agli avversari, entra in un clima di pericolose reazioni.
4 giugno mercoledì
Il Thierschald, venne fatto uscire di galera, grazie ad un interessamento di
Marinelli e De Bono capo della polizia e arriva a Roma forse il 4 giugno, e ha
l’incarico di pedinare Matteotti. Si era spesso infilato anche in ambienti di
sinistra, è conosciuto e non dovrebbe destare sospetti.
Il desso, però, cerca anche di intercettare Matteotti e di parlarci (verrà
intercettato dal deputato socialista Paolo De Michelis, stretto collaboratore di
Matteotti che però non gli da retta e lo liquida), e quindi non si sa bene che cosa
voglia (doppio gioco o crearsi un alibi, per lui o per chi lo controlla?).
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Anche Aldo Putato, altro della Ceka, avrà incarichi di pedinamento.
Per il commando, il Dumini aveva chiamato anche una sua conoscenza
Averardo Mazzoli che lavora come autista a Firenze, ma questi giunto a Roma,
confidandosi con un amico massone fiorentino, il prof. Giuseppe Meoni, che lo
sconsiglia, ha un ripensamento e quindi mette una scusa e torna a Firenze.
All’ultimo momento quindi si farà venire da Milano Augusto Malacria (che sa
guidare l’auto) che arriverà a Roma proprio martedì 10 a mattina,
Si da il caso che, nel frattempo, il 4 giugno, la questura aveva concesso a
Matteotti, il passaporto che da tempo reclamava perché gli era stato ritirato, ma
ora è concesso solo limitatamente ad un viaggio in Austria dove era in
programma un congresso socialista.
Si dice che il Dumini informato di questo fatto, la sera di sabato 7 giugno
verificò, alla stazione Termini di Roma se Matteotti era salito sul treno per
l’Austria e nel caso lo avrebbe preso anche lui, forse con il Putato, e forse
dovevano poi ammazzare il deputato, in treno o magari all’estero.
[C’è chi ha insinuato che
il passaporto glielo aveva sdoganato
Mussolini, proprio per poterlo poi far ammazzare all’estero. Illazioni
senza freni: per chi ha deciso che Mussolini è il mandante
dell’omicidio, tutto è in funzione di questa premessa]
Comunque sia il Matteotti non partirà più.
7 giugno Sabato
Discorso alla Camera di Mussolini in risposta del governo. E’ un discorso
forte, dove il Duce risponde ridimensionando le accuse di violenze e i brogli,
mostra fermezza, ma allo stesso tempo si mostra conciliante con le opposizioni a
patto che vogliano collaborare con il governo. Di fatto rilancia la palla alle
opposizioni, spiazzandole. Un evidente successo del suo discorso.
8 giugno domenica
L’8 giugno Dumini fa spedire a Milano, da Putato, un telegramma a Volpi
che nel frattempo era tornato appunto a Milano:
«Pregoti partire immediatamente. Necessita tua presenza per definire
contratto pubblicità. Porta teco Panzeri e abilissimo chauffeur». Firmato Gino
D’Ambrosio (altro pseudonimo di Dumini).
Quindi parteciperà all’impresa anche Augusto Malacria, altro della Ceka e
costui, se fosse falsa la confessione di Dumini che fu lui stesso a fare da autista,
protrebbe essere proprio il Malacria l’autista della macchina che rapì Matteotti.
[Attestarsi quale autista significava, al processo, minor responsabilità
nel delitto e godere dello sconto di pena di un terzo. Molti, dubitando,
hanno fatto notare il problema di Dumini, con una mano invalida, di
dover guidare la macchina per molte ore e lanciarla anche a forte
velocità. Ma perchè Malacria avrebbe accettato questo scambio di
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ruoli, penalmente rilevante? A nostro avviso, nonostante i dubbi sulla
mano, tutto è possibile. Anche un Dumini occasionalmente chauffeur]
Un fonogramma del questore di Como, descriverà poi la partenza da Milano per
Roma di Amleto Poveromo, di Albino Volpi, di Giuseppe Viola, e Filippo
Panzeri, dicesi chiamati da un personaggio fascista (ovviamente il Dumini) per
una certa missione politica riservata. Come detto però Volpi, Panzeri e altri,
erano già venuti a Roma il 22 precedente all’Hotel Dragoni, ma infatti poi erano
ripartiti per Milano i primi di giugno.
Si tratta di personaggi particolari, sicuramente violenti, alcuni dediti a
malaffare, tipica espressione di quegli anni di fuoco, ma tra loro alcuni Arditi
che in guerra si erano distinti con valore così come anche alla nascita dei fasci di
combattimento (cenni sui loro profili nella precedente nota 18).
9 giugno lunedì
Il giorno precedente il delitto, lunedì 9 giugno, Dumini va da Filippo
Filippelli, direttore del “Corriere italiano” (un giornale politico finanziario para
fascista, ma ambiguo, dove sia lui che il Putato ricoprono un ruolo fittizio come
ispettori “viaggianti” con un certo stipendio), per farsi prestare un automobile,
ma essendo tutte le auto del giornale impegnate, questi lo spedisce al “garage
Trevi” per prendere, a suo nome, una Lancia già noleggiata dal Filippelli.
Il Filippelli aveva chiesto quell’auto il precedente venerdì 6 giugno e aveva
appositamente chiesto e insistito per avere una buona auto Lancia, coperta e
senza autista. Riferì al Giovanni Tomassini proprietario del garage, che l’auto
doveva servire per il giornale e per il Ministero degli Interni. Quindi quell’auto
era già destinata alla bisogna? Un autista poi consegnerà la macchina al Dumini.
[Come sia stato possibile che il Filippelli fornisca a Domini l’auto del
rapimento, a lui riconducibile, è stupefacente. Se non fosse per tanti
particolari che lo vedono implicato nel misfatto ci sarebbe da pensare
o che egli era all’oscuro del rapimento, o che sia stato preso da un
demenziale eccesso di sicurezza nel farla franca]
La sera l’auto viene utilizzata per perlustrare la zona di abitazione di Matteotti:
un imprudenza veramente strabiliante da pare dei sicari visto che nel via vai
serale venne rilevata, da un portiere, il numero della targa.
Più tardi l’auto sarà parcheggiata da Dumini nel cortile di Palazzo Chigi.
Nel frattempo anche il Thierschald era stato sguinzagliato a pedinare Matteotti e
verrà anche fermato e identificato vicino casa del deputato.
Sembra che quella sera venne a mancare la vigilanza dell’abitazione di Matteotti
che si era istituita nei giorni precedenti dopo il focoso discorso del deputato del
30 maggio. Si potrebbe ritenere che il Dumini, oltre ad essere informato di
questo particolare, ottenne anche un “aiuto” e nel caso si dovrebbe pensare: o
che il Dumini godeva di amicizie e informatori in polizia, e questo, con De Bono
ai vertici della polizia è possibilissimo, o peggio che vennero dati ordini proprio
per agevolare il rapimento ed allora bisognerebbe risalire agli alti vertici, ovvero
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a De Bono o altri (ma su ordine di chi avrebbe agito De Bono, sempre,
ripetiamo, che questa circostanza dolosa fosse veritiera?).
[I fautori della colpevolezza del Duce, risponderebbero che De Bono
agì per ordine di Mussolini, ma è solo una supposizione perché, nel
caso, il De Bono avrebbe potuto benissimo aver esaudito il volere di
altri, compresa Casa Savoia, a cui era intimo, ecc.]
Alcuni giorni prima del rapimento Francesco Giunta uno dei segretari del PNF,
incontrando Matteotti, lo aveva messo in guardia dicendogli che era entrato nel
mirino di gente poco raccomandabile. Evidentemente qualcosa era pur trapelata
e comunque Matteotti si era molto esposto.
1o giugno martedì
La mattina del fatidico martedì 10 giugno Dumini torna al garage Trevi per
farsi fare il pieno di benzina, circa 100 litri che garantiscono circa 400 Km.
Sembra che poi vadano tutti a pranzo al ristorante “Il Buco” in via S. Ignazio.
Poco dopo le 16 di martedì 10 giugno 1924, dunque, questi sicari, ivi appostati,
agganciano Matteotti appena uscito da casa, e lo caricano a forza in auto dove
salgono Dumini, Poveromo, Volpi, Malacria, e Viola.
Solo di questi 5 si è potuto appurare con certezza la presenza in loco.
Non si è mai appurato, invece, con certezza se erano presenti il Putato e il
Panzeri, pur complici, e probabilmente c’erano, di sicuro almeno uno, ma poi
restarono appiedati visto che in auto con Matteotti erano già in sei, mentre il
Thierschald forse era nel gruppo con funzioni da “palo”.
Ma su questo strano austriaco (di cui parleremo più avanti) c’è anche da
considerare una probabile e mai ben accertata seconda auto sportiva a due
posti, che non si sa quando e dove apparirebbe , ma che fu poi vista andare
dietro i fuggitivi, forse con anche la sua presenza a bordo.
Nel caso il Thierschald entrerebbe anche negli attimi cruciali della vicenda
delittuosa, forse assieme a un altro personaggio non identificato, compreso il
momento della frettolosa inumazione del cadavere nella boscaglia fuori Roma.
Usiamo il condizionale perché tutto questo è alquanto incerto.
Si sostenne che solo il Dumini conoscesse
Matteotti, ma questo sembra inverosimile
(oltretutto il Thierschald lo conosceva di
certo), e si disse anche, altra favoletta, che
per ottenere il massimo dall'azione, agli
altri sicari, cinque o sei che siano, venne
fatto credere di dare una lezione a colui
che era responsabile di attentati e omicidi
contro fascisti avvenuti a Parigi.
Matteotti, sbucato sul lungotevere si era
portato, un po’ inaspettatamente sul lato
del fiume, costringendo i rapitori ad
accelerare l’azione.
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I testimoni, presenti al fatto, consentirono di accertare che il deputato era stato
aggredito da un gruppo di cinque o sei persone e caricato a forza su un'auto
scura. In mancanza di dati certi, diciamo, con alla guida Dumini. Alcuni testp
segnalarono che forse un paio di persone erano poi fuggite a piedi.
Fatto sta che qualcuno aveva anche preso parte del numero di targa della
vettura, una limousine Lancia berlina dell’epoca che fuggì verso Tor di Quinto
suonando il clacson (si pensò forse per coprire le urla) e prese la via Flaminia,
ma nel frattempo nell'auto la vittima, un uomo robusto che si dimenò come un
forsennato, venne anche colpita (si dice dal Volpi, altri dal Viola, altri ancora dal
Poveromo,+ qualcuno dice dal Malacria, ma questi, se non era il Dumini il
guidatore, probabilmente lo era lui) con un corpo contundente, forse un
pugnale, o forse una lima, tanto da causarne una forte emorragia e la morte.
C’è una testimonianza al processo di Roma del 1947, rilasciata da Giuseppe
Paparazzo che nel 1926 (era l’avvocato di un Dumini da poco uscito di galera e
che voleva far causa ad Albino Volpi ritenendo che lo aveva fatto radiare
dall’Albo degli Arditi di Milano). Il Paparazzo, per quel che vale, raccontò che
al tempo il Dumini gli avrebbe confidato che gli esecutori di Matteotti erano
stati il Volpi e il Malacria, organizzatore Marinelli per ordine di Mussolini.
La moglie di Volpi, invece, raccontò che il marito (era morto nel 1938), colpito
in auto da un calcio ai testicoli di Matteotti, reagì vibrandogli una pugnalata.
Ma non è finita perché Amleto Poveromo, poco prima di morire, confidò
piangendo e pentito al figlio di Matteotti, Matteo, che lo era andato a trovare nel
carcere di Parma nel gennaio 1951, che il padre lo aveva ucciso lui con tre
fendenti di lima. Il bello è che disse di averlo fatto in modo premeditato!
[Lascia perplessi che uomini avvezzi a risse, in cinque contro uno in
auto, uno di loro perda la testa e pugnali la vittima anche se questa
ribellandosi lo avesse colpito. E non è mai emerso, riconosciuto da
tutti, il vero pugnalatore, ma ne sono stati indicati almeno tre]
Con il morto in un auto imbrattata di sangue i cinque girovagarono per la
campagna romana fino a che, verso sera, arrivarono alla Macchia della
Quartarella, una tenuta del principe Ludovisi Boncompagni nel comune di
Riano a circa 23 km o poco più dalla capitale. Qui, in qualche modo, alla meglio
con attrezzi occasionali presenti in auto, utilizzando anche
una lima,
seppellirono il cadavere dopo averlo denudato.
[Perché i sicari non si sono portati dietro almeno una pala? Alcuni
sono convinti che questa mancanza è in relazione al fatto che non era
prevista l’uccisione, ma lo storico Mauro Canali, forse con qualche
ragione in più, ha fatto notare che è dipeso dal fatto che
probabilmente il Matteotti doveva essere portato e ucciso da altra
parte dove non occorrevano attrezzi. Ma allora perché in quel posto
non ci sono ugualmente andati con il cadavere?]
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Primi timori sulla scomparsa di Matteotti
11 giugno mercoledì
Verso le 20,30 del giorno successivo, mercoledì 11 giugno, dopo che il
pomeriggio Matteotti non si è presentato alla Camera, il deputato socialista
Giuseppe Emanuele Modigliani si rivolse alla Questura di Roma, denunciando
la scomparsa dell'on. Giacomo Matteotti. Modigliani però complicò e
involontariamente depistò le indagini perché aggiunse che il suo segretario era
certo di aver visto il Matteotti per strada la sera del 10 giugno.
La moglie di Matteotti, Velia Titta Ruffo, pur preoccupandosi, non aveva subito
sporto denuncia in quanto era accaduto altre volte che Matteotti non fosse
tornato per cena senza averlo preannunciato. Al mattino però non avendolo
visto rincasare si era molto preoccupata.
Sembra che il Modigliani trovò il questore Cesare Bertini già al corrente della
notizia e si dice che la questura lo sapeva dalla ore 18 di quel mercoledì 11
giugno forse informata da De Bono. Mussolini, tempo dopo, raccontò:
«L'11 giugno del 1924, non pensavo minimamente a quanto nell'ombra la sorte
stava tramando a danno del fascismo. Ricordo ancora che al banco del
governo, alla Camera eravamo in stato di euforia per il successo ottenuto dal
mio discorso del 7 giugno».
In ogni caso, I'11 giugno e neppure la mattina del 12 sui giornali stampati in
nottata o all’alba, ancora non si parla di sequestro di persona.
12 giugno giovedì
Verso il mezzogiorno del 12 uscirono edizioni straordinarie dei giornali con
l'annuncio della scomparsa del deputato socialista. Immediatamente si fecero le
più brutte previsioni e l’opinione pubblica ne rimase fortemente scossa.
Contemporaneamente all'ufficializzazione della scomparsa del deputato
socialista, sfilarono i primi testimoni e iniziarono subito le prime indagini
condotte dal questore Bertini e dietro la supervisione del capo della Polizia
Emilio De Bono. Con le prime testimonianze ed il numero della targa, si entrerà
subito in possesso di preziose informazioni.
Nella metà di giugno, alcuni uomini delle opposizioni, come vedremo,
cercheranno di organizzare l’assassinio di Mussolini, già ritenuto responsabile
della scomparsa di Matteotti.
33
La “seconda auto” e Otto Thierschald
Per la vicenda che stiamo introducendo, premettiamo che non può più
essere chiarita, ma è importante per evidenziare la complessità di questo caso.
1o giugno martedì
Si da il caso che seppur mai adeguatamente appurato, si riscontrò da
alcune testimonianze in seguito raccolte, anche la presenza di una seconda auto,
una Stayer decappottata, biposto, forse colore grigio, che aveva agganciato la
Lancia degli assassini in fuga e gli era andata dietro, o l'aveva poi preceduta, e
sulla quale vi erano due individui.
Sembra che nei pressi di Vico, visto che le due macchine si erano distaccate, il
conducente della Stayer aveva chiesto ad una persona del posto se avesse visto
passare una Lancia nera. L'Ufficio di Gabinetto della Questura di Roma spedì un
rapporto (n. 64899) al Procuratore del Re in data 15 giugno 1924, nel quale il
Commissario Epifanio Pennetta riferiva di un anonimo dattiloscritto, inviatogli
dal Giornale d'Italia, il giorno 13 precedente, e che era stato recapitato a mano al
direttore sig. Vittori. Nel dattiloscritto si asseriva che il giorno 10 verso le ore 19
l'automobile N. 55-12169 passò per Ronciglione proveniente dalla via Cassia.
Quindi fu vista presso il Lago di Vico dove cinque o sei persone, dal fare sospetto
si erano inoltrate nella macchia.
In seguito a questo venne inviato sul posto il commissario Cav. Uff. Cadolino
che riferì che un certo Micheli Mario dì Francesco, di anni 19 da Roncilione,
ecc., barbiere, dichiarò che il 10 corrente verso le 16,45 vide attraversare il paese
a grande velocità da un auto nera coperta con più persone a bordo.
Dopo qualche minuto passò un'altra auto di colore chiaro scoperta a due posti
con 2 persone a bordo, rallentarono e chiesero al Micheli, presente anche un
certo Capata Armando, fu Venanzio di anni 37 da Ronciglione, ecc., falegname,
se era passata una macchina nera con alcune persone a bordo ed avuta risposta
affermativa seguì la strada della prima macchina.
Anche fra le carte di Filippo Filippelli, sequestrate dalla polizia politica, venne
rinvenuto un documento nel quale il direttore del Corriere Italiano, detenuto a
Regina Coeli, ricorda che i giornali II Piccolo, seguito dal Giornale d'Italia e
ricalcato da Il Messaggero, pubblica che le operazioni di trafugamento e
seppellimento del cadavere di Matteotti furono eseguite da alcuni uomini che
erano a bordo di una vettura chiusa, la quale era preceduta da un altra vettura.
Filippelli dirà di aver conservato quegli articoli perché aveva timore che
potessero insinuare che uno degli occupanti in vestito chiaro fosse lui.
Abbiamo voluto accennare a questa seconda auto, mai appurata, solo per
evidenziare che tutta questa vicenda è forse rimasta in parte misconosciuta.
Otto Thierschald
Considerando gli occupanti della Stayer, Franco Scalzo nel suo “Il caso
Matteotti radiografia di un falso storico” Ed. Settimo Sigillo 1996, ha ipotizzato
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che uno di questi due passeggeri dell'auto probabilmente era un austriaco, un
certo Otto Thierschald, di Giacomo (alias Otto Chirzio o Chirzel, Ivan
Kravjnapolsky, Paolo Lazslo, Achmed Eestel) un losco figuro, di fatto un
nomade, una mezza spia internazionale, deambulante in diversi ambienti, ma
certamente manovrato anche dalla O.G.P.U., il servizio sovietico.
Nel caso questo Thierschald assumerebbe un ben diverso ruolo da quello
secondario di comprimario che invece gli è stato ritagliato., ma non è però detto
che l’occupante di questa auto era effettivamente questo losco personaggio, che
aveva partecipato al rapimento, e comunque sia nel caso che fosse lui o non
fosse lui, ovvero un altro personaggio misterioso, si aprirebbero comunque altri
inquietanti interrogativi.
Mauro Canali afferma e non ha tutti i torti che la stampa fascista forzò la tesi
che questa spia austriaca agisse per conto dei sovietici, onde chiamarli in causa
e alleggerire la pressione contro il fascismo. A tal proposito si cercò anche di
farlo passare come Timothy Trebitsch-Lincoln, forse nato nel 1896
presumibilmente in una località dell'impero austro ungarico, da padre israelita e
nota spia internazionale, ma l’identità Thierschald / Trebitsch-Lincoln, non ha
mai avuto conferme certe. In ogni caso dei sospetti che questo strano
Thierschald poteva essere colluso anche con i sovietici c’erano veramente.
C’è chi lo ha fatto passare per una grossa spia e chi per un semplice
scagnozzo. A nostro avviso era effettivamente uno scagnozzo, ma per
il fatto che poteva essere usato dai più disparati ambienti e interessi,
poteva anche recitare un ruolo tutto suo di una certa importanza.
Nel caso Matteotti lo tirò dentro il Marinelli che lo aveva assunto come
informatore passandolo poi al Dumini, ma non si può escludere che il soggetto
si era anche impegnato con “altri” in tal caso svolgendo un doppio gioco.
Il Thierschald, al tempo della Grande Guerra nelle fila dell'esercito austriaco,
era stato catturato e si era offerto come spia al comando della V° armata
sull'Isonzo, ma non gli venne data fiducia. Sparisce per poi riapparire in Francia
e in Svizzera, da cui viene espulso per incitamento alla sovversione per - conto
di Mosca. Lo ritroviamo poi in Italia dove fa la spia ed altri mestieri di dubbia
reputazione, ed infatti, dopo altre sparizioni, si viene a sapere che il 6 maggio
era stato arrestato a Napoli.
Si dice che veniva contattato dal Dumini per utilizzarlo occasionalmente nella
Ceka e come uno dei componenti di questa congrega verrà spesso indicato nella
letteratura in argomento. In ogni caso verso la fine del mese, per lui si muove
l'amministratore del PNF Giovanni Marinelli il quale coinvolge il direttore
generale della pubblica sicurezza il generale Emilio De Bono.
Questi dispongono, pochi giorni prima del rapimento dell'onorevole Matteotti,
le direttive per farlo uscire dal penitenziario di Poggio Reale dove si trovava in
detenzione dal 16 maggio. L'operazione avviene attraverso una lettera del 31
maggio, concepita e firmata da Marinelli e sembra fatta mettere nero su bianco,
su carta intestata della segreteria politica del PNF, proprio ad Amerigo Dumini.
La lettera, con accluse lire 100 da consegnare al Thierschald, parte da Roma ed è
destinata al direttore del carcere di Poggioreale. Vi è anche l'indicazione per il
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Thierschald, definito "uno dei nostri fiduciari segreti", di recarsi a Roma
all'Hotel Dragoni (albergo che a quanto pare funge da base operativa per il
delitto Matteotti) chiedendo del signor Gino Bianchi nome dietro il quale si
nasconde il Dumini stesso.
Affermerà giustamente lo storico Mauro Canali:
“Ci sembra una coincidenza significativa che l’austriaco, che, nell’ambito
dell’organizzazione del delitto Matteotti, avrà il compito di pedinare il
deputato socialista, venga liberato il 31, all’indomani della clamorosa
denuncia parlamentare del deputato riformista [Matteotti, n.d.r.]”
Se ne poteva dedurre che questo avventuriero, era stato ritenuto utile per
coadiuvare Amerigo Dumini in tutta l'operazione Matteotti, ma forse non solo
per il pedinamento del parlamentare socialista, ma probabilmente perché
interno ad un gioco più ampio che non si riuscirà mai a chiarire.
Comunque sia sembra che nei giorni precedenti il rapimento il Thierschald,
arrivato a Roma il 4 giugno, venne preposto a piantonare casa del parlamentare
del PSU, dove fu anche fermato e identificato. Ma, come già accennato, a questo
punto viene il bello, perché questo strano personaggio, mentre sembra lavorare
per Dumini, cerca anche di mettersi in contatto con Matteotti per avvisarlo del
pericolo che incombe su di lui e cercherà anche di fargli avere un biglietto.
Rimarremo così con il dubbio a chi, effettivamente, faceva capo il Thierschald,
perché è difficile credere che intraprese queste delicate e ambigue iniziative
doppiogiochiste solo di testa sua e per proprio interesse.
Si disse che l'austriaco era stato anche informatore di De Bono, ma resta
comunque difficile stabilire fino a che punto il De Bono possa essere al centro
della vicenda e a conoscenza del crimine, perché i suoi appoggi, i suoi servigi,
prima e dopo il delitto, in mancanza di riscontri, possono essere visti come
operazioni collaterali, favori, preoccupazioni di evitare danni al governo, a sé
stesso e simili, ma non necessariamente legati alla meccanica delittuosa, cioè
come un vero e proprio interesse personale al progetto criminoso.
Se per le ore precedenti il delitto la presenza di Thierschald è inequivocabile, per
le ore che vanno dalle 16 fino alla sera del 10 giugno, cioè i momenti in cui venne
consumato il delitto, la questione è più sfumata.
Fatto sta che vennero rinvenuti sulla strada della Quartarella alcuni
oggetti compromettenti, chiaramente gettati dai sequestratori nella via del
ritorno. Tra questi un panno con il timbro a secco del carcere napoletano di
Poggioreale, ove era stato pochi giorni prima detenuto il Thierschald ed alcune
pagine di un giornale slavo Pravu Lidu che si presume, solo questa spia
cosmopolita poteva leggere.
Quando poi, qualche giorno dopo, sarà arrestato il Thierschald aveva in una
valigia un paio di pantaloni corti ripuliti alla meglio, ma macchiati di sangue.
Un dispaccio della Questura di Milano a quella di Roma del 20 giugno 1924,
specifica che i pantaloni corti sequestrati al Thierschald, arrestato il giorno
precedente, risultano lavati di fresco, strofinati e stropicciati, ma erano rimaste
macchie presumibilmente di sangue. A questo proposito questo straniero si era
fatto prestare un altro paio di pantaloni da un certo Galli Alessandro della CGL
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(esattamente CGdL) di Milano, palesando la sua abitudine a saltellare da un
ambiente, quello fascista, ad un altro, quello sindacale di sinistra.
E' pertanto presumibile che il Thierschald fu almeno presente e
partecipò al sotterramento del cadavere di Matteotti e quindi torna
logico che egli raggiunse i sequestratori sulla Lancia con altra auto.
Nella ricostruzione del delitto, comunque, la presenza di un altra auto passò in
secondo piano tra gli inquirenti e non è quindi possibile dettagliare oggi gli
esatti contorni di questa possibile presenza, ma il suo fantasma, come quello di
Thierschald, pone un grosso punto interrogativo nell'accertamento di una
completa verità, una verità che dovrebbe far emergere non solo gli aspetti
politici della vicenda ed ovviamente quelli affaristici, ma anche le cointeressenze
internazionali (sovietici e rivali nel petrolio).
Nella presentazione del citato libro di Franco Scalzo [anche per questo autore, i
nostri riferimenti sono sempre relativi a detto libro], si legge:
« Questo non sarà l'ultimo dei miei libri intestati al caso Matteotti. E le ragioni
di tale scelta, che potrebbe apparire dettata da una fissazione patologica, sono
molto semplici: ci sono troppi personaggi, avvolti nella penombra, rispetto ai
quali ogni certezza è arbitraria. E poi: due macchine, nei pressi del luogo
dell'agguato, invece di una, come si sapeva finora. Un agente della grande
industria americana che imbastisce trame eversive d'intesa con le Sinistre.
Giochi e doppi giochi, al riparo delle logge massoniche e delle centrali
spionistiche di mezzo mondo.
D'Annunzio e Dumini. Pontieri del PNF e guastatori del PCI.
Bandiere rosse e inappuntabili finanzieri, in un immenso tripudio di
combinazioni 'strane', che però sono tributarie di una logica assai più chiara e
lineare di quella individuata attraverso il filtro deformante dell'antifascismo
codino.
Si può essere sicuri solo di due cose: che Mussolini non c'entrava affatto, e che i
mandanti del delitto sono ancora sopra di noi, refrattari alle vicende
giudiziarie, potenti al punto da essere esonerati dal figurare tra i protagonisti
della Storia. Perché loro muovono i fili. E gli altri vi sono appesi».
In ogni caso, ci sono tante, troppe storie che meriterebbero di essere
attentamente indagate e valutate, ma in mancanza di precise documentazioni è
inutile stare a fare troppe congetture su queste situazioni, e in particolare sui
veri compiti che aveva il Thierschald. Singolare anche il fatto che due elementi
che partecipano al sequestro di Matteotti, il Thierschald appunto e Giuseppe
Viola, erano da poco reduci da un breve soggiorno nelle patrie galere e questo
aggiungendosi a quanto il giornale Epoca il 22 giugno del 1924 ebbe a scrivere:
«Pare accertato in modo sicuro che Giuseppe Viola, oltre ad essere stipendiato
dalla Ceka del Viminale con un mensile modesto, era un agente della Ceka
russa dalla quale avrebbe riscosso cento lire al giorno.
Egli sarebbe dunque un agente dei bolscevichi di Mosca. Questo particolare
messo in relazione con la correità del russo austriaco (il Thierschald, n.d.r.)
arrestato a Milano (...) dà adito a infinite supposizioni...».
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Ed i sovietici ne avevano di motivi per giocare un loro ruolo sporco dietro le
quinte, nonostante che a febbraio del 1924 era andato in porto l'accordo per il
commercio e navigazione fra Italia e URSS con il loro riconoscimento de jure.
Prima di tutto erano impegnatissimi a cercare (finanziando) di ricompattare una
certa unità delle sinistre attorno al PCdl.
Progetto che era fortemente minacciato dagli intenti di Mussolini di aprire ai
socialisti unitari ed ai confederati le porte del governo.
Secondo poi, l'accordo con la Sinclair per il petrolio, di cui parleremo più avanti,
in prospettiva, danneggiava anche i sovietici, che stimavano di perdere la
possibilità di esportare verso l'Italia circa 140.000 tonnellate di petrolio l'anno.
Per certe oscure implicazioni di più cointeressenze alla eliminazione di
Matteotti, mai adeguatamente indagate, è interessante leggere un Telespresso
riservatissimo del 9 luglio 1924 spedito dall'Ufficio di Gabinetto del Ministero
Affari Esteri al Ministero degli Interni dove si parla della nostra Legazione di
Montevideo in Uruguay che segnala un comunista ivi arrivato e implicato
nell'assassinio di Matteotti e di cui un confidente della Legazione avrebbe
riferito che questo comunista asserì che il cadavere di Matteotti si troverebbe
sotterrato nei pressi del Villaggio "La Storta" vicino la strada ferrata Roma Viterbo. La fossa sarebbe stata scavata con strumenti cantoniere ferroviario ivi
trovati. Un quadro un pò impreciso, ma sostanzialmente esatto.
A nessuno ha fatto mai comodo togliere il coperchio a questa pentola: nè il
regime fascista, di cui alcuni suoi esponenti, in qualche modo, hanno usufruito
benefici da questi traffici e strani servigi, né le opposizioni social comuniste che
probabilmente non sono del tutto estranee a innominati intrecci tra loro, i
fascisti "revisionisti" che si scontrano con i Ras, e ambienti sovietici, e neppure
alle intelligence straniere, in particolare inglesi e francesi, le quali ora hanno
tutto l'interesse a tenere celate certe operazioni svolte sul nostro territorio.
E così al processo per il delitto Matteotti di Chieti del 1926, mentre il
Thierschald ne verrà tirato subito fuori, per il Viola questo aspetto di collusione
con i sovietici sarà appena sfiorato. Nessuno spiegherà mai un grossa
contraddizione nell’Istruttoria tra un ruolo di rilievo nella meccanica del delitto
Matteotti, assegnato al Thierschald
dal Procuratore Generale e il suo
proscioglimento da ogni addebito al termie dell’istruttoria.
Se, e rimarchiamo se, il ruolo di Thierschald è connesso alla “misteriosa”
presenza, il 10 giugno 1924 sul luogo del rapimento di Matteotti di una seconda
automobile si potrebbe delineare anche un mezzo intrigo internazionale.
Da dove veniva e chi era esattamente il Thierschald? A chi faceva capo? Perché
nel processo istruttorio esce fuori dalle responsabilità nel delitto e dal processo?
A nostro avviso tutta l’implicazione sovietico – spionistica di questo
Thierschald nel delitto Matteotti, non può essere ridotta, come fa lo storico
Canali, ad un diversivo della stampa fascista per stornare i sospetti dalle
responsabilità dei fascisti. Probabilmente il ruolo dei sovietici venne esagerato,
ma in quello che si configura anche come un “intrigo internazionale” non può
essere neppure misconosciuto. Scrive Franco Scalzo, nel suo libro citato:
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“Ora, se si pensa che la ‘conversione’ di Bombacci avviene più o meno nel
medesimo frangente in cui Farinacci dichiara in un’intervista al ‘Giornale
d’Italia’ di essere certo del coinvolgimento della cricca di Rossi e dei comunisti
nel delitto Matteotti e che tutta l’operazione è stata pianificata per provocare
la deriva traumatica del fascismo, sarebbe interessante stabilire se fossero
state le parole del ras di Cremona (Farinacci, N.d.R.) a folgorare Bombacci, o
– che è cosa più facile – se fosse stato quest’ultimo a dargli la conferma del
fatto che Thierschald e Viola erano stati manovrati dai ‘servizi’ dell’Unione
Sovietica, prima di concordare con lui i tempi e le procedure per un eventuale
trasloco nel PNF. (…) I sensori piazzati nei punti giusti della nostra
‘intelligence’ danno, dunque, per imminente l’inizio di una simbiosi di carattere
politico e operativo fra Rikoff e Dzerzjnski, che è il capo dei servizi segreti
sovietici, ma, forse, alla data in cui vengono redatti tali appunti, il fenomeno si
è già adempiuto. Fa un certo effetto, comunque, rilevare che l’arresto di Ivan
Kravinapolskj cade in un lasso di tempo di poco posteriore al ritorno in patria
di Rikoff, e non ho difficoltà a dichiarare che i due eventi possono essersi legati
l’uno all’altro così strettamente da sottrarsi alle interferenze del caso” (…).
“Una delle sue geniali mistificazioni a doppia e a tripla mandata. (…..) Il
dettaglio della seconda macchina è uno dei tanti che passa inosservato nella
ricostruzione del 10 giugno: le autorità inquirenti lo rimuovono, gli studiosi
disattenti (…) lo ignorano. Eppure, prendere atto della presenza di altre due
persone accanto a quelle che vengono citate per aver materialmente eseguito
la soppressione di Matteotti, significa, in una vicenda giudiziaria che abbia
riguardi per l’ortodossia procedurale e, più ancora, per l’accertamento
metodico dei fatti, che si pone ai magistrati l’obbligo di buttare giù e
ricominciare letteralmente daccapo. Ma questo non è successo.
Perché? La risposta è che l’ammissione della sussistenza di tale particolare
avrebbe scatenato una bufera di interrogativi e reso impossibile f(….) lo
scagionamento di Otto Thierschald dall’accusa di avere assolto un ruolo
importante, decisivo, nell’economia del complotto; avrebbe reso estremamente
problematico il compito che il regime si era assegnato, di chiudere l’affare
Matteotti nell’ambito del ‘made in Italy’, cancellando le tracce che potessero, in
qualche modo, suffragare il sospetto di un’implicazione straniera; e avrebbe
creato, intorno alla fragile compagine governativa retta da Mussolini molte
più turbolenze di quante essa ne avrebbe subite, come poi avvenne, attirando
su di sé il biasimo dell’opinione pubblica mondiale”.
Un fatto è certo: la figura sbiadita di Thierschald sfuma, come se dietro ci
fossero segreti e interessi di Stato e rapporti internazionali da proteggere, ma
comunque la si voglia mettere resta il fatto che una spia, un
avventuriero legato anche al servizio segreto sovietico subentra nelle
fasi di fuga del rapimento di Giacomo Matteotti.
Cosa significa questo, che i sovietici sono implicati nell’Affaire? Non
necessariamente, ma il caso Matteotti è molto più complesso di quanto sembra.
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Le indagini e gli sviluppi del caso
Le indagini spettano al questore Cesare Bertini (questore dal 1920 e
prefetto dal 1923) ed egli, seppur un pò fanfarone, le attiverà a tutto campo per
arrivare agli autori del misfatto, potendo ben presto contare sul numero di targa
dell'auto usata dai rapitori.
Per le cronache e da quel che si conosce, la sera del delitto Cesare Rossi era a
cena a Frascati con Carlo Bazzi, il maneggione direttore del “Nuovo Paese” e il
giorno dopo, mercoledì 11 giugno al mattino, come di prassi, aveva incontrato
Mussolini, da cui si recò poi anche la sera.
Finzi, invece era lontano da Roma dal 7 giugno, ed era rientrato mercoledì 11 dal
suo viaggio nel Polesine di cui alcuni hanno visto uno specie di alibi, in quanto
sospettano che egli era al corrente del misfatto imminente.
12 giugno giovedì
Alcuni testimoni, rintracciati già il 12 giugno e che si erano trovati sul
Lungotevere Arnaldo da Brescia, chi alcuni metri più avanti e chi altrettanti più
dietro della macchina dei sequestratori e chi dalle finestre delle palazzine
adiacenti, consentirono di ricostruire la meccanica del rapimento.
I primi testimoni del rapimento, due impiegati, Adelchi Frattaroli e Eliseo De
Leo, dichiararono che dopo aver fatto il bagno nel Tevere stavano risalendo la
scalinata; giunti sulla strada assistettero alle fasi dell'evento delittuoso che si
svolgeva poco più avanti di loro: quattro giovani vestiti di chiaro avevano preso
per la testa e per i piedi un altro individuo vestito di chiaro che gridava aiuto.
Questi venne buttato nell'automobile li vicino, dopo che uno seduto sul
predellino gli ebbe dato un paio di pugni nello stomaco.
Quindi l'auto partì a tutta velocità verso Ponte Mollo (Ponte Milvio).
Il De Leo disse anche di aver visto una parte della targa che ricordava con i
numeri 55.107 seguiti da altri due numeri.
Dalla parte più avanti della strada di Lungotevere, cioè all'opposto di dove si
trovavano i due impiegati, due bambini, Amilcare Mascagna di 11 anni e Renato
Barzotti di 10, racconteranno alla polizia, il giorno successivo, il 13 giugno, di
aver assistito all'evento che descrissero più o meno con le stesse modalità.
Da una finestra, invece, anche un altro impiegato, sembra un avvocato, tale
Giovanni Cavanna, attirato dal suono del clacson dell'auto che suonò in quei
momenti, potè vedere molte fasi del rapimento:
«Martedì 10 giugno, nel pomeriggio, e precisamente attorno alle 16,30, io ero
nel mio studio la cui finestra dà sulla via Antonio Scialoja.
All'improvviso la mia attenzione fu attirata dall'insistente suono di sirena di
automobile.
Mi affacciai alla finestra e vidi un automobile nera, elegante, chiusa con al
volante uno chauffeur in borghese col cappello floscio nero... vidi cinque
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uomini che sorreggevano orizzontalmente un individuo mezzo scamiciato che
mi parve fosse vestito di grigio e che tentava di svincolarsi gridando aiuto.
L'automobile si avvicinò a loro e l'individuo fu caricato su la macchina, dopo
che uno dei cinque individui, alto e vestito di scuro, gli aveva dato uno spintone
sul petto. La scena si svolse rapida e fulminea tanto che io, affrettatomi a
scendere, arrivai sulla strada che l'automobile era già scomparsa».
Il Cavanna indicò anche la presenza in strada dei due ragazzini, uno da lui
conosciuto, che come abbiamo visto furono poi rintracciati ed anche quella di un
netturbino tale Giovarmi Pucci, che confermò lo steso scenario.
Un pò da tutti questi testi venne anche l'indicazione che la macchina era scura e
chiusa, e sembra che i due ragazzini indicarono anche che fosse una Lancia.
E' probabile che Matteotti riuscì a gettare fuori dal finestrino la tessera da
parlamentare. Due contadini che passavano con il loro carrettino sul
Lungotevere Flaminio, pochi minuti dopo il rapimento, trovarono e raccolsero il
suo tesserino rosso da deputato.
La testimonianza che però risultò decisiva venne per ultima e fu quella di una
coppia di portieri di un palazzo di via Mancini, via che fa angolo con
Lungotevere Arnaldo da Brescia ed incrocia anche via Pisanelli dove abitava
Matteotti. La portinaia, tale Ester Erasmi, la sera prima del sequestro,
insospettita dalle manovre di una macchina scura e di tre individui che facevano
avanti e indietro, avvertì il marito Domenico Villarini il quale riscontrando il
fatto si annotò il numero di targa: Roma 55-12169 su di un calendario a muro.
[Anche questo è un particolare che lascia perplessi: gli uomini che
stanno accingendosi a compiere il rapimento, gironzolano, la sera
precedente, con tanto di macchina che poi impiegheranno nel crimine
sotto casa della vittima. Non si puo’ dire che si sentivano pienamente
sicuri e protetti perché poi quando sapranno che la targa era nota alla
polizia, scapperanno tutti in fretta e furia. Alcuni lo hanno messo in
relazione alla fretta di rapire Matteotti, prima del suo discorso alla
Camera, ma resta ugualmente incomprensibile]
Questa importante testimonianza non solo farà in poco tempo rintracciare
l’auto, ma in seguito sarà anche una pietra tombale per le dichiarazioni di
Dumini che affermerà che quel giorno fu quasi per caso o per far vedere agli altri
dove abitava Matteotti, che si erano imbattuti nel parlamentare, quando invece
in realtà, erano sulle sue tracce da giorni.
Il pomeriggio del 12, alle cinque la Questura, che da poco già aveva l’indicazione
del numero di targa, trasmette una nota al Procuratore del Re dove riporta che il
pomeriggio del 10 giugno alle 16,10, in lungotevere Arnaldo da Brescia, cinque
persone avevano sollevato e caricato a forza in auto un individuo che si
divincolava e chiedeva aiuto.
Si presumeva che potesse trattarsi del deputato Matteotti.
In men che non si dica comunque la polizia aveva già i primi elementi, tanto che
Mussolini nel tardo pomeriggio del 12 si presentò a Montecitorio e dopo aver
affermato che l'onorevole Matteotti: «scomparso improvvisamente nel
pomeriggio di martedì scorso in circostanze di tempo e di luogo non ancora
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ben precisate, ma comunque tali da legittimare l'ipotesi di un delitto, che se
compiuto non potrebbe non suscitare lo sdegno e la commozione del Governo e
del Parlamento», comunicò alla camera che, a seguito delle indagini subito
attivate, si era già sulle tracce dei responsabili del delitto.
Si arrivò quindi al garage Trevi, in via dei Crociferi, dove la mattina di lunedì 9
la Lancia era stata data a Dumini (l'aveva richiesta per una scampagnata con
amici) con il consenso di Filippo Filippelli che precedentemente l'aveva
noleggiata. Non era però stata riportata. Anche il Tomassini, proprietario del
garage, venne momentaneamente arrestato.
Alle 22, di giovedì 12, l'auto sarà sequestrata dalla PS nella carrozzeria "Tattini &
Maraga" in via Flaminia dove era stata portata, da un autista, adducendo di fare
delle riparazioni. Era infangata nella parte bassa, con il vetro anteriore sinistro
spaccato e quello posteriore infranto, mentre la tappezzeria interna risultava
alquanto lacera, strappata e nei sedili di dietro vi erano macchie che
sembravano proprio di sangue. Di sicuro aveva camminato molto e dentro
probabilmente c’era stata una specie di colluttazione.
Il serbatoio portava ancora la metà dei cento litri, che costituiscono il pieno
della macchina con il quale era stata prelevata.
1o giugno notte - 11 giugno mercoledì
Si ricostruì in seguito che i sequestratori erano tornati la sera tardi a Roma
e Dumini aveva parcheggiato la macchina nel cortile del Viminale, dove venne
notata, impolverata, dopo le 22,30 circa. Poi si era diretto verso l'hotel Dragoni.
Non è molto rilevante, ma il fatto che il Dumini, sentendosi più che sicuro, abbia
lasciato l’auto Lancia fattagli prendere dal Filippelli, la sera prima del delitto
nel cortile di palazzo Chigi e dopo il delitto, per giunta sporca e con un vetro
rotto, nel cortile del Viminale, fa sospettare che Mussolini non doveva saperne
niente, altrimenti difficilmente avrebbe approvato questi gesti compromettenti.
Il Dumini si era poi recato dalle parti di Fontana di Trevi, in piazza Poli, alla
sede del Corriere Italiano, dove fu notato da diversi testimoni, intorno alle
23,30. Qui aveva parlato con Filippelli, arrivato sembra intorno a mezzanotte,
dettagliandolo, quindi un redattore del giornale, Nello Quilici, testimonierà che
lui, dietro insistenze, aveva concesso di far depositare la Lancia in un suo garage
nella lontana ''Città Giardino " a Montesacro (Roma), dove resterà fino al 12.
Nel frattempo, infatti, Dumini aveva mandato al Viminale Panzeri e Putato a
recuperare l’auto Lancia. Si noti che invece, secondo il suo mendace “testamento
americano”, a quest’ora il Dumini scrisse che si era recato a casa di Marinelli e
poi a palazzo Chigi. Un balletto di bugie per ogni uso.
Quella notte, alle 2 circa, oramai di mercoledì 11 giugno, quando il Quilici aveva
terminato il lavoro, nel portare la macchina a Montesacro con il Dumini,
sembra che c'erano il Putato, Panzeri e lo stesso Quilici.
In seguito il Putato rivelò che il Panzeri gli disse che “di preciso non sapeva cosa
era accaduto”, ma che Poveromo gli aveva detto che avevano rapito Matteotti, lo
avevano ammazzato e poi sotterrato dopo aver a lungo girato per la campagna.
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La mattina di mercoledì 11 Filippo Filippelli si incontrò con Cesare Rossi il
quale poi dovette ammettere che già sapeva tutto. Anni dopo, infatti, fuoriuscito
in Francia, il Rossi disse che il suo informatore era stato Benedetto Fasciolo il
segretario stenografo di Mussolini che gli aveva raccontato del misfatto dopo
che lui tornava dall’incontro con il Capo del governo. Rossi in un suo memoriale
per lo storico Gaetano Salvemini, che gli chiedeva spiegazioni, scrisse poi che
non informò Mussolini, in quanto la notizia gli aveva procurato una totale
abulia paralizzante fino al giorno dopo e si sentiva anche spregiudicato agli
occhi di Mussolini temendo che questi se la prendesse con lui.
[A parte la credibilità di tutti questi racconti, riportati anche dallo
storico Canali, ma a supporto della sua tesi di un Mussolini mandante,
complici i Rossi e i Marinelli, il contenuto di questa rivelazione,
invece, pone forti dubbi a una tesi accusatoria verso Mussolini visto
che la prima cosa che avrebbe dovuto fare il Rossi, il mattino dell’11,
quale complice, era proprio quella di parlarne con Mussolini]
De Bono raccontò di aver avuto la prima notizia della perdurante assenza di
Matteotti, alle ore 19 di mercoledì 11, e gliela diede Giacomo Acerbo; ci sono
però dei dubbi visto che Filippelli prima disse e poi ritrattò, che lo aveva
informato fin dalla mattina. Ritenere che qualcuno mente, è poco, ma sicuro.
Insomma, il Canali dopo aver indicato che De Bono, Finzi, Filippelli e Rossi, pur
essendo al corrente dell’identità degli assassini, fino al primo pomeriggio del
giorno dopo, giovedì, non sembrano preoccupati, aggiungendoci poi, come lui
stesso asserisce, che il Marinelli, Rossi e il Fasciolo, erano direttamente
implicati in tutta la faccenda delittuosa (vedi nota 13), finisce per disegnare un
quadro dove tutti questi manigoldi o perché l’hanno organizzata o perché ne
sono coinvolti o ne sono comunque informati, sebbene molti di loro, hanno
tutto da perdere, farebbero parte, sia pure a titoli diversi, del quadro delittuoso.
Ora che alcuni di loro ne siano direttamente coinvolti, come Marinelli, e in vari
ambiti forse qualcun altro, è possibile, ma tutti insieme lo riteniamo assurdo e
poco credibile, perchè il quadro d’insieme di questo delitto è molto più
complesso e si gioca quasi a compartimenti stagno in diversi ambiti.
Alle ore 13 di quel mercoledì 11 il Filippelli andò a pranzo con un paio di
finanziatori del giornale e Filippo Naldi (già direttore di testate, un pezzo da 90,
finanziatore di varie iniziative, tramite di grossi ambienti finanziari e non
estraneo alla massoneria. Oltretutto è intimo sia di Filippelli che del Nello
Quilici) e altrettanto il Filippelli con il Naldi ci riandrà la sera e quindi, dopo le
22, venne visto andare con la sua auto Ansaldo, con il Dumini da qualche parte.
Come giustamente nota Mauro Canali, questi particolari smentiscono il
sentimento di orrore che il Filippelli disse di aver provato verso il Dumini (del
resto smentito dalla testimonianza del Quilici) dopo aver ascoltato della morte
di Matteotti, la notte del 10 giugno.
Il pomeriggio dell’11, Putato, Thierschald, Poveromo e Panzeri, partirono per
Milano, cambiando i treni per non lasciare tracce. Un artificio per confondere i
loro spostamenti che non imitarono Viola, Volpi e Malacria, partiti direttamente
per Milano il giovedì 12 alle 14. Comunque servirà a poco, perchè in pochi giorni
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verranno tutti arrestati tranne Panzeri e Malacria che riusciranno a fuggire in
Francia (Malacria verrà poi estradato).
Il Dumini invece tra le 18 e le 19 di quel mercoledì 11, è nella Tribuna della
Camera, dove spesso si recava, a seguire calmo e tranquillo un intervento
dell’on. Baldesi. Qualcuno notò che ogni tanto si puliva le scarpe impolverate.
12 giugno giovedì
Il 12 mattina, giovedì, il Dumini si recò, accompagnato in auto da Giovanni
Marinelli e da Cesare Rossi, al Palazzo di Giustizia per firmare un atto di
remissione di una vecchia querela, evidentemente doveva sentirsi tranquillo e
sicuro.
Prime ore pomeridiane: scatta l’allarme
Il Dumini,, intorno alle 15, accompagnato da Filippelli torna al garage del Quilici
a Città Giardino, dove sembra si diede da fare nell’interno dell’automobile
(l’auto, come detto, venne poi fatta portare in una autorimessa di via Flaminia,
per riparazioni, e lì venne recuperata alle 22 dalla polizia).
Nel frattempo la notizia che era nota la targa dell’auto usata per il rapimento,
filtrata dalla polizia, divenne anche nota a vari personaggi, per esempio Cesare
Rossi, nelle prime ore (forse tra le 12,30 e le 14,00) del pomeriggio di
giovedì 12, e a quel punto autori e comprimari del misfatto potevano essere
certi che si sarebbe scoperto tutto e rintracciato i responsabili.
E’ probabile che il viaggio delle 15 di Filippelli e Dumini, al garage di Quilici a
città Giardino, sia in relazione alla necessità, divenuta ora urgente, di
recuperare l’auto, di cui la polizia conosce il numero di targa.
Quel pomeriggio di giovedì Rossi andò da Mussolini, e sembra che poi il
Filippelli sia andato da Rossi al Viminale ove ebbe un colloquio drammatico, gli
gridò: “mi avete rovinato”.
[Purtroppo sulla base di queste notizie non è possibile ricavarne un
quadro attendibile per individuare colpevoli o comprimari e innocenti.
Intanto, sono tutte notizie ricavate da testimonianze, interrogatori e
memoriali, spesso bugiardi o alterati o smentiti da altri, e poi traspare
evidente che qui molti personaggi si ritrovarono incastrati gli uni dagli
altri, in un vortice incredibile. Ognuno infatti aveva agito in un suo
ambito, magari “credendo che…”, o con scopi tra loro diversi; altri
erano in buona parte all’oscuro del delitto, tranne i veri ideatori]
12 giugno giovedì notte
La notte di giovedì 12, con la nave che minaccia di affondare, ci fu un
importante incontro al Viminale, tra tutti questi “uomini” di Mussolini. Non è
chiaro se l’incontro venne sollecitato da Rossi o da De Bono. Evidente lo scopo
di tutti nello stabilire il “che fare”. Lo storico Canali presuppone che questo
incontro lo aveva sollecitato Rossi evidentemente dietro richiesta di Mussolini.
Ma comunque questo particolare non cambia le cose.
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Si dice anche che fu il Rossi, dopo una riunione notturna, informale, dei membri
del Gran Consiglio del Fascismo, a volere l'incontro, in quanto Aldo Finzi lo
avrebbe messo in guardia circa le iniziative del De Bono che potrebbe "partire in
quarta" e passare su tutti loro.
L'incontro, avviene al Viminale e sono anche presenti Giovanni Marinelli e Aldo
Finzi. Sembra che emergono differenze di vedute e soprattutto Rossi e Marinelli
spingerebbero per liberare in qualche modo gli arrestati (“potrebbero dire di
essere stati incaricati da Mussolini”, sembra che dica il Rossi), ma De Bono fa
presente che oramai non è più possibile.
Tutti costoro, probabilmente, fanno notare al De Bono che lui è impelagato
quanto loro, visto che conosceva benissimo le attività del Dumini, avendogli
oltretutto fornito i passaporti falsi, ma fanno anche capire al generale che se
scoppia lo scandalo anche Mussolini ne verrebbe incriminato.
Rossi aggiungerebbe che potrebbe venir fuori che è stato Mussolini ad
ordinarlo. Non si capisce se il Rossi ci fa o c'è, ovvero se è complice, e magari
non era d'accordo e quindi è rimasto spiazzato o che altro e neppure si può del
tutto escludere che qualcuno di loro è “complice” di chi aveva ordito il misfatto
anche nell’ottica di defenestrare Mussolini, sebbene ne andrebbe di mezzo
anche la sua testa, ma qui entriamo nella dietrologia e quindi sorvoliamo.
E’ chiaro che tutti vorrebbero salvare il salvabile, depistare, sembra che già si
prospetti di mettere la faccenda come una specie di faida tra fascisti e
antifascisti, facendo risaltare che il Matteotti veniva ritenuto responsabile
dell’omicidio a Parigi di Bonservizi, è anche chiaro però che tutti vorrebbero
salvarsi costringendo il Duce a insabbiare e coprirli e invece il Duce reagirà
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prendendo le distanze da tutti costoro.
In ogni caso sembra che De Bono si precipiti a riferire per telefono a Mussolini
quello che i suoi uomini Rossi, Finzi, Marinelli, avrebbero detto, ovvero che
minacciavano di volergli gettare addosso le responsabilità.
Mussolini indignato sembra che dica: «Vigliacchi, cosa credono, di poter
intentare un ricatto?!». In ogni caso incarica De Bono di procedere senza
indugio nelle indagini.
Disposizioni in questo senso, infatti, verranno date alla polizia che in poche ore
porteranno all'arresto di tutti i componenti della Ceka.
Successivamente Mussolini passerà all’offensiva imponendo le dimissioni dei
vari Rossi, Finzi, ecc., soprattutto quelli con incarichi di governo.
[Da questo incontro notturno si possono dedurre alcune cose. Intanto
il fatto che tutti costoro preso atto che Dumini è stato arrestato,
innocenti o colpevoli che sono, saranno chiamati a renderne conto
visto che erano attigui a Dumini. Ecco che allora vorrebbero essere
“coperti“ da Mussolini, che si addossasse lui le responsabilità
mettendola sul piano di una “guerra” tra fascismo e antifascismo. Un
vero e proprio ricatto. Consideriamo che l’entourage di quella che è
stata definita la “banda del Viminale”, i manovratori di Dumini & Co.,
cioè i Rossi, Marinelli, Finzi, De Bono, erano i più stretti collaboratori
di Mussolini e se questi avesse ordinato il rapimento di Matteotti,
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alcuni di costoro avrebbero dovuto esserne bene al corrente, se non
averlo concertato insieme al Duce, e quindi non avevano necessità di
esercitare questo genere di pressioni per salvarsi. Ed invece
Mussolini non ebbe remore a scaricarli. Rossi e Finzi, vennero fatti
dimettere, De Bono dovette lasciare le sue alte cariche e Marinelli finì
in galera. Con chi aveva organizzato questo delitto, Mussolini?]
Ci si è domandati perché Mussolini mette al rogo anche il Finzi. Il Rossi, tutto
sommato, era attiguo a Dumini, ma Finzi molto meno. In questo si è voluto
vedere un diversivo di Mussolini per deviare sul Finzi, che era dello stesso
collegio elettorale nel Polesine, di Matteotti, certi sospetti e la pressione
dell’opinione pubblica. .
Ma a parte le necessità tattiche di quei momenti e il fatto che Finzi era
“chiacchierato”, per i suoi traffici, Mussolini si era perfettamente reso conto che
dietro il delitto Matteotti c’era anche un progetto per defenestrarlo, e questo
progetto doveva risalire a quei “poteri forti”, come l’Alta banca, con i quali era
venuto in collisione. E il Finzi, impelagato con traffici finanziari, petroliferi, e
sul gioco d’azzardo, volente o nolente, era intimo con quei poteri.
E’ oramai evidente che, Dumini a parte, sarà proprio il Filippelli a trovarsi in
guai seri. L’auto del rapimento risulterà da lui noleggiata e da questo non potrà
scappare, verrà ritrovata la sera alle 22 in una carrozzeria di via Flaminia che lui
usa per riparazioni. Ma quello che di lì a meno di un paio di giorno, lo
inchioderà definitivamente sarà la circostanziata deposizione del suo redattore
capo, Nello Quilici, il quale per non essere incriminato, rivelerà tutti i particolari
della notte del 10 quando Dumini venne al giornale a raccontare i fatti.
Inizierà così il valzer delle chiamate di correità, perchè il Filipelli chiamerà in
causa Dumini e Cesare Rossi e quella dei “memoriali”, perché ognuno vorrà
premunirsi con il suo bel memorialetto.
Il vero ruolo del Filippelli, resterà indefinito, ma non poteva essere di certo
quello di un semplice “intermediario” nella vicenda. Il Filippelli portava sia a
Aldo Finzi che al Pippo Naldi, ma non solo perché il Naldi gli fornirà il
passaporto per fuggire, e questo suggerisce che il Naldi aveva avuto un suo
ruolo nella vicenda, un ruolo di più ampia e defilata portata, e Naldi significava
poteri forti, significava Banca Commerciale, alta massoneria.
Ma siamo andati troppo avanti, vediamo la tragicomica fine del capo della
masnada, il Dumini, che uscito da casa sua in via Cavour, bagagli alla mano,
prende una botticella e va verso il centro della città per recarsi poi a sera alla
stazione termini dove sarà arrestato.
L’arresto di Dumini, metterà sulla graticola Emilio De Bono, il capo della
polizia, che gli era stato sodale e lo costringerà a tutta una serie di
contorsionismi per dover portare avanti le indagini, senza tentennamenti, ma
allo stesso tempo cercare di proteggere se stesso e il regime. Compito di certo
non facile. Ma anche per il De Bono il vero ruolo in tutta questa criminosa
vicenda resterà in parte imperscrutabile, perché c’è il sospetto che fu proprio
lui, il De Bono, a informare personaggi interessati che il Matteotti aveva certe
prove di certi scandali, e costoro procedettero nell’impresa. E questi personaggi,
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si sospetta che siano stati degli emissari di Casa Savoia. E’ questa l’ipotesi di
Matteo, il figlio di Matteotti, ma più di sospetti però non se ne hanno.
Quella convulsa notte del 12 giugno si concluse con una telefonata, registrata e
trascritta dal servizio Informazioni del Ministero degli Interni, tra di due fratelli
Mussolini, quelli che per lo storico Mauro Canali, sarebbero i responsabili primi
e i mandanti dell’omicidio Matteotti. Sentiamo cosa si dicono.
«Benito: Hai visto la stampa?
Arnaldo: Qualche cosa.
B.: Tutti si scagliano contro di me. E mi rendono responsabile di ciò che è
avvenuto. Sperando che vada via. Ma io resto al mio posto dovesse cascare il
mondo.
A.: L’importante è conservare la calma. Se tu riesci a mantenere la serenità
vedrai che tutto sarà ricondotto nei giusti limiti e la verità finirà per trionfare.
B.: E’ vero che Matteotti mi aveva piantato non poche grane, ma non è meno
vero che essendo il migliore uomo di quella masnada e soprattutto il più
coerente e sincero, per quanto impulsivo, ho sempre avuto per lui quasi una
ammirazione Sono rimasto veramente addolorato per ciò che è accaduto.
A.: Ti ho sempre detto di guardarti dalle persone che ti circondano!
B.: Purtroppo credo che tu abbia, in un certo senso, ragione. la cosa più grave
è la defezione nelle nostre file.
A: Anche qui le tessere restituite sono moltissime, ma ciò non vuol dire.
Quest’episodio, rappresenta per te la prova suprema. Chi ha creduto nell’ideale
e in te, e non sono pochi, invoca ed ha il diritto di aspettare la tua fermezza.
B.: E’ difficile prevedere gli sviluppi futuri, e i possibili svolgimenti.
A.: Quali che siano, tu l’affronterai e li supererai se la tua coscienza è pura!
B.: Le opposizioni traggono profitto dalla sobillazione delle masse da parte
della stampa asservita: si vuol fare di me una cosa diversa dal regime. Per il
momento hanno un successo scandalistico, ma finirà! »
[“Potevano almeno pisciare sulla targa”.
Nella denigrazione di Mussolini con l’intento, mal riuscito di attestarlo
quale mandate dell’omicidio, è stata fatta girare anche la storia di un
Mussolini che venuto a sapere che i rapitori erano stati identificati
grazie al numero della targa., ebbe a sbottare: “Bastava che ci
pisciassero sopra per nasconderla”.
A nostro avviso si tratta di una delle tante invenzioni uscite fuori dai
soliti “memoriali” o testimonianze d’accatto. Ma anche qui è bene
precisare che seppure fosse veritiera, a parte il cinismo che la
caratterizza, questa esternazione non dimostra affatto la
responsabilità di Mussolini, ma tutto al più l’affermazione di un uomo
infuriato, a cui personaggi che sono al suo entourage riconducibili
(Dumini & Co), nella realizzazione del loro crimine, da chi sia
commissionato, che ha inguaiato seriamente il regime, sono stati,
oltretutto talmente deficienti, a non aver provveduto ad occultare il
numero della targa. Tutto qui]
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I primi arresti e le prime dimissioni
12 giugno giovedì notte
Quel giovedì 12 giugno, verso le 23, viene
arrestato alla stazione Termini di Roma proprio
Amerigo Dumini (foto a lato) che stava per
imbarcarsi sul treno, sembra quello diretto a
Milano delle 23,45. Ha con se una pistola carica,
una macchina da scrivere portatile (particolare
che lascia a pensare), una valigia ed una borsa.
Entro un ora circa arrivano due membri della
Milizia fascista, Vincenzo Sacco capo di stato
maggiore della MVSN e Augusto Agostini che
porta le stellette da generale.
Parlano con il Dumini per un quarto d'ora e
sembra che questi chieda espressamente di
vedere il generale Emilio De Bono.
All'una di notte, infatti, il De Bono arriverà all'ufficio di polizia di Roma
Termini.
Voci dicono che il giorno precedente il Dumini lo aveva incontrato al Viminale e
gli aveva consegnato alcuni oggetti, dicesi la giacca di Matteotti, altri dicono
anche la borsa di Matteotti, ma sono tutte voci. Più che una voce, invece, è una
registrazione telefonica di una conversazione tra il De Bono con il questore di
Roma, Bertini, dalla quale si evince che il De Bono prese “qualcosa” (forse dei
documenti che poi Pavolini gli requisì nel 1943 e consegnò a Mussolini, che
molti hanno però messo in dubbio?).
Quella notte Dumini e il De Bono parlano per circa cinque minuti e in seguito il
Dumini, a questo proposito, sarà reticente e contraddittorio.
Il 23 luglio 1924 metterà a verbale al giudice istruttore Del Giudice, che il De
Bono quella notte gli disse: «Se ella sa qualche cosa, neghi, neghi, neghi. Io
voglio salvare il Fascismo». Poi invece, in seguito, cambiò versione, tacque sul
resto e consentì a De Bono di essere assolto dall'Alta Corte del Senato.
E' comunque molto probabile che il Dumini intese fare pressioni sul De Bono,
affinché in qualche modo lo traessero da quella situazione.
Nel frattempo arrivano all'ufficio di polizia anche i bagagli del Dumini, sembra
su iniziativa di Vincenzo Sacco, ma in seguito alle proteste del commissario di
Termini Michele lanfanti, vengono fatti riportare dal De Bono stesso al
commissariato. Quando vengono aperti si trovano effetti personali, pallottole
per rivoltella e alcuni biglietti di cui uno firmato da Kurt Suckert (Curzio
Malaparte) il quale chiedeva a Dumini dove fosse finito. In un altra borsa di
cuoio si trovano altri effetti, una copia dell’Avanti!, un paio di pezze di stoffa
grigia per automobile, un pezzo di tappetino da auto tagliato e macchiato di
sangue, un paio di pantaloni grigi tutti tagliati, sporchi di erba e forse di sangue.
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[Altra perplessità: Dumini era un uomo accorto e intelligente, sembra
che tempo prima aveva girato al padre degli effetti post datati da
incassare forse, chissà, perché poteva prevedere di fuggire all’estero
o finire in galera. Ebbene adesso, quasi preso dal panico, fugge
goffamente e si fa prendere come un principiante, eppure avrebbe
dovuto godere di alte protezioni o no?]
Allo stesso tempo per gli altri "amici" della Ceka, fuggiti verso Milano, erano
stati spiccati dei mandati di cattura.
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C'è da dire che nonostante l'operato di De Bono, direttore generale di PS, nei
giorni precedenti il rapimento non fosse stato proprio limpido e altrettanto poco
limpido lo sarà nelle ore successive, questi in ogni caso si diede subito da fare
nell'attivare le indagini nelle direzioni giuste, come indicatogli da Mussolini, o
comunque non le intralciò, pur cercando, in qualche modo, di incanalarle verso
una conclusione non pericolosa per il fascismo ed il governo ed ovviamente lui
stesso.
Un atteggiamento questo di chi vuol impedire che il coperchio della pentola in
ebollizione salti per aria, ma non di chi ha direttamente organizzato il delitto.
E’ pur vero che se vennero date delle direttive per arrestare i responsabili, allo
stesso tempo, essendo ben consci che ''quei responsabili" erano personaggi
frequentatori del Viminale e non estranei al PNF, si cercò in "qualche modo" di
proteggere il partito, il governo e Mussolini (del resto estraneo al delitto).
Così come, al processo che si terrà a Chieti nel 1926, tutta la vicenda verrà
addomesticata verso un dibattimento ed un esito che non potesse dare fastidi al
Regime fascista. Per l’occasione Roberto Farinacci assumerà la difesa degli
imputati e trasformò l’udienza in un processo politico all’antifascismo.
Ne fece così le spese la verità e se ne avvantaggiarono gli imputati, tra l'altro
identificati nei soli manovali del crimine, che ebbero pene moderate.
Sono fatti questi, certamente non edificanti, che non dovrebbero accadere, ma
che fanno parte delle vicende storiche e dei rapporti di forza che, in certe
epoche, si instaurano tra il potere, le forze politiche, e tutto il resto della società.
Considerando quindi il comportamento del De Bono, è chiaro che le sue furono
delle manipolazioni senz'altro gravi, ma che non attestano necessariamente una
sua partecipazione al delitto perché crediamo che, in questo caso, ancor più
fraudolentemente avrebbe agito il generale per insabbiare le indagini.
13 giugno venerdì
Nel frattempo però Mussolini è nella bufera. Il 13 giugno pomeriggio,
parlando alla Camera, annuncia che il governo è deciso a ''puntare i piedi”.
Ma tra il dire e il fare c'è un abisso. Il prestigio del Duce era rimasto seriamente
incrinato da questo sequestro che aveva scosso l'opinione pubblica e nella stessa
maggioranza di governo si era prodotto un forte sbandamento (lo ammetterà lo
stesso Mussolini il 7 agosto al Consiglio nazionale del PNF).
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"I morti si scontano", disse in quei momenti Antonio Salandra, ma anche nel
partito e nella MVSN si registrarono sbandamenti, tanto che in molte città le
mobilitazioni della Legione fecero registrare un altissimo numero di "assenti".
Facciamo un passo indietro e torniamo alle prime indagini le quali, comunque,
procedettero a gran ritmo e si appurò che il Dumini aveva preso l'auto al garage
Trevi, dietro richiesta dell'avvocato Filippo Filippelli ed inoltre che lo stesso
Dumini risultava come "Ispettore viaggiante" alle dipendenze del Corriere
Italiano, con lo stipendio di 1.500 lire mensili, tessera per viaggiare e vari
rimborsi (sembra che anche Aldo Putato aveva questo tipo di inquadramento).
Si era arrivati al direttore del giornale, l'avvocato Filippo Filippelli.
La sera del venerdì 13 giugno Filippelli viene interrogato da De Bono e per il
giorno dopo è in agenda un secondo interrogatorio, ma come abbiamo visto il
Filippelli è oramai incastrato.
14 giugno sabato
All'alba di sabato 14 giugno, la polizia milanese arrestava il ragionier Aldo
Putato altro elemento della Ceka.
A Firenze, invece, viene arrestato l'Averardo Mazzoli che pur se ne era tornato in
città senza partecipare al rapimento.
La mattina del 14 giugno Filippelli è a casa di Cesare Rossi che gli dice che deve
incontrare Mussolini. Più tardi però il Rossi informò il Filippelli che le notizie
erano cattive e che anzi aveva ricevuto dal Duce l’invito a dimettersi.
Mussolini gli aveva poi confermato che le sue dimissioni da Capo dell’ufficio
Stampa erano inderogabili “perché troppe voci oramai correvano sui rapporti
tra lui e Dumini”. Deciso in un primo momento, a rifiutare le dimissioni e fuori
di sè, si convinse poi a farlo e si recò al Viminale.
Alle 17 il Rossi, assieme al Carlo Bazzi si recò a casa di Aldo Finzi, anche lui fatto
dimissionare da Mussolini, più tardi se ne andò al ristorante con il Bazzi e poi si
dileguò. Si costituì otto giorni dopo il 22 giugno a Regina Coeli, facendo ben
presente che ha lasciato in custodia di amici un memoriale (e ti pareva!).
Come noto aveva scritto un memoriale riportando le illegalità del fascismo di cui
era a conoscenza, con bella faccia tosta visto che non solo spesso ne era
complice, ma ce ne aveva anche aggiunte del suo. Di fatto cercò di addossare, in
mancanza di altro, su di Mussolini una certa responsabilità morale per quanto
era successo. Lui pur sempre massone, affidò questo memoriale ad un certo
Attilio Susi, un deputato massone suo amico, da cui si era rifugiato, ma il genero
di questi, Alberto Virgili, altro massone, glielo sottrasse (se non fu tutta una
pantomima), ed una copia finì al capo dei massoni di Palazzo Giustiniani,
Domizio Torrigiani ed ovviamente poi sulla stampa. Il progetto di defenestrare
Mussolini procedeva a tutto spiano.
Precedentemente alle 14 del 14 giugno, era stato comunicato che Aldo Finzi si
dimetteva (su pressioni di Mussolini), con effetto immediato, da sottosegretario
agli Interni (lo sostituirà Dino Grandi) e da vice Commissario dell'Aeronautica.
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Dicesi che Mussolini avrebbe chiesto questo sacrificio al Finzi, in via transitoria,
in quanto riteneva che entro 48 ore avrebbe potuto riprendere in mano la
situazione, però il Finzi reagì scrivendo un suo memoriale, dove a quanto si sa
metteva in piazza i panni sporchi della Cecka e ed aveva fatto sapere a Luigi
Albertini, il direttore del Corriere della Sera, che sarebbe stato disposto a
pubblicarlo, ma poi ci ripenserà.
[Singolari questi Rossi e Finzi: fino al giorno prima avevano disposto della Ceka,
Rossi, direttamente, aveva spesso tenuto il Dumini al suo servizio (molti a
palazzo Chigi lo consideravano un suo segretario) e anche per qualche
intrallazzo in via privata (il Putato rivelò che alcuni giorni prima del delitto, il
Dumini, con il quale il Rossi andava spesso a cena insieme, lo aveva spedito dal
Capo dell’ufficio Stampa della presidenziale, per prendere del denaro); Finzi
invece, sia pure indirettamente, per la Ceka, ne aveva spesso disposto i
pagamenti da parte del ministero degli Interni, ed ora, finiti nell’occhio del
ciclone, non potendo accusare direttamente Mussolini di essere lui l’autore del
delitto, intendevano metterlo con le spalle al muro, per salvare le loro posizioni.
Queste dimissioni, come quelle di Rossi, erano state immediatamente pretese
da Mussolini, nel tentativo di salvare la situazione in cui si era venuto a trovare,
perché proprio a quei personaggi, da tempo chiacchierati si erano subito
appuntati, in un modo o nell'altro, diversi sospetti.
Cesare Rossi volle poi attestare che Mussolini, in pratica, aveva cercato di
salvarsi trovando in lui un capro espiatorio, ma in effetti bisogna notare che:
Finzi e Rossi erano chiacchierati per il loro giro di affari: Aldo Finzi era
l'ispiratore del Corriere Italiano di Filippelli e lo stesso Cesare Rossi, ne era
parimenti amico (sembra che condividevano un pied-a-terre in via Muzio
Clementi che serviva per diversivo con ragazze e per incontri riservati di
carattere politico affaristico) e fungeva anche da tramite per l'ispirazione
politica a quel giornale, senza contare i suoi rapporti con il Dumini ed il fatto
che teneva una contabilità per i "rimborsi" che questi percepiva.
Nel pomeriggio del 14 giugno Mussolini torna quindi al Parlamento e fornisce i
risultati di queste sbrigative indagini, affermando poi significativamente:
«Se c'è qualcuno in quest'aula che abbia diritto più di tutti di essere
addolorato e, aggiungerei, esasperato, sono io. Solo un mio
nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche cosa di
diabolico poteva effettuare il delitto che oggi ci percuote e ci
strappa grida di indignazione».
Gli farà eco M. Vaussard pochi giorni dopo, in un articolo su “Le Figarò” del 28
giugno 1924:
«I peggiori nemici del fascismo avrebbero difficilmente potuto escogitare, per
screditarlo, un mezzo più efficace di quello usato dai sostenitori dichiarati del
regime, nel sopprimere, nel modo che si sa, un avversario molto meno
pericoloso per Mussolini che per certi parassiti che, da qualche tempo,
venivano sfruttando, il suo successo…».
Nel frattempo sia il Filippelli che il Pippo Naldi, da lui inscindibile e che gli
stava alle spalle, capirono che si sarebbe sicuramente risaliti a loro, come
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implicati nel caso, e pensarono bene di filarsela. Con una valigetta piena di
biglietti da mille e un falso passaporto datogli dal Naldi, il Filippelli cercò di
squagliarsi in treno verso il Nord e così fece il Naldi stesso, inseguiti da un
ordine di arresto sollecitato espressamente da Mussolini.
Quel sabato 14 giugno Mussolini riceve Velia Titta, la moglie di Matteotti.
E’ un colloquio in una atmosfera drammatica. La signora chiede notizie e nel
caso la salma del marito. Mussolini non può che tergiversare, le dice che ancora
non si hanno notizie certe, di essere fiduciosa che stanno facendo tutto il
possibile per arrestare i colpevoli. Sia come sia non sarà questo il solo colloquio
tra la vedova Matteotti e Mussolini e alla signora gli rimarrà la convinzione che
Mussolini è innocente della morte del marito.
A Leandro Arpinati, venuto a trovarlo ai primi di luglio, che gli chiede a
bruciapelo: “Lo hai fatto ammazzare tu?” “No”. Allora cosa c’entri tu?!
Punisci i colpevoli e non ci pensare”.
E Mussolini racconta al ras bolognese, che Velia, la moglie di Matteotti, quasi
ogni sera passa a palazzo Chigi per chiedergli notizie del marito. “Le prime volte
l’ho ricevuta, adesso non ne ho più il coraggio”
13 - 19 giugno
In questo lasso di tempo si hanno diversi arresti. Filippelli venne arrestato
il 16 giugno a Genova, mentre con un motoscafo cercava di raggiungere la
Francia. Il suo giornale, il Corriere Italiano, cesserà le pubblicazioni il 19
giugno. Anche Filippo Naldi sarà arrestato (perché accusato di favoreggiamento
verso il Filippelli a cui ha anche procurato un passaporto falso), ma ad ottobre
verrà rimesso in libertà.
[Il Filippelli una volta trovatosi nei guai sarà il primo che inaugurerà la
stagione dei “memoriali”. Ognuno di questi soggetti infatti si
premunirà di far sapere la sua “verità”: che era ignaro di tutto, ecc., e
cercherà di addossare le responsabilità su gli altri e su Mussolini. Ma
sempre per sentito dire, perchè nessuno potrà dire di sapere, in via
diretta, che è stato Mussolini a organizzare il rapimento. Alcuni
diranno, che il tale gli ha detto che Mussolini era informato, e via di
questo passo. Nello specifico il Filippelli scriverà che Cesare Rossi,
che lui vide la mattina dopo il rapimento, mercoledì 11, gli disse che
Mussolini sapeva tutto, e che lui e Marinelli avevano dato ordini in
seguito ad accordi con Mussolini. Insomma un minestrone di
sciocchezze che poco si accordano con quanto disse e fece il Rossi
la mattina dell’11 giugno, laddove incontrò Mussolini e sebbene
precedentemente informato dal Fasciolo del delitto, non gli disse
nulla giustificandosi poi che era stato preso da una certa abulia]
Albino Volpi fermato a Milano il pomeriggio di venerdì 13, spalleggiato da
sodali presenti, chiese di essere portato a colloquio con il segretario del fascio
Mario Giampaoli nella sede del fascio milanese. Qui giunti, aiutato da vari
presenti, riuscì a fuggire in qualche modo.
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La mattina del 14 De Bono, che rischiava di essere accusato di inefficienza per il
mancato arresto degli altri sicari fuggiti da Roma, telegrafò al questore di
Milano, ricordandogli che l'arresto di Albino Volpi (che era riuscito a fuggire):
«era un impegno di onore per quella questura e doveva eseguirsi ad ogni
costo, mentre gli agenti che se lo erano fatti sfuggire dovevano essere
allontanati da Milano».
Il Volpi verrà comunque arrestato a Bellabio il 18 giugno e lo stesso giorno De
Bono ordinava lo scioglimento dell’Associazione Arditi di Milano (fondata, tra
gli altri, da Albino Volpi).
[E’ interessante una considerazione di Carlo Silvestri, secondo il
quale, forse più che Dumini, fu proprio il Volpi, intimo con Marinelli, a
ricevere da quest’ultimo, un ordine omicida]
Non potendo fuggire all’estero con le frontiere sotto controllo, il Thierschald
dopo essersi arrangiato in qualche modo in quel di Milano, tagliatosi capelli,
barba e baffi, il martedì 17 si recò a Busto Arsizio da un amico. Raccontò di
essere implicato nel rapimento di Matteotti e chiese di parlare con qualcuno del
partito comunista. Dalla CGdL di Milano vennero un paio di dirigenti, che dopo
aver parlato con il Thierschald avvisarono la polizia che lo arresterà il giorno 18.
Il giorno dopo la questura di Milano informerà che il Thierschald ha inviato due
plichi in Austria a Graz.
Anche Amleto Poveromo, dopo che il 13 era riuscito ad allontanarsi da casa
dell’amante in Milano, sarà arrestato il 19 giugno.
Viola venne arrestato il 24 giugno.
Come accennato Malacria riuscì a fuggire in Francia a Marsiglia, ma è subito
rispedito indietro con l'estradizione e così solo il Panzeri riesce a sfuggire
all’arresto e rendersi latitante in Francia.
Tutti però negheranno ogni circostanza, rilasciando dichiarazioni ridicole, il
solo Aldo Putato, che non aveva viaggiato sulla Lancia con gli altri, a luglio farà
qualche ammissione che incastra Poveromo e Dumini.
Più avanti, cambieranno registro e faranno ammissioni di colpevolezza, ma
trincerandosi dietro la involontarietà, preterintenzionalità e occasionalità
dell'atto omicida.
Il 16 giugno ‘24 Emilio De Bono lascerà la carica di capo della polizia a
Francesco Crispo-Moncada e perderà anche i gradi nella Milizia.
[Gli autori del delitto sono presi mentre stanno scappando da tutte le
parti. Anche altri più o meno implicati sono presi dal panico. Ergo tutti
sanno che non possono essere coperti e finiranno in galera, che la
loro azione ha conseguenze gravissime sul governo. Quindi chi ha
architettato il crimine ben sapeva tutto questo e avrà detto agli
esecutori che se le cose andavano male, non potevano essere protetti
e si arrangiassero. Ma allora come si spiega la loro faciloneria
nell’eseguire un rapimento in pieno giorno? Ed infine Mussolini come
potrebbe ordinare un azione del genere conscio delle conseguenze e
poi non saper più cosa fare, se non misconoscere tutti?]
53
Mussolini nella bufera
Nonostante le accorate parole del Duce, al
Parlamento prese immediatamente corpo una
veemente reazione antifascista, con giustificati
motivi di carattere emotivo da parte degli amici
e compagni di Matteotti, ma che si configurò
subito con forti risvolti di speculazione politica
contro Mussolini.
[Si faccia attenzione: anche una spedizione
punitiva che restituisse un Matteotti
bastonato e derubato, avrebbe avuto
conseguenze devastanti per il governo e
Mussolini. Il 1924 non era il 1921 /’22 e la
gente si aspettava una normalizzazione
dell’ordine pubblico. Questo per dire che Mussolini non poteva essere
tanto stupido da progettare questo delitto]
Non tanto i mandanti che avevano altri fini, ma chi aveva organizzato il
rapimento, comprese che tutte le cose non erano andate come previsto e la poca
accortezza e destrezza dei sicari ne aveva compromesso la sua segretezza e
quindi si prospettava la minaccia che con gli arresti venissero a galla, quanto
meno, certi ambienti intermedi che vi avevano avuto un qualche ruolo.
Chi di dovere, comunque, attivò tutti i mezzi necessari, attraverso la stampa, per
far cadere Mussolini, intento che tra l’altro già rientrava nei fini del delitto.
All'epoca in Italia si contavano più di un centinaio di testate giornalistiche, di
cui 33 erano nate dopo il 1919 e queste ultime erano, oltre ovviamente al Popolo
d'Italia, in prevalenza vicine al fascismo.
Ma, eccezion fatta per gli organi di partito delle opposizioni, che era dato per
scontato sparassero a zero sul fascismo e su Mussolini, è sintomatico che, come
se rispondesse ad un segnale prestabilito, la media e grande stampa, quella
"storica" dal Corriere della Sera, al Resto del Carlino, alla Stampa, al
Messaggero, alla Giustizia, al Mattino, il Lavoro, Il Mondo, Il Giornale d'Italia,
ecc., si unì al coro unanime contro Mussolini.
[A nostro avviso, una convergenza di intenti, sia pure di diversa
gradualità, ma di certo non casuale e che solo circoli massonici, da
sempre attivi nella stampa, potevano determinare]
Sempre il 14 giugno infine Aldo Oviglio, Luigi Federzoni, Alberto De Stefani e
Giovanni Gentile, elementi fascisti moderati, misero a disposizione i loro
portafogli con tanto di lettera a Mussolini. La lettera fu presentata a Mussolini
da Oviglio stesso, con una implicito invito alle dimissioni generali del governo.
Mussolini rilevò che un rimpasto sarebbe stato inconcludente, mentre un
allargamento della maggioranza sarebbe stato inutile e impossibile.
54
Poi dopo aver informato Oviglio che egli aveva provocato le dimissioni di Finzi e
Rossi, improvvisamente affermò:
«Andare fino infondo? Sta bene. Ma fino a chi? Fino a Mussolini? Questo no!
La mia testa pesa. Ho trecentomila baionette dietro di me. Una tegola ci è
caduta sul capo e del resto tutti i governi rivoluzionari hanno subito episodi
come questo. Ciò che conta è restar calmi al nostro posto, senza cedere al
gioco degli oppositori, che consiste nel tentare dì logorare le posizioni
periferiche per isolare e poi colpire meglio il bersaglio maggiore».
Chi vide Mussolini tra il 14 e il 15 giugno lo trovò profondamente abbattuto e al
tempo stesso irato, impressionato dal vuoto che gli si era creato attorno (forse,
scrisse Renzo De Felice, dovette addirittura balenargli il fantasma dell'Alta
Corte davanti alla quale i suoi avversari volevano trascinarlo).
“Abbiamo barcollato", dirà più tardi a Giovanni Giuriati.
Con altri imprecò: «Assassini, hanno rovinato me, e il governo fascista!».
Un anno dopo Mussolini, pur passata la bufera, nel suo quarantaduesimo
compleanno disse alla moglie "Mi sembra di essere giovanissimo e vecchissimo
al tempo stesso ".
Quinto Navarra, l'usciere di palazzo Chigi, racconta come Mussolini in quei
giorni se ne stava chiuso nel Salone delle Vittorie, pallido e schiumante di
rabbia, in attesa della catastrofe. Scrisse eloquentemente:
«Le sale luminose, che fino a pochi giorni prima avevano brulicato
dì gente indaffarata e ossequiosa, si andavano vuotando sempre
più. Finche una mattina l'anticamera rimase letteralmente
21
vuota».
Clara Petacci ebbe a dire ad Edda Mussolini, nel corso di un drammatico sfogo:
“Sono stata colei che nei momenti più tristi gli sono vicino mentre tutti lo
abbandonavano. Ricordo che, parlandomi dell’episodio Matteotti, egli mi
diceva che era rimasto solo in quell’occasione; perfino la moglie lo aveva
22
abbandonato, scappando da Roma!”.
Tutto si può pensare, ma non era di certo, questo di Mussolini, il
tipico cinico, lucido e determinato atteggiamento di un assassino!
Sia il Duce che le opposizioni si chiesero con ansia cosa avrebbe fatto il Re al suo
ritorno dalla Spagna e dall'Inghilterra (previsto per il 16 giugno pomeriggio)
dove si era recato in visita. Ma Vittorio Emanuele III non fece niente.
In effetti, come osservò lo storico Renzo De Felice:
«Nei giorni successivi la posizione di Mussolini e del fascismo si fece
difficilissima: pezzo a pezzo, tutta la costruzione edificata in oltre un anno e
mezzo cominciò a sgretolarsi e minacciare di crollare (proprio quello che
avevano previsto e intendevano conseguire i mandanti del delitto, N.d.A.).
La notizia della scomparsa di Matteotti (passati i primissimi giorni fu chiaro
che era stato ucciso), suscitò nel paese una enorme impressione e una
reazione vastissima pressoché unanime. Fosse o no, Mussolini il responsabile
diretto, per tutti era evidente che il crimine era nato dal fascismo e che i suoi
mandanti si trovavano nell'entourage di Mussolini (...).
55
Ogni nuova rivelazione, ogni nuova dichiarazione, ogni nuova notizia di ciò
che avveniva nel fascismo e nel governo, di come procedeva l'inchiesta faceva
salire di un grado la tensione. Ora erano le dimissioni dì Finzi e di Rossi, ora
la fuga e l'arresto di Filippelli, ora la notizia che D'Annunzio aveva parlato di
'fetida ruina ".
Da un lato si attendeva, da un momento all'altro la caduta del governo, si
parlava di un ritorno al potere di Giolitti o di un governo militare, da un altro
si diffondevano però anche l'incertezza e il timore di ciò che avrebbero potuto
fare i fascisti (...)
...Indice eloquente di questa situazione era la Borsa, il 16 giugno fu un
"mercato di vero panico"...
Solo dopo i due discorsi di Mussolini del 24 e 25 giugno e soprattutto dopo le
dichiarazioni sulla situazione finanziaria sopraggiunse un pò di calma (...).
La maggioranza del paese era soprattutto desiderosa di calma, di tranquillità,
di sicurezza, dì onestà e di lavoro. Il fascismo l'aveva tradita, aveva tradito
queste sue aspirazioni. (...)
La maggioranza eletta nel "listone" (il blocco elettorale di alcuni partiti, che con
il Pnf avevano vinto le elezioni di aprile, n.d.r.) era eterogenea e sbandata.
Un terzo buono di essa non era fascista; degli altri due terzi molti erano
moderati, dei fascisti d'accatto, degli ex liberali e nazionalisti facilmente
influenzabili, specialmente se la Corona si fosse sentita libera di intervenire
23
senza mettere a repentaglio l'ordine costituzionale e la propria posizione».
[Qualcuno sostiene che Mussolini pur conscio della gravità e
conseguenze della sparizione di Matteotti, forse riteneva che se non si
fossero scoperti gli esecutori, che al fascismo e a lui risalivano, tutta
la faccenda sarebbe stata controllabile per il governo, magari
mettendola nel clima di violenze tra opposte fazioni. Ma se così fosse,
perché non far utilizzare sicari non attigui al governo?
Ma in ogni caso le conseguenze del rapimento del segretario
socialista, sarebbero state ugualmente gravi e tutti gli occhi, in Italia e
all’estero, si sarebbero puntati verso Mussolini. Ogni politica di
approccio verso i socialisti sarebbe definitivamente tramontata. E
questo il Duce non poteva non prevederlo]
A proposito di “fetida ruina”, sorprende che durante il suo periodo di carcere a
Regina Coeli, il Dumini sia fatto oggetto dell’interessamento, affinchè non gli
manchi nulla da parte di Gabriele D’Annunzio. C’è chi ha sospettato un certo
ruolo che era stato “preparato” dai vari Bazzi, Rocca, Vagliasindi e compagnia
bella per D’Annunzio, al fine di sostituire lo scomodo Mussolini.
Nel frattempo, il 14 giugno del ‘24 era iniziata l'Istruttoria formale del
Consigliere Istruttore dottor A. Grossi. Il 17 giugno viene avocata dalla Sezione
di Accusa, che conferì le funzioni di istruttore al presidente della sezione dottor
Mauro Del Giudice.
II 18 giugno viene arrestato il segretario amministrativo del PNF Giovanni
Marinelli e il Popolo d'Italia ne diede la notizia il giorno dopo in prima pagina.
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Come abbiamo visto, con lui, quel giorno, erano stati arrestati anche Poveromo
e Volpi.
E' anche interessante leggere stralci di una minacciosa lettera che ricevette Aldo
Finzi (il quale, dopo aver fatto fuoco e fiamme, scritto una lettera memoriale,
con i soliti panni sporchi sulla Ceka e contro il Duce e fattala leggere a varie
persone compreso Carlo Silvestri, fermò poi tutto) dal suo amico banchiere e
correligionario Giorgio Schiff Giorgini.
Lo Schiff Giorgini con questa lettera datata 21 giugno 1924 ebbe a scrivere all'ex
sottosegretario finito in disgrazia:
«Caro Aldo, con profondo dolore ho assistito al tuo lento irreparabile suicidio
(...). Sembrò che tu volessi darmi ascolto e col tuo consenso assunsi io stesso
responsabilità non lievi. Non so in virtù di quale tenebroso mercato (non
voglio supporre che sia stato per paura) tu abbandonasti la strada che ti eri
prefisso.
L'ultima frase della tua lettera al presidente della Camera mi dimostra che tu,
pur tutte le verità conoscendo, hai piegato la testa ai voleri del tuo Duce e della
masnada di nuovo fai parte».
Sembra chiaro che lo Schiff Giorgini (questi risulterà possessore di ottomila
azioni della Società per i bagni dì mare e di una buona quota della proprietà
del casinò di Montecarlo) si lamenti con il Finzi perché questi, forse per salvare
la sua persona, non ha mantenuto certi impegni ed è ragionevole supporre che
la reprimenda fosse per i mancati attacchi a Mussolini con i quali il Finzi
doveva forse insinuare che l'ordine di uccidere Matteotti veniva dal Duce.
Si teme anche che ora il Finzi possa fare delle rivelazioni e quindi:
«Ti avverto, perché tu sappia e perché i tuoi sappiano, che seguendo l'esempio
che tu stesso mi hai dato, ho scritto in tre lettere uguali tutta la storia vera di
quanto in questi giorni è accaduto. Queste lettere sono nelle mani di tre fedeli
amici e verranno aperte qualora a me dovesse qualche cosa accadere».
Essendo il Giorgini un banchiere e il Finzi, interno a molti traffici di Finanza,
sarebbe stato veramente interessante conoscere il perché tra questi due amici
israeliti, il primo si lamenta del comportamento del Finzi e poi lo minaccia
palesemente.
[Questa lettera dello Shiff Giorgini ha una certa importanza per
considerare il contesto politico che ha determinato il delitto Matteotti.
Essa dimostra, infatti, che ambienti della finanza, agganciati alla
Commerciale, si lamentano che personaggi come il Finzi, su cui
hanno evidentemente contato, non vogliono rischiare e si tirano
indietro dalla volontà di affossare Mussolini]
A luglio espatrierà in Francia Carlo Bazzi, il maneggione direttore del Nuovo
Paese, altro giornale che dietro tematiche politiche nascondeva interessi
finanziari di vario genere e gravitanti nell’ottica massonica e con facciata para
fascista, di fatto è il gemello del Corriere Italiano. Fa parte di tutti quegli
ambienti massonici e finanziari che hanno deciso di defenestrare Mussolini.
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Il ritrovamento del cadavere
Finalmente, dopo che il 12 agosto 1924 un cantoniere al lavoro presso il
18° chilometro della Via Flaminia aveva trovato in un tombino, la giacca sporca
di sangue di Giacomo Matteotti (il cui stato di conservazione fece però sorgere
dei dubbi sul fatto che possa essere stata per ben due mesi in quel posto),
quattro giorni dopo venne rinvenuto anche il corpo del deputato socialista.
Il corpo di Matteotti viene scoperto il 16 agosto del 1924 nel bosco vicino, in
località la "Quartarella", grazie al cane di un carabiniere che era andato a caccia,
tale Ovidio Caratelli, brigadiere a cavallo in servizio ad Orte, ma da un paio di
settimane in licenza a Riano nella tenuta Boncompagni dove il padre lavora
come fattore.
Il ritrovamento da parte del Caratelli è apparso strano, si disse in seguito, che lo
stesso, interessato alle ricompense (promesse per chi avesse dato informazioni
atte a ritrovare il cadavere), dopo aver saputo del rinvenimento della giacca
aveva pensato di fare personalmente delle ricerche nelle località adiacenti
sospettando che da quelle parti poteva essere stato sotterrato Matteotti.
Lo storico Mauro Canali, estremamente interessato a dimostrare che il Caratelli
fu in realtà uno “strumento” del capitano dei carabinieri Domenico Pallavicini,
uomo vicino a Casa Savoia ed esecutore di direttive emanate da Mussolini, ha
elaborato un suo teorema in proposito. A suo dire, il fatto che il Pallavicini si
era contraddetto davanti al giudice istruttore, circa la data del ritrovamento
della giacca di Matteotti e un suo spostamento, era la prova di una messa in
scena sul ritrovamento del cadavere e quindi di un collegamento tra il Re e
Mussolini, entrambi interessati a pilotare il ritrovamento del corpo.
Ma era questa una contraddizione solo apparente, generata da un errore di
trascrizione di data come poi, dopo il 1997, si è appurato, quando si sono avuti
disponibili gli atti ufficiali e originali dell’interrogatorio del Pallavicini.
[Teoricamente potremmo anche considerare che nei giorni successivi
al loro arresto, qualche componente della Ceka, abbia confidato a “chi
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di dovere” dove si trovava il corpo di Matteotti e quindi ammettere che
Mussolini ne era al corrente da prima del ritrovamento. Ma se pure
così fosse, e rimarchiamo il “se”, Mussolini per evitare disastri al
governo, per non far affossare il fascismo e tutti gli anni rivoluzionari,
con tanto di morti, spesi per conquistare il potere abbia taciuto certe
situazioni e pilotato il ritrovamento, questo non è detto che sia in
relazione al fatto che egli fosse anche il mandante dell’omicidio]
In ogni caso, da quello che si poteva riscontrare il corpo era stato sotterrato in
una fossa non molto profonda, di forma ovaloide. Viste le dimensioni della fossa
e la posizione del cadavere si deduceva che per potercelo mettere, si era dovuto
forzare, senza un minimo di pietà umana, con violenza l'introduzione degli arti
inferiori. La fossa sembrava scavata con una lima che venne ritrovata in
macchina o forse accanto alla fossa, sporca di terriccio e di sangue (si escluse
però che poteva essere stata l’arma che aveva ucciso la vittima) e il cadavere era
ricoperto grossolanamente con foglie e terriccio.
Alcune ossa, quali un femore, un omero e le tre ossa del bacino di destra, erano
lì accanto, segno di spostamenti probabilmente causati da animali e da
smottamenti naturali del terreno. I resti così insaccati nella buca ovoidale
risultavano in parte scheletriti ed in parte mummificati.
L'identificazione del cadavere, che era stato denudato, avvenne per tutta una
serie di piccoli indizi e per il riconoscimento di un lavoro odontoiatrico fatto dal
professor Vincenzo Duca.
In ogni caso, dopo oltre due mesi dal delitto, il corpo era oramai in uno stato di
decomposizione tale che non fu possibile procedere ad un preciso e
approfondito accertamento necroscopico. Tutto quello che si potè stabilire era
che il Matteotti morì, in linea di ipotesi e di probabilità, per una ferita di arma
da taglio inferta, più o meno, sulla parte sinistra del torace (ferita regione
toracica antero-laterale superiore sinistra) probabilmente quando era ancora
nell'automobile. Anche un fendente alla gola che avesse tranciato la giugulare,
giustificando tutto quel sangue, era forse possibile, ma non dimostrabile.
L'epoca della morte poteva farsi risalire, attraverso varie e indirette deduzioni,
approssimativamente tra il 7 ed il 25 giugno 1924.
Di conseguenza quel poco che si poteva dedurre, a causa della mancanza degli
organi interni, era il fatto che probabilmente Matteotti era stato ammazzato,
durante una colluttazione e non come atto deliberato e scientemente preparato.
E ancor meno preparata si dimostrava tutta l’operazione di fuga e
occultamento del cadavere, confermando l’ipotesi che se Mussolini
avesse avuto necessità di far ammazzare Matteotti, non avrebbe di
certo almanaccato un pasticcio del genere, con sicari che lasciarono
tracce del loro operato e si profusero in una fuga sconclusionata, ma
avrebbe pianifico il crimine in maniera professionale e del tutto
diversa.
Per il rinvenimento della giacca, trovata in una specie di tombino, si avanzò
anche il dubbio che fosse stato pilotato, ma alcune ricerche, come quella di
24
Enrico Tiozzo hanno sostenuto l'inconsistenza di questa tesi.
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Per rafforzare l’ipotesi di un Mussolini mandante dell’omicidio, si è anche
sostenuto che il carabiniere che ha fatto ritrovare i resti di Matteotti recitò una
scenografia già scritta, ma sono tutte illazioni non dimostrate.
La borsa dei documenti
Per la borsa ed i documenti di Matteotti scomparsi, invece, si faranno molte
ipotesi, ma non si riuscirà mai a raggiungere una sufficiente certezza su che fine
avevano fatto e neppure se Matteotti avesse o meno effettivamente una borsa
appresso oppure aveva un busta porta documenti come sembrerebbe era uso
portare documenti in una busta.
Sembra che nel portafoglio di Matteotti i sequestratori trovarono dieci lire, due
foglietti con indirizzi del partito comunista francese e di quello laburista inglese;
in un altro foglietto c'era l'indirizzo dei Gran maestro Domizio Torrigiani di
palazzo Giustiniani.
Il giornalista dell’ Unità e scrittore Giuliano Capecelatro, nel 1996 intervistò uno
dei famosi ragazzini, Amilcare Mascagna, che assistettero il 10 giugno 1924 al
rapimento di Matteotti e questo ebbe a riferirgli, attestando a 85 anni una salda
memoria, che Matteotti aveva in mano una borsa. Stabilire se aveva appresso un
borsa o meno è ovvio che incideva sulla ipotesi affaristica, relativamente
all’interesse di derubarlo dei suoi documenti. Coloro che sono interessati a
questa ipotesi hanno persino asserito che durante il rapimento la borsa o la
busta di Matteotti si aprì e molti fogli volarono in strada, tanto che alcuni
sequestratori si affrettarono a raccoglierli. Una scena fantasiosa e viene da
pensare nel frattempo che faceva Matteotti.
[Logica vorrebbe che Matteotti nel recarsi al lavoro negli uffici
parlamentari ed in vista del suo discorso del giorno dopo, molto
probabilmente doveva avere con se una borsa o una busta di
documenti. Stabilire però che documenti fossero e la loro
importanza, rispetto a quelli che si presume, ma si presume
solo perché prove non ci sono, doveva avere circa le prove su
carta di certo malaffare, è un altro discorso. Tanti asseriranno di
una borsa e di documenti scottanti, altri negheranno sia l’una
che l’altro, ma niente sarà mai provato]
Il giornale Eco di Napoli aveva pubblicato, in data 17 giugno ’24, una rivelazione
dell'ex legionario fiumano Priolo, il quale affermava che Matteotti aveva messo
insieme un poderoso dossier sulla cointeressenza di un alta personalità del
governo sull'affare bische – petroli, ma siamo sempre nel campo delle
informazioni incontrollate.
Amleto Poveromo in una testimonianza - poi sembra ritrattata - resa durante
l'istruttoria del 1947, affermò che queste carte, la notte del 10 giugno, una volta
che i sicari erano rientrati a Roma all'Hotel Dragoni, sarebbero state prese da
Dumini e consegnate, tutte o in parte, a Marinelli e/o Cesare Rossi.
Dumini scrisse e rilasciò contraddittorie dichiarazioni: che non c'era nessuna
borsa, poi che invece l'aveva bruciata, poi che l'aveva consegnata al Marinelli,
che era chiusa a chiave e non aveva potuto aprirla, ecc. Non appurato rimase
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anche il fatto, già accennato, che la notte del 12 giugno, Emilio De Bono abbia
trovate alcune carte importanti nel bagaglio del Dumini appena arrestato.
Una "riservatissima" del 14 giugno ‘24, diretta a De Bono, affermava che l'On.
Filippo Turati era in possesso di parte dei documenti originali e parte delle
fotografie di altri che possedeva Matteotti e riguardanti affari diversi, Sinclair
(petrolio), speculazioni borsistiche, Case da gioco. Il fatto che poi non se ne è
saputo più nulla, farerebbe pensare che questi si sia lasciato "convincere" a
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consegnarli o distruggerli o che anche questa informazione non era esatta.
La storiella della morte per emottisi
Le deposizioni in merito al sequestro, rese successivamente agli inquirenti
dagli arrestati, furono contraddittorie, spesso ritrattate, insomma palesemente
inattendibili. In pratica essi affermarono che loro intenzione era solo quella di
immobilizzare il deputato e condurlo in luogo appartato per chiedergli
chiarimenti sulle sue discusse attività antifasciste, in particolare in Francia,
spaventarlo e ricondurlo a Roma.
Invece la sua imprevista reazione, li costrinse a rispondere con violenza tanto da
provocargli una emorragia per emottisi.
Quindi, secondo loro, Matteotti morirebbe per soffocamento. Sarebbe stata una
disgrazia, dicono, non un omicidio.
Qualcuno, successivamente, per calcare la mano sulla “involontarietà”
dell’omicidio, insinuerà che la copiosa fuoriuscita di sangue dalla bocca forse fu
causata da uno stato di tisi del Matteotti (il quale aveva in famiglia precedenti di
questa malattia), ma questa versione non ha riscontri e comunque anche una
pugnalata che fori il polmone poteva procurare tale tipo di emorragia.
Sia pure come ipotesi, però, la perizia sulla giacca di Matteotti,
indicava che la copiosa fuoriuscita di sangue aveva attinto la giacca
diffondendosi in punti che non si conciliavano con una emottisi,
quindi la fuoriuscita di sangue era conseguenza di una pugnalata o
qualcosa di simile. La giacca non aveva fori da pugnalate e si poteva
quindi ritenere che o venne colpito alla gola e/o quando, durante la
lotta, venne colpito, il Matteotti aveva la giacca tutta aperta.
Accortisi poi di avere un cadavere in auto, affermarono ancora i sequestratori,
persero la testa e girarono a vuoto nei dintorni di Roma per ore, senza sapere
bene che fare. Alla fine decisero di seppellirlo alla bene e meglio.
Amleto Poveromo, nelle sue dichiarazioni del 1945, alquanto dubbie e
furbescamente riduttive per lui, volle ricostruire quella giornata maledetta del
10 giugno 1924 a partire dalle 16,30 ricordando che la strada era deserta, solo
due o tre ragazzini giocavano e non badavano a quello che facevano.
Dumini era al volante e quando vide Matteotti diede l'ordine di prenderlo.
Mentre lui, Poveromo, teneva aperto lo sportello della macchina, gli altri
presero il deputato socialista che nel divincolarsi cadde battendo la testa sul
marciapiede. Quindi la fuga in auto, continuò l’ex della Ceka, e poi lui sentì che
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aveva del sangue sulle gambe proveniente dalla nuca e dalla bocca di Matteotti.
Allora si accorsero che Matteotti era morto. Poi vagarono in auto per ore.
Tornano a Roma verso le 22,30 e Dumini che avrebbe preso la borsa o la busta
documenti di Matteotti ed anche un pezzo di pantaloni provvide a mettere la
macchina a Palazzo Chigi (semmai al Viminale, n.d.r.).
Quindi il Poveromo se ne andò a dormire, mentre il Dumini sembra che portò la
borsa a Giovanni Marinelli e/o Cesare Rossi. A proposito di Poveromo, questi a
fine guerra nel 1945 venne arrestato e di certo in quei momenti se la dovette
vedere brutta; per quel che vale fece questa deposizione:
«Una sera del 5 o 6 giugno Dumini e Volpi riunirono noi del gruppo di Milano
nella camera di Dumini che ci disse di essere stato chiamato da Cesare Rossi e
da Marinelli (…) che bisognava fare un colpo di mano perché diceva che vi era
l’on. Matteotti, che doveva fare un grosso discorso alla Camera e che quindi
era necessario impossessarsi dei documenti che aveva con sè poiché erano
abbastanza compromettenti per Mussolini e per il partito».
Tornando alla cronaca, altri resoconti sembra stabiliscano che qualcuno del
gruppetto, tornato a Roma, se ne va a spasso sotto Galleria Colonna.
E qui si innesta un particolare di relativa importanza.
Rivelazioni di Benedetto Fasciolo & Co.
Sembra infatti che il gruppetto dei sicari si era recato a casa del segretario stenografo di Mussolini, Arturo Benedetto Fasciolo a darsi una lavata. Il fatto
venne attestato, solo alcuni anni dopo, da una rivelazione di Giovanni Vaselli, ex
avvocato di Dumini divenuto ora vicegovernatore di Roma che lo raccontò all’ex
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giudice istruttore Mauro Del Giudice.
Se la circostanza fosse vera,
bisognerebbe ampliare il ruolo avuto dal Fasciolo, come infatti sospetta Mauro
Canali, e capire quale fosse e chi e come lo aveva coinvolto.
Fatto sta che il Fasciolo subito dopo il delitto si dimise e quindi, consigliato da
Luigi Federzoni nuovo ministro degli interni e da Dino Grandi sostituto di Finzi
sottosegretario degli interni, si trasferì in Romania.
Agganciato in seguito da Carlo Bazzi che nel frattempo, per timore di restare
incastrato nell’istruttoria si era rifugiato in Francia, il Fasciolo venne anche lui a
stabilirsi in Francia frequentando il fuoriuscitismo antifascista ed entrando in
contatto con Giuseppe Donati, direttore del Corriere degli italiani, e tutta la
congrega di massoni fuoriusciti. In Francia, il Fasciolo aveva riferito a Cesare
Rossi di aver saputo del rapimento la sera tarda del 10 giugno, da Aldo Putato
da lui incontrato sotto Galleria Colonna. Giuseppe Donati inoltre riferì che il
Fasciolo gli aveva confidato che Dumini mercoledì 11 gli aveva portato una busta
chiusa da consegnare a Mussolini dicendogli che dentro c’era il passaporto di
Matteotti e una lettera dello stesso. Andò quindi in via Rasella (residenza
romana del Duce) e la consegnò a Mussolini, il quale vedendo la busta avrebbe
detto “Ho capito è l’affare Matteotti”. Aperta la busta e visto il passaporto,
avrebbe quindi ordinato al Fasciolo di distruggerlo.
Qualche giorno dopo però, Dino Grandi gli fece sapere che poteva essere
incriminato come favoreggiatore e complice.
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[Se Dino Grandi avvertì il Fasciolo che poteva essere incriminato per
distruzione di documenti, allora vuol dire che il passaporto di
Matteotti, Mussolini non lo prese e rimase a lui]
Tutti racconti di riporto, maturati negli ambienti massonici e antifascisti di
Francia, che praticamente attestano una specie di favoreggiamento di Mussolini
nel delitto e che lo stesso ne era informato fin dal giorno 11 mattina e quindi poi
recitò la parte di quello che ne era ignaro.
Ma i colpi di scena non finiscono qui, perché anni dopo nel 1947 al processo di
Roma il Fasciolo diede una diversa versione. Intanto che egli fu informato, la
notte del delitto non da Putato ma da Albino Volpi che gli disse che avevano
ucciso Matteotti su disposizioni di Marinelli che li incitava facendo il nome di
Mussolini. Quindi il Volpi gli avrebbe detto di andare a riferirlo a Mussolini.
La notte il Fasciolo fu agitato e solo la mattina dell’11 andò a riferire al Duce che
gli direbbe “sta bene” e volle sapere i particolari. La mattina dopo di giovedì 12
invece arrivò a palazzo Chigi un Dumini fuori di sé, si sente spaesato e
abbandonato e gli consegna un involucro con il passaporto ed altre cose che poi
lui, quella mattina stessa di giovedì, consegnò a Mussolini che lo rimprovera
per averli presi e lui gli direbbe che questo poteva servire ad accelerare la
punizione dei colpevoli (ma guarda un po’!).
La nuova testimonianza del Fasciolo non piacque agli antifascisti, perché
rendeva meno credibili tutti i racconti. Si insinuò che era stato scambiato il
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Putato con il Volpi, perché tanto il Volpi era morto e non poteva smentire.
Comunque sia non si comprende perché, come dice Fasciolo, il Dumini il 12
mattina fosse andato da lui fuori di sé sentendosi abbandonato, visto che quella
mattina era tranquillo e andò con Rossi e Marinelli al Palazzo di Giustizia, la
notizia che si erano scoperti i numeri di targa dell’auto, arrivò solo attorno alle
13 e solo allora sì diffuse il panico
Per capirci qualcosa, vediamo di riassumere tutte queste colorite
“dichiarazioni” rilasciate nel tempo dai vari gaglioffi.
Dunque la notte del 10 martedì, apprenderebbero del delitto il Filippo
Filippelli, informato direttamente da Dumini intorno a mezzanotte.
Quindi Benedetto Fasciolo, che la notte è stato informato da Aldo Putato,
oppure, altra versione, da Albino Volpi, incontrati dalle parti di piazza Colonna;
oppure, altra versione ancora, perché gli assassini erano andati a casa sua a
darsi una rassettata, come rivelò anni dopo il Vaselli, l’ex avvocato di Dumini.
Secondo il Fasciolo, egli passerebbe una notte agitata, ma informerebbe
Mussolini solo il mattino dopo. Non è però tanto credibile che il segretario
particolare di Mussolini apprende un evento così grave e con gravi possibili
conseguenze, e non va subito a riferirlo a Mussolini.
Come più avanti vedremo, secondo il “multicolorito” “memoriale” americano di
Dumini, invece, la sera tarda del 10 martedì lui steso va ad informare Marinelli
a casa, il quale andrebbe poi da Mussolini. E ancora poco dopo, sempre lo
stesso Dumini andrebbe a palazzo Chigi, dove s Mussolini è ancora lì, e qui
informa il Fasciolo che poi informa Mussolini (di nuovo). Quando avrebbe fatto
63
tutti questi giri, il Dumini, è un bel rebus visto che era andato al giornale dal
Filippelli.
La mattina dell’11 mercoledì il Filippelli (forse) informerebbe Emilio De
Bono il quale però stranamente non fa una piega, non informa nessuno e non
dà segni di vita; mentre il Fasciolo la stessa mattina informerebbe Cesare
Rossi, il quale, ancor più stranamente vede Mussolini in mattinata e non gli
direbbe niente.
Si noti che la mattina dell’11 mercoledì non è nota la sparizione di Matteotti, non
ancora denunciata in Questura e di cui si attende un suo discorso alla Camera.
Tutte queste versioni, rilasciate nel tempo dai protagonisti, spesso modificate o
ritrattate, sono in evidente contraddizione e poco credibili, ed hanno il solo
scopo di voler mostrare un Mussolini informato dei fatti, visto che non si può
attestarlo quale diretto mandante del crimine.
Si noti che secondo le ricostruzioni dello storico Mauro Canali: Marinelli e
Rossi sarebbero i diretti organizzatori del rapimento, su ordine di Mussolini e il
Fasciolo in qualche modo ne sarebbe complice, mentre i De Bono e i Finzi, ne
sarebbero informati. Una tesi questa del resto obbligata per poter poi attestare
che costoro non potevano aver agito all’insaputa di Mussolini e Mussolini stesso
non poteva aver dato lui l’ordine omicida direttamente a Dumini. Alla luce di
tutta questa ricostruzione però, l’atteggiamento dei suddetti, la notte del 10 e l’11
giugno, sarebbe ancora più assurdo e poco credibile.
[Si faccia attenzione: anche se la verità fosse stata, ipoteticamente,
quella del Fasciolo, ovvero di aver informato Mussolini l’11 giugno a
mattina, non necessariamente starebbe ad indicare la colpevolezza
del Duce nel rapimento, ma semmai solo che egli, venutone a
conoscenza, cercò di prendere tempo e quindi poi recitò la parte di
colui che non sa nulla]
Difficile stabilire con certezza quando esattamente Mussolini seppe del
rapimento. In ogni caso l’atteggiamento di Mussolini quel mercoledì 11 alla
Camera, a meno che non fosse un grande attore, ai presenti non parve proprio
quello di uno che ha in testa un gravissimo e pericoloso evento criminale.
Concludendo qui la nostra rievocazione delle cronache delittuose, dobbiamo
osservare, la poca affidabilità di tanti elementi, le contraddizioni nelle
testimonianze, anche quelle che non abbiamo riportato per non appesantire il
testo. Praticamente tutti gli implicati, coinvolti o sfiorati da quella vicenda, o
perché partecipanti al fatto, o perché in qualche modo coinvolti o per interessi
politici o privati, cercarono, ognuno per suo conto di confezionare versioni, poi
magari cambiarle ed adattarle ai nuovi sviluppi, in modo che fossero sollevati
da accuse pesanti. Quelli poi venuti in contatto con gli ambienti antifascisti,
cerarono anche di addossare su Mussolini ogni genere di responsabilità
A nostro avviso, dalla analisi e considerazione di tutti gli elementi di cronaca,
anche quelli qui non riportati, possiamo invece ritenere che Mussolini era fuori
dalla responsabilità del delitto Matteotti.
64
L‘AFFAIRE MATTEOTTI
Chiudiamo qui le cronache della vicenda Matteotti, alla bene e meglio
ricostruite. Si sarà notato come tutti questi protagonisti, come topi impazziti,
nel momento del pericolo hanno preso a girare in tondo, ma sempre nel loro
brodo di coltura, cioè tra di loro: i Filipelli & Naldi, i Bazzi & Rossi, i Finzi, &
Schiff Giorgini, i De Bono, i Marinelli, ecc., indice evidente che ne sono tutti in
qualche modo, sia pure con ruoli e responsabilità diverse, coinvolti.
Quello che poi seguì nel ‘24, con il “suicidio” delle opposizioni che si ritirarono
sull’ “Aventino” (dal nome della secessione della plebe romana), è noto.
Fatto sta che Mussolini, in qualche modo, ed anche per interesse del Re
(interesse alla stabilità del paese, forse anche personale a congelare tutta quella
esplosiva situazione), riuscì a salvarsi, ma dovette pagare il prezzo di optare per
la “dittatura” e quindi venne anche sotterrata la verità su quel delitto.
E’ pacifico che noi non potremo qui esporre una esaustiva e comprovata
inchiesta sul delitto Matteotti, ammesso che sia possibile farla, ma forniremo
alcuni dati di fatto e circostanze, alcune testimonianze, che possano far riflettere
quanti ritengono che dietro l'assassinio di Matteotti ci fosse Mussolini.
Quanto segue è il frutto di una attenta lettura di questa ignobile storia, la
valutazione di atti e inchieste giudiziarie, lo studio della letteratura in merito,
nella contestualizzazione del momento storico interessato.
Facciamo subito, però, una doverosa e necessaria premessa.
**
Depistaggi, menzogne e responsabili
Nel valutare certi comportamenti, eventuali precedenti e successive
manipolazioni e depistaggi che di certo ci furono, soprattutto quelli durante lo
svolgimento delle indagini o in vista del processo di Chieti, messe in atto da De
Bono o altri esponenti del governo (anche varie dichiarazioni di Mussolini),
occorre stabilire che questi sabotaggi non sono necessariamente da
mettere in relazione con dirette responsabilità nel delitto, ma
semmai con il voler pilotare tutte le conseguenze di questo crimine
in un modo, il meno pericoloso e dirompente possibile, per sè stessi,
per il governo e per il partito fascista.
Nelle valutazioni bisogna quindi separare queste due situazioni: interesse dei
veri responsabili del crimine o di chi può venirne travolto dalle conseguenze.
A nostro avviso, si può ipotizzare che gli organizzatori del delitto (su
commissione e ispirazione di altri) devono trovarsi tra i noti nomi che potevano
in qualche modo, magari anche indirettamente, disporre di Dumini, quindi:
Giovanni Marinelli e Cesare Rossi soprattutto, poi Aldo Finzi e sia pure
trasversalmente Emilio De Bono e Filippo Filippelli (collegato a Filippo Naldi)
tutti, chi per un verso, chi per un altro, immersi o non ignari dei traffici e delle
manovre risalenti a quel putrido ambiente affaristico finanziario (per usare le
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parole di Mussolini), i cui “superiori” ci sono rimasti sconosciuti, e con cui,
molti di costoro, erano collusi.
Tutti personaggi che hanno lasciato molti dubbi e sospetti dietro di loro, ma
ripetiamo: non sempre certe complicità e depistaggi da loro attuati, e
le loro tante menzogne è detto che siano una prova di una loro
partecipazione all’impresa delittuosa.
E per di più sono tutti massoni e tutti in qualche modo con collusioni, moventi
o interessi vari nell’Affaire, ma chi poi fu realmente l’elemento direttamente
scatenante o organizzatore del delitto resta difficile stabilirlo, anche se in
Giovanni Marinelli, si appuntano molto più di sospetti e indizi.
Quindi ogni profilo andrebbe attentamente vagliato e valutato.
Una cosa è certa e ignobile: tutti questi personaggi, i Finzi, i Filippelli, i Rossi,
una volta scaricati da Mussolini si peritarono di scrivere il loro bel “memoriale”
cercando in ogni modo di tirare dentro Mussolini, ma non potendo dimostrare
che Mussolini era il mandante, misero in piazza tutti i panni sporchi del loro
entourage e del Pnf, di cui pur avevano fatto parte ed erano responsabili.
Questo erano in sostanza i loro memoriali: una minaccia ed un ricatto, utili solo
per l’antifascismo che li poteva utilizzare per dileggiare Mussolini e il fascismo.
Vogliamo criticare il comportamento di Mussolini, il quale preoccupato delle
sorti del suo governo ed anche della sua situazione, perché se cade il governo,
non solo finiscono nella spazzatura anni di lotte e di martiri del fascismo, ma
egli di sicuro si troverà anche sul banco degli accusati; vogliamo criticarlo per
aver ispirato dichiarazioni e iniziative che allontanassero da lui, dal governo e
dal fascismo i sospetti di essere implicati in quel delitto?
Di aver fornito dichiarazioni non corrispondenti al vero? Di aver ispirato o
cavalcato versioni di quel delitto
palesemente strumentali, come per
esempio che poteva essere in relazione ad
una
responsabilità
di
Matteotti
nell’omicidio di fascisti in Francia, o di
aver avallato l’ipotesi, favorevole agli
imputati, che il delitto fu incidentale e non
voluto?
Ebbene facciamolo pure, ma tutto questo
non può essere messo in relazione con
eventuali e dirette responsabilità.
66
Uno “strano” mandante chiacchierone
Prima di entrare nel merito della nostra controinformazione
premettiamo una osservazione, laddove, spesso in queste indagini, proprio
partendo da un quasi insignificante rilievo, si ha già in mano buona parte della
soluzione. Non erano neppure passate 24 ore dalla scomparsa del deputato
socialista e nonostante che i suoi assassini venivano mano a mano arrestati, che
subito si innescò una violenta campagna di stampa, una questione morale,
contro Mussolini: la attiguità del Viminale e della Presidenza del consiglio con
gli arrestati e le frasi minacciose, esternate da Mussolini ed altri fascisti contro
Matteotti, dopo il violento discorso antifascista di questi alla Camera del 30
maggio 1924, furono ritenuti elementi sufficienti per individuare in Mussolini il
mandante (si diceva che già al termine del discorso Mussolini, adirato, abbia
esclamato «Quell’uomo lì non dovrebbe più circolare!»).
Lo storico Canali, per supportare la sua tesi di un Mussolini mandante
dell’omicidio Matteotti, riporta un riferimento di Aldo Finzi agli inquirenti
(ammesso poi che sia veritiero visto tutte le volte che il Finzi si è rivelato
mendace), dove questi disse che intorno al 2 giugno ‘24, il Rossi e il Marinelli
erano stati redarguiti severamente da Mussolini che li incalzò con frasi violente,
sollecitandone un loro maggiore impegno nello stroncare le iniziative degli
avversari politici. Ne conclude il Canali che in quella data si raggiunse
tra Mussolini e i due dirigenti della Ceka la definitiva intesa omicida
(vedi nota 14).
Ma il Canali si contraddice dimenticando che tutta la ricostruzione degli
avvenimenti, da lui spesso ricordata, attesta dal 22 maggio che Dumini e gli
altri membri della Ceka, questi chiamati a Roma dal Dumini il 20, si erano
installati all’hotel Dragoni da dove stavano preparando il rapimento.
Quindi l’uscita di Mussolini verso Rossi e Marinelli, in questo caso, avverrebbe
quando i due capi della Ceka avevano già avuto l’ordine e avevano già incaricato
il Dumini che appunto stava preparando l’impresa e quindi la supposizione di
Canali e le date ricostruite sono in contraddizione, anche se volesse intendere
che prima era solo in atto un progetto sui generis e poi il 2 giugno divenne
definitivamente esecutivo, ma la cosa non regge perchè Dumini al 2 giugno
aveva già predisposto con i suoi sodali il progetto delittuoso.
In ogni caso, resta assurdo ritenere che chi aveva in animo di
compiere quella impresa delittuosa, chiaramente premeditata, se ne
era andato in giro a profferir minacce contro la sua vittima, tanto
più un capo del governo impegnato all’esterno a portare il paese
verso la normalità!
Come accennato, sembra che a caldo, dopo il discorso di Matteotti alla Camera
del 30 maggio ’24, un Mussolini adirato invocasse la “Ceka” e come vedremo
proprio a ridosso del rapimento, anche se forse qui la datazione è incerta, lo
stesso Mussolini ad Umberto Poggi, già collaboratore di D’annunzio, addirittura
fece un altro discorso bellicoso, invitandolo persino di andare a riferirlo.
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Il primo giugno ’24, oltretutto, il Popolo d’Italia, pubblicò un corsivo senza
firma da tutti ritenuto opera del Duce, in cui si diceva:
“Matteotti ha tenuto un discorso oltraggiosamente provocatorio che merita
una risposta più concreta dell’epiteto di canaglia urlatogli alla camera da
Giunta”.
Sono tutte reazioni istintive a caldo, istigate dal comportamento di Matteotti,
ma attestano che non possono essere frutto di un mandante di un omicidio i cui
meccanismi hanno già preso a girare.
Praticamente nel mentre impartisce gli ordini per rapire, bastonare o
addirittura uccidere Matteotti, Mussolini è tanto cretino di minacciarlo
pubblicamente sul suo giornale!
Se ne deduceva quindi che tutto il quadro d’insieme di queste accuse a
Mussolini stonavano e non reggevano, a meno che questi non fosse stato
un perfetto imbecille, che premedita di ammazzare un importante
rivale, il cui delitto avrà sicuramente reazioni eclatanti anche
all’estero, dirama gli ordini necessari e poi va in giro a profferire
minacce contro la sua imminente vittima!
Ma un'altra considerazione era evidente: possibile che Mussolini se aveva
intenzione di far assassinare Matteotti, non avrebbe pianificato
professionalmente il delitto e non disponeva di sicari non facilmente
riconducibili ai mandanti, invece di questi scagnozzi di casa al Viminale e
Palazzo Chigi facilmente identificabili?
Si intuiva pertanto che lo scenario di quel delitto era ben più complesso e
doveva rispondere a più motivazioni e interessi e quindi forse erano stati
necessari proprio quei sicari ben marchiati che portavano dritto a Mussolini.
Ed emergeva anche il particolare curioso e significativo, che tutti gli implicati
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nell’affaire, fascisti e non, avevano la tessera della massoneria in tasca.
Ebbene di fronte a questi importanti considerazioni, il Canali cosa fa?
Con incredibile noncuranza cerca di volgerle a suo vantaggio.
Dopo aver, infatti, ricostruito che nei giorni precedenti il delitto e soprattutto
dopo il discorso antifascista di Matteotti del 30 maggio, l’entourage
mussoliniano e Mussolini stesso si impegnarono molto a rendere ancor più
incandescente lo stato dei rapporti tra il fascismo e Matteotti, ne deduce che
questi sarebbero «passi lucidamente compiuti per indurre a seguito
nell’opinione pubblica l’idea di un delitto scaturito dal particolare clima
politico suscitato dal discorso di Matteotti»
(deviando così il sospetto di un delitto per affari e tangenti che riguardano
Mussolini stesso).
La deduzione del Canali, però e solo teoricamente, per alcuni personaggi
potrebbe avere valore, ma per tutti no di certo , perché si dovrebbe supporre
che l’entourage di Mussolini sia tutto complice e al corrente dell’imminente
delitto e comunque sia, almeno il capo del governo, impegnato di fronte
all’opinione pubblica a ristabilire la legalità, per suo alibi, avrebbe recitato una
parte ben diversa che quella dell’irato sobillatore contro la sua imminente
vittima.
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CAUSE, MOVENTE E MODALITA’ DEL DELITTO
Dietro l'assassinio di Matteotti ci fu un concorso di motivazioni e
interessi laddove la natura affaristica del delitto non è disgiunta da quella
politica. Affaristica perché ci fu chi si era spaventato da voci circa possibili
denunce che Matteotti voleva fare alla Camera il giorno dopo 11 giugno, in sede
di dibattito sull’esercizio provvisorio del bilancio, evidentemente temendo
conseguenze e perdita di affari, e politica perché, gli stessi ambienti e
personaggi, probabilmente con altri a loro attigui, non tolleravano più le
ingerenze e il dirigismo di Mussolini che li ostacolava negli affari e come
vedremo minacciava di dar vita ad un governo aperto ai socialisti e ai popolari
che lo avrebbe reso ancor più forte.
Si potrà quindi sempre affermare, indifferentemente, che il delitto fu di natura
affaristica oppure che fu di natura politica, intendendo però che una cosa, non
solo non escludeva l’altra, ma era a questa strettamente legata, altrimenti forse
quell’operazione non avrebbe assunto le dimensioni delittuose.
Siamo oltretutto in presenza di un delitto dove i veri mandanti e beneficiari
sono dietro le quinte, tanto che, probabilmente, forse neppure Dumini sarebbe
stato in grado di indicarli con precisione, perché costoro erano celati dietro
scatole cinesi dove, per esempio, la scatola del Viminale: Finzi e lo stesso De
Bono; quella della Presidenza: Cesare Rossi; del PNF: Giovanni Marinelli; la
scatola della lobby del Corriere Italiano, Filippelli; il potente faccendiere Naldi,
non potevano essere i principali beneficiari di un delitto del genere.
Resta anche oltremodo difficile poter dire chi agì con finalità affaristiche di
tacitare Matteotti e chi invece, praticamente per tramite massonico, con finalità
di danneggiare Mussolini.
Proprio per il fatto che il mandante di questo crimine, che nasce in un contesto
di situazioni che si sono evolute in un certo modo (non indifferente la voglia di
voler dare una lezione a Matteotti, a cui non sono estranee certe reazioni “a
caldo” del Duce), non è Mussolini, ma ambienti e personaggi potentissimi, che
sono però sfumati dietro le quinte, non c’era la necessità di un delitto
professionale, ma solo di un impresa che elimini la minaccia Matteotti e poi
metta nei guai il Duce e quindi attraverso i loro intermediari, ordinano quel
rapimento, che sostanzialmente appare come una via di mezzo tra una
spedizione punitiva; minacce e bastonature per avere informazioni dalla
vittima; ma anche la commissione di un delitto vero e proprio.
E’ pertanto inutile sforzarsi di inquadrare il tutto in una ferrea logica e
pretendere di spiegare ogni avvenimento, ogni fatto ogni contraddizione.
[Se oltretutto nel rapimento di Matteotti era anche implicito un ordine
di ammazzarlo, come è possibile che i sicari della Ceka lo vanno a
prelevare di giorno con una macchina a cui neppure nascondono il
numero della targa, targa che era stata addirittura rilevata da un
portiere del palazzo la sera precedente, insospettito del via vai che
stava facendo in zona?]
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Senza contare poi che non si portano dietro neppure una pala per seppellirlo,
quindi, come ebbe anche ad osservare Enrico Tiozzo: mancata segretezza,
mancata rapidità di esecuzione, incertezza sull’arma adoperata per ucciderlo
(assurdamente poi in una macchina noleggiata imbrattando l’abitacolo di
sangue), operazione eseguita in pieno giorno davanti a svariati testimoni, ecc.,
tutti elementi che negano a priori che fosse in atto un classico progetto omicida
premeditato con tanto di ordine impartito da Mussolini.
Tutto quindi starebbe a indicare, compresa la perizia medico legale del
dicembre 1924 (sospetta una morte non premeditata), che era forse in vista solo
una specie di spedizione punitiva, magari una bastonatura, minacciandolo e
chiedendogli conto di eventuali documentazioni. Una spedizione punitiva
degenerata e finita male.
Ma tanti altri particolari: come le stesse gravi conseguenze del rapimento di
un deputato massimo esponente dell’opposizione antifascista, molto noto anche
all’estero, stanno ad attestare che il finale di quell’impresa doveva essere la
soppressione del parlamentare socialista, che viceversa avrebbe poi
potuto indicare i rapitori e reiterare le sue denunce, scatenando oltretutto un
putiferio, e solo per alcune contingenze (reazione della vittima) la soppressione
avvenne in quel modo affrettato e assurdo.
[I rapitori erano tutti noti alla polizia, alcuni con fisionomie particolari,
il Dumini aveva una mano invalidata con anchilosi al braccio e il
Thierschald era forse conosciuto dalla vittima; forse anche il Volpi era
conosciuto da Matteotti, E’ quindi prevedibile che un Matteotti,
lasciato libero, seppur malconcio, avrebbe potuto fornire indicazioni
tali per farli individuare. Ergo, dovevano per forza ammazzarlo]
Da queste contraddizioni non si esce, tanto che hanno praticamente
determinato due posizioni negli storici: quella della premeditazione
ed esecuzione di un ordine omicida, come Mauro Canali, e,
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all’opposto, quelli che, come lo storico Arrigo Petacco, sono invece
convinti della preterintenzionalità del crimine, che doveva esplicarsi
solo come una spedizione punitiva, poi degenerata.
A nostro avviso è inutile cercare di dirimere con assoluta certezza questi dubbi,
affidandosi a testimonianze non verificabili, come il memoriale di Dumini o a
circostanze che invece potrebbero avere avuto risvolti imprevedibili.
Ci sono ragioni da una parte e dall’altra, e comunque: sia un rapimento con
bastonatura, e tanto più un omicidio premeditato, avrebbero ugualmente
scatenato tante e tali di quelle reazioni, anche a livello estero, che le cose non
sarebbero cambiate di molto, se non per l’interessato. Quindi il solo
comportamento malaccorto dei sicari, forse causato da un eccesso di sicurezza
nel sentirsi “protetti”, non può dirimere tutti i dubbi su come venne messa in
piedi tutta questa faccenda.
Si vorrebbe anzi, aggiungere il dubbio di cosa fecero i rapitori in ben sei ore
gironzolando per la compagna. Sei ore sono tante e molti, considerando che
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uomini come Dumini, Volpi, Malacria non erano soggetti da perdere la calma,
hanno ipotizzato che ad un certo punto, parcheggiato il cadavere da qualche
parte qualcuno (il Dumini) sia tornato a Roma a conferire con “chi di dovere” e
prendere ordini, magari utilizzando la sospettata “seconda auto biposto”. Ma in
mancanza di riscontri è meglio soprassedere anche a quest’altro quesito.
Ma sostanzialmente, visto che per gli scopi dei mandanti (mandanti che è bene
ripeterlo sono nascosti dietro scatole cinesi), cioè tacitare Matteotti e far cadere
Mussolini, sia un ordine omicida che una spedizione punitiva, minacciando e
facendo parlare il deputato, con tanto di sequestro di eventuali documenti,
raggiungevano lo stesso risultato, entrambe le ipotesi sono possibili, anche se
noi, sia pure con il dubbio e lasciando aperte tutte le ipotesi, sospettiamo e in
questo concordiamo con il Canali, che un ordine omicida venne dato al Dumini.
A parte le possibili indicazioni che poteva fornire il Matteotti, una volta libero,
seppur malconcio, scrive giustamente il Canali:
«Non era infatti difficile immaginare che, una volta libero, il segretario del
PSU, avrebbe fatto pagar caro al governo e al fascismo l’affranto subito... Il
sequestro non prevedeva dunque soluzioni a metà».
Alcuni poi hanno avanzato una terza ipotesi, cioè che Mussolini infastidito da
Matteotti ed esasperato, così come era nel “clima” del tempo, abbia solo dato
ordine di aggredire Matteotti e dargli una lezione, ma altri però, si fa il nome del
Re e/o di ambienti speculativi, ecc., sentendosi in pericolo per le rivelazioni del
deputato socialista, si inserirono nella faccenda, approfittando della situazione,
e la trasformarono in un omicidio.
Ma Mussolini, tutto al più, potrebbe aver promosso una spedizione punitiva a
caldo, ma poi ci avrebbe sicuramente ripensato, perché anche in questo caso,
una spedizione punitiva, non era poi di molto inferiore, nelle sue gravi
conseguenze, ad un rapimento omicida, e come già ebbe a rilevare lo storico De
Felice, Mussolini era perfettamente in grado di rendersi conto, smaltita la
collera che con quel gesto si sarebbe dato la zappa sui piedi (senza contare poi
che Mussolini aveva in essere vari e discreti approcci e futuri progetti con i
socialisti).
Il fatto è che questo delitto è anomalo, nasce in un particolare
contesto storico, in anni di violenze, ha scopi affaristici e politici e la
sua commissione non è diretta da mandante a esecutore, ma è
trasversale, indiretta, a scatole cinesi, e quindi non ci si preoccupò di
richiedere di agire con estrema segretezza e professionalità
criminale.
Aggiungiamoci poi quanto già accennato ovvero che forse i sicari, sentendosi
protetti, ebbero un eccesso di strafottenza e sicurezza, finendo per commettere
gravi leggerezze e si comprenderà perché oggi ci sono seri problemi nel dipanare
con sufficiente certezza tutta la matassa di questo crimine.
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LA TESI DELLO STORICO MAURO CANALI
Spentesi da tempo, le presunzioni che Matteotti era stato assassinato per
vendetta alle sue denunce circa violenze e brogli nelle elezioni dell’aprile 1924
(ridicolo che si fosse superato il 61% con i brogli!), tesi che costituì, per anni, il
leit motiv dei processi, della editoria e della propaganda antifascista. alcuni
storici ripiegarono sulla ipotesi “affaristica”, di
certo più concreta, trovando in Mauro Canali: “Il
delitto Matteotti . Affarismo e politica nel primo
governo Mussolini“– Ed. Il Mulino 2004 [copertina
a lato], libro preceduto da una edizione più pregna
di documenti del 1997), colui che l’ha poi piegata
alla versione che vuole Mussolini dietro quel
delitto, un opera che per alcuni farebbe testo.
L’autore, come la stessa presentazione del suo
libro cita, pur dovendosi arrendere alla evidenza
che «la
prova provata, il documento,
l'ordine scritto che faccia risalire a
Mussolini la responsabilità del delitto
Matteotti, non c'è e forse non ci sarà mai»
ha cercato però di forzare ogni prova indiziaria per
un Mussolini corrotto e mandante dell’omicidio e
nel suo testo, estendendo la prova documentata di
un preciso “ordine” a quella più elastica e sfumata, ma dal sottinteso equivoco
di “responsabilità”, ha scritto:
«I documenti fino ad oggi noti che chiamano apertamente in causa le
responsabilità personali di Mussolini nel delitto Matteotti, sono il testamento
“americano” di Dumini… il memoriale scritto da Rossi in Francia per
Salvemini e le due lettere di Dumini a Finzi, una del 24 e l’altra del 28 luglio,
1924».
Ebbene, a parte che quel “chiamare direttamente in causa” è alquanto
indefinito, di questi documenti citati dall’autore:
il memoriale “americano” del reiterato bugiardo Dumini, chiama in causa
Mussolini “per sentito dire”, perché il Marinelli, dice Dumini, che gli
commissiona l’azione delittuosa, gli avrebbe detto che è voluta da Mussolini e
lui riteneva, che era in relazione al fatto che negli ambienti fascisti “si dava per
certo” che Matteotti avrebbe portato alla Camera un offensiva accusatoria sulla
faccenda del petrolio che avrebbe coinvolto Arnaldo, il fratello del Duce. Quindi
stiamo al “sentito dire”.
Il memoriale di Rossi, invece, scritto in Francia tra confratelli massoni e
antifascisti vari, accusa Mussolini per “responsabilità morali” nel delitto,
perché quelle azioni, quella prassi violenta del tempo l’aveva voluta il Duce,
quindi per le male azioni della Ceka, ma non attestano che Mussolini abbia dato
direttamente l’ordine di rapire Matteotti.
72
Le lettere di Dumini a Finzi, infine, sono opera di un soggetto in quel momento
carcerato e avvelenato in quanto si sente abbandonato, e quindi uso ad utilizzare
ogni arma ricattatoria per uscir fuori da quella scabrosa situazione.
In una, quella del 24 giugno 1924, egli fa notare che “fino a quel momento non
ha compromesso nessuno”, né del Viminale, né di Palazzo Chigi, ma era tuttavia
in possesso di documenti scottanti per il governo fascista.
Un accusa generica, che abbraccia un vasto campo di situazioni, diciamo
“illegali”, che chiamerebbero in causa De Bono e lo stesso Finzi per il Viminale e
Mussolini e Cesare Rossi per Palazzo Chigi, ma sono questioni e presunti
documenti (che poi nessuno ha visto), che non è scritto riguardino un “ordine”
omicida di Mussolini, al massimo potremmo ritornare al suo “memoriale”
nascosto in America: “Marinelli mi ha detto, ho ritenuto”, ecc.
Nell’altra lettera, invece, egli accusa De Bono il quale, rivela Dumini, che nel
primo incontro, quando venne fermato la notte del 12 giugno, gli avrebbe detto:
«Se ella sà qualcosa neghi, neghi, neghi, io voglio salvare il fascismo».
Quindi al massimo potrebbe riguardare le paure di De Bono, del possibile
scandalo che potrebbe scoppiare per quella vicenda.
Il Canali poi cita un'altra lettera del settembre 1924 ove il “disperato” Dumini ,
scrive al suo avvocato Giovanni Vaselli, più o meno così: “ma lo vuoi capire o no
che di certe azioni (praticamente si riferisce alle aggressioni ad Amendola,
Forni, Misuri, casa Nitti, ecc.) noi siamo solo esecutori di ordini e che gli stessi
Rossi e Marinelli non fanno altro che riceverli dall’alto?”, intendendo che gli
ordini vengono dall’alto, dunque da Mussolini.
Anche questa, per il Canali, sarebbe una prova, ma a nostro avviso non si può
non considerare che si tratta di una supposizione generalizzata del Dumini, il
quale a conoscenza da dove venivano certi ordini si è espresso in tal modo, ma
estendere questa considerazione anche al delitto Matteotti è arbitrario, tanto è
vero che Dumini, anche nel suo “memoriale” segreto americano, scriverà che
l’ordine di rapire Matteotti gli venne da Marinelli il quale gli fece credere che
veniva da Mussolini, e lui può solo presumere da dove veniva l’ordine di
uccidere Matteotti. Tanto più che in quel delitto ci fu proprio chi approfittò di
queste situazioni, questo andazzo violento dell’epoca, gli strali di Mussolini, per
prendere autonomamente l’iniziativa omicida.
Insomma siamo in presenza di un sillogismo: siccome si ritiene che gli ordini di
certe precedenti azioni violente (tra l’altro non ordini direttamente e
specificatamente omicidi come quello per Matteotti) venivano da Mussolini,
ergo anche quello di Matteotti dovrebbe venire da Mussolini. Che grado di
scarsa credibilità abbia questo sillogismo è evidente a tutti.
In altri ambiti poi, per il Canali, ogni documento, ogni ricevuta, che si poteva
far risalire a Mussolini e riguardante finanziamenti o presunte tangenti, traffici
che in qualche modo non potevano mancare e in particolare quelli della
faccenda del petrolio, della Sinclair, ecc., hanno costituito il movente e quindi il
corpus di un vero e proprio “teorema” (ne riparleremo tra qualche capitolo).
Ma come è stato fatto notare da molti, anche il Canali non è potuto andare al di
là di evidenti forzature e congetture ed inoltre appare sinceramente stravagante
73
l’affermazione del Canali, espressa anche in Tv, a Rai Tre (programma “La
Grande Storia”), che le documentazioni in possesso di Matteotti avrebbero fatto
cadere Mussolini, tanto che, durante il rapimento, apertasi la borsa e finiti i
documenti in strada, i rapitori si preoccuparono di raccattarli (chissà, forse
30
pregando Matteotti, di attendere!).
Occorre quindi ricondurre tutta questa faccenda su un piano più realistico e
concreto, mettendo da parte ogni dietrologia.
Noi proveremo a riassumere la tesi del Canali nei due prossimi capitoli dedicati
ad “Arnaldo Mussolini” e al “Petrolio”, avvertendo però che la tesi dell’autore è
molto più ampia e dettagliata rispetto alla nostra sintesi.
Nonostante la apprezzabile ricostruzione documentale dell’autore,
sostanzialmente le sue accuse a Mussolini ruotano su presunte tangenti al
fratello Arnaldo, in particolare una presunta tangente petrolifera proprio ad
Arnaldo Mussolini le cui prove però sono per lo più congetture e una pezza di
appoggio è una lettera del super bugiardo Amerigo Dumini, che dicesi
sequestrata a Mussolini a Dongo, lettera però estrapolata da una
documentazione che la conteneva e guarda caso fatta sparire.
En passant ricordiamo che il Canali cercherà anche di minare l’attendibilità
storica della moglie e i figli di Matteotti e delle testimonianze di Carlo Silvestri,
con una certa faziosità, ma non convincendo.
Sulla presunta inattendibilità della moglie e dei figli di Matteotti, parleremo più
avanti, sul Silvestri, invece, oltre a quanto noi abbiamo già detto, qui nel
“Prologo”, commenterà giustamente lo storico Alessandro De Felice (parente
del più celebre Renzo) nel suo voluminoso studio: “Il gioco delle ombre, scrive:
«Il Canali, nel suo analitico studio, dedica un intero capitolo alla figura ed al
ruolo di Carlo Silvestri cercando di offuscarne e minarne l’attendibilità storica
non sempre invano, ma la sua tesi finale, che è accompagnata da una sottile e
non sempre visibile patina di faziosità politica – per quanto ben congegnata
31
da un punto di vista metodologico – non ci convince affatto».
E noi condividiamo questa osservazione del De Felice, perché se effettivamente
nelle testimonianze di Silvestri ci sono delle incongruenze, queste non sono tali
da inficiarne tutti i racconti. A tal proposito le deduzioni che formula il Canali,
per esempio sul fatto che Mussolini se sapeva della colpevolezza del Marinelli, e
lui stesso fosse stato innocente, non lo avrebbe promosso post 1924 in vari
ambiti, è una deduzione relativa, primo: perché non è dato sapere, al tempo, che
conoscenza avesse Mussolini dei veri responsabili del misfatto (tra questi, per
esempio, ci includeva Cesare Rossi, e poi anni dopo ne chiese venia); e secondo:
dopo il gennaio 1925 e il subentrante regime, Mussolini aveva tirato un frego,
fatto chiudere in un certo edulcorato modo il processo di Chieti e quindi andava
avanti a prescindere dal quel delittuoso evento perseguendo la sua nota prassi
comportamentale verso gli uomini, come ne diamo qui qualche esempio nel
capitolo: “Perché Mussolini non andò fino in fondo”.
Comunque sia iniziamo ora a considerare proprio queste “tangenti”
ad Arnaldo Mussolini e poi le vicende petrolifere, rimandando, per
una visione più completa, al citato testo di Mauro Canali.
74
Arnaldo Mussolini
Un “cavallo di battaglia” dello storico Mauro Canali è l’asserzione che il
fratello del Duce Arnaldo, definito amico di Filippo Filippelli, avrebbe intascato
tangenti per 40 miliardi di lire attuali, cifra che indicata in una intervista a
32
Mauro Canali al settimanale Oggi del 2000).
Giornalisti storici, sulla scia del Canali, rievocano una tangente di 30 milioni
ventilata all’epoca dall'organo del partito Labour, il Daily Herald, che asseriva
33
fosse stata pagata dalla Sinclair Oil per ottenere una Concessione.
Siamo in presenza di un “vento” scandalistico che parte da lontano, e oggi
prende forma sulla interpretazione di certi documenti o illazioni di una stampa
interessata, laddove si vorrebbe risolvere il caso Matteotti, passando da
congettura a congettura: si stabilisce che certi movimenti finanziari erano
tangenti e che riguardavano direttamente il Capo del governo, il quale venuto a
sapere che il deputato socialista ne aveva le prove e avrebbe denunciato il
malaffare, diede l’ordine di ucciderlo. Tutto risolto, elementare Watson, peccato
solo che niente di tutto questo sia veramente provato..
Singolare questo storico Canali: ignora quasi completamente gli aspetti politici
del tempo, le reazioni che si possono determinare nel mondo politico dalle
intenzioni di Mussolini di aprire ai socialisti moderati (e alla Chiesa), in
particolare tra le forze conservatrici che hanno appoggiato il fascismo e le lobby
massoniche che oramai vedono nel fascismo un pericolo alla loro esistenza;
sorvola sulle reazioni degli ambienti speculativi, soprattutto quelli della finanza,
che non sopportano più la conduzione dirigista del governo da parte del Duce;
“ignora” che c’è tutto un fermento nel fascismo, dai “revisionisti” a certi giornali
apparentemente filo fascisti e a suo supporto finanziario, ma in realtà legati a
doppio filo con l’Alta Banca, che stanno facendo un gioco sporco contro
Mussolini; liquida come fantasie le rivelazioni di Carlo Silvestri che ha potuto
consultare determinate documentazioni, guarda caso sparite (se sono fantasie
non sono mai esistite!), che scagionano Mussolini dalle responsabilità del
delitto; non considera tutti gli elementi che stanno ad indicare chiaramente che
Mussolini non può aver avuto alcun interesse ad ammazzare Matteotti, ma lui
decide che questo interesse è nella tangentopoli dell’epoca impiantata da
Mussolini e messa in pericolo dalle rivelazioni del segretario dei socialisti, e su
questa supposizione pretende di risolvere un delitto complicato, di portata
storica, con interessi di vario genere, anche internazionali e conseguenze, tra
l’altro, tutte devastanti per il governo di Mussolini.
Volendo confutare tutte queste accuse retrospettive di tangenti, interpretando a
senso unico le documentazioni reperite, e d’altra parte, contestare
concretamente le documentazioni che in proposito vengono prese, a 90 anni di
distanza da quei fatti, con Arnaldo Mussolini morto da tempo e così tutti gli altri
protagonisti coevi, quindi impossibilitati a spiegare, a difendersi, a dimostrare
che magari, quelle presunte tangenti non sono tali, ovvero che sono
finanziamenti al tempo consueti, o chissà che altro, non è che sia agevole e
neppure tanto sensato. Ci vorrebbe un vero e proprio “tribunale” con tanto di
75
accusa e difesa e perizie di parte e visto il tempo trascorso forse neppure
basterebbe. Scrive con felice osservazione Marcello Staglieno nel suo “Arnaldo e
Benito due fratelli”, Mondadori 2003:
«Benchè espertissimi nel calarsi tra bustoni e fogli del’ACS, quanto a scovarli
abilmente in archivi stranieri gli storici più giovani talvolta (quandoque
dormitat Homerus) di queste cose si dimenticano: la loro severità accademica
– come è accaduto a Canali – li fa un pò grezzi nelle analisi e nella sensibilità
percettiva dei fatti»
Detto questo, veniamo a considerare la figura di Arnaldo, per il quale facciamo
la stessa premessa che abbiamo fatto per il Duce: non crediamo
affatto, sulla base di quanto storicamente si conosce, ad una sua
attitudine ad arricchirsi con le tangenti. Proprio Arnaldo poi,
religiosissimo, il quale sosteneva la necessità di un substrato spirituale per le
questioni politiche, sociali ed economiche.
Arnaldo Mussolini (11 gennaio 1885 – 21 dicembre 1931), di due anni più
giovane di Benito, era una delle pochissime persone di cui Mussolini, da sempre
malfidato rispetto agli uomini, si fidava e apprezzava, facendone il suo uomo di
fiducia e confidente. Gli aveva affidato la carica, importante di direttore
amministrativo del Popolo d’Italia e poi, dopo la marcia su Roma, quella di
Direttore del giornale. Come direttore amministrativo, cosa da non
sottovalutare, deve preoccuparsi della sopravvivenza economica del giornale.
Si dice che fosse sensibile a farsi coinvolgere in qualche partecipazione
azionaria, dove il suo nome era appetito o in qualche affare, che poteva
nascondere intrallazzi, ma quello che si conosce della vita e della personalità di
Arnaldo non attesta che questi fosse un furfante, nè tantomeno i lasciti alla sua
morte, verso la famiglia, attestano illeciti arricchimenti, se a quanto sembra
ammontavano a 130.000 lire, una somma modesta rispetto al ruolo e alle
funzioni da lui assolte in vita.
Si parla anche di interessi sul gioco d’azzardo di cui avrebbe avuto alcune azioni,
ma sono voci e non ci sembrano comunque “traffici” di eccessiva importanza,
tali da giustificare un omicidio per non farli venire a galla.
Costituiscono, tutto al più, degli “scheletri nell’armadio” che potevano frenare
Mussolini in qualche dura polemica con avversari facenti parte di poteri forti.
Due nipoti di Arnaldo Mussolini, Anna e Pio Luigi Teodorani Fabbri, vinsero
una causa contro il settimanale l’Espresso che parlando di un libro di Denis
Mack Smith con le solite accuse non provate contro Arnaldo, in un articolo di
Gianni Corbi: Matteotti contro l’affare petrolio, del 13 giugno 1996, aveva
definito Arnaldo “spregiudicato procacciatore d’affari”. Il settimanale, tre anni
dopo, venne obbligato a pubblicare una loro precisazione e fu condannato al
pagamento delle spese.
La politica di Arnaldo Mussolini che comunque sia, da direttore amministrativo
del giornale di Mussolini, era anche preposto a reperirne i finanziamenti, non
può essere giudicata solo con la lente del malaffare e dell’interesse privato.
Sono posizioni e ruoli quelli assunti da Arnaldo che vanno interpretati con
accortezza. Tanto per fare un esempio di ordine generale: erano forse tutti lindi
76
e puliti i finanziamenti che consentivano ad altri quotidiani, Corriere della Sera
ed Avanti! compresi, di sopravvivere?
Si dice che Arnaldo Mussolini ebbe un certo ruolo nella nascita del Corriere
Italiano di Filippelli, un giornale che in un primo momento evidentemente
poteva anche essere funzionale alla politica di Mussolini e poi, come sappiamo,
questo giornale, legato a svariati industriali, affaristi, banca e finanza, recitò
anche un ruolo sottilmente avverso al capo del governo.
Ebbene se Arnaldo Mussolini, con il suo prestigio intervenne affinchè il
Filippelli potesse ottenere i mezzi per la nascita del giornale e se poi questo
giornale catturava finanziamenti, una parte dei quali probabilmente veniva
girata al Popolo d’Italia, dove è il problema, quando la vita politica ed
economica della società è stata sempre regolata da queste situazioni, o si pensa
forse che, per esempio, la Fiat, la Montedison, l’Eni o chi altro, nella attuale
Repubblica democratica, elargivano ed elargiscono finanziamenti a destra e
manca, in virtù dello Spirito Santo, o che certi importanti quotidiani o
settimanali, nascevano e nascono per grazia ricevuta?
Ma guarda caso il Canali “dimentica” invece il ruolo di maneggione e
finanziatore, molto più importante, che ha avuto il Filippo Naldi, nella nascita
del Corriere Italiano, e non di certo per motivazioni politiche o ideali. .
Certo, se le presunte tangenti da 40 miliardi fossero state intascate
personalmente e per proprio interesse da Arnaldo Mussolini, la vicenda
assumerebbe aspetti tali da essere rimarcati negativamente, ma come detto, a
90 anni di distanza l’interessato non può più dimostrare come stanno le cose,
ma non sembra proprio che abbia lasciato agli eredi patrimoni tali da far
sospettare precedenti illeciti arricchimenti..
Per prima cosa che Arnaldo abbia veramente intascato queste tangenti è da
dimostrare e l‘accusa si basa più che altro su congetture formulate su delle
documentazioni d’epoca. Ma per un momento diamolo per scontato e vediamo
come potrebbero stare le cose rispetto a presunte tangenti petrolifere..
Dunque, Arnaldo intascherebbe questa grossa tangente: la prima cosa che viene
in mente sono due domande di non poco conto:
primo, come mai che poi, una volta morto Matteotti, che si sostiene forse ne
aveva le prove e voleva denunciarle, nessuno presentò più queste prove, eppure
il Matteotti da qualcuno doveva per forza averle avute, almeno che non fosse
solo una “voce”, ma allora la cosa sarebbe inconsistente, una diceria.
Secondo, sappiamo che poi tra novembre e dicembre del 1924, Mussolini fu
costretto a far cadere gli accordi e la Convenzione raggiunta dal suo governo con
la Sinclair Oil: ebbene cosa fece Arnaldo, restituì la presunta tangente?
E i petrolieri che videro saltare il loro affare, a cui tanto avevano brigato, cosa
fecero, restarono zitti e buoni? Si dice che Mussolini per compensare la Sinclair,
della rescissione del contratto, doveva sborsare 10 milioni di lire, ma siamo
sempre nel campo delle voci non dimostrate.
La Sinclair Oil, a quanto si conosce, ebbe indietro gli anticipi che aveva versato
per avviare gli accordi, ma non ottenne indietro, nonostante le insistenze, tutte
le spese che aveva sostenuto. E le eventuali tangenti furono restituite?
77
Possibile che un giro di tangenti del genere, di fatto buttato dalla finestra, finì
così in modo indolore come se mai fosse avvenuto?
Come si vede siamo nel campo di illazioni e congetture, ma quello che
comunque smentisce questa ricostruzione del Canali, è l’assurdità complessiva
di tutta la faccenda. Il giornale il Popolo d’Italia, infine, avrà ricevuto
finanziamenti (è noto, per esempio, un sovvenzionamenti di Toeplitz), si trasferì
poi nei nuovi stabilimenti, ma si sa che era sotto debiti e ancora ad agosto 1926,
Arnaldo scriverà al fratello:
«Il Popolo d’Italia con le sue sei pubblicazioni relative non è mai stato una
impresa attiva. Lo sbilancio a fine anno si è sempre aggirato sul milione. La
differenza è stata coperta con il credito e con gli abbonamenti».
Ma non dimentichiamo neppure che oltre da certa stampa scandalistica, le
accuse verso Arnaldo Mussolini, su presunte tangenti della Sinclair, vennero
addirittura da Dumini, evidentemente sollecitato in questo senso da chi ne
aveva interesse (qualcuno ha supposto anche Farinacci).
Consideriamo che Mussolini al momento del delitto Matteotti era saldamente a
cavallo di un governo che aveva vinto alla grande le ultime elezioni e la
maggioranza che ne scaturiva (non solo fascisti) era inattaccabile.
La stessa faccenda delle denunce di brogli e violenze fatta da Matteotti il 30
maggio alla camera, era stata brillantemente parata da Mussolini con il suo
discorso del 7 giugno nel quale anzi aveva rilanciato, fra le righe, future offerte
di partecipazione governativa ai socialisti e ai Confederali.
Il cruccio che assillava Mussolini, infatti, oltre alla necessità di normalizzare
l’ordine pubblico, era come poter raggiungere una intesa e portare al governo i
socialisti moderati e i Confederali, al fine di dare al suo governo una spinta
sociale e una saldezza morale che altrimenti, senza questo supporto, le sue
direttive avrebbero sollevato reazioni, non contenibili, tra i conservatori e i
poteri speculativi. E’ questa una fotografia di quel periodo, ben dettagliata da
Renzo De Felice e da testimonianze, sulla quale non si possono avere dubbi.
Ebbene dovremmo, invece, ritenere ora che Mussolini informato che Matteotti
avrebbe denunciato la faccenda delle tangenti alla Camera e quindi coinvolto il
fratello Arnaldo, se non lui stesso, presumendo oltretutto che siano vere le voci
che dicono che Matteotti ha in mano documenti compromettenti e
inoppugnabili (poco credibile), ha pensato di farlo ammazzare e, detto fatto,
darebbe l’ordine omicida, senza curarsi oltretutto di nascondere minacce contro
la sua vittima e poi, a delitto consumato, farsi travolgere dallo scandalo!
Intanto non si comprende da chi o cosa Mussolini avrebbe avuto la certezza e il
dettaglio di questa specifica denuncia che Matteotti si stava accingendo a fare
perché tutto sta a indicare che Matteotti, nel suo imminente discorso, non
avrebbe attaccato Mussolini personalmente, ma pur accennando a scandali nel
campo petrolifero e delle bische, il senso critico di Matteotti è verso la politica
di governo che, come scrisse in quei giorni, stava facendo degenerare il
fascismo in uno strumento del capitalismo e delle speculazioni. Anzi, era questo
di Matteotti, quasi un invito a cambiare rotta, di cui Mussolini, intento a trovare
un approccio con il PSU, passato il momento a caldo di reazione collerica,
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poteva benissimo apprezzare ed agganciarsi, anche perché sapeva che Matteotti
stava dicendo il vero.
Ergo le minacciate denunce di Matteotti, solo fino ad un certo punto potevano
preoccupare Mussolini, mentre preoccupavano di certo personaggi e ambienti
interessati a quelle speculazioni che non hanno le possibilità politiche che
invece aveva il Duce, per difendersi da certe accuse e ne sarebbero stati travolti.
Anche ammettendo che invece Mussolini si sia veramente preoccupato di un
possibile scandalo che coinvolgeva magari lui, il partito e il fratello, cosa
farebbe, risolverebbe il caso con un omicidio del segretario del partito
socialista, uomo noto anche all’estero e che passa come un irriducibile
avversario del fascismo? Ma non scherziamo!
Nessuno contesta che Mussolini, da rivoluzionario, abbia fatto uso della
violenza (e qui ci sta anche la Ceka), per prendere il potere e poi difenderlo, ma
questo non lo fa automaticamente autore di un ordine omicida, ben diverso da
un ordine per una spedizione punitiva, che condanna a morte Matteotti.
Ma oltretutto, l’Affaire Matteotti non è decifrabile senza analizzare il contesto
politico, perché la sentenza di morte per il deputato socialista nasce dal pericolo
che Matteotti possa denunciare certi scandali e rovinare grossi interessi, ma è
accentuata dal desiderio di defenestrare un Capo di Stato scomodo, che intralcia
certi poteri dell’Alta Banca e del mondo massonico.
Canali, praticamente, tratteggia la figura di un criminale, Benito Mussolini,
furbo e spietato e di un disonesto truffatore, il fratello Arnaldo, che tra l’altro
era una persona religiosissima e sensibile che alla morte prematura del figlio, di
fatto, si lasciò morire, perdendo ogni stimolo alla vita.
Ma vediamo questi due “mostri”, con Benito, l’assassino, che nel 1927 scriverà al
“truffatore” Arnaldo:
«L’industriale Somaini, in una lettera mandata al segretario federale di Como,
Tarabini, affermava di avere diritto, alla mia personale gratitudine.
Non conoscendolo e non avendo avuto ragione di contatti con lui, gli ho fatto
chiedere a mezzo del prefetto di Como, che si spiegasse. Egli ha allora
dichiarato che alla fine del 1925, sollecitato dal dottor Ambrogio Binda, fece un
offerta di lire 50 mila al “Popolo”. Non appena possibile gliele restituirai,
magari con gli interessi maturati nel frattempo».
A chi lo accusava di favoritismi, il 4 luglio 1924 Arnaldo così rispondeva:
«Sfido qualsiasi vicino o lontano, illustre o sconosciuto, amico o avversario in
buona fede o in mala fede, a dimostrare che durante 20 mesi di governo
fascista e di fatica improba per me, io mi sia giovato per raccomandare una
legge o un decreto, un favoritismo, un attenzione, un riguardo, dal quale mi
siano venuti direttamente o indirettamente benefici di qualunque genere. Sfido
chiunque e metto come posta la vita a dimostrare che mi sono valso in
qualsiasi caso, in qualche occasione, che mi sono attivato presso privati,
gerarchie, ministri, etc., della mia parentela fraterna con il Duce, supremo
d’Italia e se invece tutto questo non mi abbia imposto una severità di vita, un
riserbo, un silenzio eccessivo che onora entrambi, e che ci mette, almeno
nell’opera, di profonda rettitudine, ad uno stesso altissimo livello».
79
Il petrolio
Quando
le
riconversioni
industriali
promossero il petrolio quale materia prima
nell’industria e nei trasporti e giacimenti
petroliferi erano stati scoperti, l’oro nero
divenne la causa prima di guerre e rivoluzioni.
L’Alta Finanza, nei primi anni del ‘900, sotto il
regno dei Rothschild e in accordo con i
Rockefeller e i Morgan, divenne anche grande
capitale monopolistico, proiettato al controllo
delle aree petrolifere e alla acquisizione delle
grandi imprese capitaliste.
[A lato il libro di Franco Scalzo. Citeremo
spesso anche questo testo, perché l’autore ha
prodotto molti riferimenti, particolari e
osservazioni di grande interesse, che sono
state tralasciate da altri storici].
Tutta la Prima Guerra mondiale era stata
scatenata più che altro per gli interessi della
grande Finanza, la quale al termine di quel macello, da lei in buona parte
procurato, si ritrovò proiettata, sull’asse City di Londra e Wall Stret di New
York, ad un dominio mondiale poco visibile, ma sostanziale.
Precedentemente, a metà ottocento l’Italia, dopo l’apertura del canale di Suez e
poi le prime grandi scoperte di giacimenti petroliferi nel Medioriente, era
diventata strategicamente importante per il controllo delle rotte petrolifere,
soprattutto per gli inglesi che consideravano il Mediterraneo come un “loro
Lago”. Praticamente i britannici consideravano il nostro paese come una specie
di protettorato e noti erano i loro legami con casa Savoia e il controllo esercitato
nella nostra società attraverso la massoneria, in accordo o in concorrenza con
quella francese.
Fu da quel momento che gli inglesi passarono da un sostegno ideale, ad un
sostegno finanziario e concreto al Risorgimento.
Adesso però l’Italia, uscita dalla Grande Guerra, era fuori dal giro petrolifero e
gli inglesi con la Anglo Persian Oil Company, Apoc e gli americani con la
Standard oil di Rockefeller (sia pure in misura minore mettiamoci anche i
Sovietici), quando potevano non ci pensavano due volte a boicottare, interferire
e sabotare i nostri interessi a vantaggio dei loro, non solo in Medio oriente, ma
anche in aree come l’Albania che potevano rientrare anche nei nostri spazi
geopolitici. Oltretutto, al tempo, solo le grandi compagnie petrolifere, come la
Standard Oil di Rockefeller, avevano mezzi ed attrezzature adeguate per
procedere in certe particolari ricerche e difficoltose estrazioni.
Una nostra vera compagnia di Stato, l’AGIP, venne creata, per ogni attività
relativa all'industria e al commercio dei prodotti petroliferi, solo nel 1926.
80
Le vicende petrolifere degli anni ‘20
Nel 1923 /’24, il nostro fabbisogno petrolifero era fornito per l’8o % dalla
Standard Oil of New Jersey di Rockefeller, la futura Exxon (tramite la Società
Italo-Americana del Petrolio, SIAP) che lo trasportava già raffinato attraverso
l’Atlantico e per il 20 % dalla filiale italiana della anglo olandese Royal Dutch
Shell che lo trasportava a minor prezzo dalla più vicina Persia.
Nel 1923 ad ottobre la britannica Anglo Persian Oil Company, APOC, la futura
BP, (britannica, ma di proprietà dell’Ammiragliato, come la stessa Home Fleet,
nelle loro migliori tradizioni piratesche), aveva firmato un accordo con il
governo italiano e a gennaio del 1924 costituì la sua filiale italiana.
Al tempo quindi, da noi, si giocavano importanti trattative che coinvolgevano
l'onnipotente Standard Oil e la sgomitante britannica Anglo Persian Oil
Company; ed infine la spregiudicata piccola compagnia americana Sinclair
Exploration Company, (del petroliere Harry Ford Sinclair).
Anche i sovietici, dopo il riconoscimento dell’Urss da parte del nostro governo,
ufficialmente concluso i primi di febbraio del 1924 e il varo di diversi accordi
commerciali, cercavano un loro spazio per piazzare il loro petrolio..
In ballo c'erano anche i sospetti su Casa Savoia, riferiti al petrolio
libico “apparentemente” non ancora scoperto e l'impegno del Re
(dicesi a suo tempo ben remunerato) a mantenere il più possibile
ignorati (covered) i giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone
del retroterra libico e forse anche per certe proprietà azionarie che
erano state “regalate” al Savoia per qualche sua acquiescenza.
Il governo Mussolini si barcamenava dovendo far fronte a necessità non sempre
conciliabili: gli interessi prioritari del paese, gli interessi di lobby che il governo,
volente o nolente, aveva ereditato dai passati regimi e che comunque doveva
subire anche perché l’andata al potere del fascismo aveva avuto finanziamenti
da varie parti: era il malcostume delle tangenti, piaga generata dal risorgimento.
Nell’Italia degli anni ’20 la corruzione imperava, tramite la politica e annidata
nella burocrazia. Il rinnovamento, che avrebbe dovuto portare il fascismo, sarà
lento e si manifesterà con gli anni, ma per il contingente troppi elementi marci
34
si erano innestati nella rivoluzione fascista ed ora erano assurti al potere.
Ma non indifferente era anche il fatto che l’Italia fosse esposta in debiti con gli
Stati Uniti e la Banca Morgan, e Mussolini sapeva bene che, obtorto collo, era
obbligato a pagare quei debiti e aveva bisogno di trattare con il mondo
finanziario americano dove buona parte della finanza e delle banche erano rette
da finanzieri ebrei. Fu forse anche per questo che accettò di lasciar far da
tramite a Guido Jung (finanziere e industriale israelita eletto nel 1924 con il
PNF nel ”Listone”, intimo con il mondo finanziario di New York) anche per
quelli che poi furono gli accordi con la Sinclair Oil. Lo Jung poi nel 1932
divenne ministro.
Altra questione secondaria, ma non indifferente era poi quella, già accennata,
che vedeva affacciarsi anche i sovietici nel nostro mercato petrolifero. Sono
81
vicende che ruotano attorno al riconoscimento dell’Urss ratificato nel febbraio
1924, con importati accordi commerciali con i Sovietici per l’importazione di
petrolio. Emblematico, per esempio, il fatto che all’epoca, nel pieno degli
accordi con i Sovietici, Mussolini si accorge che qualcosa “non funziona”, che ci
sono dei boicottaggi. Sarà il comunista Nicola Bombacci, a denunciare la
faccenda alla Camera, evidenziando che mentre a Mosca tutto è pronto per
concludere i contratti, in Italia, queste informazioni sono nascoste al Capo del
Governo. Mussolini non ci mette molto a scoprire che tutto ciò risponde al vero
(se già non lo sapeva e con un gioco delle parti, fece fare all’ “amico” Bombacci
dell’opposizione, la denuncia) e che i boicottaggi avvengono anche nelle segrete
stanze della Presidenza evidentemente per venali interessi contrari.
Ricostruire comunque le vicende storico-petrolifere dei primi anni ’20 non è
difficile, ma più difficile è inquadrare con presunzione di certezza cosa c’era, e
chi c’era, dietro determinate scelte, dietro certe proprietà ed interessi.
Una ricostruzione interessante è quella dello storico Mauro Canali, nel suo libro
citato, che però, a nostro avviso, forza l’interpretazione di un Mussolini che
opera per interesse personale e di parte e quindi piega ogni vicenda, ogni
coincidenza di fatti che lo storico ha fatto emergere, a questa ipotesi.
Quelle vicende invece devono tenere conto, se si vuol comprendere a pieno
l’operato del Capo del governo Mussolini, di certe situazioni del tempo, degli
interessi della nazione che dovrebbero, ma spesso non è possibile, conciliarsi
con la situazione oggettiva del mercato petrolifero, degli interessi sporchi di chi
è immischiato in quei traffici, ma non si può fare a meno del loro supporto, della
oggettiva forza (alquanto esigua) su cui può contare il Duce nel portare avanti
certe iniziative e piegare certi interessi, e via dicendo.
I primi mesi del 1923, per esempio, il ministro dell’Agricoltura (competente in
queste vicende) Giuseppe De Capitani d’Arzago promosse un progetto
finalizzato alla rapida costituzione di un Ente petrolifero di Stato, prospettando
quindi di ridurre il mercato gestito dalle grandi compagnie, Standard Oil
soprattutto, che ne avevano il monopolio nel nostro paese. Il suggerimento,
presentato a Mussolini venne da questi accolto favorevolmente.
Ma tempo dopo Mussolini lascia cadere questo progetto e nel contesto di un
ristrutturazione generale, vengono soppressi i ministeri dell’Agricoltura e
dell’Industria per crearne uno nuovo che li accorpi: il Ministero dell’Economia
Nazionale a cui verrà posto a capo, il 1 agosto 1923, il ministro Orso Mario
Corbino, un siciliano tecnico, professore laureato in fisica e manager industriale
che viene dall’area liberal democratica.
Cosa era accaduto nel frattempo? Tra le altre cose si era prospettata
l’eventualità di concedere una Concessione, di lunga durata, che abbracciava la
produzione di oli minerali, gas e relativi idrocarburi. Una vera e propria
Convenzione con privilegi di natura fiscale a vantaggio della americana
Sinclair Oil che l’aveva richiesta.
Il Canali non lo dice espressamente, ma traspare poi evidente nel proseguo della
sua analisi, che Mussolini, interessato per motivi anche personali e speculativi,
alla trattativa con la Sinclair, predispose le cose per renderla fattibile.
82
Ecco quindi che, seppur con una certa logica, le vicende storiche vengono
piegate alla dietrologia, quando invece, nel cambiamento di Mussolini, potevano
essere compresi vari problemi politici e rapporti di forza, come ad esempio
l’interesse a determinare in Italia un fronte di concorrenza che spezzasse il
monopolio della Standard Oil (quando la stampa avanzò i dubbi che dietro la
Sinclair Oil ci potesse essere la Standard Oil, anche il governo fece chiedere
informazioni in America, segno che si avevano dei duhbi e ci si voleva regolare
di conseguenza. Successivamente poi, nonostante che i dubbi rimasero, anzi
forse si accentuarono , si decise di procedere comunque con la Sinclair).
In definitiva, oltre che l’interesse per la Sinclair, in quella occasione, Mussolini,
che pur mostrerà sempre di privilegiare gli interessi nazionali, soppesando il
tutto aveva valutato che conveniva continuare a comprare il petrolio e proprio
questa prassi gli veniva suggerita da esperti del settore, finendo forse per fare
come quel chirurgo, che pur sapendo che il suo intervento potrebbe essere
nocivo (stop al progetto di un Ente di Stato), è però costretto a metterlo in atto,
perché altre strade non ci sono e il paziente morirebbe.
Non si dimentichi che Mussolini era digiuno in materia di petrolio egli, per
esempio, dava retta a Luigi Einaudi che scriveva che era più conveniente
comprarlo all’estero che spendere milioni per cercarlo. Proprio così forse si
spiega che non si insospettì di una strana clausola apposta in una relazione
governativa del 19 luglio 1923 dove, pur invocando la necessità di effettuare
trivellazioni nelle Colonie, escludeva la Tripolitania (ne sapeva niente il Re?).
Certo se sono congetture quelle del Canali, seppur supportate da alcuni elementi
di cronaca storica, ancor più congettura è la nostra, ma qui stiamo parlando di
Mussolini, non di un qualunque dittatore delle Bahamas, impelagato con
interessi personali: nei 20 anni successivi, se l’Italia ebbe uno Stato degno di
questo nome, riforme sociali all’avanguardia nel mondo, Enti, strutture e grandi
Opere al servizio del popolo, lo deve al fascismo, ed è riconosciuto che forse,
senza Mussolini e nonostante i danni della seconda guerra mondiale, l’Italia
sarebbe rimasta un paese sottosviluppato come molti paesi dei Balcani.
Nelle analisi e valutazioni storiche, tutto questo varrà pur qualcosa!
[Non si può estrapolare un certo avvenimento storico, una certa
contingenza, per piegarli alla ipotesi del malaffare che
addirittura costringerà poi Mussolini, secondo Canali, a far
sopprimere Matteotti che potrebbe denunciarlo, senza
considerare, contemporaneamente e nell’insieme, l’operato
politico del Duce, le sue realizzazioni storiche e che, in quel
frangente, non a caso andò a inimicarsi la onnipotente
Commerciale e non a caso venne assalito da forti attacchi di
stampa, che fanno chiaramente capire come dietro tutto c’erano
grossi interessi che Mussolini stava mettendo a rischio]
Su queste vicende petrolifere, non meno del Canali, sono altresì interessanti
varie osservazioni, riportate da Marcello Staglieno nel suo “Arnaldo e Benito
due fratelli”, Mondadori 2003. Si sostiene che al tempo le conoscenze
petrolifere di Mussolini si basavano sulla famosa relazione Sitta del novembre
83
1920, redatta dal sottosegretario alla Marina Mercantile Combustibili e
Aeronautica del V governo Giolitti. Pietro Sitta.
La relazione, riportava l’indicazione di costituire un Ente dei petroli che infatti
venne progettato nelle linee essenziali nel luglio 1923 e farà poi da base per la
costituzione dell’Agip nel 1926.
Le drastiche deduzioni del Canali, quindi, di un vero e proprio affossamento di
ogni iniziativa per la costituzione di un Enti di Stato, sono fuori luogo,
dovendosi parlare invece di scelte e tattiche operative del tempo.
In ogni caso De Capitani, agli inizi del 1923 aveva ripetuto a Mussolini, quanto
già gli aveva esposto sei mesi prima in un Consiglio dei Ministri, sulla necessità
di importare, nell’immediato futuro, ben più delle 500.000 tonnellate annue
necessarie a compensare le estrazioni di petrolio sul territorio nazionale, pari a
4o0.000 litri l’anno. Queste necessità erano così evidenti che il Duce
all’indomani della formazione del governo, aveva dichiarato alla “Stefani”,
proprio sulla base della Relazione Sitta, che da una parte era volto alla
valorizzazione delle nostre risorse minerarie, ma dall’altra non intendeva
indugiare nell’assicurarsi all’estero il fabbisogno nazionale.
Proprio in tal senso il 4 febbraio 1923, fa osservare Marcello Staglieno (opr. cit.),
si era espresso l’economista Luigi Einaudi, sul Corriere della Sera, con questo
tautologico interrogativo: «Non è probabile che, in qualunque evenienza, costi
sempre meno comprare il petrolio da chi ne ha da vendere?».
Il 18 luglio 1923, particolare che Canali trascura (fa osservare Staglieno), in una
relazione riservatissima a Mussolini, De Capitani lo aveva informato delle
trivellazioni sul territorio nazionale, ma rilevando che era necessaria la somma
di 200 milioni, di cui un quarto dovrebbe essere versato dallo Stato.
Ma c’era il deficit di bilancio. Una partenership, anche dal punto di vista tecnico
era ancora necessaria.
E’ a questo punto che Gelesio Caetani, ambasciatore a Washington, ma anche
esperto ingegnere minerario, prospetta un accordo con la Sinclair Oil, anche per
le necessità degli approvvigionamenti petroliferi.
Si misero quindi in moto tutta una serie di situazioni che portarono il Duce ad
indirizzarsi in un certo modo.
Fatto sta che l’avvento di Corbino, con il nuovo ministero dell’Economia
Nazionale, che si aggiunge alle nomine già in auge dal novembre del 1922 di
Gelesio Caetani ambasciatore in America e il ministro dei lavori pubblici, il
fascista siciliano Gabriello Carnazza,
rafforzò, nell’ambito che stiamo
prendendo in considerazione, la presenza di uomini con interessi privati, come
il Corbino e il Carnazza,, o legati al mondo finanziario, alle banche, la
Guggenheim per esempio, come Caetani (con moglie inglese), tanto che
l’ambasciatore aveva subito fatto entrare nel giro anche Guido Jung, industriale
e finanziere ebreo, che per i suoi ottimi rapporti allargò le relazioni con il
mondo finanziario americano ai Rockefeller, i Morgan, ecc.
A dicembre del ’22, lo Jung era già al lavoro come ministro plenipotenziario.
84
La Convenzione con la Sinclair Oil
E veniamo così alla Sinclair Oil perché fu in questo contesto che a luglio del
1923 vennero in Italia Jung e Caetani, anche a supportare le proposte della
compagnia americana che puntava ad una Convenzione con il nostro paese.
A settembre poi venne in Italia anche il banchiere Otto Kahn consulente del
gruppo finanziario newyorchese dei maggiori azionisti della Sinclair.
Kahn venne ricevuto da Mussolini ed essendo comproprietario della
Westinghouse con il gruppo Mellon, per un giro di amicizie e relazioni, entrò in
ballo a presenziare alle udienze anche Aldo Finzi sottosegretario agli interni, che
a questi gruppi imprenditoriali era vicino.
Nel colloquio con Mussolini si parlò anche di ricerca petrolifera e sembra che il
Duce si mostrò favorevole alle trattative con la Sinclair.
Il procedere in questo senso vede un certo zelo di Cesare Rossi nei comunicati
ufficiali e di Filippo Filippelli sul Corriere Italiano, non sfavorevole agli accordi.
E già da qui si potrebbe sospettare un certo giro di tangenti use a oliare certi
ingranaggi. Tutte situazioni inevitabili, soggette a cambiamenti e a latere di
Mussolini.
Matteo Matteotti, e Giuseppe Rossini affermano che l’affare Sinclair, procedeva
a tenaglia. Da una parte Caetani e, dall’altra, forse attraverso De Bono, che a
sua volta agiva su Rossi e Finzi, la Corona. A completare il quadro poi Pippo
Naldi e il banchiere ministro plenipotenziario onorario a Washington, Guido
Jung quale consulente finanziario in stretto contatto con Caetani e Arthur
Weatch vicepresidente della Sinclair.
Si comprende quindi come tutta questa situazione sia complessa, che
sicuramente vi girano tangenti, come scorretto costume della Sinclair, ma che il
procedere di Mussolini non può essere interpretato unicamente nell’ottica del
malaffare.
Ci furono poi delle impasse alle trattative perché certa stampa, evidentemente
legata a interessi rivali, compreso il Nuovo Paese di Carlo Bazzi (altro giornale
ambiguo, oppure Il Corriere dei Petroli di Giorgio Cavallotti) mise in risalto che
la Sinclair in America era stata coinvolta in un grosso scandalo comprensivo di
tangenti, quello di “Tea Pot Dome” e si vociferava di intese e dipendenza tra la
Sinclair Oil e la Standard Oil.
L’8 marzo del ’24 Mussolini incontra Corbino, il quale, particolare veramente
curioso, cominciava ad avere perplessità sulla Sinclair e poi invia alle nostre
ambasciate a Londra e Washington e alle legazioni di Teheran e Mosca richiesta
di esplicite informazioni a conferma delle voci di accordi segreti tra la Sinclair
Oil e la Standard Oil.
Il 10 marzo inoltre rifiuta, a causa delle voci dello scandalo americano che
giravano sulla Sinclair di incontrarne il rappresentante in Italia che, in
ripartenza per gli Usa, desidera vederlo, scrivendo sul foglio di richiesta delle
udienze “che dopo le voci di questi scandali se ne può tornare in America senza
vedermi”.
85
Alcuni, come lo storico Canali, vedono in queste manovre di Mussolini solo una
manfrina, una certa prudenza a causa delle imminenti elezioni, ma in realtà
ritengono che il Capo del governo, avendo in ballo le tangenti della Sinclair, solo
questo interesse sta perseguendo. Noi invece riteniamo che Mussolini, su questa
questione petrolifera, sta seguendo un disegno politico molto più ampio, un
silenzioso confronto anche con ambienti come la Commerciale con cui sta
entrando in conflitto (come vedremo tra poco); le tangenti, se ci sono, come ci
sarebbero in qualsiasi altro accordo del genere, sono del tutto secondarie, e non
riguardano accaparramenti personali del Duce, ma semmai per personaggi del
partito e del governo.
[Come abbiamo fatto notare in una precedente nota è incredibile che il
Canali non affronti il problema delle ingerenze vampiresche dell’Alta
Banca con cui Mussolini deve fare i conti. Si vedano tutte le volte che
nei suo libro egli cita la Commerciale, e non si troverà un sospetto,
una critica, anzi. E questo fa il paio con il ruolo della Massoneria.
Eppure Finanza e Massoneria, sono al centro del delitto Matteotti, ma
si sa, il Canali ha cancellato gli aspetti politici di quel delitto e per
quelli finanziari contano solo le presunte tangenti di Mussolini]
Comunque, a gennaio dello stesso 1924, dopo la costituzione di una nuova
società petrolifera, la SAPER, in comune tra la Commerciale e la Standard Oil e
dopo le sue richieste di esplorazione di terreni in Sicilia, il ministro
dell’Economia Nazionale Corbino aveva fatto presente alla Commerciale che sul
territorio siciliano vi erano già in atto trattative per la richiesta di un accordo
con la Sinclair Oil. Il 22 febbraio però Corbino annunciava al senatore
Cremonesi della Saper l’interruzione di queste trattative con la Sinclair, facendo
anche capire che egli intendeva abbandonare il progetto in atto. Una nota
scritta, sicuramente da Toeplitz, indicava che tutto lasciava
prevedere il buon esito, per la Commerciale, per le richieste Saper.
Proprio alla fine di febbraio e i primi di marzo però si viene anche a sapere che
il Capo del governo è intenzionato a chiudere gli accordi con la Sinclair.
Ed infatti Mussolini era risoluto a portare a termine queste trattative, anche se
si vedrà costretto, in prossimità delle elezioni del 6 aprile 1924, sotto l’offensiva
della stampa, offensiva alla quale sicuramente la Commerciale ed altre
compagnie petrolifere non erano estranee, a fermarle, per riavviarle poi con
discrezione.
Un passo indietro per accennare che alla fine del 1923 anche la britannica Apoc,
grazie ad un accodo con il Ministero delle Finanze, aveva rilevato a S. Sabba
presso Trieste (proprio vicino ai depositi della Standard Oil), i depositi cisterna
di una ex società austriaca e quindi al fine di operare nel mercato italiano,
costituì la Benzina Petroleum società mista con capitale anglo italiano.
La concorrenza tra la britannica Apoc e la Standard Oil, con il nuovo anno 1924
si annunciava quindi più acuta e molti ritengono che alla Standard Oil, proprio
per tenere fuori dalle ricerche sul nostro territorio i rivali, poteva tornargli
anche utile la Convenzione che stava perseguendo la Sinclair con il nostro
governo.
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E qui accadde un fatto difficilmente inquadrabile, se non per congetture.
Come abbiamo accennato la Standard Oil, dopo aver rinunciato a presentare sue
richieste di concessioni, si era associata a gennaio con la Banca Commerciale,
costituendo una nuova società petrolifera, la Saper.
Nei mesi caldi che precedono l’accordo con la Sinclair Oil vedremo anche uno
strano ripensamento del ministro Corbino sull’accordo stesso, strano
ripensamento nel quale noi ci vediamo lo zampino dalla Standard Oil e della
Commerciale, ma è difficile individuarne la strategia precisa.
[Una domanda: se, come si dice, dietro la Sinclair vi è la Standard Oil,
e se come molti attestano il ministro Corbino, ha anche preso tangenti
dalla Sinclair, perchè ora lo stesso, ha un ripensamento? Ergo tutta
questa faccenda è molto più complessa]
Fatto sta che resa nota ad aprile la prossima firma del decreto legge che
assicurava alla Sinclair il monopolio sulle ricerche petrolifere in ampie aree del
nostro sottosuolo (Emilia Romagna e Sicilia), la Standard Oil, tramite i dirigenti
della Siap, inviarono un telegramma a Roma a Filippo Cremonesi, presidente
della Saper, affinché si attivasse per bloccarne la firma.
Al contemp0 l’amministratore delegato della Commerciale, Toeplitz, spediva un
telegramma di protesta a Mussolini, in visita in Sicilia con il quale si lamentava
degli accordi con la Sinclair che assicuravano a questa compagnia il monopolio
delle esplorazioni nel nostro sottosuolo, senza esser stata messa in concorrenza
con la proposta Saper.
Sembra poi che la Standard Oil, dal marzo 1924, dopo che la Sinclair oramai
aveva idealmente raggiunto l’accordo per la Convenzione, aveva cercato forti
contatti nel nostro governo, tramite Filippo Filippelli del Corriere Italiano.
Risulterebbe poi che tramite tal Francesco Terrizzani, amministratore della Siap
(Standard Oil) e della Saper (Standard Oil e Commerciale) e dopo incontri con
Cesare Rossi, capo ufficio stampa della presidenza del Consiglio e Giacomo
Acerbo, sottosegretario alla Presidenza del Consiglio, venne versato del denaro,
con una prima rata di un milione di lire, nelle casse di Filippelli, per la buona
riuscita di “concessioni petrolifere”.
Il quesito che nasce, porta ad domanda: se oramai la Concessione alla Sinclair
aveva monopolizzato lo sfruttamento dei terreni della Sicilia e della Romagna,
quale altra concessione veniva ora a pagare la Standard Oil?
La difficoltà di rispondere esattamente a questa domanda porta ad una
congettura: non è che per caso quel milione riguardava invece la buona riuscita
degli accordi con la Sinclair, confermando che dietro questa c’era la Standard
Oil? E nel caso la Standard Oil avrebbe anche fatto un certo doppio gioco con la
Commerciale, ma quale necessità poteva avere per farlo?
A questa congettura se ne aggiungeva un'altra. Quel milione restava al Filippelli
e il suo Corriere Italiano, o veniva in buona parte dirottato al Popolo d’Italia di
Arnaldo Mussolini?.
A nostro avviso, congettura per congettura, noi riteniamo che la
Standard Oil, valutando realisticamente la situazione, prendendo
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atto della volontà governativa di arrivare alla Convenzione con la
Sinclair, dopo aver cercato, anche con la Saper (e quindi la
Commerciale), di entrare in concorrenza, abbia fatto una scelta
strategica, ovvero considerando preminente di chiudere il mercato
italiano alla potente rivale britannica Apoc, ha ritenuto confacente o
non pericolosa la Convenzione appena raggiunta dalla Sinclair Oil,
ben sapendo che questa compagnia minore, in qualche modo può
sempre controllarla attraverso le fonti finanziarie, banche Morgan e
35
Rockefeller che la sostengono.
E’ da questo momento quindi che si può ritenere che la Sinclair Oil
torna confacente anche alla Standard Oil la quale poi finirà per
fagocitarla del tutto. In questo campo, del resto, guerre, scontri,
accodi, rinunce e nuove strategie, si susseguono a ritmi vertiginosi.
Altrimenti bisognerebbe considerare che la Standard Oil ha fatto un doppio
gioco con la Commerciale, un doppio gioco dai fini incomprensibili e contro una
sua vecchia e attuale partner in diversi affari e interessi, il ché ci sembra
alquanto improbabile.
Ma in sostanza, quale erano i veri fini dell’operato di Mussolini, nel privilegiare
gli accordi con la Sinclair, che per quanto sia non crediamo erano finalizzati al
procacciarsi tangenti, ma erano complementari ad un più ampio gioco politico
e di potere e a noi danno oggi la precisa impressione che Mussolini con la sua
politica, i suoi equilibri, le sue iniziative, fosse seduto ad un delicato e pericoloso
tavolo da gioco, con amici, comprimari, nemici giurati ed avversari. Un roulette
russa che poi con il caso Matteotti gli esploderà in faccia e per chi guarda da di
fuori, può dare la sensazione della sua complicità nel malaffare.
[In queste storie, bisognerebbe anche considerare un aspetto mai
sufficientemente appurato, ovvero l’influenza sotterranea di Casa
Savoia nell’appoggiare la Sinclair Oil. Molti ne hanno parlato,
sostenendo che il vero scandalo lo paventava il Re. Prove tangibili in
questo senso non si sono trovate, poi storici come il Canali hanno
ripiegato sulle “tangenti” di Mussolini].
Ma Mussolini per mantenere il potere, da una posizione di debolezza rispetto ad
altre forze ben più potenti, doveva pur destreggiarsi, doveva o no dividere gli
avversari e appagare certi appetiti?
Era un caso che Giorgio Cavallotti anche dalle pagine del “Nuovo Paese” di
Bazzi sparava a zero contro la Convenzione con la Sinclair, tanto da destare
anche l’interesse di Matteotti (lo aveva rivelato Nino Ilari un redattore del
giornale e amico di Matteotti) oppure era il sintomo che c’erano in gioco anche
altri interessi? Stiamo infatti parlando del “Nuovo Paese”, un giornale meno
legato al fascismo rispetto al Corriere Italiano, ma a specchio di questo con le
stesse funzioni di promuovere o sostenere grossi interessi e con tanto di
direttore massone, grande amico di Cesare Rsosi, distintosi in molti traffici
durante la guerra assieme all’ ineffabile Pippo Naldi e anche dopo con la
faccenda dei residuati bellici.
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Comunque sia, finalmente, il 29 aprile ’24 erano stati firmati gli
accordi con la Sinclair che due giorni dopo furono approvati dal
Consiglio dei Ministri e il 4 maggio il Re firmava i relativi decreti
legge.
La Convenzione con la Sinclair Oil gli concedeva per i primi 3 anni il monopolio
esclusivo della ricerca di oli minerali, gas naturali ed idrocarburi, in regioni
considerate geologicamente promettenti, come la Sicilia e l’Emilia per 75 mila
chilometri quadrati di territorio, un quarto di quello nazionale.
Delle clausole consentivano alla società americana di disporre di quel territorio
e quindi di impedire che altre compagnie facessero ricerche nelle aree
promettenti per 10 anni, al termine dei quali la compagnia doveva indicare un
area più ristretta in cui avviare la produzione per tutta la durata della
Convenzione che era di 50 anni.
Anche le agevolazioni fiscali erano molto estese.
Abbiamo rievocato queste vicende per evidenziare che, a nostro avviso, l’ipotesi
di un coinvolgimento nel malaffare da parte di Mussolini resta solo una
congettura, mentre invece gli interessi di casa Savoia restano occultati.
Ogni ipotesi, infatti, resta pur sempre avvolta in una situazione molto complessa
dove non si hanno assolute certezze sui segreti accordi e controlli azionari della
Sinclair Oil e sui veri rapporti di forza internazionali al tempo (1923 /’24)
esistenti nel campo petrolifero e in rispetto al nostro paese.
Per sintetizzarla qui, l’ipotesi che tira dentro il giro delle tangenti Mussolini in
36
persona,
parte dal presupposto che nel nostro mercato petrolifero, la
britannica Anglo-Iranian Oil Company, Apoc, in concorrenza con la Standard
Oil, trovò che il nostro ambasciatore a Washington Gelasio Caetani, si fece
portavoce di altra azienda statunitense, la Sinclair Oil, azienda minore, ma già
coinvolta e condannata nel 1929 in uno scandalo negli Stati Uniti, e che si
suppone agirebbe per conto della Standard Oil di John D. Rockefeller.
Fatto sta che il governo fascista si mette a trattare con la Sinclair Oil una
Convenzione a costi complessivamente più onerosi di quelli che forse potrebbe
avanzare la Compagnia inglese e che verrà invece approvata dal Consiglio dei
Ministri dopo le elezioni dell’aprile 1924.
La Sinclair Oil, con questa Convenzione, ottenne così l’esclusiva per la ricerca e
lo sfruttamento di tutti i giacimenti petroliferi presenti nel territorio italiano,
come in Emilia Romagna e in Sicilia e ampie esenzioni dalle imposte.
Insomma si era assicurata un vero monopolio.
Il tutto ruotava attraverso il sistema delle tangenti. In ballo c’era poi anche
l’impegno verso un ente petrolifero statale – ergo, italiano – di non
intraprendere trivellazioni nel deserto libico, colonia italiana.
I mediatori del governo italiano con la Sinclair furono politici del Pnf,
imprenditori e diplomatici (i ministri dell’economia nazionale Orso Mario
Corbino e dei lavori pubblici Gabriello Carnazza), molti con interessi personali
anche in Sicilia e in America. Tra i mediatori, si afferma qui, vi sarebbe anche
Filippo Filippelli con il suo «Corriere Italiano» il quale sarebbe legato ad
Arnaldo Mussolini.
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Logico, ne deduce, per esempio, Mauro Canali, che il governo britannico
interpretò gli accordi fra il governo Mussolini e i nordamericani della Sinclair
Oil come un attacco diretto ai suoi interessi e la stampa britannica, di ogni
tendenza, protestò e si fece sentire.
Ed è qui che spunta Giacomo Matteotti segretario del PSU (il leader era Filippo
Turati, fondatore del Psi) di casa in Inghilterra e molto vicino al Indipendent
Labour Party, che era al potere (e aggiungiamo noi: tutto questo anche in virtù
di qualche fratellanza massonica).
Durante il viaggio a Londra di aprile 1924, si suppone che Matteotti acquisì le
prove della corruzione presente nell’affare Sinclair, o per lo meno informazioni
che in parte erano già in suo possesso.
Canali indica che erano in progetto tangenti (nella accennata intervista ad Oggi
parla di 40 miliardi di lire attuali (anno 2000), ma non si sa quanto doveva, di
questa cifra, pagare la Sinclair) che dovevano finire anche ad Arnaldo Mussolini
(pochi giorni prima della stipula della convenzione, dicesi ricevette una prima
rata pari a un milione di lire, a cui ne sarebbero dovute seguire altre dalla Siap,
filiale italiana della Standard Oil, filtrate attraverso il Corriere Italiano).
A prescindere da questa ipotesi, che a nostro avviso è costituita da una serie di
congetture, il problema vero di tutto questo è, in ogni caso, quello di stabilire
chi effettivamente sarebbe stato colpito e danneggiato dalle denunce e
rivelazioni alla Camera da parte di Matteotti, perchè in ballo, oltre a vari
ambienti e potentati economici, c’era anche il Re Vittorio Emanuele III, e i suoi
impegni a mantenere celati i giacimenti in Libia, oltre agli affari sulle case da
gioco, e altro ancora, con in primo piano gli interessi della Banca Commerciale.
Storici e giornalisti storici che seguono le tesi del Canali, attestano che presero
tangenti dalla Sinclair i ministri Gabriello Carnazza dei Lavori Pubblici, e Orso
Mario Corbino, entrambi massoni di Piazza del Gesù.
Noi riteniamo che solo chi temeva direttamente e personalmente certi scandali e
il delinearsi di politiche non favorevoli per il futuro, come per esempio un
governo aperto ai socialisti moderati, con tanto di riavvicinamento alla Chiesa e
non vedeva possibilità di parare il colpo, poteva giocare il tutto e per tutto e
arrivare al rapimento e alla soppressione di Matteotti.
Oltretutto se Matteotti aveva veramente avuto delle documentazioni
scandalistiche a Londra, queste non potevano che coinvolgere il Re, non certo le
tangenti girate in Italia per l’affare Sinclair.
Per la cronaca dopo l’omicidio Matteotti, con feroci campagne di stampa che
ponevano il problema del dubbio su chi c’era dietro la Sinclair Oil, la famigerata
Convenzione con la Sinclair, firmata il 29 aprile 1924 non ebbe mai attuazione.
Mauro Canali sostiene he Mussolini cercò di procedere oltre e anche Jung era
intenzionato ad attuare gli accordi e fino alla imminenza del dibattito
parlamentare di novembre, Cesare Nava il ministro che veniva dai Popolari e
che dal 1 Luglio è succeduto a Corbino (lo steso 1 luglio lasciò il Ministero dei
Lavori Pubblici, anche il Carnazza) era ben deciso a sostenere questi accordi,
alla fine il Duce si dovette arrendere e il progetto venne abbandonato.
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Come testimoniò un anziano Dino Grandi, negli anni ‘80 a Marcello Staglieno,
Mussolini ritenne coinvolto nel malaffare Sinclair il ministro Orso Mario
Corbino, magari innocente per l’assassinio di Matteotti e lo fece dimettere.
E’ possibile che il Duce volle, nonostante tutto, procedere nel suo progetto
petrolifero (non certo per le tangenti), ma è anche vero che il 20 novembre 1924
incaricherà una Commissione che, valutati attentamente i termini dell’accordo
con la Sinclair, determinerà il fatto che il 4 dicembre 1929 Mussolini
emanò un comunicato nel quale si dichiarò “personalmente
contrario alla ratifica della Convenzione Sinclair”.
Il rappresentante in Italia della Sinclair, Wulkoff, si mostrò particolarmente
colpito dal cambiamento di Mussolini ed ebbe anche ad esprimere
all’ambasciatore britannico a Roma, il sospetto che dietro questo ripensamento
c’era stato l’intervento inglese.
Alla fine del gennaio 1925 la Sinclair Oil ricevette indietro la cauzione di un
milione di lire che aveva versato, ma perse tutte le spese che aveva affrontato
fino a quel momento. Provò a richiedere questo risarcimento, ma trovò un
fermo rifiuto e tutto finì lì.
Resterà infine dubbio un aspetto del problema a cui abbiamo accennato, cioè il
fatto che molti, danno per scontata la dipendenza della Sinclair Oil dalla
Standard Oil di Rockefeller, ma ne siamo certi?
Vediamo un momento anche questa faccenda.
C'era la Standard Oil dietro la Sinclair Oil?
Se possiamo dare per scontato che l’americana Sinclair Oil ad un certo
momento verrà fagocitata dalla connazionale Standard Oil di Rockefeller e poi
scomparve, meno certo, come invece molti asseriscono, è che questa compagnia
sia stata una copertura della Standard Oil fin dagli inizi delle trattative per la
Convenzione stipulata con il governo fascista nel 1924.
Si dice che precedentemente la Sinclair era stata sostenuta da alcuni gruppi
finanziari di New York come la banca di John D. Rockefeller e la banca Morgan
e questo farebbe sospettare che la compagnia minore era controllata dalla più
grande compagnia americana.
In pratica si sostiene, per le vicende che ci interessano, che la Standard Oil, con
uno stratagemma, si era servita della Sinclair, compagnia da lei controllata la
quale, tramite le tangenti, si sarebbe assicurata certe concessioni facendo il
gioco della Standard Oil impegnata in rivalità con la britannica Apoc.
Noi non abbiamo elementi certi per esprimerci in un senso o nell’altro.
Forse però chi ha inquadrato meglio questo problema è lo storico Mauro Canali
che esprime questo parere:
«Sarebbe sbagliato con questo concludere che la Sinclair Oil fosse
una controllata della Standard Oil, ma certamente per la sua
dipendenza finanziaria, dal “money trust” newyorkese, di cui la
91
banca Rockefeller era autorevolmente esponente, essa non era
assolutamente in grado di resistere a eventuali pressioni che il
colosso petrolifero avesse ritenuto necessario, per motivi strategici,
esercitare su di essa, soprattutto tramite la casa Morgan».
Nelle pagine precedenti, noi abbiamo avanzato una nostra ipotesi, sorretta dalla
valutazione di tutti quegli avvenimenti, per la quale vediamo la Standard Oil
che ad un certo punto resasi conto che la Sinclair Oil era arrivata agli accordi
con il governo, compie una scelta strategica, considerando che la sua vera rivale
è la Apoc britannica, e quindi considera la Convenzione raggiunta dalla Sinclair,
una compagnia minore che può sempre controllare o ricattare in qualche modo,
come meno deleteria, se non conveniente per il controllo del mercato italiano.
Siamo comunque in un campo problematico, dove guerre, accordi, passaggio di
azioni e altro, si susseguono di continuo e in breve tempo e quindi resta difficile
avere il quadro esatto del momento che interessa.
In proposito vediamo però anche alcuni elementi espressi da Franco Scalzo,
nella sua opera citata, dove fa notare che in America al tempo dello scandalo che
coinvlsre la Sinclair Oil, i Rockfeller fecero in modo di mettere in ginocchio la
più piccola compagnia americana che voleva lanciarsi nel mercato. Scalzo,
giustamente, mette in risalto lo strano comportamento del ministro Corbino,
che precedentemente noi abbiamo definito difficile da comprendere, soprattutto
se la Sinclair Oil fosse una succursale della Standard Oil, tanto cara a Corbino.
Ancora Scalzo, dopo aver osservato che nel 1923 proprio la Sinclair in America
fu coinvolta nel clamoroso scandalo "Tea Pot Dome" (ne parla lo storico G. Spini
nella lettera riportata nel prossimo capitolo N. d. A.), che ledeva gli interessi di
Rockefeller il quale, infatti, attivò tutti gli strumenti, con in testa la stampa di
Hearst e i migliori procuratori legali, per farlo esplodere e distruggere la
concorrenza, il giornalista scrittore ha affermato:
«…la Sinclair è una cosa e la Standard Oil un altra cosa ancora: due soggetti
che non hanno nulla in comune se non tranne l'intenzione di battersi tra di loro
fino a che l'uno non si liberi definitivamente dell'altro e non lo scorga mentre
sparisce dalla linea dell'orizzonte. Se così non fosse, infatti:
a) il Corriere dei Petroli che è il giornale di Giorgio Cavallotti,... non
ricaverebbe dalla Standard Oil da cui è pagato, l'ordine perentorio di lanciare
una tambureggiante campagna di stampa contro la Sinclair e di rovesciarle
addosso tutto il peso dei suoi trascorsi burrascosi;
b) la Siper, una società italiana standardizzata dalla Standard Oil (e dalla
Commerciale N.d.A.), non invierebbe alla Presidenza del Consiglio in data 20
maggio 1924, un poderoso dossier fatto di appunti, di statistiche, di note
autobiografiche, per recriminare contro il Governo che si è affidato a degli
operatori stranieri senza tener conto dei progressi tecnici compiuti dalle
imprese nazionali e dai propri dipendenti in particolare nel settore delle
prospezioni petrolifere sia dentro che fuori i confini del paese...
c) il direttore del Corriere Italiano, Filippo Filippelli, che verrà più avanti
inseguito da un mandato di cattura come corresponsabile del delitto Matteotti
e fermato poco prima di espatriare in Francia con un passaporto falso
92
procuratogli da l'ineffabile Filippo Naldi, non andrebbe a far visita al ministro
dell'Economia Nazionale Corbino, per chiedergli, in nome degli interessi che
rappresenta e che sono, tra l'altro, rappresentati da uno dei finanziatori del
suo giornale, tale Dino Concina, amministratore delegato della Società Italo
Americana per i Petroli (la filiale italiana della Standard Oil) di riportare
indietro, con la moviola, la registrazione degli atti politici dai quali è scaturito
il pateracchio con la Sinclair e che faccia comunque, i passi necessari perché
essa venga subito revocata così da dare agli uomini del governo che l'hanno
sottoscritta il tempo di farsi venire in testa un idea migliore;
d) la Standard Oil non manovrerebbe in Persia, nel febbraio del '24 per far
fallire le trattative fra la Sinclair e i governanti di tale paese, esercitando sulla
stampa locale pesanti pressioni, a suon di dollari, perché dia ampio risalto alla
corruzione operata dai propri avversari sui politicanti di Teheran per
impadronirsi delle immense riserve petrolifere, ancora intatte, custodite nel
sottosuolo della regione;
e) il giorno 20 maggio, la Voce Repubblicana non dichiarerebbe che "è
accertato che l'ambasciatore d'Italia, principe Caetani, sarà presto richiamato
a Roma in seguito sua condotta per gli affari dei petroli..." e che "... il governo
di Washington avrebbe già fatto sapere al governo d'Italia che non gradisce
più l'Ambasciatore il quale conclude così infelicemente il suo esperimento
diplomatico ", perché è evidente che se negli Stati Uniti si arriva alla
determinazione di negare il gradimento a Caetani, dopo che questi ha condotto
riservatamente i negoziati con la Sinclair per la cessione a suo favore dei
petroli italiani (assieme ai macchinari ricevuti poco tempo prima dalla
Germania in conto riparazioni di guerra, per un controvalore di parecchie
decine di milioni di lire e all'esenzione per dieci anni dal pagamento
dell'imposta di ricchezza mobile, l'iniziativa non può non essere stata
raccomandata a Washington che dalla Standard Oil, senza il parere della
quale non c'è nulla che si muova in America e non c'è pedina, inoltre, che
l'America osi muovere sullo scacchiere internazionale se la posta è costituita
dall'oro nero»
Ma ancora lo stesso Scalzo fece anche notare che quando ad Aldo Finzi, interno
a un certo ambiente colluso con il mondo degli affari, si voleva far confessare di
aver trescato con la Sinclair, questi rispose decisamente che tale situazione non
si sarebbe mai determinata perché sapevano tutti che, se lui avesse avuto la
facoltà di assegnare ad una compagnia straniera il monopolio dei petroli italiani,
lo avrebbe senz'altro ceduto alla Standard Oil.
Ma anche, l’Humanitè scrisse il 23 luglio del 1924 che la “Commerciale” aveva
ceduto ad una compagnia inglese (non si sa se l’Anglo Persian o la Shell) i
terreni petroliferi della Sicilia, chiaramente per complicare le trattative tra la
“Sinclair” e il governo fascista per la rilevazione da parte della società americana
di tutto l’oro nero esistente nella penisola.
Giustificati quindi i tanti dubbi in proposito.
Tutta questa faccenda del vero ruolo della Sinclair Oil non è una questione da
poco, perché in caso non bisognerebbe più considerare una concorrenza in atto
93
tra la Standard Oil e la Anglo Persian, a cui il governo fascista, privilegiando la
convenzione con la Sinclair (succursale della Standard Oil) danneggia i
britannici e fa, dietro il paravento della Sinclair , gli interessi della Standard Oil,
ma ad un contenzioso più ampio, che almeno per un certo tempo, vede invece
la Sinclair strappare, un certo monopolio nel nostro paese e in mezzo si
muovono, tutti insieme, la Standard Oil, la Anglo Persian, la Shell e persino i
Sovietici nuovi arrivati.
Considerando quindi la ricorrente comunanza di interessi tra la “Commerciale”
e la Standard Oil, l’operato di Mussolini, assumerebbe un'altra rilevanza e si
porrebbe ancora una volta contro l’Alta Banca.
Ma tutto sommato, Mussolini potrebbe anche aver agito, privilegiando la
Sinclair Oil, a prescindere da chi questa fosse veramente controllata, perché è il
suo gioco politico d’insieme che a lui interessa.
Se al contempo vari personaggi, gruppi finanziari e altro, in particolare quelli
che ruotano attorno alla Commerciale, al Corriere Italiano, i vari Finzi, Filipelli
ed altri, uomini abituati a trafficare tra la politica e gli affari, così come ministri
quale Corbino, Carnazza, ecc., sono interessati in un modo o nell’altro a portare
avanti o stroncare certi accordi, certi affari, è tutta una altra storia.
Una cosa, per noi è certa, la faccenda delle tangenti, è del tutto secondaria
nell’operato di Mussolini.
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Una lettera dello storico Giorgio Spini
Come informazione è interessante una lettera, oggi seppur datata, inviata
dallo storico Giorgio Spini al giornale La Stampa di Torino nel 1978, in risposta
ad un articolo di Giancarlo Fusco sul “caso” Matteotti.
La lettera, che parla anche della Sinclair, però non venne pubblicata.
«Sulla Stampa dello scorso 2 gennaio (1978, n.d.r.) Giancarlo Fusco ha
rivelato le confidenze intorno al delitto Matteotti fatte da Aimone di Savoia ad un
gruppo di suoi ufficiali nell’autunno del 1942. Secondo queste confidenze,
Matteotti era entrato in possesso di documenti i quali provavano che Vittorio
Emanuele III aveva fatto un losco patto con una compagnia petrolifera
straniera: “La potentissima Sinclair Oil, affiliata alla Anglo Persian Oil, la futura
British Petroleum”. La Sinclair aveva fatto entrare il re tra i suoi azionisti
gratuitamente: in cambio il sovrano si era impegnato ad esercitare la propria
autorità per impedire che venissero sfruttati i giacimenti petroliferi in Libia.
Dopo il discorso di Matteotti alla Camera del 30 maggio 1924, in cui il deputato
socialista aveva denunciato i crimini commessi dai fascisti durante le elezioni di
quell’anno, Mussolini aveva ordinato alla banda Dumini di aggredirlo: però
avrebbe dovuto trattarsi di una delle solite manganellature soltanto. Invece,
giusto allora, Emilio De Bono venne a sapere, in qualità di capo della polizia,
che Matteotti era in possesso di questi documenti compromettenti per il re e che
li portava sempre con sé in una borsa. De Bono volò da Vittorio Emanuele III a
raccontargli la cosa e i due si accordarono sulla necessità di sopprimere
addirittura Matteotti, anziché bastonarlo soltanto, e di asportare dalla sua borsa
i famigerati documenti.
L’8 giugno 1924 De Bono convinse Dumini ad eseguire tutto ciò, mediante una
somma di denaro, e due giorni dopo Matteotti fu rapito ed assassinato. Né si
sentì più parlare dei documenti riguardanti il patto fra il re e la Sinclair.
Giancarlo Fusco conclude il suo articolo dicendo di non sapere fino a che punto
questo racconto del Duca di Aosta possa essere un’alternativa attendibile alla
versione “storica” dei fatti. Neppure io lo so: e non pretendo di aggiungere altre
rivelazioni a quella di Fusco. Ma posso almeno indicare chi era il petroliere
Sinclair perché lo sa chiunque abbia letto un manuale di storia americana. Era
uno dei protagonisti del leggendario affare del Tea Pot Dome, cioè uno dei più
clamorosi scandali dell’America del primo novecento.
Nel 1921, il segretario agli Interni dell’amministrazione repubblicana Harding,
Albert G. Fall, concesse con procedura del tutto irregolare alla Mammoth Oil
Co., di cui era presidente H. F. Sinclair e ad altre compagnie, lo sfruttamento di
alcuni giacimenti petroliferi, tra cui uno nel Wyoming chiamato Tea Pot Dome,
che invece avrebbero dovuto restare a disposizione della marina americana per
eventuali esigenze belliche. La cosa si riseppe e venne usata dai democratici
per montare una clamorosa campagna contro l’amministrazione Herding. Fall fu
processato sotto l’accusa di essersi fatto corrompere e finì in galera. Altre
complicate vertenze giudiziarie seguirono, fra cui un processo per corruzione
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nel 1928 contro Sinclair, da cui il petroliere uscì assolto benché la stampa
sostenesse a gran voce la sua colpevolezza.
L’affare Sinclair ed i suoi strascichi giudiziari si chiusero infine nel 1932, ma
restano ancora oggi proverbiali in America come esempio di losca connessione
tra affaristi e politicanti. Dunque, laddove Aimone di Savoia parlava della
Sinclair come di una compagnia inglese connessa con l’Anglo Persian Oil, si
trattava in realtà di un magnate americano del petrolio già avvezzo a
combinarne delle belle con personaggi politicamente altolocati.
Forse è inesatto altresì che si trattasse di impedire lo sfruttamento dei
giacimenti petroliferi in Libia. Come vedremo fra un momento, H. F. Sinclair
voleva ottenere l’esclusiva per la ricerca del petrolio sul territorio stesso
dell’Italia a favore della Standard Oil. Fusco ne è stato il primo – per quanto
almeno ne so – a fare il nome di Vittorio Emanuele III in connessione con quello
di Sinclair. Ma già al tempo dell’affare Matteotti qualcosa trapelò di questo
intrigo, sia pure senza che si parlasse mai di sua maestà il re. A quel tempo,
infatti, una parte della stampa, cioè quella filofascista, mise in circolazione
la voce che Matteotti era stato ucciso non già per colpa di Mussolini, ma
per impedirgli di rivelare gli affari sporchi in cui erano coinvolti Finzi,
Filippelli e la banda che ruotava intorno al Corriere Italiano. E fra l’altro fu
detto che costoro erano stati pagati da H. F. Sinclair per ottenere quella
esclusiva alla Standard Oil delle ricerche petrolifere in Italia, cui sopra si è
accennato. Fra gli altri nomi che vennero fatti, v’era quello dell’Onorevole
Guido Jung. Jung era stato in America nel 1922, come esperto finanziario
dell’ambasciata italiana a Washington: poteva dunque avere conosciuto Sinclair
colà. Nel 1924 era stato eletto deputato nel “listone” fascista; e fu poi
denunciato durante l’affare Matteotti, come complice dell’intrallazzo Sinclair.
Può essere interessante ricordare che per l’appunto un periodico filo-fascista di
New York, Il Carroccio, diretto dall’italo-americano De Biase, fu particolarmente
violento nell’accusare Jung e la Sinclair di essere i veri colpevoli dell’uccisione
del leader socialista. Tuttavia Jung superò questo incidente senza danni: tanto
è vero che fece poi una bella carriera, prima come esperto del governo fascista
in varie trattative con banche degli Stati Uniti e poi come ministro delle Finanze.
La stampa antifascista respinse le dicerie sull’affare Sinclair considerandole
come un’espediente per deviare l’attenzione dell’opinione pubblica dalle
responsabilità di Mussolini e dalla reale natura politica del delitto. Anche gli
storici che si sono occupati dell’affare Matteotti sono stati indotti da ciò a
trascurare questo episodio. Solo Giuseppe Rossigni, nel suo libro Il delitto
Matteotti tra il Viminale e l’Aventino, ne dice qualcosa. Anche egli, però, come
Aimone di Savoia, mostra di non sapere chi fosse con precisione Sinclair.
Questo atteggiamento si spiega bene col fatto che nessuno, fino all’articolo di
Fusco sulla Stampa, aveva mai subdorato che lo stesso Vittorio Emanuele III
potesse avere tenuto il sacco a Sinclair.
Ma dopo l’articolo di Fusco, viene da chiedersi se la stampa filo-fascista,
tirando fuori il nome di Sinclair, non lo facesse proprio per minacciare il re
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di vuotare il sacco, qualora sua maestà non avesse sostenuto fino in
fondo Mussolini.
Un altro nome che venne fuori in connessione con l’affare Sinclair fu quello di
un giornalista avvezzo ad avere mano in ogni specie di pasticci: Filippo Naldi.
Oltre ad essere stato il direttore del Resto del Carlino, Naldi era stato uno dei
padrini del mussoliniano Popolo d’Italia. Al tempo dell’affare Matteotti stava
continuando a fare intrallazzi giornalistici: aveva fondato un giornale – Il Tempo
– ed aveva comprato da Filippelli il pacchetto di azioni del Corriere Italiano.
Fu detto anche che aveva altresì lavorato per conto di Sinclair onde chiudere la
bocca ai giornalisti sull’affare dell’esclusiva delle ricerche petrolifere a favore
della Standard Oil. Come si sa fu accusato di avere celato il famoso memoriale
Filippelli e fu arrestato per questo. Ma fu presto liberato e sparì.
L’affare Sinclair venne investigato durante l’istruttoria giudiziaria
sull’assassinio di Matteotti, ma senza risultati. Il giudice istruttore giunse
alla conclusione che la concessione petrolifera era nell’interesse di un
gruppo finanziario antagonistico a quello del Corriere Italiano. E tutto
cadde nell’oblio.
Vorrei però aggiungere un curioso codicillo a questa storia. Nell’autunno 1943,
quando Vittorio Emanuele III scappò a Brindisi insieme con Badoglio,
ricomparve al suo fianco Filippo Naldi, in veste di Ninfa Egeria politica.
E chi ha voglia di avere ulteriori particolari, può trovarli nel libro del compianto
Agostino Degli Espinosa, Il Regno del Sud. Il re e Badoglio erano nei guai
perché avevano bisogno di mostrare agli Alleati di avere un qualche supporto
politico, laddove i partiti del c.l.n. rifiutavano di avere a che fare con loro.
Avevano inoltre bisogno di mettere insieme un governo purchessia, avendo
lasciato a Roma i loro ministri al momento della fuga. Naldi li cavò da queste
difficoltà, mettendo insieme un finto partito, formato di avanzi del vecchio
trasformismo meridionale, sotto il nome di Partito Democratico Liberale, ed
aiutandoli a formare su tale base un ministero.
Questo ministero “liberal-democratico” era composto di personaggi talmente
oscuri che non si osò dare loro il titolo di ministri; e quindi ebbero solo quello di
sotto-segretari. Ma uno almeno di loro aveva un nome ben noto: Guido Jung. In
quanto ebreo era stato cacciato dal governo nel 1938 e quindi poté tornare a
galla nella seducente veste di vittima del fascismo.
Non so se Naldi e Jung abbiano avuto altri rapporti con petrolieri dopo l’affare
Matteotti. Ignoro altresì in che modo essi abbiano potuto ricomparire a fianco di
Vittorio Emanuele III dopo l’8 settembre. So però che a quel tempo, nell’Italia
meridionale, non si muoveva una foglia senza il permesso degli alleati. Non mi
meraviglierei se in qualche archivio britannico od americano esistesse una
pratica “top secret” intitolata a loro.
Come Fusco, sono anch’io ben lontano dall’affermare che la vera causa del
delitto Matteotti vada cercata in questo pasticcio maleodorante di petrolio.
Penso però che si debba riconoscere a Fusco ed alla Stampa il merito di avere
ricordato agli storici una pista finora trascurata, sulla quale varrebbe invece la
pena di fare qualche altra ricerca. Giorgio Spini ».
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LE BISCHE
Certi settori speculativi e finanziari puntavano alla liberalizzazione del gioco
d'azzardo, passando per l'abrogazione della legge che lo teneva al bando e
quindi all'apertura, su concessione governativa, di vari Casinò, in particolare in
zone di forte richiamo turistico.
Le concessioni per l'apertura e la gestione di queste case da gioco, rilasciate dal
Ministero degli Interni, costituivano un enorme giro di affari e di tangenti con
cointeressenze in vari indotti paralleli (ristorazione, vagoni letto, ecc.), in
pratica veniva ad essere coinvolta quella che poteva chiamarsi “l’internazionale
del rosso e nero” un cartello formato dalla “Commerciale”, dal finanziere e
trafficante d’armi levantino Basil Zaharof, da un altro grosso finanziere inglese
nel business dei vagoni letto e trasporti di lusso, alberghi e Casinò, il belga
Georges Marquer che è anche agente del Re di Spagna (con cointeressenze di
grosse banche estere come la potente Banque de Paris et des Pays Bas) e dalla
immancabile Standard Oil che investe ed ha le mani un po’ dappertutto.
Nel 1905, come gli storici hanno rilevato, il gioco d’azzardo in Italia era illegale.
Ma i Prefetti poco si oppongono alle scelte di Comuni che, per sorreggere i
bilanci, si affidano alle case da gioco. Del resto, è proprio intorno ai tavoli di
roulette e baccarat che la Costa Azzurra costruiva la propria prosperità.
Proprio nel 1905 apre il casinò di Sanremo, da un accordo fra una società
francese e il consiglio comunale della città ligure. Negli anni successivi poteri
occulti cercano di legalizzare il gioco d'azzardo, strappando ai governi i
necessari decreti legge.
Si delinea quindi questo trust, tra la Banca Commerciale Italiana, Basil
Zaharoff, la compagnia dei vagoni letto e la Standard Oil che aveva in tutti
questi campi partecipazioni azionarie.
Ovviamente anche il governo fascista viene investito da queste richieste che
trovano orecchie e portafogli sensibili e a Mussolini la cosa si cerca di
presentarla come utile per lo sviluppo della nazione.
Si dice che viene coinvolto anche il fratello di Mussolini, Arnaldo, che non è
alieno a farsi invogliare in qualche giro azionario, ma occorre tenere presente
che Arnaldo, religiosissimo, non è tipo da speculare sul gioco d’azzardo e il suo
portato corruttore e quindi bisognerebbe vedere bene questa insinuazione.
Tanto per dirne una, anche Gabriele D’Annunzio mostrerà di avere interessi
azionari in questo campo. Ricostruire però, ad personam, l’esatto andamento di
queste vicende è difficile.
Sembra che ad un certo punto entri in ballo anche Aldo Finzi, sottosegretario
agli interni, dopo che nel gennaio del 1923 era stata bocciata dal governo una
proposta di liberalizzazione delle case da gioco.
Finzi si fece carico di un progetto che aggirava l’aspetto etico e morale e poneva
invece tutti i vantaggi che potevano esserci nel regolamentare in un certo modo
questo settore. Probabilmente ottiene dal Duce l’avallo a questa operazione
valorizzando tutti i benefici di un ingente flusso di denaro per l’erario italiano.
98
E così ad aprile del 1924 il decreto sulle case da gioco viene finalmente
approvato.
Ma inaspettatamente Mussolini ebbe un ripensamento e avocò a sé, quale
Ministro degli Interni, il progetto di Finzi sul gioco d’azzardo che in tal modo
restò congelato e destinato ad essere abbandonato, perché Mussolini impedì
l’attivazione degli strumenti giuridici e amministrativi che avrebbero consentito
alle Case da gioco di impiantarsi come previsto.
Ma non solo, al contempo Mussolini con una serie di richieste alle forze di
polizia cercò di limitare il flusso di benestanti e facoltosi italiani nelle località
francesi dove andavano a giocarsi ingenti somme, causando un danno alle
finanze nazionali.
Afferma il giornalista storico Giuliano Capecelatro:
«[Finzi] a congruo coronamento della sua vocazione specula in
borsa, al riparo di una potente coalizione finanziaria, forte del
mandato conferitogli dalla Commerciale, ce la mette tutta per non
deludere i suoi patrocinanti, ma va a sbattere nell’opposizione
ostinata di Mussolini, che manda tutto a monte dopo aver firmato il
37
decreto che levava il divieto sulle case da gioco» .
Scrive la “Voce Repubblicana” del 3 maggio 1924:
“Vi è in Europa una potentissima organizzazione sindacale che sfrutta i
trasporti, di lusso, le stazioni termali e balneari, i grandi alberghi, e le grandi
bische, e la Banca Commerciale, controlla una parte di queste aziende,
floridissime disseminate in tutta Europa”.
Il giornale francese “Le Radical” del 18 giugno 1924, in piena sparizione di
Matteotti, scrisse eloquentemente:
“Filipelli si sarebbe associato a un vecchio direttore di giornali a Firenze, di
nome Naldi, ben conosciuto a Parigi al Quai D’orsey durante la guerra, per
“lavorare” i tenutari delle case da gioco.
I benefici di questa operazione si sarebbero ripartiti tra Filippelli, Naldi, e
Cesare Rossi, capo dell’ufficio stampa (della Presidenza del consiglio, n.d.r.),
sotto l’occhio benevolo se non con la vera e propria complicità di Aldo Finzi
sottosegretario di Stato agli interni”.
In definitiva, anche sul gioco d’azzardo, per comprendere la politica di
Mussolini, oltre gli aspetti contingenti, un certo pragmatismo, interessi che
possono pesare in qualche modo, ecc., Mussolini è un uomo di governo, di Stato,
con una sua filosofia e la statura dell’uomo risulta sopra le bassezze della vita.
Tanto per dare un idea circa la “pubblica moralità” occorre tenere presente che
già pochi mesi dopo l’ascesa al potere, Mussolini aveva chiuso 53 bordelli a
Roma, abolito tutte le case da gioco clandestine negli stessi circoli ”neri” dell’
aristocrazia, chiuso, 25 mila hosterie, proibito ai minori di sedici anni l’accesso a
quelle rimaste aperte. Non a caso Mussolini non dispiaceva a Pio XI. Ma
ovviamente non piaceva a massoni e speculatori di ogni risma.
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Un coacervo di interessi
Non indifferenti ci sono poi gli affari sui residuati bellici (il “Credito
Italiano”, la “Banca di Roma” e la “Banca Commerciale” ne curano l’incetta e la
rivendita), i dazi doganali dei zuccherieri, la liberalizzazione delle ferrovie, ecc.,
tutte situazioni in cui Mussolini, da Capo del governo, spesso interviene e blocca
lucrosi affari già avviati e che magari precedentemente aveva acconsentito.
Forte, ad esempio, il malcontento quando il ministre De Stefani, si rifiuta di
alzare le barriere doganali nell’interesse dei zuccherieri, preoccupati dalla
concorrenza estera e cointeressati con la Banca Commerciale (i Parodi, ad
esempio, d’intesa con la Commerciale, hanno interessi anche nel petrolifero).
Non indifferenti devono poi essere state le reazioni negative determinatesi
quando Mussolini mostra chiaramente che non vuol dare il via alle
“privatizzazioni”, che in qualche modo aveva promesso ante marcia, per
esempio vendere le ferrovie ai privati, un altro lucroso affare a cui, sia pure per
una risibile piccola fetta, sembra che era interessato anche il Dumini.
In pratica Mussolini in qualche modo aveva lasciato impinguare collaboratori e
ambienti che lo avevano sostenuto nella marcia su Roma e nella ascesa al
governo, visto che non furono certo tutti “idealisti” i sostenitori del partito
fascista, ma egli fondamentalmente mira ad una conduzione dirigistica del
governo, nei limiti dei compromessi necessari a ricondurre tutto, con il tempo,
nell’interesse della nazione. Insomma un coacervo di appetiti, tangenti per tutti,
anche per le opposizioni!, che avevano scatenato molte bocche.
Maestosa, onnipotente, dietro svariate speculazioni, c'era infine la
Banca Commerciale di Giuseppe Toeplitz, un polacco nato a Varsavia
da famiglia dell'alta borghesia ebraica.
Orbene tutte queste Lobby pensavano di aver in mano il governo Mussolini,
anche perché alcuni settori dell'Industria e dell'alta banca avevano finanziato la
marcia su Roma e, di fatto, il Duce aveva tacitamente sottoscritto con costoro,
Banca Commerciale in testa, una “cambiale”.
Anche qui, niente di cui meravigliarsi: le rivoluzioni si fanno con i soldi e questi
si rimediano rapinando ed espropriando, manu militari, oppure facendosi
finanziare. E chi ti finanzia lo fa sempre per paura e/o per interesse. E' una legge
storica.
Ma come accennato, Mussolini, una volta andato al potere aveva dato una
impronta dirigistica al suo governo, cosa non digerita dall'Alta Finanza e gruppi
dediti alle speculazioni. Non aveva quindi alcuna intenzione di pagare per intero
quella “cambiale” e lasciare che l'Alta finanza facesse del paese carne da porco.
Al massimo aveva acconsentito o tollerato che quanti lo avevano appoggiato
nell'ascesa al potere si impinguassero in qualche modo, che il Pnf, il partito
fascista, trovasse finanziamenti trasversali , ecc., ma non più di tanto.
Da qui tutta una serie di decisioni governative, spesso contraddittorie (come
prima il consenso, poi il fermo alla legge sul gioco d’azzardo), ma che,
sostanzialmente, nel loro insieme, più che agevolare queste speculazioni,
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finivano per mettere i bastoni tra le ruote a certi ambienti di finanza parassita.
Ma forse quello che fece traboccare il vaso, fu proprio l’accennato problema del
petrolio al quale deve aggiungersi quello del prestito che il governo aveva
intenzione di contrattare con gli americani.
Il petrolio, come abbiamo accennato, aveva vari aspetti, comprendendo
l’interesse di Mussolini a risolvere gli approvvigionamenti energetici per il
paese, il che poteva andare in contrasto con molti interessi privati e coinvolgeva,
in questo senso, anche i rapporti con i sovietici, gli interessi di grandi
compagnie petrolifere, in particolare americane e inglesi, il tutto non facilmente
regolabile senza un giro di tangenti atte a ungere molte ruote.
Ma anche per il petrolio, la faccenda non deve essere vista come la vede lo
storico Mauro Canali, cioè un puro problema di tangenti.
A parte il fatto che tangenti, dato l’andazzo dei tempi, ce ne sarebbero state in
ogni caso anche da parte di altre compagnie che non la Sinclair, quello che
veramente bisogna chiedersi è il perché Mussolini fa portare avanti le trattative
con una compagnia americana, quando il nostro paese è fin dai tempi della
realizzazione risorgimentale di stampo massonico, che gli inglesi, di fatto
comandano sulla nostra economia e finanza?
Domanda al momento senza risposta.
Perché Mussolini, agli inizi del 1923, prima di aprire alle proposte della Sinclair
Oil, aveva condiviso il progetto di De Capitani per realizzare subito un Ente
petrolifero di Stato, che rientra nella sua concezione di una economia nazionale,
e poi invece imbocca una strada diversa ?
Altra domanda senza risposta.
La faccenda dei “prestiti”, invece, legata a quella del bilancio, ha un
precedente: quando Mussolini, dopo la marcia su Roma si installò al
governo, dovette prendere atto che il Savoia gli aveva anche rifilato
una bella fregatura: sull’Italia pendeva l’obbligo di pagare un
ingentissimo debito con gli USA, contratto con la Banca Morgan, per
finanziare le forniture di guerra.
L’entità era tale da pregiudicare le finanze dello Stato. In un primo momento
Mussolini, addirittura, pensò di trovare qualche scappatoia per non pagarlo, ma
il ministro De Stefani gli fece presente che sarebbe stato impossibile non
ottemperare a quest’obbligo e bisognava assolverlo in ogni caso, magari
rinegoziandolo e accendendo altri prestiti al momento necessari per la nazione.
Entrato, obtorto collo, in questa ottica, Mussolini pensò di trattare con gli
americani prestiti a lungo termine con finanziamenti erogati direttamente al
governo o alle aziende senza il tramite delle banche. Questo avrebbe permesso
di porre l’economia nazionale sotto il controllo politico sottraendola così al
potere bancario. Un colpo tremendo, in particolare alla famigerata
Banca Commerciale di Toeplitz e a tutti gli industriali gravitanti
nella sua orbita che trafficavano con gli appalti dello Stato.
Tutti costoro dovevano impedire che il governo gestisse in prima persona
l’elargizione di questi prestiti!
101
[Per le cronache nel giugno 1925, un anno dopo il delitto Matteotti, la
Morgan concesse all’Italia fascista l’apertura di una indispensabile
linea di credito da 50 milioni di dollari].
Renzo De Felice, riferendosi al periodo precedente le elezioni dell’ aprile ‘24,
osservò:
«…una forza che Mussolini tenne sotto particolare sorveglianza durante il
periodo elettorale fu il mondo economico e specialmente quello della finanza.
Mussolini temeva soprattutto possibili speculazioni e manovre borsistiche con
l'intento di metterlo in difficoltà e provocare panico tra i risparmiatori e tra
coloro, ed erano molti, che giocavano in borsa e presso i quali una crisi del
mercato azionario o dei titoli avrebbe potuto avere gravi ripercussioni.
Mussolini aveva già impartito istruzioni per una attenta vigilanza
dell'andamento borsistico sin dalla metà di maggio [1923]; il 12 gennaio tornò
però a rinnovarle e avvicinandosi il momento cruciale delle votazioni il
Ministero degli Interni istituì con la seconda metà di febbraio una particolare
vigilanza sulle borse e sugli agenti di cambio, con relativo studio del loro
andamento e intercettazione telefonica delle comunicazioni tra i maggiori
38
agenti”.
Insomma, Mussolini non solo frena dove può, ma tra gli altri pista i piedi
soprattutto alla onnipotente Commerciale di Toeplitz, perché appare evidente
che cerca in ogni modo di frenarne le ingordigie, anche se non può non
prevedere una ribellione, oltre che di alcuni settori più reazionari del partito o
più corrotti, anche di elementi saliti al potere con lui, come Giovanni Marinelli,
Cesare Rossi, Aldo Finzi, tutta gente con incarichi di governo e di partito
(associata però a logge massoniche e/o ambienti affaristici), ma che egli ritiene
che, alla fin fine, costretti ad una scelta, optino per restare nel suo entourage.
Purtroppo sbaglia i calcoli, perché gli interessi in gioco (anche di natura
internazionale con i britannici, gli americani e l'Unione Sovietica, che proprio
allora prende a incentivare le sue attività spionistiche in Italia), la corruzione in
atto e quant'altro, sono troppo grossi, troppo radicati e faranno saltare il banco.
Per farla breve, l'Alta Finanza e la massoneria suo braccio occulto,
decisero ad un certo punto che il governo Mussolini doveva cadere e
sarà la figura di Matteotti che minaccia scandali, che attraversando
come un treno questo panorama, farà scatenare la furia omicida.
Come Franco Scalzo riporta, un agente provocatore, un certo Carlo Quaglia,
infiltrato in uno dei gruppi che dovevano organizzare una rivolta armata dopo il
delitto Matteotti, fece sapere a Mussolini:
«Umberto Bellini (grosso esponente massone del Grande Oriente di Roma,
n.d.r.) cominciò con l’esporci le sue relazioni nel mondo dell’Alta Finanza in
America e in Inghilterra. Ci narrò che egli in un primo tempo era stato inviato
in Italia da un gruppo bancario per cercare di fare dei passi presso il governo
fascista con lo scopo di impiegare dei capitali in Italia.
Però egli aveva trovato degli ostacoli insormontabili e d’accordo
con questo gruppo bancario era convenuto sulla necessita di
abbattere il regime fascista”»
102
En passant questo Bellini (Conte delle Stelle) era stato segnalato alla Questura
di Roma il 18 febbraio 1924, dall’ambasciatore Gelesio Caetani, quale emissario
di un non identificato gruppo americano che intendeva trattare con il nostro
governo l’acquisto delle Ferrovie dello Stato quando fossero state privatizzate.
E’ evidente che Matteotti voleva far scoppiare una “tangentopoli” dell’epoca, ma
chi ne era seriamente minacciato solo indirettamente era Mussolini,
che forse, paradossalmente, quelle denunce potevano anche
tornagli opportune per imporre certe decisioni e magari fare un po’
di pulizia. Al contempo non devesi dimenticare un'altra figura che
potrebbe essere seriamente minacciata: quella del Re.
Per tirare in ballo Mussolini si sostiene che il fratello avrebbe preso tangenti, ma
come abbiamo visto siamo più che altro in presenza di un teorema poco
realistico, anche perché chi avrebbe potuto dimostrare documenti alla mano un
coinvolgimento diretto di Arnaldo Mussolini, andando al di là delle congetture?
Voci, di certo, ce ne potevano essere, ma non crediamo proprio che Matteotti
avesse in mano documenti compromettenti per il fratello del Duce. Anche
perché se ci fossero stati, dopo la sua uccisione, sottratti o meno al deputato,
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qualcuno li avrebbe sicuramente riprodotti.
[Se a Matteotti, si fornirono quei documenti per far fallire la
Convenzione con la Sinclair e per attaccare il governo e il fascismo,
come mai che, morto Matteotti, non vennero riprodotti? Eppure nei
mesi successivi all’approvazione della Convezione, Mussolini e Nava
(il nuovo ministro dell’Economia Nazionale) erano risoluti a dare il via
alla fase attuativa, e questo fino a novembre inoltrato, quando poi
Mussolini decise di far decadere quegli accordi]
Ma lo stesso Matteotti, compresi i suoi articoli, quello anonimo su
“Echi e Commenti” del 5 giugno ‘24 e quello pubblicato postumo, a
luglio ’24 su English Life, in quei giorni, in quelle ore, non fece
trapelare che stava per portare un attacco scandalistico contro
Mussolini, forse semmai contro i Finzi e i Rossi. Che il deputato
socialista voleva denunciare certo malaffare e lo fece trapelare,
accennò al Petrolio e citò il ministro Corbino e il gioco d’azzardo, è
pacifico, ma non contro Mussolini personalmente.
Scrisse Matteotti su “English Life”:
«Quando Mussolini sul suo articolo su Machiavelli afferma che “vi è una
piccola giustificazione anche per un governo rappresentativo” egli esamini il
sistema da lui creato e vedrà che nelle sue parti è un oltraggio alla moralità».
Di fatto un invito a Mussolini di cambiare politica!
Come osserva Franco Scalzo, Matteotti, aveva, a stringere, dichiarato che se
l’adesione ai dettami del ‘Principe’ da parte di Mussolini doveva ridursi a
lasciarsi irretire nelle spire della ‘Banca Commerciale’ e negli armeggi illegali dei
suoi scherani, sarebbe stato meglio per lui e per il Paese cambiare subito lo
spartito. Un attacco il cui destinatario non è tanto il ‘duce’, quanto, piuttosto, il
103
gruppo dei cortigiani che lucra sul suo carisma e lo sporca; un invito a Mussolini
perché se ne sbarazzi al più presto, ma anche, contestualmente, l’espressione di
un convincimento tetragono, che il PNF, andato al potere grazie all’aiuto
dell’Alta Banca, non può adesso disfarsi su due piedi proprio di coloro che essa
ha piazzato nei punti nevralgici del suo apparato per riscuotere il prezzo della
marcia su Roma, a meno che non voglia morire, dopo poco tempo, di
consunzione.
Scrive anche, Matteotti, a mò di sfida:
«Noi siamo a conoscenza di molte gravi irregolarità riguardanti questa
concessione. Alti funzionari possono essere accusati di ignobile corruzione, e
del più vergognoso peculato».
Questo articolo venne pubblicato solo un mese dopo la sua morte, ma in quei
giorni caldi precedenti il rapimento, correva voce negli ambienti politici della
capitale, come dimostra una informativa del 14 giugno che riporta commenti di
un alta autorità liberale, del giorno precedente, la quale riferiva come fosse
“sulla bocca di tutti che l’on. Matteotti fosse in possesso di documenti contro
Aldo Finzi per gli affari sui petroli e le case da gioco”.
Quindi la voce che era circolata che Matteotti stava per fare una
denuncia di scandali affaristici alla camera, tanti poteva allarmare,
spingendoli al delitto, ma non fino a questo punto Mussolini.
In generale vale invece quanto osservato con grande acume sempre da Scalzo:
«Mussolini si urta con la Commerciale e lo fa a proposito forse perché
immagina che i contraccolpi di questo suo atteggiamento non siano così gravi
e pesanti…
o forse perché crede che i vari Marinelli, i vari Rossi, i vari Finzi, ai quali ha
conferito incarichi di grande responsabilità, sia in sede al governo, che ai
vertici del Partito, e che sono uniti da un viluppo di fili sottilissimi, alla Banca
di Toeplitz, alle strette, finiranno poi col trovarsi insieme dalla sua parte. Il
Duce, infallibile, questa volta prende una cantonata….
Mentre i servizi spionistici dell’Unione Sovietica accentuano le loro attività in
Italia, e la “Commerciale” si è messa all’opera per minare le fondamenta del
governo fascista, degenera in una vera e propria congiura nei suoi confronti:
e Marinelli è del gruppo che la imbastisce».
Orbene, si da il caso che tutti questi aspetti, questi interessi che ruotano attorno
al caso Matteotti, prenderanno una certa piega, che diverrà una miscela
esplosiva quando Mussolini, per rafforzare la sua posizione di potere,
accarezzerà una vecchia idea: quella di portare al governo i socialisti moderati.
Vediamo adesso il contesto politico, le implicazioni politiche che ebbero un
notevole peso nel realizzarsi a poco a poco di un progetto omicida nei confronti
del parlamentare socialista, visto che la sua eliminazione toglieva di mezzo un
pericolo per gli scandali che poteva denunciare e al contempo avrebbe provocato
anche il crollo del governo di Mussolini.
104
I SOCIALISTI AL GOVERNO?
Mauro Canali, nel formulare la sua tesi di un Mussolini mandante
dell’omicidio Matteotti, a causa delle tangenti petrolifere, si è visto costretto a
ridimensionare, se non cancellare del tutto alcuni importantissimi aspetti
politici, quali per esempio la vicenda della fazione “revisionista” nel fascismo e
soprattutto quella dell’apertura di Mussolini al governo verso i socialisti.
Per il Canali, infatti questa vicenda è frutto di espedienti tattici di Mussolini e
delle testimonianze, da lui presupposte inattendibili, di Carlo Silvestri.
Ma non è’ vero. Intanto le testimonianze in proposito non sono solo del
Silvestri, ma vengono un pò dappertutto, da vari esponenti del fascismo, dallo
stesso Umberto II di Casa Savoia, da personaggi del partito socialista al tempo
preoccupati dalle avances di Mussolini ai loro compagni, da lettere scambiate
tra Turati e la Kuliscioff, dal figlio di Matteotti e così via.
La questione è invece importantissima perché il meccanismo che finì per
diventare omicida, cominciò forse a delinearsi quando divenne evidente che
Mussolini stava di nuovo accarezzando l'idea, già avanzata dopo la marcia su
Roma, di portare nel governo i socialisti e l'ala mderata della CGdL (l’antenata
della CGIL), un disegno politico che già fu di Giolitti e che avrebbe reso il
governo più forte, ma al contempo avrebbe rovinato tutte le componenti
conservatrici, reazionarie e speculatrici del paese e nel fascismo.
Ma attenzione, un governo aperto a sinistra, come lo prefigurava Mussolini,
doveva anche essere bilanciato dal ritorno nella coalizione dei Popolari.
A questo proposito Mussolini nel 1923 aveva fatto delle discrete aperture alla
Chiesa, alle quali il Vaticano non era rimasto insensibile, tanto è vero che il Papa
gli tolse di mezzo Don Sturzo, il prete tenacemente antifascista, fondatore del
partito Popolare che ad aprile del 1923 aveva fatto uscire la presenza cattolica
dal governo di Mussolini, ma che poi a luglio fu costretto a dimettersi dalla
segreteria del partito e infine venne spedito in America l’anno successivo.
Si erano così realizzate le premesse che poi sei anni dopo portarono al
Concordato. Questa politica verso la Chiesa non era sfuggita alla
Massoneria che ne restò molto preoccupata.
Tanto più che a febbraio del 1923, il Gran Consiglio del Fascismo, neo
organismo consultivo del fascismo, su sollecitazione di Mussolini, votò il famoso
ordine del giorno che stabiliva l’incompatibilità tra fascismo e massoneria. Un
provvedimento che rimase sterile, ma significativo e non gradito in Loggia.
Renzo De Felice, da storico attento, dedicò ampio spazio a certe aperture di
Mussolini verso la sinistra, sia prima che dopo le elezioni del 1924. Scrisse:
«Alla luce di questi elementi e di quanto siamo venuti dicendo, la possibilità
che Mussolini, subito dopo le elezioni dell’aprile 1924, abbia pensato di tentare
la via di un accordo con i riformisti e in particolare con i confederali sulla base
di una operazione trasformistica del tipo di quella attuata a destra non ci pare
40
da respingere e, anzi, allo stato della documentazione, probabile».
Appariva ovvio, infatti, che per Mussolini la via liberista produttivistica che
aveva dovuto imboccare era stata obbligata, per le condizioni del paese uscito
105
disastrato dalla guerra e con una riconversione industriale che stentava a
decollare. De Felice ebbe a sottolineare che una diversa politica sociale
mancava di quel contrappeso a sinistra, che Mussolini avrebbe senz’altro
preferito, e che al momento della costituzione del suo primo governo aveva
cercato. Egli notò anche che il discorso parlamentare di Mussolini del 7 giugno
1924 (tre giorni prima del rapimento di Matteotti) presentava, tra le righe,
l'offerta ai confederali del sindacato e ai socialisti, di partecipare al governo.
Di certo, di questa sottile “apertura” se ne dovettero accorgere tutti gli ambienti
interessati, sia favorevoli che contrari, anche perche era da tempo che sondaggi
in tal senso erano in essere.
Secondo Renzo De Felice, Mussolini stava per portare al governo: alle Finanze,
Filippo Meda dei Popolari, la sindacalista riformista Argentina Altobelli
all’Agricoltura; il genovese Lodovico Calda, amministratore del quotidiano
socialista “Il Lavoro”, o il sindacalista Alceste De Ambris all’Assistenza sociale;
e pensava anche a Giovanni Amendola, se questi avesse accettato, all’Istruzione.
Forse non tutti avrebbero accettato, ma la linea era quella.
E Mussolini contava anche sul sindacato della CGdL, almeno i meno
compromessi con i comunisti, a cui si rivolse proprio nel suo discorso del 7
giugno 1924 in risposta agli attacchi di Matteotti.
Nelle sue parole Mussolini, di fatto, aveva offerto un accordo ai socialisti:
«Io non cerco nessuno, ma non respingo nessuno, tutte le
competenze e tutti i valori e tutte le buone volontà devono essere
utilizzate».
Dagli appunti autografi di Mussolini in quei giorni si può addirittura ricavare la
“rosa” dei candidati non del fascio, sottosegretari compresi, che Mussolini
intendeva far entrare nel governo, un nuovo governo squisitamente di “centro
sinistra” con l’ossatura del Partito Nazionale Fascista.
L’apertura ”a sinistra”, era il solo modo che aveva Mussolini per praticare il suo
dirigismo governativo, per ridimensionare tutti quei Ras e ambienti dello stesso
partito fascista legati a interessi industriali, agrari, e privati.
Ricorda Carlo Silvestri:
«Dopo il discorso del 7 giugno Mussolini ebbe una giornata di
felicità perchè convinto che il discorso avrebbe avuto i suoi frutti.
Se ne andò in riva al mare. Per la prima volta, dopo alcuni mesi, si
prese una giornata di vacanza, vivendo ore di euforia. Così egli mi
confidò, perché il cuore gli diceva che gli sarebbe finalmente
riuscito di portare al governo i socialisti… Il discorso del 7 giugno
fu pronunciato come premessa ad un colloquio per organizzare il
quale Mussolini si sarebbe rivolto a me e insieme a Bruno Buozzi,
Emilio Colombino, Lodovigo D’Aragona etc., avrebbe voluto la
presenza di Nunzio Baldini».
Ma per il motivo opposto, questi stessi ambienti, così minacciati, rizzarono le
antenne e pensarono bene di opporre ogni strenua resistenza. Non indifferente
era poi il fatto che un nuovo governo, aperto a sinistra, avrebbe determinato il
cambio di qualche personaggio nel sottobosco di quella che è stata denominata
“la banda del Viminale”.
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Due piccioni con una fava
Proprio in questi delicati frangenti, dove si pensò anche di sostituire
Mussolini, con Gabriele D’Annunzio, un progetto politico che assunse anche una
certa dimensione, accade che Matteotti, nella sua polemica contro il governo e il
fascismo, era venuto in possesso di prove sui loschi traffici che si svolgevano in
Italia e soprattutto sulla questione del petrolio, finendo anche lui per mettere in
pericolo grossi e delicati interessi.
Non solo la faccenda delle tangenti elargite dalla Sinclair Oil in vari ambiti,
compreso Casa Savoia, per avere i diritti in esclusiva delle ricerche in Italia
chiamava in causa varie lobbies e ambienti speculativi anche all’ombra del
governo, ma addirittura si poteva anche coinvolgere il Sovrano il quale a suo
tempo, a quanto pare, si era impegnato, ovviamente ben ricompensato, a
mantenere segreti dei giacimenti di petrolio scoperti in Libia (nella scoperta
vi ebbe una parte il nostro esploratore e tecnico Ardito Desio) che
oltretutto, per le tecnologie del tempo non erano di facile estrazione e solo
alcune grandi imprese americane dei Rockefeller potevano sondare ed estrarre.
Come giustamente scrive Fabio Andriola:
«Più che Mussolini direttamente, a dover temere quelle rivelazioni era un
gruppo di suoi stretti collaboratori: Emilio De Bono, quadrumviro della
Marcia su Roma e ora capo della Polizia; il sottosegretario agli Interni Aldo
Finzi; il segretario amministrativo del PNF Giovanni Marinelli; il capo ufficio
stampa della presidenza del Consiglio, Cesare Rossi; il giornalista Filippo
Filippelli, direttore del «Corriere Italiano controllato nell’assetto proprietario
41
da Finzi».
La minaccia di Matteotti nel rivelare tutto alla Camera, sembra si sia
palesata dopo un suo viaggio dal 22 al 26 aprile 1924 a Londra
(probabilmente ebbe le informazioni, forse alcune documentazioni,
da certi ambienti laburisti e massonici, ai quali non era del tutto
estraneo), e fece scattare la necessità di farlo fuori.
E’ molto probabile che a Matteotti gli inglesi, per interessi loro propri, lo
utilizzarono, fornendogli scottanti informazioni (meno probabile dei
documenti), che agissero da forma ricattatoria, ma che esponevano il
parlamentare italiano a gravi rischi (si tenga presente che recenti documenti
hanno provato che Churchill più di una volta e fino a guerra inoltrata,
intervenne affinchè quanto poteva stare dietro le quinte del delitto Matteotti, in
particolare eventuali rivelazioni di Dumini, non emergesse, rinunciando così
anche a utilizzare l’arma propagandistica del delitto contro Mussolini).
Si aggiunga poi che probabilmente lo stesso Matteotti ne dovette parlare con
qualche intimo di partito e in tal modo, mise la testa nel cappio.
Fatto sta che sicuramente la cosa, in qualche modo trapelò, e “qualcuno” si
allarmò seriamente che Matteotti avrebbe potuto provare certi scandali e
tangenti, e pensò bene di metterlo a tacere. Orbene in tutto questo magma di
situazioni esplosive, ora che aveva ottenuto un moderato, ma buon risultato
107
elettorale con il suo PSU, Matteotti il 30 maggio 1924, anche per parare accuse
di scarso combattentismo contro i fascisti (gli venivano dai socialisti
massimalisti, ma soprattutto dai comunisti) attaccò violentemente alla camera
il fascismo, determinando forti reazioni e minacce da parte dei suoi avversari.
Paradossalmente però, dati gli esiti elettorali, le rafforzate posizioni, di
Mussolini vincitore con il “listone” e di Matteotti con il suo partito socialista e
riformista, avrebbero anche potuto “incontrarsi” senza che nessuno potesse
accusarli di “cedimento” nei confronti dell’altro, anche in virtù del fatto che
sondaggi sottotraccia, in questo senso, andavano avanti da tempo.
Si erano praticamente create le giuste condizioni per chi aveva paura
e al contempo interesse ad eliminarlo, mettendo in grado gli
assassini di prendere due piccioni con una fava: mettere a tacere
Matteotti e far cadere il governo Mussolini e il fascismo che ne
sarebbero risultati i primi indiziati e al contempo dissolvere ogni
possibilità di apertura a socialisti.
Nella gamma di ipotesi su questo Affaire, in genere, si sono, delineate due
ricostruzioni:
una afferma che Matteotti venne deliberatamente e
progettualmente
assassinato per impedire che producesse delle
documentazioni compromettenti; un'altra invece afferma che l’omicidio fu
preterintenzionale, non era previsto, ma solo una bastonatura come altre al
tempo ce ne erano state nei confronti di avversari politici. E questo sarebbe
attestato dalla mancata pianificazione del delitto e occultamento del cadavere,
avvenute in modo pacchiano, e che forse veri e propri documenti Matteotti
neppure li aveva, altrimenti chi glieli aveva dati avrebbe dovuto, dopo la sua
scomparsa, tirarne fuori di nuovi.
A nostro avviso queste due opposte tesi hanno entrambe una loro parte di verità
determinata dal particolare contesto, affaristico/politico, in cu maturò il delitto:
a Dumini venne dato incarico di rapire Matteotti, farlo parlare e regolarsi di
conseguenza, e probabilmente di farlo fuori. Ma la prima parte di questo
progetto saltò per via della non prevista uccisione in macchina che, con tanto di
cadavere, li costrinse ad una fuga improvvisata. Successivamente, “chi di
dovere”, ritenne di aver colto tutti gli obiettivi che si prefiggeva: far sparire
Matteotti e le sue possibili denunce e mettere a terra il governo di Mussolini.
Anche chi voleva far saltare certi “contratti” e “contatti“, poteva ritenersi
soddisfatto, visto che nelle veementi polemiche che si produssero, a certi accordi
già ratificati (petrolio) ci si sarebbe dovuto rinunciare, mentre di aperture verso
il PSU non se ne sarebbe più potuto parlare.
Difficile però oggi, retrospettivamente, dettagliare una ricostruzione esaustiva
ed adeguatamente comprovata che dimostri in pieno tutto questo, senza far uso
di elementi e testimonianze di cui non si può essere certi della loro veridicità,
mettendoli insieme, congetturando, per
sviluppare ipotesi che invece
occorrerebbe sempre prendere con disincanto (ci spiace dirlo, ma a nostro
avviso è un po’ come ha fatto Mauro Canali per la sua tesi sul delitto Matteotti).
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TESTIMONIANZE DECISIVE
Carlo Silvestri
Riportiamo adesso una serie di testimonianze, soprattutto del socialista
Carlo Silvestri, il solo sopravvissuto che ebbe modo di confrontarsi nel 1944
/'45 con Mussolini e di prendere visione di parte della documentazione sul
42
delitto Matteotti.
Calo Silvestri oltretutto, per una serie di circostanze e di
storia personale era spesso designato, nelle intenzioni di Mussolini, da fungere
da apripista o da ambasciatore proprio nel campo socialista e confederale.
Si tenga presente, inoltre, che la strategia di Mussolini puntava ad un governo
allargato ad alcuni esponenti del PSU, ma in un primo momento, vista la
difficoltà di avere il consenso della segretaria del PSU su queste partecipazioni,
ripiegava anche per una partecipazione di esponenti sindacali della
Confederazione.
Si dà il caso che Carlo Silvestri, socialista, firma autorevole del “Correre della
Sera”, nel 1924 era stato il principale accusatore di Mussolini.
Con una serie di articoli sul “Corriere della Sera” e proseguiti poi sul cattolico
“Il Popolo”, partendo dalla congettura, che Mussolini non poteva non sapere,
Silvestri lo dipinse come il vero mandante del delitto. Entrò così nell’occhio del
ciclone, perché i fascisti, passata la buriana, se la legarono al dito, e il Silvestri
dovette subire tutte le persecuzioni, finendo al confino, e scontando la pena solo
nel 1938. Furono forse le vecchie amicizie con Italo Balbo e con il federale
milanese Mario Giampaoli, oltre ad una certa magnanimità di Mussolini verso
vecchi amici, che gli evitarono guai peggiori.
Ma durante quegli anni aveva maturato molti dubbi e si era reso conto che le sue
accuse non andavano oltre le congetture. Quando li espresse tra i suoi sodali, li
preoccupò e questi pensarono bene di redarguirlo. Carlo Rosselli, per esempio,
gli disse chiaramente che non si potevano avere scrupoli verso Mussolini.
E Silvestri tacque, proprio negli anni in cui un suo “ravvedimento” gli avrebbe
procurato non pochi vantaggi.
Ma durante la RSI non si trattenne, incontrò Mussolini e chiarì tutta la
faccenda. Per incontrare Mussolini, Silvestri aveva premesso che egli avrebbe
fatto la parte di uno spietato inquisitore, ponendo al Duce ogni genere di
domanda, di sospetto. E questi incontri avvennero, i più pertinenti tra febbraio
e marzo 1945.
Nel dopoguerra antifascista Silvestri rivelò pubblicamente le sue considerazioni,
ricavandone odio e disprezzo, se non peggio, dai suoi vecchi “compagni”, tanto
più che lo fece in sede processuale a Roma.
Cosicché, durante la RSI Silvestri ebbe vari incontri con Mussolini e con
Bombacci a Gargnano: Villa Feltrinelli, residenza del Duce o a Villa delle
Orsoline il suo quartier generale, e da buon giornalista li stenografò a ricordo.
Il dossier Gatti - Bombacci
Nel corso del processo 1947 di Roma il Presidente del Tribunale gli chiese: “Lei
il dossier di Luigi Gatti lo ha visto?”
109
«Io devo dire che la frase “dossier” estremamente importante, fu una frase di
Mussolini e di Gatti. In occasione di un viaggio a Genova compiuto nel periodo
dei miei colloqui (Bombacci aveva parlato all’Ansaldo e poi ad una folla di 30
mila lavoratori in piazza De Ferrari, cercando di convincerli sulla sincerità
delle intenzioni socialiste di Mussolini), Bombacci e Gatti avevano potuto
rallegrarsi, di qualche nuovo spunto per le loro indagini.
Di ritorno Bombacci venne a trovarmi a Milano, avendo straordinariamente
l’incarico di informarmi circa l’esito positivo di un mio intervento di Croce
Rossa e mi disse di essere esultante per quegli elementi nuovi di cui le indagini
si erano arricchite. E mi aggiunse:
«Purtroppo gli imputati non sono qui. Magari dopo essere stati manutengoli
dei tedeschi saranno oggi al servizio degli inglesi o meglio ancora degli
americani. Comunque ci sono dei nomi. Ma sino a quando Mussolini non mi
autorizzi io non te li posso ripetere» .
Di quei giorni, come già abbiamo accennato, racconta il Silvestri:
«Neppure per un istante ho supposto che la documentazione da me esaminata
fosse di pubblicazione postuma... Il mio esame non è stato nè sommario, nè
affrettato... mi rimase affidata per un paio di giorni... ebbi anche agio di
copiare qualcuno dei più rimarchevoli tra gli originali di Mussolini».
Carlo Silvestri, sia al processo bis su Matteotti tenuto a Roma nel febbraio 1947,
che in un paio di suoi libri pubblicati in quegli anni, minacciato, linciato sulla
stampa post liberazione e persino incorso in tentativi per eliminarlo
fisicamente, ha aperto gli occhi su quel delitto.
Al processo, con grande coraggio che gli fa onore, ebbe a premettere:
«Io mi rendo conto che se confermassi la mia vecchia deposizione, il
caso Matteotti sarebbe facilmente risolto. I giornali del
conformismo antifascista mi farebbero fare un figurone».
Ed infine, lui che era stato il massimo avversario del Duce, arrivando a pensare
di “giustiziarlo” (e si era anche predisposto l’assassinio, vedi pag. 187), disse:
«Signori della Corte, ho deciso di venire qui, dinanzi alla Maestà della
Giustizia per dire in piena coscienza che se noi, nella seconda metà del giugno
1924, avessimo giustiziato Benito Mussolini come responsabile, come
mandante, come comunque coinvolto nel delitto Matteotti noi non avremmo
commesso un atto di giustizia, ma avremmo compiuto un delitto ! ».
Rievoca Mussolini
Mussolini nel 1945, tra le altre cose, gli aveva fatto questa confessione:
«Il più grande dramma della mia vita si produsse quando non ebbi più la
forza, non potendo fare appello alla collaborazione dei socialisti, di respingere
l'abbraccio dei falsi corporativisti, che agivano in verità come procuratori del
capitalismo, il quale voleva abbracciare il corporativismo per poterlo meglio
soffocare. Tutto quello che avvenne poi fu la conseguenza del cadavere che il
10 giugno 1924 fu gettato tra me e i socialisti per impedire che avvenisse
quell'incontro che avrebbe dato tutt'altro indirizzo alla politica nazionale e
forse non solo a quella nazionale».
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Già pochi mesi prima della marcia su Roma, Mussolini aveva accarezzato il
difficile progetto di coinvolgere i socialisti in un prossimo governo, tanto è vero
che proprio Carlo Silvestri, il 3 agosto del 1922 all'albergo Corso di Milano,
venne incaricato da Mussolini di intercedere presso i socialisti; testualmente gli
disse il Duce:
«E' necessario far presente mazzinianamente a Turati e Treves: Ora o mai più!
O andiamo al governo insieme, socialisti, popolari e fascisti e salviamo l'Italia
o non ci andiamo e allora non so dove andremo a finire».
Ma per una serie di resistenze, soprattutto nell'ambito dello stesso fascismo,
questo progetto di Mussolini non andò in porto e la marcia su Roma ebbe altri
sbocchi. Reduce dal famoso incontro post marcia al Quirinale, Mussolini ebbe
modo di giustificarsi con Silvestri nella camera dell'Albergo Savoia, anche
perché il Silvestri, in base ai precedenti accordi, gli aveva fatto sapere che Buozzi
e Baldesi sarebbero stati disposti a partecipare al Governo:
«Posso perdere i contatti colla Corona? I fascisti di Toscana cosa mai
farebbero? Come ministro dell'Interno, per contenere la loro reazione, dovrei
dare ordine al generale dei carabinieri di sparare sui fascisti di toscana,
sparare sui fascisti per proteggere i socialisti, è qualche cosa che non si
capirebbe... Deploro profondamente di essere costretto a questa momentanea
rinuncia. Ma ciò che non è possibile oggi, sarà possibile tra sei mesi, un anno,
due anni. Comunque questo è il mio programma ed è tale perché non c'è altra
via che quella della collaborazione con i socialisti e i popolari per salvare
l'Italia».
Riferendosi invece al tempo del delitto Matteotti, Silvestri venne a precisare:
«Ho avuto modo di convincermi nella maniera più decisiva... che il discorso
del 7 giugno (di Mussolini, tre giorni prima del delitto, in cui il Duce ribaltò la
situazione delle critiche al fascismo e ventilò una apertura ai socialisti, n.d.r.)
era stato pronunciato come premessa a un nuovo incontro di Mussolini con i
dirigenti della Confederazione Generale del Lavoro (...)
Io mi convinsi che Mussolini intendeva portare al Governo Buozzi e
Baldesi e perciò non potevo e non posso più supporre che egli
meditasse di far uccidere il Segretario del Partito cui intendeva
rivolgersi ufficialmente per avere almeno quattro dei suoi uomini
nel governo come ministri ».
Putrido ambiente di finanza equivoca e capitalismo corrotto
Ma da Mussolini, Carlo Silvestri aveva ricevuto anche alcune confidenze di
grande importanza storica che è oltremodo interessante conoscere:
«Io sarei l'assassino di Matteotti? Voi sapete, per essere stata la stessa vedova
di Matteotti a dichiararvelo senza mezzi termini, che lei, la signora Velia Ruffo
Matteotti, era pienamente convinta della mia innocenza.
Parlatene col mio segretario particolare, Luigi Gatti, e con Nicola Bombacci:
essi stanno indagando da anni sui retroscena e sulle fondamentali
responsabilità del delitto Matteotti. Vi autorizzo a parlare tanto con Gatti,
quanto con Bombacci e li autorizzo a dirvi liberamente tutto quello che per ora
si può dire.
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Se ancora non posso anticiparvi le conclusioni in termini di nomi e cognomi,
posso però assicurarvi, sin d'ora, che le indagini di Bombacci e di Gatti hanno
dato conferma dell'affermazione contenuta nel discorso al Senato dell'estate
1924: il delitto è stato compiuto non da me, ma contro di me. Alle origini
dell'assassinio di Matteotti vi fu un putrido ambiente di finanza
equivoca, di capitalismo corrotto e corruttore, privo di ogni
scrupolo, di torbido affarismo.
Si era sparsa la voce che nel suo prossimo discorso alla Camera,
Matteotti avrebbe prodotto tali documenti da portare alla rovina
certi uomini che erano venuti ad infiltrarsi profondamente tra le
gerarchie fasciste. L'idea di catturare Matteotti per metterlo
nell'alternativa di restituire gli accennati documenti o di perdere la
vita sorse in questo sporco ambiente dove ogni volta che riprendeva
a circolare la notizia di una possibile collaborazione tra me e i
socialisti si manifestava immediatamente una reazione che
chiamerei feroce, Il discorso del 7 giugno fece temere che io mi fossi
definitivamente orientato nel senso di offrire al alcuni socialisti la
partecipazione al ministero.
Da ciò forse il precipitare dei tempi, da ciò la cattura di Matteotti
già da parecchi giorni predisposta, avvenuta il pomeriggio del 10
giugno»
Questa inchiesta sul delitto Matteotti era da anni un pallino di Bombacci che
l’aveva condotta di propria iniziativa e con qualche perplessità di Mussolini, che
però quando si rese conto di certi risultati, gli affiancò Gatti (32 anni, già capo
della provincia di Treviso, collocato a disposizione del Ministero dell’Interno per
incarichi speciali a giugno 1944). Bombacci, nel marzo del ’43, raccontò:
«Ho sempre avuto l’assillo di riuscire a provare la più completa estraneità di
Mussolini nel delitto Matteotti attraverso la scoperta delle vere origini del
delitto. Accertare la verità divenne per me un’idea fissa. Se insistetti per poter
lavorare non lontano da Mussolini, con un incarico che mi dimostrasse la sua
fiducia, fu per crearmi una specie di protezione che giovasse alla libertà dei
miei movimenti tali da suscitare sovente allarmi nei capi e negli organi del
partito. Se riuscissi nel mio compito sarei lieto di concludere così la mia vita.
Se il proletariato italiano si dovesse convincere, come io sono ora convinto, che
Mussolini non volle l’uccisione di Matteotti e che, al contrario, il suo più bel
sogno si sarebbe realizzato quando gli fosse riuscito di portare i socialisti al
governo, forse il dopoguerra potrebbe vedere ancora una conciliazione tra
l’antico socialista (Mussolini, N.d.R.), rimasto sempre tale nell’anima, e i
lavoratori delle officine e dei campi».
Ed ancora riferisce il Silvestri, quanto il Duce gli aveva detto:
«Ricordate quel mio articolo contro il fascismo agrario degli squadristi di
Toscana? Dissi, ed eravamo nella primavera del 1921, che esso mi dava
l'impressione della soffocazione e che se tutto il fascismo correva il
pericolo di assomigliargli, allora avrei preferito strozzare con le
mie mani la creatura da me generata. Dopo la vittoria del “listone” (era
il nome dato alla lista che riportava insieme candidati fascisti e non fascisti,
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n.d.r.) dell'aprile del 1924 e dopo le prime sedute alla camera fui ripreso da
quella stessa lontana sensazione.
La vivacità delle mie reazioni al veemente discorso di Matteotti fu in rapporto
all'intima persuasione che in verità la critica socialista aveva ragione quando
denunciava che l'impresa di manomissione del capitalismo stava per mettere
in schiavitù quel fascismo che io avevo immaginato come un movimento di
rinnovazione sociale. Dovevo confessare a me stesso di aver sbagliato. Come
avrei potuto liberarmi dalla soggezione del capitalismo, come avrei potuto
ridare la pace all'Italia e basare il mio governo sul consenso popolare e non
sulla forza?
Fu a questo punto che maturò in me il proposito di mutare rotta. Durante
l'occupazione delle fabbriche nell'ottobre del 1920 ero andato da Buozzi e da
Colombino a promettere tutto il mio aiuto e quello del fascismo qualora la
Confederazione del Lavoro avesse osato porsi come obiettivo di lotta la
conquista del governo. In seguito tre o quattro volte compii i tentativi di
persuadere i socialisti a collaborare con i fascisti e i popolari per dare un
governo all'Italia. Ora il governo era nelle mie mani.
Ma nelle mie mani, senza l'appoggio delle masse organizzate, non avrebbe mai
potuto essere il governo da me desiderato, cioè capace di perseguire gli
obiettivi per i quali il proletariato italiano delle officine e dei campi avrebbe un
giorno dovuto riconoscere che non avevo tradito la sua causa.
Se guardavo all'avvenire non potevo farmi illusioni. O avrei ottenuto
l'appoggio del partito socialista e delle organizzazioni sindacali o sarei
diventato sempre più prigioniero della Confederazione dell'Industria e della
confederazione dell'Agricoltura»”.
Anche gli sprovveduti capiranno oggi, come venne capito e temuto ieri da chi di
dovere, che un tale programma di Mussolini, deleterio per il gretto e rapace
capitalismo italiano, per la massoneria e per l'Alta Finanza, era assolutamente
da far saltare, anche a costo di un barbaro delitto.
In sostanza Mussolini fece anche capire a Silvestri di supporre i nomi dei
mandanti, della eliminazione di Matteotti, in attesa di completare l’ inchiesta gli
accennò ad ambienti affaristici del genovese tra i quali era maturata la congiura
antisocialista e il delitto Matteotti.
Ed infine Carlo Silvestri fa una osservazione che qualunque storico, degno di
questo nome, dovrebbe porre:
«Luigi Gatti custodiva un dossier “estremamente importante” quella
documentazione è scomparsa . Chi mai l’ha fatta scomparire?
Come mai nessun giornale ha pubblicato degli estratti di questi
documenti?
Chi ha fatto scomparire il dossier? Io arrivo a credere che c’erano in
quei giorni, nelle adiacenze, dei procuratori, degli interessati, non
estranei al fascismo 25 luglio».
Ma Silvestri che nel 1924 lavorava e viveva anche vicino a tanti di quei
protagonisti, come Matteotti e Turati, fornisce un'altra importante indicazione,
quella utile a intuire cosa Matteotti aveva intenzione di fare con il suo discorso
dell’11 giugno, per evitare il quale venne assassinato:
113
«Quel discorso di Matteotti sull’esercizio finanziario – il cui annunzio gli
sarebbe costato la vita - andava elaborandosi in sedute mattutine, che si
svolgevano nella camera attigua a quella in cui io lavoravo, e cioè la camera
occupata da Filippo Turati. Matteotti veniva tutte le mattina a consultarsi con
lui. Il discorso di Matteotti sarebbe stato il discorso di un uomo che leggeva il
bilancio dello stato così come io leggo un romanzo. Dalla lettura Matteotti
aveva tirato fuori delle costatazioni orripilanti, dal punto di vista delle spese,
del disordine e così via. Egli aveva una sua linea, un suo programma
finanziario e considerava la finanza di Mussolini rovinosa e trovava in essa
una gran quantità di elementi di accusa. Si trattava di accuse relative alle
tariffe doganali, protezionistiche, a sfacciate protezioni accordate a
determinati gruppi industriali, ed altri elementi del genere. Questo sarebbe
stato il discorso di Matteotti. Documenti non c’erano perchè se fossero esistiti
sarebbero stati copiati nella nostra camera, dal nostro dattilografo di fiducia.
E forse li avrebbe copiati personalmente quel grande dattilografo che faceva
tutto da sé quando voleva che le cose non si sapessero: cioè Filippo Turati».
Francesco Giunta
Nel corso del processo di Roma venne chiamato a testimoniare l'ex
dirigente fascista Francesco Giunta che dichiarò:
«Quel che ha detto Silvestri è la pura verità. Mussolini non ebbe il coraggio di
portare i socialisti al governo nel 1922, ma li avrebbe portati alla fine di
giugno del 1924...
Io sono testimone di questo episodio Dopo il discorso del 7 giugno Mussolini
uscì dall’aula e andò nella sala riservata al Presidente del Consiglio a
Montecitorio… Eravamo soli. - Ti ho chiamato perchè bisogna riunire prima
della fine del mese il Gran Consiglio. Ti avverto subito che tu perderai
l’impiego, disse sorridendo, perchè il Gran Consiglio non sarà più l’organo
supremo del Governo, ma rientrerà nel partito come un organo superiore.
Così le opposizioni si calmeranno. O si addomesticheranno o si
tranquillizzeranno...
Mi dicono che tu sei stato in guerra con Tito Zaniboni… Che ne pensi? –
Era un ottimo ufficiale bel soldato, e buon comandante… Mi fa molto piacere tutto questo. –
E’ chiaro che Mussolini era in trance. Era veramente soddisfatto quel giorno,
per farmi quelle confidenze.
(Mussolini mi disse) “Ho pensato di fare un gran governo. E' il momento.
Offrirò l'Educazione Nazionale a Giovanni Amendola, il Ministero dei Lavori
Pubblici ai socialisti, penso che potrebbero mettervi D'Aragona o Casalini, io
lascerò gli Interni e mi terrò gli Esteri e alla Presidenza, come sottosegretario
metterò Zaniboni ”.
Ora loro possono immaginare come sono rimasto io quando dopo tre o quattro
giorni ho saputo della scomparsa di Matteotti».
114
Umberto Poggi.
L'ex collaboratore di D'Annunzio, Umberto Poggi, invece, sempre a Silvestri
e con l'intenzione di incoraggiarlo perché si impegnasse a far uscir fuori dal
processo di Roma quella verità rimasta nascosta, ebbe a dirgli:
«Mi sono fatta la convinzione che il vero mandante alla
soppressione di Matteotti era il gruppo finanziario e industriale,
creatore e finanziatore, dell'organizzazione che faceva capo al
“Corriere Italiano”... Su Mussolini pesa pur sempre la grave colpa
di non avere messo al muro almeno gli esecutori di quel delitto.
Dico “almeno gli esecutori”, perché i mandanti erano intoccabili
per la supremazia acquisita con il finanziamento dello squadrismo
operante nei punti nevralgici della nazione. Ma il grosso guaio è che a
tutt'oggi quei mandanti, che non sono nel frattempo morti, di morte naturale
vegetano e prosperano all'ombra della Repubblica»
Ma sempre Umberto Poggi ci fa comprendere l’assurdità di quanto abbiamo già
accennato, cioè di un Mussolini perfetto imbecille, che ordina un delitto e/o un
rapimento del genere e poi negli stessi momenti in cui tale delitto sta per essere
consumato, va in giro a parlare usando un linguaggio intimidatorio, infuriato e
violento come quello che ebbe a fare a Umberto Poggi.
Umberto Poggi, che fu anche segretario generale, alla Federazione Italiana
Lavoratori del Mare, infatti, ebbe anni dopo a far notare al socialista Carlo
Silvestri che Mussolini, infuriato perché il suo appello alla collaborazione e alla
distensione, contenuto nel discorso del 7 giugno 1924 (soprattutto indirizzato
verso i socialisti riformisti), era stato ignorato, se non fosse stato innocente, non
avrebbe mai tenuto il discorso che invece gli tenne a lui Poggi forse proprio il
giorno del rapimento o quello successivo, ma comunque quando ancora nulla si
sapeva del sequestro dell'onorevole Matteotti.
Nella mattina dell’11 giungo 1924, Mussolini si sfogò con Poggi che aveva
ricevuto proveniente da Gardone Riviera, dicendogli:
«La vita degli Albertini, dei Treves e dei Turati, se io fossi una società di
assicurazioni non l'assicurerei per due soldi. Quella gente vuole i plotoni di
esecuzione, invece che la collaborazione, li avranno ed i loro cadaveri
resteranno lì (e indicò al Poggi Piazza Colonna), una settimana di esempio».
E per di più, aggiunse il Poggi nel raccontarlo al Silvestri, egli ebbe anche
l'incarico di andarlo a riferire, senza cambiare una virgola, a Gabriele
D'Annunzio, a causa del quale si era avuto quell'incontro (D'Annunzio, come
noto, in quel periodo, era da tempo al centro di manovre che lo volevano
utilizzare per una ampia riunificazione sindacale).
[Su questa testimonianza del Poggi, in riferimento al giorno, a ridosso
del delitto, in cui avvenne il suo incontro con Mussolini, Mauro Canali
avanza dei dubbi, perchè non trova riscontro nella presenza delle
udienze a palazzo Chigi e qualche altra incongruenza, ma a nostro
avviso mantiene ugualmente una certa importanza perché il progetto
115
delittuoso era in auge da almeno 20 giorni prima del 10 giugno e se
anche l’incontro ci fosse stato prima, Mussolini non si sarebbe
esposto in quel modo]
Giacomo Acerbo
Acerbo, elemento moderato, deputato, già facente parte del Comitato
Centrale del PNF, ovviamente massone di piazza del Gesù, autore del
precedente “patto di pacificazione con i socialisti”, scrisse in un suo quaderno di
memorie che Mussolini dopo l’approvazione del bilancio e la sospensione dei
lavori parlamentari, avrebbe costituito il nuovo ministero includendovi,
insieme a personalità politiche e tecniche di valore, gli onorevoli D’Aragona e
Baldesi con i quali l’anno prima aveva avuto ripetuti colloqui e richiamando a
partecipare il partito Popolare che non si sarebbe potuto rifiutare avendo egli in
programma la sollecita pacificazione con la Santa Sede.
Raimondo Sala
Sala, fascista dissidente, a suo tempo espulso dal PNF, per aver dato vita ad
un movimento fascista scissionista, al tempo della opposizione Aventiniana,
scrisse una lettera, laddove vi è un passaggio interessante, tanto più per il fatto
che costui non aveva alcun motivo per essere indulgente con Mussolini. Scrisse
il Sala, rivolgendosi ad un certo, non identificato, Resis, di un suo colloquio con
Emilio De Bono del 21 maggio 1924 , nel quale il generale gli assicurò che
Mussolini intendeva mutare politica orientandosi a sinistra e lui pure ne era
lietissimo. De Bono gli fece però notare che Matteotti sarebbe stato un
irriducibile avversario , ma il Sala assicurò al De Bono che anche Matteotti alla
fine avrebbe seguito la condotta degli altri ed avrebbe visto con piacere il nuovo
orientamento.
E qui facciamo un inciso per rilevare che Matteotti era visceralmente
antifascista, ma anche per porsi come polo di riferimento della sinistra
antifascista, in vece dei comunisti, che altrettanto osteggiava. Ma questa
posizione, tutto sommato non era immutabile. Matteotti in definitiva era un
riformista, una specie di socialdemocratico, che già aveva dimostrato nei
Consigli comunali del Polesine di non disdegnare alleanze con la borghesia. Del
resto possedeva ettari di terra e altra ne aveva comprata, ma la trascurava
affittandola agli affittuari invece che ai contadini. Il Corriere della Sera, in un
articolo titolato “Il Marat del Polesine” evidenziò la profonda contraddizione
del socialista Matteotti il quale, se lo si incontra al Baglioni di Bologna o al
Flora di Roma, elegante e con il sorriso, non lo si riconoscerebbe come quello in
calzoni corti con le mollettiere, avvolto in un mantello largo, e dalle larghe tese
di un cappellaccio, che fa il Marat del Polesine, e condanna a morte la
borghesia. E così suscita la speranza nei contadini di una donazione delle sue
terre, speranza che però resta immancabilmente delusa.
116
Mario Giampaoli
Nel 1945 Silvestri era anche andato a trovare Mario Giampaoli, fascista
Sansepolcrista, noto federale di Milano, che il Silvestri conosceva da quando
questi era un ragazzetto (nell'ottobre del 1926 Silvestri, ferito dai fascisti,
dovette la sua vita proprio a Giampaoli che lo protesse mentre era ricoverato
all'ospedale); ora era il Giampaoli ricoverato all'ospedale, oramai in fin di vita
(morirà pochi mesi dopo ridotto dal cancro a 37 chili), e questi gli volle parlare,
come disse, quale un uomo che non ha più alcuna speranza di vita.
Gli disse Giampaoli:
«...Ti dico quella verità, della quale già altra volta, vent'anni fa,
tentai invano di convincerti. Mussolini è stato estraneo al delitto
Matteotti. Rossi vi è rimasto egualmente estraneo. Il responsabile
di tutto è Marinelli, la figura più brutta fra quelli che io ho
avvicinato nel periodo in cui ero un gerarca. Marinelli, ordinando
la cattura di Matteotti, ha obbedito alle direttive che gli sono
venute da persone le quali temevano l'esistenza di certe prove delle
loro malefatte».
Aldo Finzi
Carlo Silvestri, alla fine del 1926 ebbe una appassionata conversazione
con un Finzi che a suo tempo impelagato fino al collo per i suoi traffici politico
finanziari, salvatosi da responsabilità penali, era rimasto come “sospeso” nel
subentrante regime. Come fece notare il Finzi al Silvestri, oramai il processo di
Chieti era passato in archivio e quindi non aveva interessi che potessero
condizionare il suo giudizio.
«Mussolini – disse Finzi – non poteva aver impartito l’ordine di uccidere
Matteotti, se non altro per il fatto che questi era uno dei principali esponenti di
quel partito al quale meditava di rivolgersi nuovamente affinché non
impedisse la formazione di un governo basato sulla più stretta collaborazione
con la Confederazione Generale del Lavoro».
Ma su Finzi facciamo un passo indietro e torniamo a quando, infuriato per le
impostegli dimissioni, scrisse una “lettera testamento” che fece vedere a varie
persone, per esempio lo Schiff Giorgini e alcuni giornalisti tra cui Carlo Silvestri.
Poi, come noto, rinunciò ad utilizzare quest’arma e ritenne per lui più
opportuno starsene tranquillo e far passare la buriana. Anzi arrivò anche a
negare di averla mai scritta. La lettera parlava della Ceka e come scrive Mauro
Canali , era di una gravità estrema nei riguardi delle gravissime responsabilità di
Mussolini. Visto che questo “memoriale” non vide mai la luce, chi legge così,
può ritenere che le gravissime responsabilità di Mussolini siano anche
concernenti il delitto Matteotti. Il Canali infatti, ha dimenticato di rimarcare
che la lettera fu letta dal Silvestri e se questi, nel 1945 si convinse della
innocenza di Mussolini, dovette come minimo ritenere che quelle “gravissime
117
responsabilità” non inficiavano questa convinzione. Come noto il Silvestri ebbe
poi a valutare la lettera del Finzi, come una sua precauzione per salvarsi la pelle.
Italo Balbo
Silvestri ebbe anche modo di confrontarsi con Italo Balbo, ex comandante
squadrista e futuro governatore della Libia. Balbo gli confermò anche che a suo
tempo aveva proposto a Mussolini di fucilare i responsabili dell'omicidio di
Matteotti, ma il rifiuto di Mussolini di procedere in questo senso non poteva
leggersi come una correità del Duce. Infatti, disse Balbo, il discorso del 7 giugno,
in cui cautamente tastò il terreno per una apertura verso i socialisti, esclude
assolutamente un nascosto intento omicida di Mussolini, anzi proprio in quei
giorni il Duce aveva sondato il parere di Balbo per un eventuale scioglimento
della Milizia, cosa questa forse indispensabile per attuare poi concretamente
l'apertura ai socialisti e alla CGdL
In realtà in quei giorni Mussolini, disse Balbo, mi sembrava come un pentito
che non volesse scivolare nella dittatura. E concluse con questa affermazione:
«Ora invece per le conseguenze del delitto Matteotti sarà costretto a
fare il dittatore senza averne la stoffa. E saranno guai, perché un
dittatore non deve avere paura del sangue. Se egli fosse così stato e
se aveva delle responsabilità nel delitto Matteotti, non avrebbe
esitato un attimo a mettere al muro la squadraccia di Dumini,
nonché Marinelli e Filippelli e magari anche Cesare Rossi e Finzi,
pure sapendoli innocenti».
[Oltre alla testimonianza riportata dal Carlo Silvestri, circa il racconto
di Umberto Poggi, il Mauro Canali ha voluto mettere in dubbio (per il
suo “teorema” del resto ne aveva necessità) anche le testimonianze
qui riportate su Aldo Finzi e Italo Balbo, Ma a nostro avviso con
43
scarsa efficacia., ne parliamo in nota].
Carmine Senise e Arturo Bocchini
Non meno importanti e decisivi due altre pareri acqusiti da Carlo Silvestri.
Carmine Senise, da pochi mesi divenuto Capo della Polizia gli disse
(praticamernt4e nel 1941) che escludeva categoricamente che Mussolini fosse il
mandante dell’omicidio Matteotti. Egli nutriva questa convinzione prima ancora
di divenire il più diretto collaboratore del sen. Arturo Bocchini alla direzione
generale PS. Con gli elementi venuti a sua conoscenza , tramite il segreto dì
ufficio, tale convinzione si era rafforzata in guisa di non essere suscettibile di
incrinature. Anche il giudizio del sen. Bocchini, l’uomo che più di altri aveva
avuto modo di farsi una opinione aderente alla realtà dei fatti, era sempre stato
assolutamente negativo.
118
I ricordi di Edda, la figlia del Duce
Abbiamo lasciato da ultimo una interessante testimonianza di Edda
Ciano Mussolini, la figlia “prediletta” del Duce, questo perché, essendo la figlia
di Mussolini, viene a pensare che costei, nonostante per le note vicende del
marito, ebbe motivi di forte astio contro il padre, poteva non essere attendibile,
e la stessa Edda se ne rendeva conto, visto che disse chiaramente che “tanto io
sono la figlia del duce, nessuno mi crederà”.
Ed infatti questi ricordi non li esternò pubblicamente.
Anche il fatto che Edda riporti frasi dettegli da Mussolini stesso, potrebbe far
ritenere che forse il padre gli diede una versione addomesticata.
Ma le cose non stanno così, questa testimonianza, che oltretutto corrisponde
perfettamente agli avvenimenti storici, ha il suo valore, ma rimase in certi
quaderni della figlia del Duce e venne poi raccolta, con estemporanee
interviste, da un suo amico, il romagnolo Domenico Olivieri che l’aveva ospite
nella sua villa di Conselice presso Ravenna o nella sua piantagione di ananas in
sud Africa.
Dagli appunti dello stesso Olivieri, il giornalista storico Arrigo Petacco, ne ha
tratto questa importante testimonianza, ritenendola veritiera e riportandola nel
suo libro: “La storia ci ha mentito”, Ed. Mondadori , 2014.
A quanto sembra Edda aveva chiesto al padre una cosa che gli stava a cuore:
«“Ma il delitto Matteotti da chi venne ordito?”
“Papà si fermò di scatto e mi guardò con due occhi che sembrava volessero
uscire dalle orbite. “Edda”, mi disse, prendendomi le mani e continuando a
fissarmi: tu pensi o puoi aver pensato che io sapessi di quel mostruoso delitto?
Edda, mi si potrà accusare di tante cose, ma di assassinio o di mandante, mai,
ripeto mai!
Ma lo sai che l’uccisione di Matteotti mi è costata la fine di un sogno che poteva
avverarsi nel giro di un anno o al massimo due?
Lo sai che la morte di Matteotti ha cambiato la storia d’Italia. Lo sai che la sua
morte mi mise in una crisi morale e politica dalla quale non sapevo come
uscire?
Devi sapere che da quando diventai Presidente del consiglio, nel 1922, fino alla
uccisione di Matteotti, io, essendo pur sempre socialista, volevo anche i
socialisti al governo. Lo affermai chiaramente nel mio discorso del 7 giugno
1924. Leggilo, se non mi credi. Non potevo essere più esplicito.
Ero certo che il 1924 sarebbe stato l’anno in cui avrei realizzato i miei desideri.
Invece, tre giorni dopo, il 10 giugno, mi ammazzano Matteotti. Quando mi
comunicarono la notizia sentii il mondo cadermi addosso. Vidi il mio sogno
dissolversi… Edda, vorrei che mamma e papà non avessero più pace se dico
una bugia. Ero completamente all’oscuro di quell’infame delitto. Un giorno
usciranno sicuramente fuori prove schiaccianti sulla mia innocenza.
119
Se la storia d’Italia è cambiata e se io ho preso una strada diversa da quella
programmata, lo si deve all'uccisione di Matteotti.
Il mio spietato accusatore fu un giornalista di nome Carlo Silvestri che
formulava le sue accuse solo su teoremi e congetture fuori strada. In quel
periodo già mi accusavano di essere un dittatore, ma se lo fossi stato davvero
non avrei permesso a Silvestri di continuare la sua campagna accusatoria.
L'avrei fatto incarcerare. Invece Silvestri, che era un socialista, se è ancora in
vita lo deve a me che per ben due volte sono riuscito a fare arrestare in
extremis chi voleva assassinarlo. Immagina cosa sarebbe accaduto se
avessero ucciso anche lui: la colpa sarebbe ancora ricaduta su di me e per il
fascismo sarebbe stato il colpo di grazia.
I mandanti che volevano la sua morte erano gli stessi mandanti dell'assassinio
di Matteotti, ma non sono mai riuscito a individuarli.
Chiesi anche l'aiuto di uomini dell'opposizione che mi ritenevano estraneo al
delitto, ma neanche col loro aiuto siamo riusciti ad avvicinarci alla verità.
Così Silvestri fu lasciato libero di continuare la sua campagna benché buona
parte della direzione socialista non lo appoggiasse completamente.
Io, alla fine, dovetti prendere le decisioni drastiche che tutti conoscono.
Mi costrinsero a proclamare la dittatura fascista quando invece avrei preferito
costituire con i socialisti un grosso governo democratico».
In un'altra occasione Mussolini tornò a parlare con la figlia dei suoi rapporti
conflittuali con i socialisti e Edda così lo ha riportato:
“Ancora oggi, dopo tredici anni che sono Capo del governo fascista (quindi
dovremmo essere nel 1935, n.d.r.), darei il mio braccio per una collaborazione
coi socialisti. Anche due anni orsono ho avuto dei contatti segretissimi con i
socialistì e democratici fuoriusciti e con altri ancora in patria, per convincerli
a un'azione comune e, perché no? portarli al governo.
Sarebbe stato necessario un colpo di timone che io avrei organizzato con i
fascisti sani. Nella più assoluta segretezza, emissari miei e loro si spostavano
fra Roma, Parigi e anche Londra.
Posso farti anche dei nomi: Giovanni Amendola, il più qualificato che aveva
aderito al mio progetto benché fosse un mio grande avversario politico.
"Zio Pietro" (Nenni, n.d.r.), mio vecchio amico, ma ora segretario del partito
socialista a Parigi, rimase su due staffe, del resto come aveva sempre fatto.
L'altro socialista, Claudio Treves, essendo convinto della mia buonafede, si
mise a disposizione, ma sfortunatamente morì durante le trattative.
Bruno Buozzi, il sindacalista che aveva guidato la Fiom, mi scrisse dall'esilio
una lettera personale dichiarandosi entusiasta dell'idea.
I miei più stretti collaboratori erano Luigi Federzoni, Italo Balbo, Giacomo
Acerbo, Edmondo Rossoni, Emilio De Bono, Costanzo Ciano e Cesare Maria De
Vecchi, tutti membri del Gran Consiglio del Fascismo.
120
Tutti costoro avevano mansioni ben precise nel governo riguardanti l'esercito,
la polizia, i carabinieri per favorire l'operazione. Bene, per farla corta, tutto
andò in fumo. La causa? Mi danno per certo che fu l'influenza esercitata dai
comunisti sui socialisti. Molto probabilmente, a mia insaputa, i socialisti si
erano consultati con i comunisti e questi, che ovviamente non avevano nulla da
guadagnare da questa operazione, li consigliarono a tirarsi indietro.
Purtroppo la determinazione dei socialisti è sempre stata ben lontana da
44
quella dei comunisti e non hanno avuto il coraggio di proseguire...».
Ne più e ne meno che quello che noi e altri storici abbiamo sostenuto.
Alla luce di questi avvenimenti è quindi facile ritenere che tutto era andato
secondo i progetti di chi, sul piano politico, aveva sperato di compromettere
Mussolini. Il duce in qualche modo si era “salvato” per il rotto della cuffia, ma
da quel momento fu costretto, a governare rinunciando ad una ricomposizione
socialista della società. Anche questo era stato messo in conto dai “superiori
sconosciuti”.
Fin dal primo momento della sparizione di Matteotti, Mussolini aveva percepito
perfettamente che si stava “tramando” contro la sua azione di governo. Celebre
rimarrà la sua pubblica osservazione riferita anche nel rapporto inviato
dall’ambasciatore statunitense a Roma Henry P. Fletcher al segretario di Stato
a Washington il 23 giugno 1924, laddove il diplomatico relazionò circa la
vicenda Matteotti, concludendo di trovare «assolutamente sincero» il discorso
di Mussolini in cui il capo del Governo italiano aveva dichiarato:
«Solo un mio nemico, che da lunghe notti avesse pensato a qualche
cosa di diabolico, poteva effettuare questo delitto che oggi ci
percuote di orrore e ci strappa grida di indignazione».
121
Il parere del figlio di Matteotti
Interessante è anche conoscere il parere del figlio di Matteotti, Matteo.
Come è noto, la moglie di Matteotti, la signora Velia Titta Ruffo, deceduta nel
1938, non ha mai creduto che fosse stato il Duce a far ammazzare il marito,
anche se cercò con ogni mezzo di non consentire al regime di speculare sul
colloquio che ebbe con Mussolini i giorni successivi al delitto e nel corso delle
successive esequie, negando anche qualsiasi presenza della Milizia fascista al
trasporto della salma e ai funerali. Ed anche i figli, Carlo, Matteo e Isabella,
hanno sempre avuto questa convinzione.
Assurdo quanto insinuato dallo storico Mauro Canali che la moglie di Matteotti
e poi i figli, avrebbero tenuto questo atteggiamento perché aiutati
finanziariamente da Mussolini.
Il Canali per supportare questa sua insinuazione vi dedica anche un intero
capitolo “I finanziamenti alla famiglia Matteotti”, ma cosa può dimostrare
l’autore? Niente altro che una sua insinuazione!
Nel caso bisognerebbe allora anche supporre che poi, nel
dopoguerra antifascista, i figli di Matteotti (la madre era deceduta),
anche senza più necessità economiche, di fatto, continuarono a
“vendersi” la memoria del padre, quando gli sarebbe bastato
affermare (come hanno fatto altri antifascisti ex filo fascisti), che
“oggi, dopo molti anni, alla luce di nuove documentazioni e
informazioni, si erano sbagliati nell’assolvere Mussolini”.
Ma oltretutto il Canali, sorvola sul particolare che la moglie di Matteotti, fin dai
giorni adiacenti al rapimento, incontrò Mussolini e mostrò di credere alla buona
fede del Duce, tanto da sollevare l’astio di Filippo Turati e Claudio Treves a cui
la faccenda non stava ovviamente bene.
La moglie di Matteotti quindi aveva questa convinzione molto prima
che, a seguito delle sue traversie economiche venne poi aiutata
finanziariamente da Mussolini ! Se proprio quindi vogliamo fare una
ipotesi forse la moglie di Matteotti, già “sapeva” qualcosa (dal marito?), che la
induceva a scartare Mussolini come il mandante dell’omicidio.
Anche in questo caso, quindi, l’insinuazione del Canali non regge.
Quando il socialista Filippo Turati seppe che la moglie di Matteotti aveva avuto
un colloquio con Mussolini la rimproverò, sia pure pacatamente, ma la signora
gli rispose “che non aveva avuto intenzione di tradire il suo morto”.
Su queste convinzioni la propaganda antifascista ha sorvolato oppure ha cercato
di insinuare maliziosamente che esse derivavano dal fatto notorio che Mussolini
aveva aiutato e sostenuto la famiglia Matteotti finanziariamente. Al rimprovero,
molto più sostenuto, che gli fece Claudio Treves, la moglie di Matteotti rispose:
“Lei creda quello che vuole, ma la mia opinione è opposta alla sua e non
riuscirà mai a convincermi”.
Matteo Matteotti, nel dopoguerra divenuto anche deputato socialdemocratico,
varie volte ministro e negli anni ‘50 anche segretario nazionale del PSDI, ebbe
122
ad esprimere pubblicamente il parere che il Duce fosse estraneo all'omicidio del
padre ed adombrò, sia pure come sola ipotesi, la possibilità che dietro a quel
delitto ci fosse anche la mano del Re. Ma facciamo prima una premessa:
Nel 1978 Matteo Matteotti ricevette da un anziano mutilato di guerra, Antonio
Piron, l'informazione che nel tubo della stufa di una casa in campagna nei pressi
di Regello, vicino Firenze, era nascosto un documento molto importante.
L’informazione si rivelava giusta e Matteo con grande meraviglia trovò il
documento scritto su carta intestata "Camera dei Deputati" ed era l'autografo
originale dell'ultimo articolo del padre, pubblicato, ma in anonimo, su la rivista
"Echi e Commenti" il 5 giugno del 1924, cinque giorni prima di essere ucciso, ma
in edicola due giorni dopo. Giacomo Matteotti parlava di affari e tangenti nei
quali sono immischiati uomini del Governo fascista e riferiti non solo a sedicenti
aperture di nuove case da gioco, ma soprattutto all'importazione del petrolio ed
alle sue ricerche nel sottosuolo italiano!
Quindi tre giorni dal delitto la stampa, anticipava delicati scandali.
Il testo autografo era uguale a quello pubblicato su "Echi e Commenti", ma
perché – questo originale autografo - era finito nella stufa?
Sorgevano varie domande: quel documento era anche stato fatto vedere,
all’epoca, a “chi” non avrebbe dovuto vederlo, indicandone l’autore? Celava
informazioni più importanti di quanto sembrava? Quali? Perché solo ora, dopo
54 anni, era stato fatto rintracciare?
Nessuno potè rispondere , ma alcuni anni dopo a novembre del 1985, sulle
pagine della rivista Storia Illustrata N. 336, l'onorevole Matteo Matteotti
concesse una circostanziata intervista al giornalista Marcello Staglieno, dove,
dopo aver raccontato la vicenda dell’articolo autografo da lui rinvenuto, apportò
altri interessanti particolari e una sua ipotesi.
Riportiamo l’intervista di Staglieno.
Parla il figlio: “Dietro la morte di mio padre c’era il Re”
[Intervista di Marcello Staglieno]
“Ciò che sembra più degno d’attenzione del libro di memorie di Matteo
Matteotti (Quei vent’anni. Dal fascismo all’Italia che cambia, edito da Rusconi) è
l’ultimo capitolo. Capitolo che, sulla base di nuovi elementi (ricollegabili a cose
che vennero scritte nel 1924 e in anni successivi), sembra aprire inquietanti
interrogativi sull’assassinio di Giacomo Matteotti.
Questi: Vittorio Emanuele III ebbe una parte decisiva nel delitto?
Il Re era implicato in quello “scandalo dei petroli” (l’affare Sinclair) di cui parlò e
straparlò la stampa del tempo e, scoperto da Matteotti, manovrò per
assassinarlo?
Invito Matteo Matteotti ad essere più esplicito”.
[Matteo Matteotti]: “Procediamo con ordine. Un pomeriggio del marzo 1978,
m’incontro qui in Roma”, dice Matteo Matteotti, “con un anziano mutilato di
guerra venuto apposta da Firenze, Antonio Piron. Da lui ricevo un documento,
123
trovato in aperta campagna a Reggello presso Firenze, dentro un tubo di stufa.
Si tratta del testo autografo (i periti l’hanno definito assolutamente autentico e
come tale l’ho riprodotto nell’appendice del libro su carta intestata “Camera dei
deputati” e a firma Giacomo Matteotti) d’un articolo comparso – anonimo – sulla
rivista “Echi e Commenti” del 5 giugno 1924, ma in edicola due giorni dopo.
L’articolo contiene riferimenti, brevissimi, a due scandali: bische e petroli”.
D.: Parliamo dei petroli?
R.: Sì, lasciamo stare le bische, il cui decreto regolamentare era stato
approvato da poco alla Camera. Il riferimento ai petroli è assai più interessante.
Riguarda il regio decreto legge n. 677, in data 4 maggio 1924, nel quale
l’articolo primo afferma:
“E’ approvata e resa esecutiva la convenzione stipulata nella forma di atto
pubblico, numero di repertorio 285, in data 29 aprile 1924, fra il ministero
dell’economia nazionale e la Sinclair Exploration Company”. Le firme sono
quattro: Vittorio Emanuele, Corbino, De Stefani, Ciano. Ma io ritengo che,
da tener d’occhio, sia proprio Vittorio Emanuele…
D.: Sia più esplicito.
R.: Nel 1924, dopo l’uccisione di mio padre, i giornali – ma non soltanto quelli –
parlarono della denuncia che avrebbe dovuto essere portata da Giacomo
Matteotti davanti alla Camera, riferendosi in particolare ad un dossier,
contenuto nella sua cartella il giorno del rapimento, che riguardava appunto,
assieme alle bische, i petroli.
D.: Suo padre, aveva realmente con sé quel dossier?
R.: Non ne ho le prove materiali. Però uno storico serio come Renzo De Felice
afferma che le insistenti voci di un delitto affaristico “non possono essere
lasciate cadere a priori”. Ed esistono due documenti, sempre citati da De Felice:
1) un rapporto “riservatissimo” di polizia per De Bono, nel quale si
afferma che Turati sarebbe stato in possesso di copia dei documenti sulla
Sinclair che aveva mio padre e dove si precisa che Filippo Filippelli del
Corriere Italiano aveva contribuito all’uccisione per rendere un servizio
all’onorevole Aldo Finzi e al fascismo
2) un rapporto dell’ambasciata tedesca a Roma inviato a Berlino (10
settembre 1924) che parla di quei tali documenti pervenuti nelle mani di
mio padre.
D.: E dove sarebbero finiti, quei documenti?
R.: Forse nelle mani del Re. In appendice al mio libro intendevo aggiungere a
puro titolo d’ipotesi come del resto faccio ora parlandone, tre articoli. Ma
l’editore mi sconsigliò. Il primo era stato pubblicato su Stampa Sera il 2 gennaio
1978. Era a firma di Giancarlo Fusco, una cara persona purtroppo scomparsa
che aveva fama di spararle grosse. Però nessuno s’è mai sognato di smentire
le affermazioni gravissime di quel suo articolo. In sintesi, eccole: nell’autunno
del 1942, Aimone di Savoia duca d’Aosta, scriveva Fusco, raccontò a un
gruppo di ufficiali che nel 1924 Matteotti si recò in Inghilterra dove fu
ricevuto, come massone d’alto grado, dalla loggia The Unicorn and the
124
Lion. E venne casualmente a sapere che in un certo ufficio della Sinclair,
ditta americana associata all’Anglo Persian Oil, la futura BP, esistevano
due scritture private.
Dalla prima risultava che Vittorio Emanuele III, dal 1921, era entrato nel
register degli azionisti senza sborsare nemmeno una lira; dalla seconda
risultava l’impegno del Re a mantenere il più possibile ignorati (coverei) i
giacimenti nel Fezzan tripolino e in altre zone del retroterra libico.
D.: E il secondo e il terzo articolo?
R.: Al tempo Ancora riguardo al primo (per restare sul piano di
quest’avventurosa ipotesi, un po’ piduista avanti-lettera), esso potrebbe
spiegare anche come sia “passato” così rapidamente quel decreto-legge, citato
da me poco fa, sullo sfruttamento da parte della Sinclair del petrolio reperibile
nel sottosuolo italiano, in Emilia e in Sicilia. Un decreto-legge che non diventò
mai esecutivo: una commissione, appositamente per valutare quell’accordo
Italia-Sinclair, il 3 dicembre 1924, lo bocciò. Ma torniamo al giugno 1924.
D.: Parliamo di Vittorio Emanuele III?
R.: Sempre sul piano dell’ipotesi. Ai primi di giugno a De Bono si sarebbe
presentato un informatore, un certo Thirshwalder (recto: Thierschald, nd.r.), con
una notizia preziosa: Matteotti aveva un dossier non solo sui brogli elettorali
fascisti nel ’24, ma anche sulle collusioni tra il re e la Sinclair. De Bono (forse
saltando Finzi, sottosegretario agli interni) interpellò il fido Filippelli che a
sua volta chiese ad Amerigo Dumini di organizzare la “spedizione” contro
Matteotti. Mussolini ne venne al corrente solo due giorni dopo anche se
all’indomani del discorso dello stesso Matteotti aveva esclamato: “Che
cosa fa la Ceka, che cosa fa Domuni!...” e Dumini agì, probabilmente
ignorando chi davvero lo muoveva.
D.: Benito Mussolini non aveva alcun interesse a fare uccidere suo padre…
R.: Mussolini voleva – fin dal 1922, subito dopo la marcia su Roma –
riavvicinarsi ai socialisti. Il 7 giugno 1924, quando già il delitto era in piena fase
di progettazione, pronunciò un discorso che era un appello alla collaborazione
rivolto proprio ai socialisti. Per questo l’attacco fattogli da mio padre pochi giorni
prima fece infuriare il duce: è un fatto innegabile. Ma è altrettanto vero che quel
7 giugno Mussolini pensava – nonostante mio padre – di poter avere i
socialriformisti, D’Aragona e forse Turati, al governo. Ci sono in proposito due
testimonianze: quella di Giunta e quella di Carlo Silvestri. Anzi a quest’ultimo,
come risultava da una sua deposizione al processo Matteotti rifatto nel 1947, fu
proprio Mussolini in persona a dichiararlo, aggiungendo che Matteotti era stato
vittima di loschi interessi. No, il duce non aveva alcun interesse a farlo uccidere:
si sarebbe alienato per sempre la possibilità di un’alleanza con i suoi vecchi
compagni., che non finì mai di rimpiangere…Del resto, per citare De Felice,
possiamo leggere nel suo saggio che “l’azione contro Matteotti non fu realizzata
a caldo, come, per esempio, era stata quella contro Misuri. Tutti gli elementi
emersi in occasione dei tre procedimenti connessi al delitto (…) provano
che la preparazione del delitto cominciò il 31 maggio, all’indomani del
45
discorso di Matteotti alla Camera.
“E’ possibile”, si chiede De Felice,
125
“pensare che, se anche Mussolini avesse impartito l’ordine, in undici
giorni la collera non gli sarebbe sbollita e non si sarebbe reso conto di un
simile atto?”. Lo stesso Pietro Nenni, nel 1929, affermò che quello era
stato un delitto affaristico. Mio padre, aggiungo io, venne assassinato in
modo precipitoso…
Dumini e gli altri della Ceka fascista non avevano con sé neppure una pala;
erano su un’auto del Corriere taliano di Filippo Filippelli, che era l’uomo di Aldo
Finzi. Ma anche a non voler sospettare di Finzi, sono indubbi i legami di
Filippelli con De Bono… L’azione, comunque, fu precipitosa. La tesi del delitto
preterintenzionale non mi convince: ad assassinare mio padre fu, con una lima,
Amleto Poveruomo. Con la certezza di farla franca: all’auto la polizia risalì solo
per caso. Il delitto comunque fu compiuto subito dopo la pubblicazione di quel
tale articolo di Giacomo Matteotti su Echi e Commenti.
D.: Con quali obiettivi?
R.: Continuando nella nostra ipotesi, gli uomini della Ceka erano convinti
d’agire in nome di Mussolini; in realtà allontanavano la possibilità d’un
governo con i socialisti, possibilità che doveva spaventare molto la corona e la
borghesia industriale italiana; dall’altra parte davano soddisfazione al fascismo
più intransigente, quello farinacciano; e, infine, sottraendo quei tali documenti –
supposto che esistessero, ed io ci credo – salvavano (ma senza saperlo: l’unico
al corrente era De Bono) la corona dalla faccenda Sinclair.: E’ quanto si legge
anche in un articolo pubblicato dall’Avanti! Nel gennaio 1978, pochi giorni dopo
quello di Fusco. Anche esso avrebbe dovuto trovare spazio nell’Appendice,
assieme ad una lunga lettera di Giorgio Spini (qui riprodotta a pag. 95, n.d.r.),
indirizzata alla Stampa nel 1978. Questa lettera spiega che genere di farabutto
fosse Sinclair. Ma chi voglia maggiori dettagli sulla vicenda, anzi su quello
sporco affare in cui erano coinvolti ministri come Mario Corbino e De Stefani,
assieme all’onorevole Jung, all’ambasciatore Caetani e a moltri altri, legga con
attenzione il capitolo che alla Sinclair e al delitto Matteotti ha dedicato Matteo
Pizzigallo nell’eccellente saggio pubblicato nel 1981 da Giuffrè col titolo Alle
origini della politica petrolifera italiana 1920-1925. Per parte mia, sono convinto
che altri importanti documenti, ad avvalorare l’ipotesi del delitto affaristico con la
longa manus della corona, verranno presto alla luce.
Ai primi del novembre 1985 – in presenza di Giordano Bruno Guerri – Matteo
Matteotti precisò a Marcelo Staglieno, di aver verificato di persona, a
Londra in quel 1978, la veridicità di quanto aveva scritto Fusco.
***
Una cosa è certa, possono aversi delle perplessità, sulla
perentoria affermazione del figlio di Matteotti circa le responsabilità
di De Bono e il Re come mandante del delitto, ma non possono
liquidarsi con leggerezza, anche perché un ruolo nell’affare sporco
petrolifero, il Savoia lo ha certamente avuto e in qualche modo quel
delitto è anche gravitante nell’orbita degli interessi internazionali
anglosassoni di Casa Savoia.
126
Mandanti sconosciuti e implicazioni politiche
Quelle che seguono sono considerazioni a “ruota libera” e come tali vanno
prese, con un certo disincanto così come le abbiamo espresse, perché in questa
vicenda, nulla è certo, e le testimonianze e documentazioni su cui orizzontarsi
ve ne è una inflazione, la cui attendibilità però, per le testimonianze lascia a
desiderare, mentre le documentazioni, spesso si prestano a più interpretazioni.
Più avanti nelle “Conclusioni”, amplieremo il discorso, preciseremo meglio, e
riassumeremo il tutto definitivamente.
Come abbiamo accennato, con il nostro excursus storico, anche attraverso delle
considerazioni logiche possiamo escludere una conoscenza del rapimento e una
direttiva per il delitto da parte di Mussolini, e questo qualunque possano essere
stati i suoi eventuali interessi in gioco minacciati dalle rivelazioni di Matteotti.
La denuncia del deputato socialista alla Camera, circa certi loschi traffici sulle
case da gioco e sul petrolio avrebbe inguaiato certi ambienti affaristici e forse
fatto saltare qualche testa contigua al governo e sia pure, in grado minore,
l'esposizione del deputato socialista, tesa a dimostrare, a suo avviso, che la
previsione del bilancio dello Stato era stata taroccata per attestarne il pareggio,
avrebbe creato delle noie al governo e quindi a Mussolini tutto teso a dimostrare
all'estero che in Italia c'era un governo forte al quale si può concedere larghi
prestiti. Il Duce, però, con la sua abilità politica e forte di una netta maggioranza
di voti alla Camera, non crediamo che avrebbe avuto difficoltà insuperabili o
comunque tali da doverle evitare con un omicidio e con tutte le complicazioni
che ne sarebbero scaturite.
Anche il timore che Matteotti potesse fare il nome del fratello Arnaldo, come
implicato in affari poco puliti, non ci sembra un motivo valido per predisporre
un omicidio, per il semplice fatto che le implicazioni di Arnaldo Mussolini in
questo genere di affari non erano poi così rilevanti, ma se pure lo fossero state,
la scomparsa di Matteotti non avrebbe impedito ad altri di denunciarle.
Evidenti e scontate, invece, le implicazioni politiche.
Non è da sottovalutare il fatto che Mussolini, come abbiamo visto, stava anche
lavorando in prospettiva per gettare le basi di un allargamento della compagine
governativa ai socialisti unitari ed ai confederali. Ogni azione delittuosa
contro il deputato socialista, lo avrebbe irrimediabilmente
danneggiato, molto di più e senza possibilità di rimediare, di
qualsiasi attacco o denuncia che Matteotti gli avesse portato con un
discorso alla Camera. A chi ha avanzato il dubbio che le avances di
Mussolini verso i socialisti ed i confederali, erano solo espedienti tattici e
comunque erano di importanza decisamente secondaria rispetto alla necessità
di un Mussolini (ipotizzato come implicato direttamente negli sporchi affari che
Matteotti si apprestava a denunciare) di mettere a tacere il rivale si oppone, la
ovvia constatazione che, mentre per gli affaristi e gli speculatori, la denuncia
documentata dei loro imbrogli avrebbe costituito la fine degli intrallazzi, e forse
conseguenze penali, per Mussolini è diverso, ed anche ammesso che
egli fosse complice di quegli intrallazzi, sarebbe stato per lui molto
127
più facile difendersi dalle accuse, negandole, scaricando le proprie
responsabilità o in ogni altro modo possibile, invece che progettare il
rapimento e l'uccisione del deputato socialista le cui conseguenze gli
si sarebbero sicuramente ritorte contro.
Non è escluso che a caldo, mal sopportando l'estremismo di Matteotti contro il
fascismo Mussolini, con il suo stretto entourage, parlò di dargli una “lezione”,
ma è più che certo che la cosa finì lì, perché egli era un accorto politico per non
valutare tutte le conseguenze. Risaltava infatti immediatamente agli occhi, oltre
che per le sue avances verso i socialisti, sarebbe stato insensato, specialmente
dopo il trionfo per la sua lista nelle elezioni di aprile e il successo del suo
discorso del 7 giugno, vanificare tutti gli sforzi che stava facendo per dividere gli
avversari (che infatti ben aveva scompaginato), con una scellerata impresa
che, comunque fosse stata attuata: rapimento con bastonatura o
rapimento con delitto, li avrebbe tutti ricompattati contro il governo.
Particolari questi che non sono sfuggiti allo storico Renzo De Felice, il quale
ebbe a sottolineare che Mussolini era sempre stato un buon “tempista” e quindi
anche se a “caldo” avesse dato disposizioni per impartire una lezione a
Matteotti, nei giorni successivi a quel discorso del deputato socialista alla
Camera e dopo la sua risposta del 7 giugno aveva avuto tutto il tempo per
sbollire e rendersi conto della negatività della cosa. E del resto, se egli aveva in
mente un omicidio del genere, durante la sua attuazione non si sarebbe di certo
pubblicamente esposto con frasi avventate che poi, a delitto consumato, gli
sarebbero state fatte pesare come una prova a carico.
Frasi che però crearono un certo clima, dando modo ai
mandanti del crimine di sfruttarle, facendo credere agli
esecutori che si stava lavorando nell’interesse di Mussolini.
Probabilmente l'omicidio di Matteotti, anche se avvenne precipitosamente in
auto, era stato messo in conto perché non vediamo come, dopo una aggressione
del genere, si sarebbe potuto lasciare libero Matteotti di tornare in circolazione e
46
denunciare tutti.
Inoltre il progetto esecutivo del rapimento si protrasse per
una decina di giorni, tanti per riflettere e ripensarci.
Come abbiamo sempre detto, se Mussolini fosse stato un dittatore sanguinario e
senza scrupoli, responsabile del rapimento e della uccisione di Matteotti è poco,
ma sicuro, che avendo egli avuto per le mani, da subito o in tempi successivi,
molti di coloro che lo avrebbero potuto seriamente accusare (come ad esempio
Cesare Rossi, Aldo Finzi, forse Benedetto Fasciolo e Giovanni Marinelli, ma
soprattutto la Ceka di Amerigo Dumini) non ci avrebbe pensato due volte a farli
“sparire”, “suicidare” in qualche modo o più semplicemente fucilarli.
Ed invece se li trascinò dietro per anni, mettendoli in galera o al
confino, lasciandoli indisturbati a fare gli antifascisti all'estero,
tenendoli tranquilli con ogni genere di sovvenzioni, o semplicemente
ignorandoli, ecc., tanto che molti di costoro, divenuti antifascisti, gli
sopravvissero e li ritroveremo al processo di Roma del 1947!
128
Già agli inizi negli anni ’20 il Dumini era stato arrestato a Trieste per traffico
d’armi verso il neonato regno di Jugoslavia e Cesare Rossi, intercedette in suo
favore per chiudere la faccenda dovendo Mussolini impegnarsi nelle trattative
con la Jugoslavia per la questione di Fiume: non si poteva fare altro che
smorzare lo scandalo per non pregiudicare l’accordo tra i due Stati che infatti
fu poi firmato nel gennaio 1924. Francesco Giunta denunciò questo scandalo e
in qualche modo chiamò in causa anche il Rossi, ed è interessante notare che
Dumini trafficava armi con la Jugoslavia, danneggiando la sicurezza e gli
interessi nazionali, per conto di una società, la “Armstrong” di Pozzuoli, di cui
sono contitolari Basil Zaharof e la “Commerciale”.
E non è neppure da sottovalutare il fatto che tra tutti gli ex collaboratori di
Mussolini, passati all'antifascismo, nessuno ha mai affermato che Mussolini gli
aveva commissionato il sequestro del deputato socialista, ma tutto al più
qualcuno ha avanzato la sua ipotesi che forse Mussolini sapeva , che magari
avrebbe ispirato il delitto, o che forse ne era il responsabile morale (Cesare
Rossi), o come l'Amerigo Dumini che scrisse nel “memoriale” nascosto in
America nel 1933 (poi di fatto smentito al processo di Roma del 1947), di “aver
saputo” dal Marinelli che l'iniziativa era stata voluta dal Duce.
Eppure se veramente l'iniziativa fosse partita da Mussolini, se
l'ordine del sequestro omicida era scaturito da lui, a qualcuno di
questi suoi collaboratori doveva pur averlo impartito e con il tempo,
visto che in un modo o nell'altro, tutti furono travolti da quella
vicenda, questo qualcuno avrebbe finito sicuramente per parlare
fornendo elementi probanti e non tutti quei “si dice” e quelle
sciocchezze, poi anche ritrattate che sono state profferite negli
anni. Se così non è stato è solo perché effettivamente Mussolini era
fuori da quella decisione.
Certo Mussolini ha anche altre responsabilità, soprattutto morali, come disse
Cesare Rossi, ma queste, lo ripetiamo, vanno contestualizzate al particolare
periodo storico.
Esclusa quindi la responsabilità diretta di Mussolini, non restano che altre due
ricostruzioni del delitto:
- la prima , oramai dimostratasi inconsistente se non ridicola, che è quella
della eliminazione per vendetta su un irriducibile avversario che aveva
denunciato i brogli e le violenze alle elezioni del 6 aprile 1924 e ora voleva
portare altri “attacchi”. Rapportata a Mussolini questa ipotesi si configura come
una sua “responsabilità morale”, per aver governato anche attraverso iniziative
poco pulite e l'utilizzo di persone delinquenti e violente, tanto da ingenerare un
clima tale ed una predisposizione mentale nel suo entourage che aveva a
disposizione la Ceka, il quale ambiente si sentì così autorizzato a mettere in atto
simili azioni delittuose, che poi magari travalicarono le intenzioni.
E' questa una ipotesi sostanzialmente debole, perché gli interessi di ordine
affaristico e politico in questo affaire sono così evidenti che fanno escludere, in
chi diede da dietro le quinte l'ordine esecutivo, un colpo di testa avventato ed
estemporaneo, per vendetta contro gli antifascisti.
129
Nella progettazione di quel delitto si può escludere che ci sia stata una azione
impulsiva e inconsulta, ordinata da qualche personaggio poco accorto. Forse,
tutto al più, in chi poi l'ha organizzata, possiamo dire che fu mal gestita e anche
poco valutata nelle sue conseguenze e sicuramente anche sfuggita di mano nella
sua esecuzione, ma sicuramente fu progettata con il fine preciso di eliminare o
far tacere Matteotti e mettere sul lastrico Mussolini.
Gli interessi in ballo mettono in forte dubbio l'ipotesi preterintenzionale
dell'omicidio anche se risulta evidente nella sua grossolana esecuzione, è quindi
probabile che ci si riproponeva, attraverso l’interrogatorio e poi la scomparsa di
Matteotti, di realizzare il recupero di paventati documenti e l’obiettivo politico
ai danni del governo. La uccisione in auto e in quel modo, però, non era
prevista, ma forse sarebbe stata eseguita dopo e da tutt’altra parte.
Ed anche presupponendo che forse si voleva attuare un rapimento al solo fine di
impartire una pesante “lezione” intimidatoria al Matteotti, oltre a derubarlo
delle sue presunte documentazioni, le cose non cambiano poi di molto perché,
come già accennato, chi ha progettato questa azione sapeva benissimo
che un rapimento con violenta bastonatura e magari sottrazione di
documenti, proprio nella capitale d'Italia e verso un deputato capo
del partito socialista unitario, oltretutto pochi giorni dopo il suo
forte discorso del 30 maggio, avrebbe creato nell'opinione pubblica,
non solo italiana, una impressione tale e delle conseguenze
sicuramente deleterie ed irrimediabili per il governo di Mussolini.
Quindi anche ammesso che il ferimento mortale inferto a Matteotti in macchina
era stato la reazione ad un momento feroce di lotta e non freddamente
premeditato, resta evidente che la premeditazione omicida faceva comunque
parte del rapimento.
Per la “responsabilità morale” , infine, non possiamo che ripetere quanto già
espresso, cioè di tenere conto del particolare periodo storico in cui accaddero
questi avvenimenti. Un periodo erede di 4 anni di quasi guerra civile, dove una
fazione, quella fascista, aveva trionfato sulle altre e, almeno in parte, aveva
preso il potere.
E tutto questo, piaccia o meno, determinava l'utilizzo politico della violenza e
comunque tale pratica va accettata, perché figlia del clima del tempo, laddove
anche spregiudicate operazioni, fuori dalle regole (per esempio, l'utilizzo
occasionale della Ceka), di fatto, erano un surrogato dell'azione rivoluzionaria
pura e semplice.
Non tenendo conto di tutto questo, è come se volessimo giudicare la moralità e
la legalità di certi avvenimenti storici, cruenti e “illegali” come, per esempio, la
rivoluzione francese o quella bolscevica in Russia. Sono tutti avvenimenti che
vengono presi così come si sono svolti e per il periodo storico in cui si svolsero e
come tali analizzati e giudicati, essendo insulso applicare a quegli eventi i
cosiddetti “canoni morali” o stabilire se c'erano o meno i presupposti legali per
certe azioni .
- una seconda ricostruzione del delitto si può articolare su due ipotesi: quella
specificatamente affaristica (la minaccia della denuncia di certi importanti
130
scandali) o quella solo specificatamente politica (che non è la storia dei brogli
elettorali e dell’antifascismo, ma l'insofferenza per la tendenza dirigistica nella
politica economica da parte del governo, le paventate aperture ai socialisti
unitari, le prime avances verso la Chiesa, mal digerite dalla Massoneria, ecc.).
Queste due ipotesi, solo apparentemente diverse, sono estremamente
realistiche, ma trattano situazioni che non possono essere disgiunte tra loro in
quanto il solo interesse affaristico forse non sarebbe stato
sufficiente a realizzare un omicidio del genere, con tutte le
conseguenze prima accennate, e comunque senza una oramai palese
avversione di Mussolini verso questi ambienti affaristico –
speculativi, non ci sarebbe stata la necessità del delitto; mentre il
solo interesse politico, difficilmente avrebbe portato al crimine se
non cointeressato anche al mondo degli affari come del resto si
riscontra da una analisi degli elementi e dei fatti emersi.
Prima di andare avanti e formulare valutazioni e congetture su determinati
personaggi e situazioni delittuose è però opportuno accennare a due questioni
(il merito di averle fatte emergere si deve soprattutto al giornalista Franco
Scalzo, mentre invece il Mauro Canali le ha totalmente ignorate) che, seppur a
latere di tutto l’Affaire, ebbero sicuramente una certa incidenza, fino a che
punto non è dato sapere, nella situazione generale che portò al delitto,
Matteotti:
la polemica “revisionista” e il delitto a Parigi di Nicola Bonservizi
segretario del Fascio in Francia e giornalista del popolo d’Italia.
Basti pensare che quasi tutti gli esponenti “revisionisti” erano massoni e che
dopo il delitto Matteotti finirono esuli in Francia a fare gli antifascisti.
Per comprendere bene queste due vicende, in qualche modo legate al contesto
nel quale nasce il delitto Matteotti, occorre aver presente la situazione del
fascismo, un fenomeno giovane, ma molto complesso, andato al governo con la
marcia su Roma.
Tralasciando le istanze ideologiche e politiche, con tendenze di destra o di
sinistra, sindacali, ecc., qui meno pertinenti, consideriamo che il fascismo sotto
la guida e il carisma di Mussolini poteva dirsi il compendio di varie istanze
ideali, interessi e assimilazioni politiche, ma in particolare, per le vicende che ci
riguardano, occorre tenere presenti due componenti: i Ras e i “revisionisti”.
I Ras: Balbo in Emilia, Grandi a Bologna, Giunta a Trieste, Farinacci a Cremona,
Caradonna in puglia, e così via, sono uomini duri, spesso portati dalla provincia
alla grande politica da Mussolini a cui sono fedeli, ma con un certo spirito
autonomo.
Alcuni, come Balbo, Giunta, ecc., si adeguano e si inquadrano nella nuova
situazione di potere, ma altri non si rassegnano e vorrebbero la conquista del
potere tutto per il fascismo. In certi casi sono legati a interessi agrari di zona e
spesso causano incidenti e insofferenze, che preoccupano il lavoro governativo e
d’ordine di Mussolini .
131
La polemica “revisionista”
Ras a parte, ci sono anche poteri forti che hanno appoggiato l’ascesa del
fascismo per interesse. Sono realtà che fanno riferimento al grande capitale e
alla Finanza. Mussolini è noto, soprattutto dal 1921 in avanti, al fine di
assicurarsi determinati appoggi, ha promesso una prefigurazione di Stato
d’ordine che assicuri la pace sociale e non interferisca con gli interessi
capitalistici, non ostacoli le privatizzazioni e così via.
Ma in sostanza Mussolini era rimasto un socialista e la sua visione dello Stato
era affatto diversa dallo Stato liberale, anzi con gli anni arriverà a imporre uno
Stato a cui ben poco stesse fuori di esso e dove gli interessi economici e
finanziari fossero subordinati a quelli etici e politici.
Arrivato quindi Mussolini al potere, egli non ha alcuna intenzione di “pagare” la
cambiale che ha sottoscritto con questi poteri forti, con l’Alta Banca. Ma deve
muoversi con i piedi di piombo a piccoli passi, perché sa benissimo che la
reazione di questi poteri potrebbe essere per lui mortale.
Intanto c’è anche il fatto che questi poteri, attraverso uomini a loro
riconducibili, si sono infilati sia nel fascismo che nell’entourage governativa di
Mussolini.
Gruppi di faccendieri, molti venuti in auge con la guerra, come per esempio i
Filippo Naldi e i Carlo Bazzi, contando su appoggi e finanziamenti dell’Alta
Banca e su coperture massoniche, avevano anche dato vita ad una certa editoria
propedeutica a iniziative politico finanziarie, contando su appoggi di uomini
vicino a Mussolini come Aldo Finzi, Cesare Rossi, Giovanni Marinelli, ecc.
Ecco allora che come appare evidente che Mussolini si muove al di fuori degli
interessi della Commerciale di Toeplitz e di questi poteri forti, subito inizia a
serpeggiare, subdolamente e per vie traverse un certo spirito di rivolta che però
non attacca direttamente il fascismo.
Prenderà piede così quella che verrà definita la “gramigna”
revisionista, un vero e proprio movimento di idee che sembra
prefigurarsi nobili intenti di “normalizzazione” e “liberalizzare” il
fascismo, ma che invece nasconde evidenti interessi di chi vorrebbe
utilizzare il fascismo per i scoi scopi.
Ebbene, si da il caso che quando “chi di dovere” ritenne che Mussolini ha
stancato e deve andarsene, proprio in questo contesto si troveranno le gambe
che prenderanno a marciare fino ad arrivare al delitto Matteotti.
Tutti questi intrighi e le tensioni che abbiamo descritto, vennero mascherati o
ebbero dei riflessi dietro forti contrasti di natura politica all'interno del
fascismo, proprio in un momento, autunno del 1923, di particolare delicatezza
per via della imminente scadenza dei pieni poteri (a cui poi Mussolini rinunciò a
chiederne il rinnovo) che erano stati conferiti con la Marcia su Roma e le varie
iniziative di Mussolini per domare i Popolari circa le loro posizioni assunte
rispetto al suo governo (dopo il loro congresso dell'aprile del 1923 si divisero in
almeno tre correnti e successivamente uscirono dal governo).
132
Consideriamo quindi quest'aspetto della politica dell'epoca, nel quale si evince
anche come personaggi e forze eterogenee si muovono, appaiono e scompaiono,
appoggiano o contrastano a seconda delle necessità tattiche del momento.
Una polemica a tutto campo vide da una parte Roberto Farinacci, che
47
impersonava l'ala intransigente del fascismo e dall'altra Massimo Rocca.
Rocca è la figura di punta delle scompaginate truppe del “revisionismo
fascista” che con la sua defenestrazione il Duce aveva poi lasciato andare alla
deriva.
Membro del neonato Gran Consiglio del Fascismo, approdato ad un "suo"
fascismo che si può definire "liberal conservatore" il quale aveva intrapreso una
strana battaglia “revisionista", apparentemente nel nome di Mussolini, ma in
realtà finalizzata ad oscuri intendimenti visto gli ambienti che la sostenevano
nel suo mirare a quella “normalizzazione" della politica e del fascismo
confacente proprio ai desideri degli ambienti finanziari e liberali.
[Come giustamente scrisse Franco Scalzo nel suo libro citato, il Rocca fu solo
sfiorato dalle maglie troppo lente del processo istruttorio, benché lui c'entrasse
al pari di molti altri profittatori infiltratesi nei tessuti del PNF e ne uscì indenne.
Eppure, a parte vari intrecci affaristici che si intrecciavano con i Naldi, Rossi,
Finzi e compagnia, tra gli oggetti trovati sulla strada della Quartarella e
chiaramente gettati dalla macchina in fuga nel ritorno dal sotterramento di
Matteotti, si era rinvenuta anche una carta intestata dell'Istituto Nazionale delle
Assicurazioni che è plausibile dedurre che fosse uscita dagli uffici dell'INA
ovvero di Massimo Rocca che dell'Istituto ne è vice presidente. Una
coincidenza? Forse, ma avrebbe dovuto essere, e non lo fu, ben vagliata].
Si da il caso, però che almeno in un primo tempo, alla "ventata
revisionista" non fu estraneo lo stesso Mussolini che ebbe in qualche
modo a sostenerla sottobanco perché utile a imporre certi equilibri
politici nel partito e per frenare l'estremismo dei vari "ras".
E’ uno sei tipici e ricorrenti metodi politici utilizzati da Mussolini.
Come accennato, in effetti, sul fronte fascista, dopo la marcia su Roma, oltre al
problema di tenere sotto controllo certi rapporti di potere, c'era anche quello di
mantenere la disciplina.
Nonostante gli sforzi dei dirigenti centrali, infatti, l'esaltazione e il fermento
impedivano qualsiasi regolamento dell'ordine che non si riusciva ad imporre.
Molti dirigenti, in particolare di provincia, chiamati dagli avversari ''Ras”, si
sovrapponevano alle legittime autorità dei rappresentanti dello Stato e delle
forze dell'ordine, proseguendo le violenze anche contro avversari oramai battuti,
e a volte Mussolini deve utilizzare il pugno di ferro dei prefetti e dei questori se
non intervenire lui stesso per ristabilire l’ordine.
I conflitti, in alcune province “calde”, sono così forti che nel 1923, c’è addirittura
chi riflette sulla opportunità di sciogliere il partito fascista.
Al contempo il partito si riempiva con gli ultimi arrivati, tutti elementi
desiderosi di procacciarsi vantaggi di ogni tipo ed ovviamente anche di natura
133
illegale. Come di sovente accade in politica, su una determinata iniziativa si
innestano varie cointeressenze e giochi di potere.
Anche per Mussolini quindi, consapevole della delicata situazione in cui si
trovava, dopo aver preso il potere e con il fine di mantenerlo, c'era la
necessità di imporre una certa "normalizzazione" e questo fatto
offriva però anche l'occasione per chi, nascondendosi dietro una
campagna "normalizzatrice" e "revisionista", andava al di là di certe
esigenze e mirava a ben altri obiettivi.
L'ala farinacciana, comunque, si riteneva consapevole e interprete del ruolo che
il partito avrebbe dovuto assumere rispetto al paese ed al governo, avendo come
obiettivo la fascistizzazione dell'Italia.
Da qui la necessità di una vera autonomia del partito e, se necessario, di una
''seconda ondata'' rivoluzionaria per occupare tutto il potere.
E questo in opposizione al Rocca che invece chiedeva la completa indipendenza
dello Stato dal partito di cui, a veder bene e in definitiva, ne prospettava lo
scioglimento.
Farinacci per Mussolini era sicuramente una forza in più, che risultò
estremamente utile dopo la bufera del delitto Matteotti, ma anche una minaccia,
perché il ras di Cremona non si rendeva conto che il suo estremismo, pur
giustificato dal punto di vista rivoluzionario, non poggiava su solide basi, né
aveva il senso reale dei rapporti di forza con il potere (Corona, Esercito,
Industria, Finanza, Vaticano, Borghesia, ecc.,), tutti pendenti a sfavore del
fascismo e quindi egli, con una condotta avventata, avrebbe potuto seriamente
pregiudicare le conquiste che Mussolini era faticosamente riuscito a realizzare.
Ma Farinacci era uno che andava per conto suo e neppure dopo il delitto
Matteotti si allineò sulle posizioni di Mussolini anche se lo sostenne con tutti i
mezzi a sua disposizione.
Ma torniamo alla polemica "revisionista". Afferma Franco Scalzo:
«Quando, pochi mesi dopo la marcia su Roma, appare evidente che il Duce non
brucia dalla voglia di sdebitarsi (con chi lo aveva finanziato, n.d.r.) spunta sul
terreno del PNF la gramigna del "revisionismo", un movimento che parrebbe
perseguire chissà quali nobili intenti, ma che si compendia, all'atto pratico, in
una prosaica formuletta: lo stato esiste in funzione del PNF, e il PNF esiste per
grazia e in funzione dell 'Alta Banca».
Nella polemica con i revisionisti Farinacci, dalle pagine del suo Cremona
Nuova, sparò a tutto campo e chiamò in causa anche Aldo Finzi, indicandolo
come occulto ispiratore del Corriere Italiano di Filippo Filippelli, un giornale da
poco creato ad arte (e mantenuto soprattutto con i fondi della Standard Oil e
della Commerciale) per sostenere importanti affari finanziari dai risvolti di
natura politica e che non a caso, ospitava articoli dei "revisionisti" o si
impegnava in attacchi al ministro Alberto De Stefani impegnato a tagli e
contenimenti di spesa per salvaguardare il bilancio.
Nel 1923 /'24 le vicende economiche e la politica del Corriere Italiano, in effetti
erano state oggetto di feroci accuse e rivelazioni circa gli occulti finanziatori di
134
un giornale che poteva essere inteso come una fonte ufficiosa legata ad alcuni
uomini di governo. Si adombrò anche la presenza di un trust giornalistico
formato dal Corriere Italiano, Nuovo Paese e l'Impero, alle cui spalle c'era la
Banca Commerciale, gli armatori Parodi, la Fiat ed altre industrie.
Maffeo Pantaleoni nel giugno del 1923 scrisse al ministro Alberto De Stefani un
paio di lettere denunciando gli scopi e i finanziatori del Corriere Italiano: «Sa
queste cose il Presidente? Non vede che il giornale è fatto per sabotare Lui e
Lei?.
Alla nascita del Corriere Italiano, comunque, non fu estraneo anche Mussolini,
probabilmente sempre nella tattica di utilizzarlo nei suoi rapporti di potere.
Ma ancora non a caso, come accennato, la campagna stampa "revisionista" del
Rocca, a cui si associò poi, con una sua posizione, anche Giuseppe Bottai con la
sua rivista intellettuale ''Critica Fascista", si dispiegò anche sul ''Corriere
Italiano" di Filippo Filippelli e il Nuovo Paese di Carlo Bazzi da dove
confluivano o partivano gli attacchi più convinti.
Il Rocca, che era anche stato nominato, evidentemente dietro forti spinte del
mondo finanziario, vice presidente dell'Istituto Nazionale delle Assicurazione
(INA, ove si disse che utilizzava denaro pubblico per ingrassare la London
Insurance), oltre ad avere un posto nel Consiglio di Amministrazione delle
Raffinerie di Fiume, era del resto noto che non aveva rotto i suoi rapporti con
quel Filippo Naldi al quale, come giornalista, già faceva riferimento nel 1914
durante le campagne interventiste ed inoltre era intimo a Carlo Bazzi.
E come si vede torniamo sempre ad ambienti attigui alla Commerciale ed alla
massoneria, ma per quanto riguarda il Rocca si sente anche odore di Mafia.
In un dispaccio del Prefetto di Palermo, infatti, indirizzato a Cesare Rossi il 16
marzo 1923, si legge che in relazione ad un clan mafioso capeggiato da Calogero
Vizzini, un certo Gussio di Catania che figura come segretario del Comm. Rocca
viene indicato come avventuriero, ed altri due individui poco raccomandabili
risulterebbero in cordiali rapporti con lo stesso Rocca.
La ventata "revisionista", in definitiva, si può riassumere in due campagne:
la prima era iniziata, più o meno alla fine di agosto del 1923 e più che altro
sembrava finalizzata ad una feroce critica verso i cosiddetti "Ras" e a portare
avanti una compagna "moralizzatrice". Essa sembrò muoversi nell'ombra di
Mussolini almeno fino ad ottobre dello stesso anno. A settembre il Rocca però
era stato espulso dal partito, ma Mussolini ne aveva ammorbidìto i danni
facendo mutare dal Gran Consiglio l'espulsione in una sola sospensione di tre
mesi.
Nella seconda di queste campagne, vennero ampliati i contenuti di critica,
palesando i veri obiettivi del revisionismo, ovvero quelli di puntare ad un
fascismo "liberale".
Infatti si presero di mira i punti dottrinari del fascismo.
A seguito dei primi interventi dei ''revisionisti" (apparsi sul ''Nuovo Paese " di
Carlo Bazzi, su "Epoca" in quel momento diretta da Bottai, sul "Resto del
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Carlino " di Naldi e su la "Stampa') Farinacci replicò con veemenza e
intransigenza.
Lo scontro tra Rocca e Farinacci, si fece quindi incandescente.
Dopo alcuni articoli di Rocca, verso il 13 maggio del '24 Mussolini, che già aveva
pregato il Rocca di cessare la polemica, intervenne prendendo posizione contro
la fronda revisionista, anche perché allarmato dai possibili sviluppi della
situazione.
Per attenuare i possibili effetti negativi di questo intervento, cercò anche di dare
un colpo al cerchio ed uno alla botte: comprendendo che in quel momento la
ragione era dalla parte di Farinacci e soprattutto che gli influenti ambienti che
stavano dietro al Rocca non potevano ancora essere scoperti e attaccati così
direttamente, fece dimettere dalla segreteria del partito Michele Bianchi (che
aveva appoggiato Farinacci), ma allo stesso tempo, il 16 maggio, il direttorio del
PNF espelleva dal partito Massimo Rocca e lo invitava a dimettersi da deputato.
E' interessante notare che in quel periodo il decreto sulle case da
gioco, da poco approvato, non a caso, venne praticamente e
definitivamente accantonato.
Proiettandoci in avanti, possiamo dire che fu dopo il delitto Matteotti, che nella
disputa tra "normalizzatori " e "intransigenti ", Mussolini scelse, almeno
ufficialmente i secondi. Egli infatti il 22 luglio 1924, parlando al Gran Consiglio
si dichiarò anti normalizzatore, affermando che dietro la normalizzazione gli
avversari in realtà chiedevano il processo al regime. Ed anche il revisionismo
venne da lui condannato perché rischiava di finire in una ricaduta nello Stato
democratico liberale, con tutti gli annessi e connessi.
Poco dopo, ad agosto, Mussolini prese poi nettamente posizione
contro la Massoneria, sia contro quella di Palazzo Giustiniani, sia di
quella di piazza del Gesù, posizioni queste che vennero altresì
ribadite, compresa l'incompatibilità tra appartenenza a PNF e
Massoneria, al Consiglio Nazionale.
Abbiamo riportato queste note informative sul revisionismo perché questo
fenomeno “ideale”, in realtà nascondeva ben altri interessi più venali e
riallacciabili agli ambienti speculativi che furono all'origine del delitto Matteotti,
perché i suoi esponenti, guarda caso, finirono poi quasi tutti sulla sponda
antifascista e perché nelle fasi preparatorie di quel delitto trasparì anche una
certa comunanza di intenti e di fini con ambienti sovversivi di sinistra al di qua e
al di là delle Alpi, mai chiaramente appurata.
Quel che accadde successivamente sarà anche la dimostrazione, retrospettiva, di
cosa effettivamente si celava dietro il ""revisionismo": quasi come se certe "forze
ed interessenze" avessero oramai finito un loro compito, dopo il delitto
Matteotti ritroveremo il Massimo Rocca spostarsi sempre più su posizioni
antifasciste.
I primi del 1926 egli espatriò in Francia ove collaborò, guarda caso, con Cesare
Rossi Carlo Bazzi (già coinvolto nei traffici sui residuati bellici e loro
esportazione) entrambi massoni, e Giuseppe Donati (deputato popolare, da
alcuni ritenuto massone, ex direttore de "Il Popolo" foglio del partito Popolare.
136
Un allegra congrega di fuoriusciti.
Le vicende del 'revisionismo" dimostrano quanto sia difficile saper leggere
attentamente certi avvenimenti e valutare le posizioni di determinati
personaggi,
Nel capitolo dedicato a Matteotti, Rodolfo Putignani nel suo: "Processo alla
48
storia", fa le seguenti considerazioni che sono condivisibili:
«...il gruppo dei congiurati che decretò la morte di Matteotti e che poi, con il
più rivoltante cinismo, la sfruttarono demagogicamente per conseguire dei fini
ben precisi e determinati, andava individuato nella banda politico affaristica
che faceva capo a Max Bondi (grosso speculatore di borsa, dicesi 33° grado
massonico di Palazzo Giustiniani, n.d.r) e a Filippo Naldi detto Pippo, un
grossissimo avventuriero della finanza il primo, socio di affari e
correligionario dell'onnipotente amministratore delegato della Banca
Commerciale Giuseppe Toeplitz, un faccendiere dai trascorsi rocamboleschi il
secondo, di cui erano noti gli stretti rapporti personali con Emilio Bruzzone,
(Unione Zuccheri), Arturo Bocciardo (Uva), Gigetto Parodi e Attilio Odero
(armatori).
Si trattava insomma di un formidabile gruppo di potere che poteva contare,
tra l'altro sull'attivo concorso della Massoneria di Palazzo Giustiniani, su
uomini politici del peso di Filippo Turati e Giovanni Amendola e, sul fronte dei
mass-media, su Luigi Albertini il geniale, ma spregiudicato e fazioso direttore
del Corriere della Sera... Non basta.
La Banda Bondi-Naldi non si limitava ad estendere i suoi tentacoli negli
ambienti del giornalismo di marca liberaldemocratica e tra gli esponenti
antifascisti.
La sua influenza corruttrice giungeva a lambire anche le alte sfere del partito
Fascista. Così, mentre Pippo Naldi non lesinava i suoi contributi all’'Avanti!, di
Pietro Nenni o al Nuovo Paese di Carlo Bazzi i suoi amici finanzieri, pilotati da
Max Bondi, non mancavano di aiutare a colpi di milioni il Corriere Italiano, il
quotidiano parafascista della capitale, il cui direttore Filippo Filippelli non
perdeva occasione per proclamare ossessivamente la sua devozione a Benito
Mussolini».
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Il misterioso assassinio di Nicola Bonservizi
Non indifferente, ma agganciato a tutti questi
avvenimenti, anche l'assassinio del delegato del PNF a
Parigi Nicola Bonservizi, segretario della sezione
parigina del fascio, già giornalista del Popolo d'Italia,
corrispondente da Parigi e uomo fedele a Mussolini,
avvenuto il 20 febbraio 1924 per opera dei colpi di
pistola sparati da un anarchico appena ventenne.
Si mette questo omicidio in relazione al delitto
Matteotti, perché fin da subito, il Dumini arrestato, la
stampa fascista e l’entourage di Mussolini cercarono
di insinuare che Matteotti fosse stato ucciso per
vendetta, eseguita dalla Ceka, in quanto era ritenuto
non estraneo all’omicidio di Bonservizi e di altri
Fascisti in Francia.
Sembra che già Aldo Finzi, la notte di giovedì 12,
avendo a cena a casa sua Filippelli gli diede questo
suggerimento e poi Cesare Rossi. forse dopo la
riunione al Viminale con De Bono, Finzi e Marinelli,
telefonò in questo senso al Filippelli. Il giorno dopo il Corriere Italiano, infatti,
già avanzava questa ipotesi.
Queste “necessità” contingenti del tempo, posero la vicenda Bonservizi in una
luce irreale che impedirà di poterci vedere chiaro, ma che facev a comodo a
molti prola in quella maniera.
Comunque sia la morte di Bonservizi, poteva sembrare il gesto di un sovversivo
antifascista, ma il fatto è che dall'estate precedente era sbarcato in Francia, sotto
falso nome, con passaporti fornitigli tramite De Bono e spacciandosi per un
comunista, proprio Americo Dumini, apparentemente con un incarico di
partito, ovvero per proteggere e vigilare sul Bonservizi stesso (che a quanto
sembra invece lo temeva) e reagire alle attività delittuose degli antifascisti in
Francia.
Che il Dumini era andato più volte a Parigi, anche con altri della Ceka, con un
incarico di partito onde supportare il fascio all’estero, è assodato, ma le cose
forse non sempre stanno tutte così come sembra e ci sono serie circostanze che
indicano che Dumini aveva anche ben altri e sinistri incarichi.
Resta comunque strano come la storiografia non abbia messo in connessione
questi due delitti, di Bonservizi a febbraio e quello di Matteotti a giugno, quando
pur molti punti di connessione si riscontrano con tutta evidenza.
L'omicidio di Bonservizi sarà liquidato dalla letteratura storica con poche righe,
molti lo metteranno in relazione ai contrasti violenti che vedevano a Parigi
opposti fascisti e antifascisti, altri addirittura vi vedranno una faida interna al
fascismo e magari con Mussolini intenzionato a far uccidere il suo uomo
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(quando, detto per inciso, semmai avrebbe in qualunque momento, potuto
semplicemente rimuovere il suo delegato parigino), e così via di questo passo.
Noi ne vogliamo dare un accenno anche perché il giornalista storico Franco
Scalzo, pur non potendo portare molti elementi concreti a supporto, ne sviluppò
una ipotesi che ricollegava questo omicidio a quello di Giacomo Matteotti, anzi
nelle intenzioni di chi oramai tramava contro Mussolini, propedeutico alla
uccisione di Matteotti e non ci sembra affatto una ipotesi campata in aria e
comunque da considerare.
Afferma infatti lo Scalzo che il delitto Bonservizi costituisce il preambolo
naturale del delitto Matteotti, quale articolazione sul piano politico e operativo
di una complessa "spy story" a livello internazionale. Una trama a
compartimenti stagni orchestrata da massoneria e servizi segreti francesi e russi
in sinergia operativa-organizzativa col triangolo anti-mussoliniano
rappresentato da Gabriele D'Annunzio, Aldo Finzi e Cesare Rossi. Dietro questi
ultimi, infine, la banca delle logge massoniche: la Commerciale di Giuseppe
Toeplitz e la Standard Oil Company di Rockefeller.
E' evidente infatti per Scalzo che il Dumini, arrivato una prima volta a Parigi
(assieme al Volpi), sotto falso nome e infilatosi negli ambienti comunisti e
anarchici, vi è stato spedito non tanto per dare la caccia agli agitatori comunisti
nemici dei fascisti del posto, quanto piuttosto per preparare il terreno alla
soppressione di Bonservizi.
Scrive Franco Scalzo nel suo libro citato:
«...il gesto di sollevare il grilletto e di puntare la canna del revolver sul
bersaglio immobile (quello di Bonservizi seduto al ristorante, n.d.r.) è solo
quello conclusivo di una catena di avvenimenti che comincia dall'istante in cui
Dumini arriva in Francia, munito di due falsi documenti d'identità (intestato
l'uno a Gino Bianchi e l'altro a Gino D'Ambrosi) e si mette subito al lavoro,
valendosi di alcune lettere di presentazione che lo accreditano come un
emissario del Partito comunista italiano, per allestire nei minimi particolari, il
piano per la soppressione di Bonservizi e sistemare le cose in modo che
nessuno possa essere indotto a prendere in esame altra tesi che non sia quella,
molto semplicistica, dell'anarchico, drogato dalla passione politica, che ha
vergato con sangue la sua dedica al dittatore».
Ed appare veramente strano che il Dumini stesso, in uno dei suoi memoriali in
cui si è auto cucito addosso un suo ruolo edulcorato, scriva che a Parigi si era
presentato al Bonservizi sotto uno dei falsi nomi che aveva assunto nella
trasferta.
Perché usare questa accortezza visto che, entrambi fascisti, avrebbero dovuto
cooperare nella loro attività contro il nemico comune dei sovversivi anarcocomunisti ed anzi lui, Dumini, avrebbe dovuto vigilare sulla vita del delegato
fascista?
Ed è anche strano leggere alcune lettere del Dumini che non si comprende bene
a chi furono indirizzate, dove si trovano attacchi contro il delegato fascista a
Parigi: «L'opera delittuosa del Bonservizi rovinerà tutta la zona ove non si
prenda un rimedio immediato» scrive in una di queste”.
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E' quindi naturale che un giornalista attento come Franco Scalzo venga a
dedurre che Dumini sia stato spedito in Francia non tanto per dare la caccia agli
agitatori comunisti che rendono difficile la vita ai seguaci del PNF, quanto
piuttosto per preparare il terreno alla eliminazione di Bonservizi e che gli serve
far fuori qualche comunista solo per coprire il vero, unico obiettivo della sua
trasferta parigina.
Ed egli va in Francia immediatamente dopo l'uccisione di alcuni elementi del
PNF, da parte dei comunisti, con una scelta di tempo operata per dimostrare, a
posteriori, che la sua missione aveva un retroterra passionale.
Tempo dopo questo delitto la “Voce Repubblicana”, dal suo corrispondente da
Parigi pubblicò alcune rivelazioni rendendo note alcune confidenze fatte da
Bonservizi a dei giornalisti, dove aveva indicato nelle gerarchie del fascismo la
fonte di tute le sue difficoltà e in alcuni gerarchi i suoi peggiori nemici, rivelando
la che vera missioni in Francia del Suckert era appunto quella di sciogliere il
fascio parigino.
Andrebbero quindi meglio valutate le tresche degli ambienti "revisionisti" del
fascismo con i comunisti (che suggellano la scelta di liberarsi di due nemici,
Matteotti e Mussolini); lo stesso fatto che il Dumini tempo prima fece affari con
un faccendiere legato ai sovietici (vendita di armi alla Jugoslavia); le pressioni
sul PSU perché confluisca nella III internazionale; la comparsa, accanto alla
Ceka di personaggi collusi con lo spionaggio sovietico (Otto Thierschald, forse lo
stesso Giuseppe Viola).
Nel suo memoriale farsa, edulcorato, microfilmato dagli americani alla fine della
guerra, il Dumini racconta la sua trasferta parigina:
«Dai diversi passaporti attualmente in possesso dell 'autorità giudiziaria ed
intestati a nomi differenti quali Gino Bianchi, Gino Manfredini, Gino
D'Ambrosio, risultano diversi viaggi da me fatti in Francia. La mia
permanenza specialmente a Parigi ed a Saint Quentin aveva per scopo di
studiare l'ambiente sovversivo italiano emigrato colà, e più specialmente il
sovversivo politico militante piuttosto di quello che seguiva la corrente in
seguito alle controversie economiche, (...)
Tutti i miei viaggi a Parigi e la mia permanenza in quella città avvenivano
senza che il segretario della sezione Fascista Comm. Nicola Bonservizi, ne fosse
a conoscenza, poiché qualunque cosa avvenisse io non volevo che né lui, né la
sezione del Partito ne fosse coinvolta».
In un plico che venne fatto pervenire al Duce da parte del commissario
Sabbatini, questi riassunse gli avvenimenti che avevano precorso il delitto
Bonservizi:
«Non so come la magistratura francese si regolerà in queste indagini, ma
all'E. V. non nascondo di essermi persuaso, sulla base di molti indizi che quel
Bianchi o D'Ambrosio, come si chiama, che qui é venuto più di una volta,
vantandosi di avere delle amicizie negli ambienti altolocati del PNF, non è
estraneo ai fatti che ho raccontato».
Non è il caso qui di addentrarci in questo misterioso delitto, che purtroppo
oramai non può più essere risolto e dove tra l'altro, a latere, si riscontra anche
140
l'ambigua presenza di Kurt Erich Suckert (alias Curzio Malaparte) definito dai
fascisti intransigenti subdolo, infido, ambiguo, capace di tutto che, a quanto
sembra, prima di andare a Parigi a svolgere un suo incarico, si premunì di
iscriversi alla massoneria di Piazza del Gesù dopo non essere stato accettato da
altre Logge e questo proprio mentre il fascismo si è espresso contro la libera
muratoria.
E così con il Suckert e il Dumini si ebbero, come osserva Franco Scalzo:
«Due Massoni ai piedi della torre Eiffel, due clienti di peso nel sistema
affaristico che si è abbarbicato alle viscere del PNF come un cancro maligno.
Due fascisti senza"pedigree" che si tuffano nella palude delle sinistre francesi
rigurgitanti di predicatori invasati, di spie, di situazioni sospette».
E' interessante ricordare che nel piccolo cimitero di Urbisaglia dove sta per
essere inumato il cadavere di Bonservizi giunto dalla Francia, il Duce, con la
voce rotta dall'emozione, si rivolge al partito chiedendogli di restare unito:
«I responsabili - dice - sono anche fra di noi, fra coloro che in questi ultimi
tempi hanno litigato fra dì loro».
Egli quindi, di fatto, mette in relazione l'assassinio di Bonservizi anche con
'"qualcosa" che non funziona nel fascismo.
Questo omicidio quindi, si riallaccia secondo lo Scalzo a tutta una serie di
situazioni, compresa quella della polemica "revisionista" la quale tresca anche
sottobanco con ambienti di sinistra e finirà per liberarsi di due nemici in
comune (Bonservizi e Matteotti); con il misterioso operato della spia (per i
sovietici) Otto Thierschald, la cui puzza si sente anche in questa vicenda; come
analoga è la presenza di elementi massonici che spuntano da ogni parte.
Quindi si riallaccia ai futuri e fuorvianti tentativi di Dumini di attribuire
falsamente a Giacomo Matteotti una responsabilità su alcuni omicidi di fascisti
a Parigi, secondo lui da Matteotti istigati presso gli ambienti dell'antifascismo
francese (tesi questa che gli servirà anche come alibi proprio per il rapimento di
Matteotti), anche se poi, tutto questo, faceva comodo al regime per stemperare
le reazioni dal delitto Matteotti.
Vuoi che il Bonservizi sia stato ammazzato per mandare un
messaggio trasversale di tipo mafioso al Duce, al fine di indurlo a
desistere nella sua volontà di opporsi a certe manovre affaristiche;
vuoi che invece venga eliminato perché considerato troppo vicino a
Mussolini o addirittura in condizioni di poter svelare certe "cose"
che sa; o vuoi anche per la sua forte avversione alla massoneria, o
per altro ancora, quel che è meno probabile è che il delegato fascista
fosse stato ucciso, come sembra in apparenza e cosi si volle far
credere, per cause di opposti estremismi.
A parere di Franco Scalzo l'assassinio di Bonservizi può essere inteso come una
sorta di avvertimento simbolico, tipico delle Logge o forse, meglio ancora per
impedire l'eventualità che egli segnalasse a Roma qualche episodio dal quale gli
"amici" ricavassero che era in atto una cospirazione contro di loro e quindi
occorreva attrezzarsi per sventarla.
141
E le trasferte che il Dumini compie sempre con più frequenza in Francia nella
primavera del 1924 hanno il sapore di una azione propedeutica dell'attentato
che a giugno colpirà il deputato socialista.
Tanto più, dice Scalzo, che nello stesso periodo si infittiscono le escursioni
oltralpe del suo "patron" Cesare Rossi, l'ultima delle quali per incontrare a
Parigi, proprio a maggio, i pezzi da novanta del futuro fuoriuscitismo italiano
manovrati dal tempio massonico di rue Cadet e dal "Deuxieme Boureau”: Naldi,
Campolonghi e De Ambris.
E' comunque indubbio che il Bonservizi aveva una irriducibile avversione contro
l'entourage di Cesare Rossi ed in questo senso non mancava mai di attribuire al
Duce la colpa di essersi contornato, con la banda Rossi & Co., di malfattori e
traditori.
In una lettera ebbe anche modo di avvertire il segretario del partito Michele
Bianchi di guardarsi da certi "falsi amici" (Bianchi aveva anche collaborato con
il Corriere Italiano, per poi staccarsene durante la campagna "revisionista").
Interessanti alcuni stralci di lettere a Mussolini, scritte da Parigi dal Bonservizi,
che lo Scalzo riporta nel suo libro citato:
«Carissimo Presidente, come probabilmente avrai visto nel giornale, anche qui
a Parigi i nostri subiscono persino delle aggressioni. La polizia francese lascia
stare.
Il governo francese non vuole inimicarsi le sinistre, perché vuole preparare le
elezioni a sinistra. Non sì può contare che su noi stessi. (15 agosto 1923,
n.d.r.)».
«L'Ambasciatore non è un fascista, non ne ha l'hanimus. E' un nobile, molto
compreso, senza parerlo, della sua nobiltà....
Il suo atteggiamento neutrale, al dì sopra della mischia, incoraggia
fatalmente le carogne a non emendarsi...
Non posso dispensarmi dal ripeterti, mandami pure al diavolo, che i Vanutelli,
i Lanino, gli Stranieri, ecc. (personale dell'ambasciata, n.d.r.) sono più dannosi
che utili. Se il prestigio di un governo non dipende dal valore dei funzionari che
ha all'estero, è fatto anche di questo.
E tu che fai? Niente! Cosa vuoi che possa fare io?...
Ho domandato a Cesarino (Rossi, n.d.r.) se mi avrebbe fatto avere 5.000
franchi al mese, ma lui se n 'è fregato come al solito... (28 giugno 1923, n.d.r)».
Ed infine il 13 gennaio 1924, come accennato, in una nota spedita a Michele
Bianchi, appena dimessosi dal Corriere Italiano di Filippelli, perché in dissenso
con la linea del giornale, Bonservizi gli scrive queste parole significative:
«Carissimo Bianchi, tu mi capisci, guardati soprattutto dai nuovi
amici...».
Scrive ancora Franco Scalzo nel suo libro:
«Il panorama sullo sfondo del quale si stagliano l'assassinio dì Bonservizi e
quello, di poco posteriore di Giacomo Matteotti, è dato dalla congiunzione dì
quattro elementi fondamentali:
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1. il tradimento dì alcuni uomini dell'apparato, legati agli ambienti dell'Alta
Finanza, che si accorgono in ritardo di essere rimasti come imprigionati in un
regime che funziona contro i loro stessi interessi;
2. il recupero ... di nuovi spazi di manovra da parte di quelle forze polìtiche,
raccolte attorno a Nittì e D'Annunzio che erano state spazzate vìa dalla Marcia
su Roma;
3. la simbiosi "tattica " che tali forze contraggono con i comunisti per
accelerare il decorso della crisi in cui versa il governo di Mussolini...;
4. l'intervento da dietro le quinte dei servizi sovietici che ci mettono del
proprio nei piani finalizzati alla soppressione di Matteotti perché questo
significa:
a. eliminare chi finora ha impedito al PCI di assumere il monopolio delle
sinistre;
b. sabotare irreparabilmente il progetto ancora embrionale... di un
riavvicinamento ai socialisti unitari...
c. sfruttare l'ondata di sdegno che si sarebbe riversata su Mussolini
proprio a causa del delitto per richiamare in vita i fermenti rivoluzionari
che erano stati neutralizzati dal putsch dell'ottobre 1922;
d. far sapere al Duce che sta commettendo un grave errore nel
procrastinare alle calende greche il riconoscimento dell'Unione
Sovietica...”.
143
ll Memoriale di Dumini
L’ambiguo, scaltro e bugiardo Amerigo Dumini dopo aver negato
impunemente ogni addebito circa il rapimento Matteotti,
e rilasciato
dichiarazioni assurde e strampalate (a Regina Coeli ai giudici istruttori Del
Giudice e Tancredi, aveva dichiarato: «Chi ha mai conosciuto questo Matteotti;
io non so se sia stato ucciso e chi lo ha ucciso»), si ritrovò irrimediabilmente
incastrato quando il 15 ottobre del ‘24, arrivò il risultato della perizia sulle
impronte prese agli imputati, nell’ agosto precedente. L’impronta prodotta dalla
regione ipotenare parte inferiore della palma della mano destra, rimasta sul
vetro anteriore destro dell’auto Lancia, era del Dumini.
Nella nuova veste di imputato, oramai ammessosi partecipante al rapimento,
seguirono una gran messe di testimonianze, una più fasulla dell’altra, quindi
produsse anche un paio di memoriali e a veder bene forse qualcuno di più, ma
consideriamo questi due “ufficiali”.
Della “lettera testamento” che lo storico Canali ha fatto cenno, recuperata dai
National Archives di “Washington” dove è stata sepolta per tanti anni, nella
quale trasparirebbe la responsabilità di Mussolini nel delitto, abbiamo già
parlato nel “Prologo” a questo Saggio, ma vale ricordare che la stessa lettera
venne sequestrata a Mussolini dai partigiani a Dongo il 27 aprile 1945 e poi
venne consegnata agli Alleati. Come già detto, sembra impossibile che
Mussolini si portava dietro questa “lettera” che era una prova a suo carico. E’
quindi probabile che la stessa faceva parte di una documentazione, nel cui
insieme, si evinceva l’estraneità di Mussolini al delitto.
Tanto è vero che né i partigiani, nè gli americani hanno inteso
utilizzarla per accusare Mussolini, mentre tutti gli altri fogli di
contorno a questa lettera sono letteralmente spariti.
Comunque sia, questa “lettera”, come altre sue “testimonianze”, andrebbe ad
aggiungersi al guazzabuglio di “prodotti” testimoniali di questo criminale.
Del primo memoriale, scritto all’epoca con il fine di accodarsi ad una specie di
addomesticata ed edulcorata versione ufficiale del delitto, è inutile parlare,
come in realtà ben poca considerazione si dovrebbe dare a tutte le
testimonianze, lettere e memoriali del Dumini, un balletto di versioni
eterogenee, calibrate di volta in volta a seconda degli interlocutori e degli scopi
che l’autore si prefiggeva, in base agli stati d’animo del momento, determinati
dalla sua condizione di carcerato prima e del sentirsi abbandonato e
perseguitato dopo. Da quanto dice si evince l’evidente scopo di emanare o
confezionare versioni e tesi sia per far fronte a situazioni contingenti sia per
impacchettare un bel prodotto ricattatorio.
Il secondo memoriale invece venne nascosto in America in uno studio legale
(“Arnold & Robertson”) di Sant’Antonio nel Texas, sembra nel 1933, con la
disposizione di renderlo pubblico in caso fosse ucciso e dovrebbe essere, per
rigor di logica, quello più attendibile, tenuto gelosamente nascosto, ma questo
non è neppure detto perché, valutando il soggetto, egli potrebbe avervi infilato
molti particolari non veritieri o non pienamente veritieri (oltretutto vi tende a
144
edulcorare la sua figura spacciandosi per un pentito, coinvolto suo malgrado nel
crimine), ma utile come arma ricattatoria o protettiva, tanto è vero che subito
dopo averlo messo al sicuro all’estero si peritò di far sapere di avere questa
“arma” a disposizione. Nel dopoguerra disse che lo aveva scritto per proteggere
la propria vita, ma si guardò bene dal dettagliarlo al processo di Roma.
Non è certo, ma sembra che una copia di questo memoriale del 1933, venne
nascosta anche a Londra. Fatto sta che il “Memoriale”, al momento opportuno e
dopo che il 10 giugno 1941 il quotidiano americano “San Antonio Evening
News” aveva pubblicato in un servizio i rapporti del Dumini con lo studio legale
in questione, in piena guerra il 5 febbraio 1942, l’FBI decide requisirlo e le carte
di Dumini, “purgate” finiranno poi in fotocopia a Washington al Dipartimento
di Stato e nel 1986 saranno declassificate. Ci si chiede quali interessi e segreti di
Stato, a livello internazionale, questi fogli potevano costituire?
Il legale londinese, infatti, non pubblicherà mai niente, mentre l’americano
Martin Robertson si limiterà a divulgare il 16 maggio del 1942, un innocuo
memoriale di un centinaio di pagine, in cui Dumini ammette di aver partecipato
al sequestro di Matteotti, dichiarandosi innocente per la sua morte.
Alcuni storici sostengono che in piena guerra c’era stato un diretto intervento di
Churchill, deciso ad insabbiare tutto, affinchè non emergessero connivenze
britanniche con Dumini e gli stesi rapporti che c’erano Stati con Mussolini da
parte britannica. Eventuali accuse a Mussolini, non avrebbero danneggiato solo
il Duce, ma anche gli inglesi. Ma sono tutte congetture fino a che non si riuscirà
ad inquadrare esattamente il ruolo britannico nel contesto del delitto Matteotti.
Nel 1986 la rivista “Il Ponte” [Il Memoriale Dumini. Contributo alla storia del
49
fascismo: il delitto Matteotti],
invece, rivelò alcune parti di questo “memoriale”
che venne ritrovato ai National Archives di Washington.
[Il fatto è che una eventuale pubblicazione di questo memoriale, così
come lo abbiamo conosciuto, non ha nulla che possa danneggiare
inglesi o americani, per cui non si capisce perché gli americani lo
hanno negato al processo di Roma del 1947 e lo hanno tenuto
nascosto per anni. O meglio si capisce che, diversamente, sarebbe
emerso che mancava “qualcosa”]
A ben vedere il “memoriale americano” di Dumini, oltre che di scarsa credibilità
e palesemente adattato a edulcorare la sua persona, costituisce una prova
indiretta, per sentito dire, della colpevolezza del Duce, ma allo stesso tempo
anche un ridimensionamento di buona parte di quello che si era
precedentemente montato con le versione di un Mussolini mandante del delitto.
Forse è per questo che gli autori “colpevolisti” tendono a pubblicarne solo gli
stralci che gli interessano. Ne diamo qui un riassunto dalla rivisto “Il Ponte”.
Nel memoriale che è tutto uno spasso, il Dumini che, ricordiamo, veniva
chiamato “il signor omicidi”, perché si vantava dei suoi delitti, ora si dipinge un
pentito in cerca dell’oblio per espiare il suo folle gesto che però a suo tempo fu
forzato a compiere dal Giovanni Marinelli, visto che lui, dice, pur non avendo
materialmente commesso il delitto, si sente però responsabile della morte della
povera vittima. Il Dumini racconta che nei primi giorni di aprile 1924 erano
145
riuniti all’Hotel Diana di Milano con Cesare Rossi e Giovanni Marinelli.
Marinelli gli direbbe che non sono i socialisti massimalisti il vero problema, ma i
socialisti unitari di Matteotti che un Mussolini irato chiederebbe di distruggere
in modo che così egli sarà veramente un capo del governo.
A questo punto il Marinelli, abbasserebbe la voce e rivolgendosi al Dumini
stesso, gli dice che Mussolini ha detto che il suo gruppo è composto da
vigliacchi: nessuno è capace di compiere un gesto che gli tolga di mezzo
Matteotti! E conclude prospettando scenari apocalittici: siamo in un vicolo
cieco, dice, da cui bisogna uscire. La scossa che si produrrà nella nazione non
uscirà dai confini e noi finalmente faremo funzionare i plotoni di esecuzione.
[Chiunque conosca la politica di Mussolini in quel periodo, teso
oltretutto alla normalizzazione della vita del paese, si renderà conto di
come tutto questo discorso farneticante sia inverosimile. Che
Mussolini poi pensi ai plotoni di esecuzione, che non ha mai usato,
neppure quando avrebbe potuto, è tutta da ridere. Delle due l’una: o è
una invenzione del Dumini per introdurre il seguito, o sono pretesti a
suo tempo avanzati dal Marinelli per giustificare i suoi intenti].
Secondo il Dumini, Cesare Rossi, rimase prima passivo e poi sgomento e non
tacque la sua contrarietà al progetto omicida di Marinelli, approvato da
Mussolini. Però poi il Rossi tacerà.
Apparecchiatosi questo bel preambolo che lo dipinge come un leale uomo
d’azione, offeso e istigato, ma a cui ripugnano certe azioni, ora il Dumini può
raccontare i fatti a cui è obtorto collo coinvolto.
Marinelli gli dice che Matteotti stava preparando un formidabile discorso alla
Camera che bisogna a tutti i costi impedire, perché avrebbe rivelato le crepe del
nostro Tesoro, le ruberie e il deputato socialista aveva anche prove sul malaffare
di petrolio e di borsa in cui si diceva implicato anche il fratello del Duce.
In un primo momento il Marinelli pensa di far investire Matteotti da un grosso
camion, però poi cambia idea. D’accordo con De Bono, fa ritirare la vigilanza
della polizia sotto casa del parlamentare. Al resto deve pensarci il Dumini, il
quale ora, poveretto, è con le spalle al muro, ma è tormentato e cerca di trovare
una via di uscita per salvare, ma guarda un pò, la povera vittima.
Ma non c’è niente da fare, e deve procedere.
L’ordine di Marinelli era di bruciare il cadavere o in alternativa di portarlo in
una certa località dove era approntata una fossa di calce per squagliarne i resti.
Quel 10 giugno, dopo aver prelevato Matteotti, il Dumini è alla guida
preoccupato di uscire da Roma. Va verso Civita Castellana e a 60 Km, da Roma
si ferma, ma apprende sgomento che il Matteotti è morto (chissà perché i suoi
compari non glielo hanno detto subito e comunque, tanto Matteotti doveva
essere ammazzato, quindi tutto questo sgomento dove starebbe?!).
Decidono di scartare il progetto di bruciare il cadavere, operazione troppo lunga
e vistosa per gli estranei, e decidono anche di non andare dove era approntata la
fossa con la calce viva, perché il passaggio del Dazio per entrare in città con un
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cadavere in auto era troppo pericoloso. Quindi lo sotterrano alla meglio nel
bosco dove poi venne ritrovato.
Dumini elenca che ha con sé tutto quello che ha preso al Matteotti: taccuino,
portafogli, una agenda e una grossa borsa.
Tornano quindi a Roma e lui mette la macchina nel posto più sicuro: il cortile
principale del Ministero degli Interni. Quindi va subito dal Marinelli e lo
ragguaglia dei fatti e gli consegna le carte e la borsa che era chiusa
accuratamente a chiave e non sapeva cosa c’era dentro. Marinelli andò
immediatamente a palazzo Chigi da Mussolini e torna, dopo mezz’ora,
consegnandogli 20 mila lire e l’ordine di partire con tutti i suoi amici.
[Dunque ora il Dumini attesta di avere una borsa accuratamente
chiusa a chiave, il che se fosse vero, confermerebbe l’esistenza della
borsa e manderebbe in fumo i racconti dei documenti di Matteotti
volati in strada al momento del rapimento. Prendendo poi il racconto
del Dumini alla lettera, egli andrebbe dal Marinelli intorno alle 23,
quindi questi va a palazzo Chigi dove trova e parla con Mussolini. La
cosa lascia perplessi. E ancor più irreale quanto dice dopo. Vediamo].
E’ oramai notte fonda, ma il Dumini va personalmente a palazzo Chigi, dal
Fasciolo, il segretario del Duce, si informa della presenza di Mussolini che
aveva da poco ricevuto Marinelli, gli consegna il passaporto del Matteotti
che non aveva dato al Marinelli e gli dice di portarlo subito al Duce. Il
Fasciolo torna e gli dice di partire subito per Milano.
[Il racconto del Dumini è irreale e oltretutto diametralmente opposto
ai racconti del Fasciolo, il quale, come si ricorderà, disse di aver
informato Mussolini la mattina dopo, cioè mercoledì 11, a casa sua in
via Rasella e poi di avergli portato il passaporto il giorno dopo, il 12, a
palazzo Chigi; anche questo del Fasciolo è un racconto
contraddittorio, ma almeno più logico. Oltretutto il memoriale del
Dumini, cambia anche tutte le ricostruzioni che lo vogliono intorno a
mezzanotte, con il Putato, andare al giornale dal Filippelli. Si capisce
che il Dumini, per ampliare il potere ricattatorio del “memoriale”, lo
deve condire con tutti questi passaggi. Evidente il perché alcuni
autori “colpevolisti”, nei loro testi, tendono invece a tagliarli].
Tutto quello che possiamo ricavare da questo memoriale è che il Marinelli, spese
il nome di Mussolini (che invece in quei giorni era intento ad allacciare rapporti
discreti con i socialisti) per garantirsi la riuscita dell’impresa. Vi si dice poi che
Cesare Rossi era contrario, ma non si oppose (al processo di Roma del 1947 il
Dumini aveva detto invece che il Rossi era all’oscuro di tutto).
Secondo il suo memoriale, lo stesso Dumini si mette alla guida dell’auto, però
che il Dumini abbia fatto da autista con una mano in cattive condizioni, lascia
perplessi ed oltretutto quando Dumini entrò in carcere a Regina Coeli gli
riscontarono diverse ecchimosi sul corpo, e si può sospettare che aveva preso
parte anche lui alla lotta contro Matteotti.
Tutti questi dubbi evidenziano la superficialità di chi dà credito a questo
memoriale perché accuserebbe, sia pure indirettamente, Mussolini di tangenti
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petrolifere, e non ci si accorge che il memoriale è un cumulo di bugie e verità
confezionate per far fronte a diverse esigenze.
Mauro Canali, che per il suo “teorema” accusatorio contro Mussolini, si
aggrappa a questo “memoriale” dice che esso è veritiero, perché è l’unico
documento esistente in cui Dumini ammette il progetto omicida e di averne
eseguito l’ordine, quindi si autoaccuserebbe.
Ma questa osservazione dello storico non convince perché è ovvio che il Dumini
per confezionare un memoriale di una certa gravità e importanza, tale da
proteggerlo e magari utilizzarlo come ricatto, doveva per forza ammettere quello
che in Italia negava, ovvero la intenzionalità omicida del rapimento e la sua
partecipazione esecutiva. E comunque, salvo fatti eccezionali, il memoriale
doveva restare segreto.
Inoltre il Canali aggiunge che, essendo più che altro, il memoriale un deterrente,
non finalizzato ad una pubblicazione, sarebbe stato meglio per il Dumini
indicare il Capo del governo come diretto mandate.
A nostro avviso anche questo è avvenuto perché il Dumini, intelligentemente si
era reso conto che indicando direttamente Mussolini come colui che gli aveva
impartito l’ordine non sarebbe stato credibile.
Ma guarda caso, ha ugualmente introdotto un particolare per far sì che il
memoriale agisse come ricatto anche nei confronti diretti del Duce.
Egli scrive infatti che nel maggio del 1923 il Marinelli gli aveva proposto di
mettere una bomba ad una assemblea generale nella sede del Fascio romano di
Combattimento e accollare i morti ai socialisti e ai comunisti. E Marinelli gli
assicurò che il progetto era approvato dal Duce.
Lui al tempo si premunì di sincerarsi se era vero, e ne ebbe conferma da
Mussolini stesso. E così ecco confezionato anche un Mussolini stragista.
Ma quella volta, per la prima volta dice , si ribellò a quella proposta e resistette
nel modo più fiero. Purtroppo per Matteotti dovette invece cedere.
E così con un colpo solo, il Dumini rimarca il suo nobile animo, coartato dalle
circostanze e dai perfidi capi, e introduce anche un elemento che pesa contro
Mussolini e funziona ancor più da deterrente per il suo memoriale.
Sinceramente la credibilità di questo memoriale è alquanto scarsa, essendo un
misto di verità e bugie, adattate agli interessi del Dumini. Lascia anche a
pensare che il Dumini, non solo abbia agito dietro ordine del Marinelli, ma
anche dietro qualche altro ordine innominabile, che non si è mai saputo e
quindi, in “corso d’opera” abbia modificato piani predisposti e per questo ora
noi ci ritroviamo tante incongruenze.
Qui vogliamo far notare due particolari:
primo, l’ordine omicida glielo ha impartito il Marinelli, cosa questa
che conferma il famoso “biglietto” o farfalla carceraria, con la
confessione di Marinelli, che Mussolini asserì di aver ricevuto dallo
stesso condannato a morte nel 1944, che poi il Marinelli, ovviamente, ha
fatto credere al Dumini che l’ordine venisse da Mussolini, in questo contesto
conta poco e niente; e secondo che l’accusa verso Arnaldo Mussolini, oltre ad
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essere un “sembrerebbe” il Dumini l’avrebbe dedotta quale “voce che circolava.
Lo stesso Canali deve ammettere:
«Non intendiamo sostenere che Dumini possa essere a conoscenza
delle cause precise che avevano indotto il Capo del governo a dare
l’ordine di uccidere Matteotti e il contenuto del memoriale lo
prova».
La domanda vera che aleggia è questa: perché le Intelligence americane
nascosero, contro ogni diritto di legge, importanti parti del memoriale? Non
certo crediamo per fare un favore a Mussolini! Ed allo stesso tempo risulta
anche che l’intelligence inglese non fu aliena dal far sparire un'altra copia del
memoriale che Dumini aveva messo al sicuro a Londra. Questo sta a dimostrare
che l’Affaire Matteotti, probabilmente in relazione ai mega interessi petroliferi,
aveva interessi internazionali e forse il Dumini, sapeva qualcosa di molto
compromettente.
C’è anche un episodio in piena guerra quando Dumini, a Derna, in Libia,
catturato dagli inglesi che gli sequestrarono un suo archivio personale, e
sospettato di spionaggio, venne condannato a morte e fucilato. Raccontò poi il
Dumini, che ne scrisse anche un libro, che sebbene investito da 17 colpi della
fucilazione si salvò miracolosamente. Lo ritroveremo in Italia, durante la RSI.
Era chiaro che era stata tutta una messa in scena e gli inglesi lo utilizzarono in
qualche modo per il loro spionaggio. Quasi certamente Dumini, una volta
catturato, trattò la sua salvezza con importanti carte che potevano
compromettere gli inglesi, a dimostrazione che il desso non era coinvolto solo
nell’Affaire Matteotti, ma in chissà quali altre faccende, all’ombra del governo di
Mussolini dell’epoca. E gli inglesi accettarono lo scambio, lo salvarono e con la
messa in scena della fucilazione si riservarono di utilizzarlo ancora per il futuro
(come non si sà). A fine guerra , mentre in Italia era impiegato a fare l’autista
agli inglesi, venne arrestato e consegnato alle autorità italiane.
[Tra tutti i coinvolti nel caso Matteotti, compresi quelli che il Canali
ritiene che avrebbero organizzato il progetto omicida, cioè Rossi e
Marinelli, e gli altri comunque coinvolti (Fasciolo), o informati, Finzi,
Filippelli e De Bono, in realtà nessuno indica direttamente Mussolini
come mandate del delitto. Fatto sta che Dumini scrive in una “lettera
testamento”, lettera che il Canali tiene in alta considerazione, che
colui che gli dà l’incarico omicida è Giovanni Marinelli.
Bene, ricordato questo, veniamo a Verona nel ‘44 dove, in procinto di
essere fucilato, proprio il Marinelli confidò a Carlo Pareschi, presente
Tullio Cianetti, di essere stato lui ad aver impartito nel ‘24 l’ordine
omicida su Matteotti e lo scrive anche nel famoso “biglietto” a
Mussolini chiedendo scusa a lui e a Cesare Rossi di averli a suo
tempo coinvolti. Ma non solo:
il Canali potrà essere scettico quanto vuole su questi fatti, ma c’è
un'altra importantissima osservazione: in quei frangenti nè Giovanni
Marinelli, nè Emilio De Bono, accusarono Mussolini di essere il
mandante del rapimento di Matteotti. Anzi tutt’altro e questo fatto è
una prova decisiva della estraneità di Mussolini al delitto!]
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AFFARI SPORCHI
Mussolini, governando, andava troppo per conto suo. Si era
necessariamente servito di vari e ambigui personaggi, di certi
sovvenzionamenti, ma ora, raggiunto il potere, mirava a consolidarlo
svincolandosi da ogni ingerenza; tendeva a subordinare i fattori economici e
finanziari a quelli politici e in prospettiva puntava a riformare la società con
l'ausilio del socialismo riformista, dei confederati e dei popolari.
Del resto se così non fosse, non sarebbe entrato in vari dissidi con la Banca
Commerciale e ben diversamente avrebbe condotto la faccenda del petrolio e la
Convenzione con la Sinclair.
Quel delitto quindi venne a verificarsi per una serie circostanze, di
cause e concause, di interessi in gioco di natura affaristico finanziaria e di natura politica, che tutti insieme produssero una
miscela esplosiva perché, attraverso l'eliminazione di Matteotti, si
sarebbe potuto realizzare il duplice obiettivo di eliminare chi era in
grado di denunciare e forse provare loschi intrallazzi in essere e
contemporaneamente di sbarazzarsi o ridimensionare seriamente
Mussolini e il fascismo.
Tra le tante congetture, noi riteniamo di poter condividere, almeno in buona
parte, l'ipotesi scaturita dalla inchiesta del giornalista storico Franco Scalzo,
ovvero quella di una natura del delitto, affaristica nel suo intimo e
politica nei suoi effetti, e a nostro avviso, seppur l’elemento
“affaristico” è determinante e prioritario, la “parte” politica del
delitto non può essere disgiunta da quella affaristica.
Resta comunque impossibile, senza documenti alla mano, dare un nome preciso
ai “superiori sconosciuti”, i quali nell'ombra e dietro sporchi interessi di natura
finanziaria e affaristica, innescarono l'esecuzione del delitto.
Si tratta sicuramente di grossi personaggi dell'alto mondo industriale e
finanziario, usi ai condizionamenti politici dei governi, già in auge nel periodo
prefascista e poi, nonostante tutto, traghettati allegramente e alquanto
incolumi, nel ventennio fascista, per finire infine con il dopoguerra nella attuale
Repubblica democratica.
Personaggi, chi per un verso, chi per un altro, interessati a tacitare Matteotti e a
mettere in seria difficoltà Mussolini. Tutto un “putrido ambiente” nel quale,
“qualcuno”, potendo contare sui giusti agganci (forse Marinelli) con chi poi
poteva gestire la famigerata Ceka, ispirò il delitto approfittando del clima e delle
reazioni determinatesi dopo il discorso di Matteotti del 30 maggio.
Descrivendo alcuni personaggi che ritroveremo in questo affaire, cosi scrive
Franco Scalzo sempre nel suo “Il caso Matteotti radiografia di un falso storico”:
«Questo è Alceste De Ambris, scrive per l'agenzia giornalistica "Radio"
sovvenzionata da Basil Zaharof (famoso mercante d’armi, N.d.A.) patron delle
case da gioco.
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Questo è Carlo Bazzi (direttore del “Nuovo Paese” altro giornale, al pari del
“Corriere italiano” di Filippelli, preposto a traffici finanziari loschi, N.d.A.),
brutta figura di maneggione incallito, anche lui al servizio di Zaharof ma
anche del magnate dell'editoria americana William Hearst il megafono della
famiglia Rockefeller…
Questo è Giorgio Cavallotti (cognato di Ettore Luzzatto che con il fratello è tra i
sostenitori della Anglo Persian, n.d.r.) un pennivendolo che ha trescato con la
spia tedesca Bolo... (che) riceverà dall'altra sponda dell'Atlantico, l'ordine di
sparare ad alzo zero dalle colonne del "Corriere dei Petroli" sulla convenzione
con la Sinclair...
Questo è Luigi Campolonghi, un altro di quelli che si mettono in fila per
riscuotere il salario di Zaharof e fanno dello spionaggio a favore del
"Deuxième Boureau" il servizio segreto francese: vedrà Cesare Rossi nel corso
del convegno organizzato a Parigi da Filippo Naldi per mettere a punto i
particolari dell'attentato a Matteotti.
E questo infine è Naldi: se ne parlerà a lungo dopo il 10 giugno come del
personaggio che ha funto da intermediario tra gli esecutori materiali del
delitto e la cerchia ristretta dei committenti... (che) ha procurato un
passaporto falso al direttore del Corriere Italiano Filippo Filippelli… indizi
gravissimi che se fossero a carico di una persona normale, indagata nel
quadro di un procedimento giudiziario normale (cosa che ovviamente non è) si
tradurrebbero in una sequenza senza fine di capi d'imputazione (…)
Naldi che conosce a menadito i doppifondi della "libera muratoria", che ha
familiarità con gli operatori finanziari di mezzo mondo, che potrebbe scrivere,
solo se lo volesse, l "altra" storia del paese…”
E questo è, aggiungiamo noi, Giuseppe Toeplitz, il padrone della Banca
Commerciale, che con i suoi addentellati, connivenze e poteri a livello
interazionale, ha messo le mani sulla grande finanza nazionale e controlla e
finanzia mezza industria italiana, al quale bisogna aggiungere le grandi famiglie
del triangolo industriale del nord Italia, grandi e medi magnati, impinguatisi
con la guerra e insofferenti da ogni controllo o ingerenza statale.
Come si vede un bell’ambientino, fatto di potentati, faccendieri, trafficanti, dove
il contesto massonico, infine, a cui quasi tutti i personaggi di questa vicenda
erano sicuramente affiliati, può essere considerato “interno” degli intrighi,
anche perché era interesse della massoneria (a parte il giro degli affari messo in
pericolo e a cui non era estranea) di sabotare l'attività politica e di governo del
Duce.
Personaggi potenti e ambigui
Tanti personaggi potenti o attigui a più centri di potere, per giunta
anche stranieri, faccendieri o facenti parte del sottobosco governativo, hanno
avuto un ruolo in questa vicenda, vediamone alcuni.
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Giuseppe Toeplitz
Giuseppe (Jozef Leopold) Toeplitz, era nato in
Polonia a Varsavia nel 1866 da famiglia dell'alta
borghesia ebraica.
Divenne ben presto uno degli artefici della finanza
internazionale che negli anni spaziava dagli Imperi
Centrali, a quello Ottomano, a quelli franco - inglesi con
affari e interessi su entrambi i fronti contrapposti che poi
nel 1914 entrarono in guerra, così come i molti traffici e
affari con la neo costituita Unione Sovietica.
Nel 1891 era venuto in Italia, dapprima a Genova,
chiamatovi dal cugino Otto Joel .
Lavora in diverse banche e partecipa nel 1894, con Joel e
l'altro cugino Frederick Weil alla fondazione della Banca Commerciale Italiana,
con capitali austriaci e tedeschi controllati dalle famiglie della finanza ebraica .
Nel 1903 diviene condirettore e nel 1906 direttore della sede centrale di Milano
della Banca Commerciale. Intrattiene importanti relazioni con i fondatori delle
Assicurazioni Generali, gli ebrei Morpurgo e con l'altro correligionario il
banchiere Camillo Castiglione.
Diviene cittadino italiano nel 1912 e nel 1917 è, con Pietro Fenoglio,
amministratore delegato della banca. Dopo il ritiro di Fenoglio nel 1920, resta
amministratore delegato unico fino al 1933.
In pratica dirige la banca da padrone senza un effettivo controllo da parte del
Consiglio di Amministrazione.
La Commerciale finanziò in modo determinante importanti settori industriali
(meccanica, elettrica, trasporti, ecc.), acquisendo diverse partecipazioni in
queste industrie ed estese anche all'estero il suo giro di affari finanziari.
Negli anni '20 finanzia la riconversione industriale postbellica. Non disdegnerà
di finanziare l’avvento del fascismo, marcia su Roma compresa, intuendone le
prospettive di una futura collaborazione e possibilità di affari, ma poi restò
deluso dalla politica dirigista di Mussolini che poneva sempre in primo piano gli
interessi dello Stato e della Nazione.
Lo scrittore storico Franco Scalzo considera giustamente il giro di affari e di
traffici spregiudicati, praticati da questa banca negli anni '20, come elemento
determinante nella ipotesi affaristica del delitto Matteotti .
Pressioni governative inducono Toeplitz alle dimissioni da amministratore
delegato nel marzo 1933, quando la banca passò anche sotto il controllo dell’IRI
perché prossima al fallimento. In ogni caso non era di certo facile mandarlo sul
banco degli accusati per malversazioni e speculazioni, né metterlo totalmente da
parte, visti i forti appoggi di cui godeva in campo internazionale, e le tante
collusioni che intratteneva con importanti esponenti del regime.
Rimase alla Banca Commerciale come vicepresidente sino al 1934 .
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La Banca, pur passata sotto il controllo dell’IRI, resterà però sempre controllata
da importanti ambienti massonici, e diverrà un “covo” di massoneria affaristica
che coltiverà, sotto le cure di Raffaele Mattioli, tanti futuri dirigenti e
personaggi politici del dopoguerra. mentre un altro uomo di Toeplitz, Volpi di
Misurata, prenderà le Assicurazioni Generali e diverrà anche ministro delle
Finanze. Muore nel 1938.
Filippo (Pippo) Naldi
Filippo (Pippo) Naldi fu una importante figura, inferiore solo a quella del
banchiere Toeplitz.
Ancor più che un giornalista, era un importante faccendiere di levatura
internazionale, da molti considerato un burattinaio che tirava le fila da dietro le
quinte, muovendosi a suo agio con le Banche e la massoneria.
Nato in provincia di Parma nel 1886, già nel 1914 aveva modo di spaziare dalle
manovre di finanziamento per una stampa "interventista" (sembra che il Naldi
era di casa a Parigi e al Quai D'Orsay), tra cui anche quelle a favore del Popolo
d'Italia di Mussolini, nonché a quelle di un ampio campo d’interessi di natura
finanziaria (successivamente lo ritroveremo anche dietro la nascita del Corriere
Italiano di Filippelli).
Naldi era stato direttore del Resto del Carlino, ma stava anche al centro di vari
traffici editoriali e giornalistici: aveva fondato un giornale "Il Tempo" ed aveva
comperato da Filippelli il pacchetto di azioni del Corriere Italiano.
La moglie di Naldi, Raisa Ol'kenickaja, figlia di ricchi farmacisti ebrei, letterata e
traduttrice di talento, era di Roevno (Pietrogrado).
Intratteneva buoni rapporti con le autorità sovietiche dove anzi era considerato
un "capitalista di larghe vedute", non troppo avverso al bolscevismo e tracce di
questi buoni rapporti ci sono anche a ridosso del delitto Matteotti.
Assieme a Nello Quilici, un redattore che fu anche direttore del Resto del
Carlino, dicesi suo pupillo (prestò il garage ad Amerigo Dumini per nascondervi
la malandata auto la notte del 10 giugno 1924), aveva imbastito una
speculazione sulla direttissima Bologna-Firenze, caldeggiandone il passaggio ai
privati, ma tutta l'operazione venne a saltare perché ebbe a scontrarsi con il ras
fascista Guido Baroncini che lo accusò di voler intascare tangenti.
Dopo il delitto Matteotti, accusato di favoreggiamento verso Filippo Filippelli,
viene arrestato, poi sarà rilasciato ed è costretto a defilarsi, ma nel frattempo
orchestra i passaggi del memoriale di Filippelli che finisce anche nelle mani di
Domizio Torrigiani di palazzo Giustiniani.
Le sue potenti amicizie comunque non lo fecero affossare e Mussolini, non
potendolo incarcerare, intese semplicemente ignorarlo.
La nota che il nuovo capo della Polizia Francesco Crispo-Moncada, a
fine settembre del 1924, indirizzò al Duce con l'osservazione che il
“Naldi era il principale macchinatore del delitto” costituisce un
elemento di estrema importanza perché il Moncada non può non
153
aver elaborato questa sua accusa se non sulla base di precise e
50
circostanziate prove anche se di natura indiziaria.
Nel 1926 espatriò in Francia per sfuggire ad un mandato di cattura per la
bancarotta del Banco Adriatico di Cambio.
E' interessante ricordare quanto riportato nella lettera dello storico Giorgio
Spini, ovvero che il Naldi nel 1943 finì a Brindisi dietro gli Alleati ed
aiuterà politicamente il Re e Badoglio (di cui sarà capo ufficio
stampa) ad avere un supporto politico.
Qui il Naldi riuscì a mettere in piedi un finto Partito Democratico Liberale che
fece allo scopo. Uno dei sotto segretari, partorito da quel Partito Democratico
Liberale era l’israelita Guido Jung, già esperto del governo fascista per le
trattative con le banche americane e poi divenuto anche ministro delle finanze,
finito nel dimenticatoio dopo le leggi razziali del 1938.
E' curioso però il fatto che al tempo del delitto Matteotti, quando Jang era un
onorevole eletto nel famoso "Listone" fascista, di cui si era anche parlato nelle
pieghe di quell' Affaire, un giornale filo fascista di New York, "Il Carroccio"
diretto dall'italo americano De Biase, lo accusò, assieme al petroliere H. F.
Sinclair di essere tra i veri colpevoli dell'uccisione del leader socialista.
Nel 1944, il Naldi invece lo troviamo ancora a trafficare, sempre attorno agli
Alleati e al governo del Sud di Bonomi. Successivamente sarà impegnato a
procacciare aiuti logistici e finanziari al separatismo siciliano.
Nella nuova Repubblica democratica riprenderà i tentativi di acquisizione di
proprietà editoriali, in questo caso, del Giornale della Sera.
Insomma il Naldi passa con estrema disinvoltura e dietro le pieghe del potere da
Nitti a Mussolini, poi a Badoglio, quindi a Bonomi ed in infine sbarca nella
Repubblica italiana. Negli anni venti Mussolini ebbe a definire il Naldi, suo
vecchio intermediario per i finanziamenti al Popolo d'Italia:
"un arnese
obliquo giolittiano". Naldi muore nel 1972.
Aldo Finzi
Nato a Legnago (Verona), nel 1897 era figlio di un ricco
possidente israelita. Dopo la Marcia su Roma, con
Mussolini al governo, Finzi venne fatto Sottosegretario
agli interni, vice capo della Polizia e Commissario
all'Aeronautica. Era anche membro del neonato Gran
Consiglio del fascismo. Dopo le vicissitudini del delitto
Matteotti, in cui si ritrovò implicato in vari e trasversali
modi per il suo giro di conoscenze, soprattutto con
Filippo Filippelli del Corriere Italiano, fu costretto da
Mussolini a dare le dimissioni il 14 giugno 1924.
Sospetti in più, circa un suo coinvolgimento diretto nel delitto li abbiamo per
Aldo Finzi, perché era troppo contiguo, ancor più di Rossi, a certi ambienti
affaristici e soprattutto al Corriere Italiano di Filippelli giornale da molti
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definito e non a caso, la “base operativa” del delitto, anche se sembra che
proprio negli ultimi mesi Finzi era finito fuori dal controllo del Corriere
Italiano. In ogni caso però è indubbio che dietro al Finzi c'era la Commerciale
di Toeplitz e la sua presenza in questi “giri” è alquanto sospetta.
I suoi rapporti con Dumini e quelli più stretti con Filippelli, gli scontri verbali
alla Camera con Matteotti, delle sue stesse origini polesane, le tante accuse di
corruzione giocarono tutte un ruolo dirompente contro Finzi, facendolo saltare
dagli autorevoli posti che deteneva ed esautorandolo anche nella sua posizione
politico sociale nel polesine.
Il 5 giugno 1924, a pochi giorni dal delitto (alcuni ritengono che se Matteotti
avesse preso il treno per l'Austria dove si apriva il congresso socialista,
probabilmente l'omicidio sarebbe stato anticipato, sembra che lo stava tallonado
il Dumini), stranamente Aldo Finzi chiuse i conti dei “fondi segreti” del
Ministero degli Interni.
Lo storico Giuseppe Rossini, autore di “ Il delitto Matteotti fra il Viminale e
l'Aventino ” (Il Mulino 1966) espresse, sempre alla rivista Storia Illustrata del
novembre 1985, questa opinione:
«Il cosiddetto momento affaristico del governo Mussolini, per
comune ammissione dei testimoni (alcuni dei quali, quando
completai la mia ricerca, erano ancora vivi, ne parlai con Cesarino
Rossi), pare debba essere ricondotto all'interno del gruppo Finzi,
interessato alla vicenda petrolifera. Si parlò infatti di una
attenzione tutta particolare di Filippelli e di Naldi che di quel
gruppo erano l'ala più intraprendente».
In una nota della direzione generale della PS, del 14 giugno, si leggono una
serie di informazioni tratte da un colloquio con una non meglio precisata
“personalità liberale”. Di sicuro si può dire che Naldi organizzò il silenzio
giornalistico sull'affare Sinclair che, invece, fu approfondito nei suoi possibili
risvolti giudiziari durante il processo di Chieti”.
Anche sulla reale implicazione di Aldo Finzi in quel delitto, in ogni caso, non ci
si può esprimere con certezza. Egli poi, a differenza di Rossi, ebbe un
comportamento che, alla vigilia del delitto, con il suo viaggio nel Polesine, fa
sospettare la ricerca di un evidente alibi, e dopo il delitto e le sue minacce, poi
lasciate cadere, di pubblicare un esplosivo memoriale, fa sospettare o che
intendeva ammorbidire la sua reazione alle precedenti imposte dimissioni,
perché questa moderazione la reputava più conveniente per lui, oppure che egli,
in effetti, abbia pesanti colpe da nascondere e non gli conveniva spingere più di
tanto nelle insinuazioni e nella polemica con Mussolini.
Nel suo memoriale, Cesare Rossi ebbe a scrivere che Finzi aveva consegnato al
sicario Dumini del denaro per la fuga. Altra versione, più verosimile, asserisce
invece che fu Giovanni Marinelli ad aver dato a Dumini una sostanziosa cifra
per lui e per tutta la Ceka per lasciare subito Roma.
In mancanza di altri riscontri, dobbiamo pertanto e sia pure con qualche
dubbio, lasciare il giudizio su Aldo Finzi, quale complice dei mandanti, in
sospeso.
Nel 1944 venne fucilato alle Fosse Ardeatine dai tedeschi.
155
Emilio De Bono
Nacque a Cassano d'Adda il 19 marzo 1866. Militare
di carriera, pluridecorato nella Grande Guerra, poi
generale, aderì al fascismo e fece parte del
quadrumvirato che diresse la Marcia su Roma
nell'ottobre del 1922. Senatore del Regno d'Italia,
membro del neonato Gran Consiglio del fascismo, con
Mussolini al governo divenne capo direttore Generale
della Pubblica Sicurezza e comandante della Milizia.
Cariche a cui dovette rinunciare perché coinvolto nel
delitto Matteotti. Nei giorni successivi al rapimento
presiedette le indagini sul delitto cercando di tener fuori
sé stesso e il governo da ogni responsabilità.
Siamo propensi a scartare Emilio De Bono quale
organizzatore del delitto, anche se, in buona parte, era dentro fino al collo in
quella situazione equivoca (ebbe varie responsabilità e sicuramente cercò poi di
armeggiare per aggiustare le cose), perché ci sembra inconcepibile che questi,
per quanto un “fregnone”, come capo della Polizia, avesse impartito a Dumini
l'ordine omicida e, senza aver preparato alcun piano di emergenza, abbia dato
disposizioni tali per arrivare ad arrestare tutta la Ceka entro 48 ore, limitandosi
soltanto a cercare di nascondere o ingarbugliare qualche prova per proteggere sè
stesso ed il governo. Ma riteniamo che ebbe una certa complicità, che forse di
“qualcosa” era informato e non scartiamo del tutto l’ipotesi di Matteo Matteotti,
che lo vede informare emissari di Casa Savoia sul "pericolo Matteotti”.
Se lui fosse stato direttamente dietro il delitto, pur rischiando, avrebbe fatto
molto di più per depistare le indagini ed avrebbe protetto, fatto eliminare o
fuggire, senza remore o indugi il Dumini stesso. Non a caso il De Bono, già dai
primi giorni successivi al delitto, venne tenuto sotto scacco dal Dumini che lo
accusava di “tradimento” e minacciava di fare rivelazioni sul suo conto
(probabilmente di rendere noti lucrosi traffici di varia natura a cui il generale si
era dedicato per impinguare il suo reddito). Oltretutto era stato il De Bono che
aveva fatto rilasciare al Dumini i passaporti falsi, tra cui quello a nome Gino
Bianchi con il quale il Dumini scorrazzava in lungo e in largo.
Il De Bono visse mesi di autentico terrore paventando di essere incriminato e
potè tirare un sospiro di sollievo solo dopo che l'Alta Corte di Giustizia del
Senato ebbe a proscioglierlo, dai reati che gli erano stati addebitati, anche grazie
al silenzio di Dumini.
Nel valutare l'uomo, “il vecchio fregnone”, come lo chiamava Mussolini, tutto si
può dire, ma difficilmente gli si può cucire addosso la veste del cinico assassino.
Sul De Bono già al tempo giravano aneddoti irriverenti come quello, a tutti noto,
del suo essere circuito dalla “contessa del Viminale”, una certa contessa Amari,
che girava con due cani pechinesi e un accompagnatore, la cui relazione vista
l'età del generale era oggetto di pettegolezzi. Una “confidenziale” del 1941,
156
riportava: “De Bono non ha guadagnato una lira per affari, ma che spesso la
contessa ed il presunto figlio lo hanno portato sull'orlo dello scandalo“.
Anche il fatto che egli possa essere entrato in possesso della famosa valigetta di
Matteotti con la documentazione scandalistica (particolare questo comunque
non accertato) e quindi l'abbia fatta sparire per proteggere chi di dovere (si
insinua la responsabilità del Re) non attesta necessariamente la sua
partecipazione e le sue eventuali direttive per il delitto, ma semmai una sua
successiva “protezione” di personaggi a lui contigui e più in alto.
Certamente come capo della polizia avrà dato le disposizioni per intralciare
l’attività della polizia giudiziaria e magari di occultare alcune prove, nella
necessità di proteggere sé stesso, il fascismo e Mussolini (forse), sempre che
invece non era anche sollecitato a mandare alla deriva il Duce, cosa che
sembrerebbe assurda, ma non da escludere del tutto.
O tutto al più il De Bono, venuto a conoscenza delle intenzioni di Matteotti di far
nascere uno scandalo, che sul problema del petrolio poteva coinvolgere il Re,
pensò bene di fare “qualcosa”, di avvisare “qualcuno “ che poi, nel contesto dei
vari interessi che portarono al delitto, ebbe un suo peso.
Si dice che nel 1943 durante il processo di Verona, nel tentativo di salvarsi la
vita, De Bono cercò di mercanteggiare scambi e informazioni su questa famosa
valigetta di Matteotti, ma anche questo fatto non ha riscontri.
Si sostiene comunque che il De Bono si portò al processo di Verona un fascicolo
sul delitto Matteotti, che poi pervenuto a Mussolini e accluso al suo dossier, finì
tra quelli razziati ad aprile 1945 e poi fatti sparire per sempre. Ovviamente.
Cesare Rossi
Nato a Pescia nel 1887, massone, già giornalista
socialista e interventista, giù seguace di Filippo
Corridoni, è tra i fondatore dei Fasci di
Combattimento (23 marzo 1919). Assume poi alcuni
ruoli nel PNF in particolare come addetto al settore
Stampa e dopo la Marcia su Roma, ricopre la carica di
Capo dell'Ufficio Stampa della Presidenza del
Consiglio, quasi una specie di segretario politico del
Duce, tanto da essere definito “una eminenza grigia
del fascismo” . Fu anche membro del neonato Gran
Consiglio del fascismo. In conseguenza del delitto
Matteotti ebbe diverse vicissitudini: venne arrestato il
22 giugno del ‘24 nell'ambito dell'istruttoria su quel crimine e poi fu liberato nel
dicembre del ‘25, perché prosciolto dalla sentenza istruttoria che doveva portare
al processo di Chieti. Scatenò feroci polemiche con il suo “memoriale” contro
Mussolini e riparò in Francia nel febbraio del 1926 dove ne scrisse un altro.
Sul capo dell'ufficio stampa di Mussolini il discorso è molto complesso, anche
perché nel corso degli anni successivi al delitto sono emersi particolari e
157
testimonianze che indicano che egli, pur al centro di tanti traffici poco chiari,
forse qualcosa sapeva, ma era però all'oscuro della messa in pratica di questa
impresa, non era tendenzialmente un assassino e comunque ne aveva un
minimo di intelligenza per reputarla più nociva che altro. E soprattutto era egli
in grado di immaginare che avrebbe costituito anche la sua rovina.
A quanto lui stesso riferisce, verrebbe a sapere del sequestro di Matteotti l’11
giugno da Umberto Benedetto Fasciolo, segretario stenografo del Duce, il quale
avrebbe saputo nella notte precedente che Amerigo Dumini e altri erano
incappati in un “incidente”: intenti a “dare una lezione” a Matteotti, sarebbe
incorsa la “disgrazia”. Rossi, a quanto afferma, non si fida affatto di Dumini e
chiede lumi a Giovanni Marinelli:
«non facciamo dell’allarmismo inutile – gli dice Marinelli – e soprattutto non
montare la testa a Mussolini com’è tua abitudine. È successa una disgrazia,
nient’altro che una disgrazia …». Stranamente però, quel giorno vede il Duce e
non lo informa. Era stato preso da “abulia” si giustificherà.
La stessa sua furente reazione contro Mussolini, che una volta vistosi scaricato
si esplicò soprattutto con il suo memoriale (accollava a Mussolini una specie di
“responsabilità morale”) e il tagliarsi i ponti alle spalle, a meno che non facesse
parte di un preordinato gioco massonico contro il Duce, fa capire che forse egli,
almeno per la diretta responsabilità delittuosa, ne era estraneo.
Resta il fatto però che Rossi era un massone indotto a trafficare e proteggere
altri massoni e quindi lo troviamo presente in tutto lo scenario passato e
presente del delitto, uno scenario pullulante di massoni e di vari intrallazzi
all'ombra della Presidenza del Consiglio e del Viminale, nonché nella
conoscenza e gestione di personaggi chiave come Amerigo Dumini.
Egli di sicuro ha i piedi in due staffe: è colluso con gli ambienti che vorrebbero
ridimensionare Mussolini, e allo stesso tempo lavoro per il Duce.
Certamente ci sono molti dubbi circa i viaggi tra Roma e Parigi che il Rossi
intraprese nella primavera del '24 e soprattutto sul convegno parigino di maggio
con Campolonghi, Naldi, Bazzi ecc., tutta gente avversa a Mussolini, così come
assodate sono le sue collusioni trasversali con il mondo speculativo affaristico
51
che ha preso in odio il Duce.
Lo stesso Francesco Giunta nel 1923 lo aveva chiamato in causa per tutto
l'intrallazzo delle armi alla Jugoslavia messo in essere dal Dumini (questi limitò
i danni anche grazie allo scudo che gli fece Rossi con il suo carisma), e lo aveva
sicuramente fatto scendere nella considerazione che ne aveva il Duce.
Sospetto è anche il fatto che Rossi aveva dato incarico al Prefetto Darberio di
raccogliere notizie che potessero presentare il Matteotti come un pericoloso
sovversivo e un nemico della Patria. Intorno al 5 maggio egli poi decise di
intraprendere, a mezzo stampa, una campagna denigratoria contro Matteotti: a
cosa doveva servire una violenta campagna contro Matteotti ancora lontano dal
suo discorso del 30 maggio? Certamente poteva essere anche interna ad un
certo discorso politico teso a isolare Matteotti anche rispetto alla politica dei
socialisti, ma resta comunque il sospetto che invece poteva avere il fine di
158
intimorirlo in modo che non andasse avanti nelle sue denunce contro quel
mondo speculativo di cui fa parte anche Rossi.
Dumini, nel suo dubbio memoriale nascosto negli USA, disse che il Rossi sapeva
del progetto omicida, ma non lo condivideva (tanto per cambiare, però, durante
il processo di Roma del 1947, affermò invece che Rossi ne era all’oscuro).
Volendo credere al “memoriale” di Dumini, si ripropone la domanda: Rossi
sapeva e non condivideva, ma in ogni caso, fino a che punto sapeva e che
posizione aveva e cosa fece a cavallo del 10 giugno oltre ad essere andato a cena
a Frascati con Carlo Bazzi?
Se quindi vogliamo tenerlo fuori dalla
responsabilità del delitto Matteotti, dobbiamo supporre che per una serie di
circostanze, che oggi non è più possibile individuare, costui si trovò estraneo o
venne tenuto fuori, al momento dell'ora X che doveva scandire la fine di
Matteotti, dalla fase decisionale ed esecutiva.
Diciamo questo, senza prove, ma solo perché a nostro avviso le parole che spese
Mussolini con Silvestri, circa il fatto che il Rossi era stato ingiustamente
perseguitato dal fascismo, hanno una loro validità.
Nicola Bombacci nel febbraio 1945 aveva detto a Carlo Silvestri:
«Sono arcisicuro, così come lo è Mussolini, che Rossi abbia conosciuto
l’uccisione di Matteotti quando un suo collaboratore gliela comunicò. Sono
anche sicuro che se esso avesse potuto prevedere il piano della cattura del
deputato socialista, lo avrebbe impedito. Del resto Giovanni Marinelli fece
pervenire a Mussolini, alla vigilia della sentenza di Verona, un suo biglietto
scritto a matita nel quale scagionava completamente Cesare Rossi da ogni
responsabilità».
In altri colloqui, proprio a ridosso della fine di aprile 1945 , Silvestri chiese
conferma a Mussolini di quanto gli aveva detto Bombacci e il Duce gli disse
esplicitamente, presente anche un'altra persona:
“Compirete un atto di giustizia se farete sapere, a chi di ragione, che esiste nel
mio archivio segreto il foglietto scritto da Marinelli e che esso è un documento
decisivo per dimostrare che anche io fui ingiusto con Cesare Rossi”.
Giovanni Marinelli
Nato ad Adria Il 18 ottobre 1879, era un facoltoso
uomo politico, massone e fascista. Al tempo del delitto
Matteotti era segretario amministrativo del PNF e
membro del Gran Consiglio. Era anche nel direttorio
nazionale con segretario Francesco Giunta che in quel
momento reggeva la segreteria del partito. Dopo il
processo di Chieti per il delitto Matteotti (1926) il
Marinelli rimase incolume da ogni conseguenza, ma con il
passare del tempo, soprattutto durante la RSI (1943 –'45)
proprio su di lui si appuntarono i maggiori sospetti di aver
organizzato il delitto.
Su questo personaggio: una brutta figura lo definì Mario
159
Giampaoli, con il passare degli anni, è emerso sempre più che doveva essere al
corrente della faccenda anzi che ne abbia dato proprio lui il via esecutivo.
Anche Dumini, negli anni, sebbene in un valzer di dichiarazioni incontrollate, lo
indicò come il mandante principale e diretto.
Segretario amministrativo del partito e tesoriere, anche lui contiguo agli
ambienti politico affaristici e probabilmente vero gestore della Ceka, da lui
considerata quasi una proprietà privata come ebbe a dire Cesare Rossi,
Marinelli era nella posizione ideale per poter impartire a Dumini un tal genere
di ordine, facendo oltretutto credere che l'iniziativa proveniva o comunque non
era sconosciuta a Mussolini.
Molte testimonianze portano al Marinelli e al tempo del processo di Verona,
quando il Marinelli venne condannato a morte, in quel frangente un altro
imputato (per il tradimento del 25 luglio 1943), Tullio Cianetti, raccontò
che Marinelli, dopo aver udito le condanne, confidò a Carlo
Pareschi, presente lo stesso Cianetti, che sia Mussolini, sia Rossi,
sarebbero stati estranei al delitto Matteotti e che era stato lui,
Marinelli a ordinare di sequestrare il deputato.
A quanto sembra Marinelli, in quella circostanza, anche al sacerdote che lo
confortava, confessò, di essere stato proprio lui ad ordinare la spedizione contro
Matteotti. Come abbiamo visto, un biglietto, più o meno dello stesso tono, una
“farfalla carceraria”, scritto a mano proprio dal Marinelli poco prima di essere
fucilato, sembra che arrivò a Mussolini e sparì poi con tutto il fascicolo su
Matteotti di Bombacci – Gatti, razziato nei giorni della liberazione. Ovviamente.
Filippo Filippelli
Nato a Cosenza nel 1890, giornalista e avvocato (massone di Piazza del
Gesù e come lui stesso amava definirsi “uomo della petrolifera Standard Oil”),
era il direttore del Corriere Italiano un giornale nato di recente con scopi di
natura politica finanziaria. Per la verità una sua scheda informativa, pià che
avvocsato lo definisce imbroglione.
Faceva parte del movimento fascista, e nel 1920 era entrato
nell’Amministrazione del Popolo d’Italia, come procacciatore di fondi e
segretario di Arnaldo Mussolini.
Arrivato al potere Mussolini gli concesse di far nascere un quotidiano Il Corriere
Italiano che nei suoi intendimenti poteva essere una specie di voce ufficiosa del
governo e di cui fu direttore. Sembra che era stato Marinelli che nel 1921 lo
aveva chiamato a Roma dove si sistemò in un intero appartamento all’hotel
Moderno. Filippelli risultò avere legami con la Fiat, la Società Idroelletrica
Piemonte di Gian Giacomo Ponti, tutto un gruppo di industriali napletani e
genovesi, già finanziatori del Popolo d’Italia, come gli Odero, Bruzzone,
Bocciardo, Piaggio, Cevasco, Ardizzone, ecc. Ma soprattutto intimo della
Standard Oil e della Banca Commeciale. Insomma il Filippelli era un
faccendiere di tutto rispetto utile per procacciare finanziamenti, ma pericoloso
160
nel senso che, agendo in proprio, poteva anche colpire alle spalle gli stessi che lo
avevano protetto e sostenuto.
Dopo il delitto Matteotti è arrestato il 16 giungo 1924 a Genova mentre cerca di
fuggire all'estero con passaporto procuratogli da Pippo Naldi. Fu lui a
concedere a Dumini l'auto per il rapimento, pur sostenendo che ovviamente non
sapeva l'uso che ne sarebbe stato fatto.
Il suo nome non può essere disgiunto da quello di Pippo Naldi e di questa
coppia Filippelli / Naldi bisogna intanto dire che trattasi di una coppia
inscindibile per il giro di affari e di collusioni che li accomunava (così come nel
tentativo della loro successiva fuga) e quindi, anche se il secondo appare
alquanto più dietro le quinte, non si hanno molte alternative: o la “coppia” è
estranea, almeno, al delitto oppure, visto anche il giro degli affari e dei
maneggiamenti politici che andava ad operare costituendo, di fatto, un ponte
tra l'Alta banca, il mondo finanziario speculativo e gli ambienti governativi, vi è
dentro dall'inizio alla fine, anche se prove oggettive e documentali non ci sono.
Costoro, Filippelli e Naldi, oltretutto, a differenza degli altri personaggi del
Viminale che ricoprivano determinate cariche, teoricamente avrebbero anche
potuto giocare la carta senza ritorno del delitto, sperando di rimanerne fuori e
indenni dalle prevedibile conseguenze della caduta del governo di Mussolini.
E comunque sia manovrarono in seguito, proprio come richiesto dai fini che il
delitto si riproponeva, in modo cioè da cercare di addossarlo a Mussolini.
Nel suo “memoriale”, che poi ovviamente il Naldi ci tenne a far girare e finire
nelle mani massoniche di Domizio Torrigiani, ci tenne a precisare che
(«Dumini e Putato erano sempre al Viminale (…). Dumini è persona notissima
al presidente del Consiglio on. Mussolini (…) è amico, oltre che di Mussolini,
di Rossi Cesare e di altre personalità del governo e del Pnf».
Se sono responsabili la domanda è una sola: diedero costoro (o uno di loro, per
esempio il Filippelli, come ebbe a supporre il figlio di Matteotti), materialmente
52
l'ordine del sequestro di Matteotti al Dumini?
Nel caso di un loro coinvolgimento, se consideriamo che l'incarico dato al
Dumini era di un rapimento con esito omicida, lascia sconcertati constatare che
il Filippelli fece la leggerezza di far utilizzare una macchina da lui noleggiata
senza imporre al capo banda di nascondere in qualche modo il numero di targa.
Bisognerebbe quindi ipotizzare che gli incarichi scaturirono da personaggi
diversi o che vi fu un passaggio di mano nelle direttive o più probabilmente una
eccessiva fretta e negligenza nell'eseguirlo. D'altro canto, il fatto che il Filippelli
concesse l'auto del delitto a Dumini e dopo provvide a farla nascondere in un
garage del giornale non è proprio un particolare di secondaria importanza, così
come non lo è il fatto che Dumini, tornato la sera a Roma dopo la macabra
impresa, per risolvere il problema della ingombrante e compromettente auto
impiegata nel sequestro, si reca al Corriere Italiano proprio da Filippelli.
A nostro avviso, comunque, se pur l'ordine venne da personaggi attigui, ma
esterni alla banda del Viminale , probabilmente doveva anche esserci il
passaggio per il Marinelli, visto che si impiegavano uomini della “sua” Ceka.
Filippelli muore a Milano nel 1961.
161
Amerigo Dumini
Al vertice degli esecutori, vi è Amerigo Dumini. Figlio
di un pittore fiorentino e di una americana originaria del
Missouri, era nato a Saint Louis negli Stati Uniti il 3
gennaio 1894.
Venne in Italia per partecipare alla guerra e nel 1918 sul
Grappa venne gravemente ferito alla mano sinistra che
gli restò menomata, guadagnandosi la medaglia
d’argento al valor militare.
Già squadrista è presente alla fondazione del fascio
fiorentino e a quella del settimanale “Sassaiola
fiorentina”. Fu coinvolto nei tragici fatti della spedizione di Sarzana (dove ci
sono dubbi sul suo comportamento).
Scaltro e violento, anche se ora aveva una mano parzialmente fuori uso, fu
chiamato al Viminale da Cesare Rossi poi verrà messo a capo della Ceka e di lui
si servirà Mussolini per quelle attività “illegali”, ma necessarie per un potere
preso rivoluzionariamente.
Ma il Dumini era anche abile a mettersi in proprio per vari affari di diverso tipo.
Usava spesso i nomi fittizi di Gino Bianchi e Gino D’Ambrogi.
Venne arrestato per il rapimento di Matteotti e disse tutto e il contrario di tutto,
rilasciò un memoriale inattendibile e poi in qualche modo venne fatto
espatriare. Era però in grado di ricattare il Regime e con questi ricatti ci campò
allegramente. Aveva poi depositato in America e forse in Inghilterra un
memoriale segreto che si conobbe solo nel dopoguerra, ma quello che venne
fatto conoscere, del memoriale depositato in America, sostanzialmente non
consente di sciogliere i tanti dubbi.
Vale la pena rievocare le sue vicissitudini post arresto.
Fu arrestato a Roma già la sera del 12 giugno 1924 e se la vide brutta , ma poi
grazie a come fu incanalato il processo di Chiesti del 1926 e al fatto che tenne la
bocca chiusa, recitando versioni farsa, se la cavò con una pena irrisoria e
sembra che trascorse il non di certo lungo periodo carcerario come in un
albergo.
Uscito di prigione a maggio del 1926 e sorvegliato perché non espatriasse,
venne espulso dagli Arditi di Milano.
Poi venne di nuovo arrestato a settembre del 1926, si dice per impedirgli di
pubblicare le sue memorie in America. Processato venne condannato a 14 mesi e
10 giorni, per porto abusivo di armi e ingiurie verso Mussolini.
Cosicchè, a causa della nuova condanna, avrebbe anche dovuto scontare 4 anni
comminategli a Chieti e poi condonati.
Veniva poi liberato a dicembre del 1927, sembra per atto di clemenza del Duce.
Nel 1928 però subì un altro arresto e cominciò quindi a pensare di cautelarsi
con dei documenti da depositare all’estero chiedendo al contempo ai fuoriusciti
in Francia di aiutarlo ad espatriare.
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Finalmente nel luglio del 1928 il regime accettò di farlo andare in Somalia a
lavorare a certi pozzi per conto di una ditta di Rimini. Nel frattempo seguitava a
godere di sussidi, in parte ottenuti dietro velate minacce di “vuotare il sacco”.
Accusato però di aver cercato contatti con fuoriusciti, precisamente con Cesare
Rossi, veniva riportato in Italia ad ottobre del 1928 e quindi spedito al confino,
con i detenuti comuni alle isole Tremiti. Nel 1932 finì in Calabria, provincia di
Cosenza in una zona impervia dove non potesse facilmente fuggire.
Nello stesso 1932 comunque, in occasione del decennale della rivoluzione
fascista venne amnistiato.
Finalmente, nel 1934, “sdoganato” e imbarcatosi con la sua donna, si sistemò in
Libia dove grazie a molte agevolazioni concessegli dal Regime diede avvio ad
attività imprenditoriali e da colono che gli resero moltissimo.
Questo personaggio, considerando tutte le sue vicissitudini, passate
praticamente per tre epoche notevolmente differenti: quella in cui era in auge e
che termina con il delitto Matteotti, quella del suo barcamenarsi durante il
regime fascista e infine quella misera nel dopoguerra antifascista, in aggiunta ai
contatti ed ai vari intrallazzi di ogni genere che ebbe a praticare, ci dà la
sensazione che ci troviamo in presenza di un esecutore di ordini, che ogni tanto
si mette in proprio, di buona intelligenza e di notevole spessore e con l’aggiunta
di vari sospetti che lo fanno anche quale “agente” dei britannici fin dai primi
anni ‘20.
Non era insomma un personaggio da poco e il modo di come ebbe a trattarlo
Mussolini, sensibile ai suoi ricatti, ne è una ulteriore prova. Questo ci autorizza
anche a pensare che il Dumini, al limite, avrebbe potuto benissimo agire al di
fuori di chi nel partito e al Viminale doveva espressamente autorizzarlo.
In ogni caso il Dumini è sempre in mezzo, come il prezzemolo, in tanti traffici e
situazioni (per esempio, come abbiamo visto, per il commercio sui residuati
bellici), speculazioni che poi non sono del tutto indifferenti ai motivi che
portarono al delitto Matteotti.
Nel lungo contenzioso sulla concessione di un decreto governativo per il gioco
d'azzardo, anche il Dumini ebbe qualche piccola particina, a dar retta ad una
lettera (ma non solo) di un certo Ferruccio Spataro del 26 gennaio 1923 (ovvero
il giorno dopo la prima momentanea rinuncia di Mussolini alla sua
regolamentazione) che gli parla di questi problemi e gli da appuntamento a
Genova.
Altre lettere poi fanno capire che egli poteva essere anche in contatto con
ambienti mafiosi del sud e qui si può anche vedere un filo che porta a Massimo
Rocca quello della subdola corrente “revisionista” e normalizzatrice all'interno
del fascismo.
Telegrammi inviati da Dumini a Cannes a Cesare Rossi, intorno al 15
maggio del '24, indicano che il Dumini tiene informato l'amico sugli
sviluppi del ridimensionamento di Massimo Rocca, sulla polemica
con Farinacci e gli attacchi che da varie parti stanno convergendo sul
Rossi stesso, per cui ne sollecita il ritorno a Roma, dimostrando
163
quindi che il Dumini è cointeressato anche alle faccende politiche del
fascismo e del governo.
Comunque sia il Dumini, pur proclamandosi fascista, non disdegnava ogni
genere di intrallazzo, come quello delle armi alla Jugoslavia, che di fatto
danneggiava l'Italia.
Tanto per fare un esempio, nell'affare jugoslavo, i suoi traffici vennero
coadiuvati da un elemento vicino ai comunisti e ai servizi sovietici, e sembra
che avvenivano anche per conto della società Armstrong di Pozzuoli, di cui sono
contitolari il trafficante Basil Zaharof e la Banca Commerciale. Ma è anche vero
che quel genere di traffico era troppo grosso per lui e quindi è molto probabile
che aveva l’avallo di qualche pezzo grosso nel partito e/o nel governo (Rossi?).
Il suo ruolo poi, da infiltrato negli ambienti del fuoriuscitismo antifascista
parigino e nel delitto del fascista Nicola Bonservizi in Francia è tutto da chiarire
e lascia una profonda ombra sulla sua reale posizione nella vicenda parigina e
per chi effettivamente lavorava (e qui l’ombra si estende anche su Cesare Rossi).
Dunque, come si vede, il ruolo e la posizione di Dumini, non è solo quello di un
semplice esecutore di ordini, ma qualcosa di più, anche se ovviamente egli si
colloca, più che altro, tra gli anelli intermedi di questa catena affaristico
speculativa e delittuosa: la banda del Viminale, Filippo Filippelli, la massoneria
e a latere di vari traffici e affarucci di genere speculativo, ecc.
Mettendolo quindi in rapporto con il delitto Matteotti e non potendo sciogliere
con certezza assoluta le pesanti ombre sulla sua reale implicazione con i vertici
del “putrido ambiente affaristico speculativo”, dobbiamo supporre che il Dumini
fu utilizzato senza che lui potesse rendersi conto per chi effettivamente stava
lavorando.
Certamente conosceva i gangli intermedi del complotto contro Matteotti e forse
avrebbe potuto individuare anche qualche personaggio di più alto spessore.
Ma sostanzialmente il Dumini avrebbe potuto risalire, con prove concrete alla
mano, più che altro ai personaggi che lo dirigevano, lo pagavano o ben
conosceva: soprattutto Giovanni Marinelli, magari il Filippo Filippelli, Emilio
De Bono, Cesare Rossi, o Aldo Finzi (negò di conoscere Pippo Naldi, ma invece
lo conosceva), ipotizzando che dietro quell'incarico omicida c'erano anche grossi
risvolti affaristici e chiedendosi quale poteva essere la reale posizione di
Mussolini nella vicenda.
Per esempio, possiamo constatare che durante il “ventennio”, quello che
avrebbe potuto “raccontare”, mettendo nei guai il Regime, era sufficiente per
farlo galleggiare con una certa agiatezza, visto che poteva chiamare in causa e
coinvolgere diversi personaggi del regime fascista e quindi provocare uno
sconquasso alla nuova Italia di Mussolini.
Non per niente si era ben sistemato economicamente in Libia, aveva ottenuto
una specie di vitalizio e se non scoppiava la guerra si può dire che non gli era poi
53
andata male.
[Il comportamento di Mussolini verso Dumini, come del resto verso
altri personaggi, per esempio Albino Volpi, al cui funerale inviò anche
164
una vistosa corona, potrebbe sembrare equivoco, ma come abbiamo
detto spesso, Mussolini non era un dittatore sanguinario, e quindi,
diversamente da questi dittatori, non eliminava questi pericolosi pesi
al piede, che nel bene o nel male, avevano lavorato per lui, anche se
adesso potevano inguaiare lui e il regime.
Questi uomini spesso, in momenti difficili, lo avevano servito con
coraggio e rischi personali. Chi arriccia il naso, dovrebbe sempre
ricordare, che stiamo parlando di un periodo post bellico in un clima,
semi rivoluzionario. Per fare un esempio, quanti furfanti e ripugnanti
assassini, anche per delitti comuni, vennero poi aiutati e protetti dal
partito comunista, nel secondo dopoguerra, in quanto avevano pur
sempre combattuto anche per il comunismo?]
Durante la guerra catturato dagli inglesi in Libia lo vediamo scampare
miracolosamente all’ esecuzione, incolume nonostante 17 colpi sparatigli contro
dal plotone. Tutto fa credere che fu una messa in scena che lascia intravedere
altro doppio gioco a vantaggio dei britannici.
E infine lo ritroviamo ancora a gironzolare e trafficare in Italia, durante la RSI.
Sembra veramente quasi indistruttibile e intoccabile.
Nei 1947 sarà processato di nuovo e condannato all’ergastolo per il delitto
Matteotti, ma la pena sarà ridotta a trent’anni e poi, grazie ad una serie di
indulti, annullata.
Anche nel dopoguerra, inoltre, quello che poteva aver scritto nel suo memoriale
spedito in America, una volta messo in relazione a tanti altri fatti e particolari
che si erano conosciuti, avrebbe forse potuto far aprire un dibatto a tutto campo
che poteva sollevare il velo su certi ambienti di Alta finanza massonica, tanto
che, sicuramente, come accennato, gli americani dovettero elidere alcuni fogli
del suo memoriale prima di renderlo pubblico. Non avendoli però letti, non ci
resta che il solo dubbio.
Ma certamente il Dumini, da solo, non era in grado di additare con precisione
certi ambienti di alta caratura altrimenti difficilmente lo avrebbero lasciato in
vita e comunque, uscito di prigione nel 1956, non si sarebbe ritrovato senza una
lira, morendo poi un pò prematuramente per un “incidente domestico” di cui
molti avanzarono strani sospetti.
Su Dumini, comunque, quale sia il giudizio (nel complesso sicuramente
ignobile), c’è almeno dire che non si prestò, pur potendone ricavare ampi
benefici, nel processo di Roma del 1947, realizzato nel clima antifascista post
liberazione, al tiro contro Mussolini. Sulla sua rivista ”L'Orologio”, l'avvocato,
già volontario nella RSI, Luciano Lucci Chiarissi, riportò una confessione
fattagli in carcere proprio dal Dumini stesso, il quale asserì che gli era stata
offerta la libertà in cambio di una falsa dichiarazione sulla responsabilità di
Mussolini. E forse,, una volta tanto in vita sua, disse la verità.
Da ultimo la figura del Re.
165
Vittorio Emanuele III
Circa una responsabilità diretta del Re, poniamo un
grosso punto interrogativo perché, pur ritenendolo
capace di ogni turpe impresa, rende perplessi che il
Re, sia pure con i suoi scheletri negli armadi e anche
ammettendo che avesse avuto azioni della Sinclair
(probabilmente
da
questa
regalategli
per
ingraziarselo),
fosse
arrivato
al
punto
di
compromettersi ordinando un simile delitto.
Matteo, il figlio di Matteotti lo chiama in causa, ed
effettivamente ci sono anche indicazioni circa un suo
segreto impegno a non rendere noti certi giacimenti
petroliferi scoperti in Libia, ma per considerarlo un
mandante dell’omicidio dovrebbe prima essere
provato. In ogni caso non possiamo escludere che ci
furono grossi personaggi, che venuti a conoscenza di queste implicazioni del Re,
di cui Matteotti, dicesi, aveva avuto documentazioni, assieme a tutto il resto,
pensarono bene di sensibilizzare chi di dovere per procedere drasticamente . E’
una nostra ipotesi, ma probabilmente la figura del Re, minacciata di essere
coinvolta nello scandalo petrolifero, ebbe un certo peso, ma è difficile dire fin
dove ci entrò il Re direttamente. 54
Il giornalista storico Franco Scalzo, così ebbe a presentare la sua ipotesi, in una
intervista alla rivista Storia Illustrata del novembre 1985.
E' una intervista i cui temi affrontati sono molto interessanti e meritano di
essere conosciuti.
(D = domanda; R = risposta di Scalzo):
“ D.: Nel suo libro “Matteotti, l'altra verità” (edizione Savelli 1985) lei sostiene
una tesi totalmente opposta a quella della storiografia ufficiale. Qual'è, in
sostanza, questa diversa verità?
R.: Lo svolgimento della vicenda passa attraverso due nodi fondamentali.
L'origine del delitto (più affaristica che politica) ed i mandanti della Ceka che
con la soppressione di Matteotti si prefiggono un duplice obiettivo: eliminare un
testimone scomodo e costringere Mussolini a gettare la spugna. L'operazione
riesce solo a metà, come tutti sanno.(...)
D.: Com'è arrivato a questa conclusione clamorosa? Come ha impostato la sua
tesi?
R.: Semplicemente, servendomi delle tessere di cui sono entrato in possesso nel
corso della mia ricerca e poi sistemandole secondo un ordine che non fosse
condizionato e dominato da posizioni preconcette. Alla base di questo
complesso gioco ad incastro ci sono stati, comunque, due interrogativi.
Primo: che interesse poteva avere Mussolini a macchiare la propria reputazione
con un delitto infame dopo appena due mesi dall'apoteosi elettorale del Pnf?
Secondo: perché proprio Matteotti, quando tutti i partiti dell'opposizione
avevano manifestato il sospetto che il successo dei fascisti fosse dipeso, almeno
in parte, da brogli e dalla violenza squadristica?
166
Una volta preso atto della legittimità di tali domande, la distanza dalle risposte
si accorcia sensibilmente, e la si può riempire soltanto ricorrendo a materiale di
prima mano. Immune cioè sia dalla propaganda che dalle distorsioni
ideologiche. Ma in questo spazio si è, appunto, inserita la lunga sequenza di
documenti che provano diverse cose: che Matteotti fu ucciso per impedire che
facesse rivelazioni.
Rivelazioni sul coinvolgimento di alcuni ambienti (legati alla Banca
Commerciale) in certi loschi affari riguardanti i petroli, il gioco d'azzardo ed il
traffico d'armi;
che gli ispiratori e gli esecutori del delitto erano già da diverso tempo in rotta di
collisione coi vertici del Pnf, sebbene si fossero infiltrati nell'entourage di
Mussolini;
che l'immobilismo statuario dell'Aventino era un atteggiamento indotto dalla
paura delle opposizioni di dover rendere conto al Paese degli appoggi forniti, da
dietro le quinte, all'ala revisionista del partito fascista, che è poi quella nel cui
seno matura la decisione di fare fuori Matteotti; che i processi del '25 e del '47
sono stati poco meno o poco più che delle orribili farse…
D.: Parrebbe di capire che il delitto Matteotti non era compiuto da, ma contro
Mussolini…
R.: Proprio così. Mussolini si assume, per intero, la responsabilità del crimine
perché, altrimenti, sarebbe costretto a denunciare quella del gotha finanziario
che ha foraggiato la marcia su Roma e che dopo avergli dato il potere minaccia
di riprenderselo per trasferirlo a gente più maneggevole se lui non si rassegna a
fungere da parafulmine e da capro espiatorio.
E' una partita difficile, giocare sul filo del bluff, che finisce in pareggio.
Mussolini resta al suo posto, ma deve rinunciare al progetto di disfarsi di certe
regole, di certi condizionamenti. Li subisce fino a Salò dove vuota il sacco col
giornalista Silvestri, ma è troppo tardi, ormai, per ristabilire la verità. Le forze
alle quali avevano fatto capo gli istigatori della Ceka sopravvivono al 25 luglio,
come sopravvivranno, più tardi, alla caduta del regime monarchico.
Nel '47, in riferimento al caso Matteotti la situazione non è molto dissimile da
quella del '25, e questo spiega il carattere aleatorio del processo conclusivo di
Roma: un atto dovuto, un rito.
D.: Che differenza c'è fra la sua tesi e quella avanzata da Matteo Matteotti?
R.: Lui esclude che la massoneria abbia avuto un ruolo nel predisporre il piano
del 10 giugno, e non so da che tragga questo convincimento, visto che tutti gli
indiziati del delitto (da Naldi a De Bono, a Dumini, a Bazzi, a Rossi, a Finzi)
erano iscritti, a vario titolo, alla setta.
Lui afferma che la Corona è il mandante di Mussolini, ed io no. Lui dice che il
duce copriva le responsabilità della corona ed io trovo strano che Mussolini a
Salò non abbia colto l'opportunità per convogliare in questa direzione almeno
una parte delle colpe che si era addossato fino alla giubilazione del luglio '43.
Lui insiste sulla Sinclair (mentre risulta dai documenti della compagnia
petrolifera americana con cui avevano brigato i manutengoli della
“Commerciale”) che era la Standard Oil, e che tale società era anche fortemente
interessata al business delle bische”.
167
Fedeli ad una linea di estrema prudenza, in questo caso così particolare, pur con
un certo scetticismo, lasciamo comunque in piedi l’ipotesi del Re, o chi per lui,
interessati a sopprimere Matteotti (se in Inghilterra vennero forniti documenti,
ivi presenti, a Matteotti, circa i traffici sul petrolio, questi potevano forse
riguardare gli interessi di Casa Savoia con i suoi impegni verso la Sinclair e sue
eventuali partecipazioni azionarie).
Azzardiamo a questo proposito una domanda inerente una clamorosa ipotesi di
cui parleremo più avanti, nel Post Scriptum: si è supposto che eventuali
denunce di Matteotti alla Camera che chiamano in causa il Re per lo scandalo
del petrolio, potevano tornare funzionali alla politica di Mussolini intento a
trovare spazi di potere e agibilità governativa, anche se ne andavano
compromessi uomini del suo entourage?
168
Ambienti invischiati nell’Affaire
Alta Finanza
Si tratta di ambienti dell'Alta Finanza speculativa, cui un Mussolini, a suo
tempo da loro aiutato a prendere il potere, ora non assecondava i grossi affari,
in particolare per gli interessi della Commerciale e delle grandi compagnie
petrolifere e affaristiche che vorrebbero avere mano libera sul nostro territorio.
L’alta finanza e l’Alta Banca che opera in Italia è un intreccio di interessi che si
snoda a livello internazionale e che con i primi anni del novecento ha assurto al
rango di grande capitalismo monopolista. L’alta finanza, a livello internazionale,
con le sue power èlites può considerarsi la responsabile principale dello
scatenamento della Prima Guerra Mondiale. In Italia i suoi poteri di punta sono
la Banca Commerciale soprattutto e tutto un giro di finanza, comprese le
Assicurazioni Generali di Trieste. Sovente gli esponenti dell’Alta Finanza sono
anche massoni’
Massoneria
Le forze massoniche, stratificate in tutto il paese e con solidi e atavici
intrecci tra Londra e Parigi, per le quali Mussolini è oramai un nemico
dichiarato, si sentono danneggiate nelle pratiche speculative e paventano
aperture di Mussolini verso la Chiesa. Decisamente avversa al fascismo, oramai
dal 1920, è la massoneria del Grande Oriente d’Italia, di Palazzo Giustiniani con
Domizio Torrigiani, mentre quella di Piazza del Gesù (filiazione della Gran
Loggia di Francia) di Raul Palermi, che conta un gran numero di fascisti è più
accondiscendete a collaborare con il governo. La massoneria, non è mai
disgiunta dai suoi riferenti internazionali e dalle influenze finanziarie, di cui alla
fin fine finisce per adeguarsi alle direttive. Con il definitivo avvento del regime
fascista, complice in alcuni attentati al Duce, è messa fuori legge ed entrerà in
“sonno”, mantenendo segretamente i suoi affiliati e soprattutto una forte
presenza nell’esercito e nella burocrazia. Verrà svegliata dal sonno con la guerra,
quando la Massoneria Universale, sull’asse Parigi, Londra , New York, la
chiamerà apertamente a sabotare la guerra italiana.
Comunisti
I comunisti che rischiano la totale emarginazione politica se Mussolini
riesce nel suo intento di imbarcare alcuni settori del PSU e dei Confederati nel
governo, sono però anche frenati dalle direttive e dagli interessi Sovietici, a
volte avversi e a volte cointeressati con il governo fascista. La loro reale
incidenza nell’Affaire Matteotti, non è mai stata adeguatamente indagata. Forse
fu marginale, ma non è detto.
169
Forze reazionarie e conservatrici
Sono quegli interessi e quei poteri, industriali e agrari, del paese e del
fascismo che non hanno alcuna intenzione di assecondare una eventuale
apertura a sinistra del Duce. Vivono con il fascismo di Mussolini un rapporto
contraddittorio: utile e favorevole dove il duce gli assicura la pace sociale e
margini di guadagno, conflittuale quando cerca di sottometterli o ridurgli questi
spazi. Fanno capo a quegli esponenti industriali e agiati e conservatori presenti
nel fascismo stesso.
I Sovietici
Li citiamo non per innestare dei sospetti di chissà quali responsabilità
ebbero i sovietici nel caso Matteotti, ma nel complesso di un discorso sui
sovietici che si muovono sia su un piano “rivoluzionario”, che per gli interessi
dell’Urss, risulta alquanto complesso e non indifferente. Anche i sovietici
infatti da un successo di Mussolini per aprire a sinistra, vedrebbero fallire i loro
sforzi per mettere in piedi un largo fronte sovversivo e sono anche concorrenti,
con gli anglo americani, su le eventuali scelte petrolifere del governo verso la
Sinclair, essendo interessati a curare i loro interessi petroliferi in Italia. Ma al
contempo, c’è anche in ballo il loro recente riconoscimento internazionale de
jure da parte del governo italiano (di fatto la Banca Commerciale e altre imprese
già commerciavano con l’Urss) e gli importanti accordi commerciali sul petrolio
e non solo con il nostro paese.
Precedentemente i sovietici avevano spinto per il loro riconoscimento
internazionale e avevano fatto capire che importanti accordi commerciali erano
subordinati a questo riconoscimento. Mussolini che vede di buon occhio
normali rapporti con l’Urss, conscio degli appetiti che gli accordi in essere
possono scatenare, aveva giostrato frenando e accelerando a seconda delle
convenienze e al fine di tenere la situazione sotto controllo. A molti questo
“dirigismo” del Duce non piaceva affatto.
Di certo sappiamo che a delitto avvenuto i sovietici, che ben
sapevano l’estraneità di Mussolini e forse avevano qualche, scheletro
nell’armadio, si guardarono bene dall’annullare il grande
ricevimento con il Governo e successivamente non furono estranei
alla decisione del PCdI di uscire dalla coalizione antifascista
dell’Aventino, di fatto sabotandola.
Casa Savoia
E’ una dinastia di bassa lega, incistata nella nazione e prosperata dietro il
Risorgimento, in virtù di sostegni massonici e britannici. Estranea ai veri
interessi e bisogni della nazione, tollerò ed accettò il fascismo in virtù del fatto
che questi gli garantiva la pace sociale e la tranquillità del potere Di certo il
sovrano aveva i suoi bravi traffici sottobanco, seppur discreti, come quello del
petrolio.
170
I possibili organizzatori del delitto
Mandanti a parte, da ciò che conosciamo, cerchiamo di formulare alcune
deduzioni, circa coloro che furono i possibili organizzatori del delitto, fermo
restando che più che delle fondate ipotesi non si può di certo avanzare:
Primo:
a prescindere se si protende per la tesi di un delitto programmato con tanto di
assassinio, oppure che invece travalicò le intenzioni dei sicari come
sembrerebbe mostrare la rozzezza e superficialità del sequestro con uccisione in
55
macchina e malaccorta e affrettata sepoltura, è prevedibile che se non fosse
stato preso il numero della targa della macchina che fuggì con il sequestrato
caricato a viva forza a bordo, i tempi delle indagini si sarebbero notevolmente
allungati e gli sviluppi politici del caso sarebbero in parte cambiati, ma sempre
come era stato previsto e desiderato dai mandanti dell'omicidio: ovvero una
volta scoperto il rapimento, questi sarebbe apparso come l'opera punitiva dei
fascisti e di Mussolini e quindi del governo, verso il deputato socialista che
aveva avuto il coraggio di denunciare brogli e violenze nelle precedenti elezioni e
minacciato di dimostrarne la corruzione.
Questa tesi avrebbe riempito le pagine dei giornali, coinvolgendo l'opinione
pubblica e il governo di Mussolini sarebbe inevitabilmente entrato in crisi.
Secondo:
non ci sono dubbi che l'esecuzione del crimine venne affidata alla Ceka di
Dumini e quindi è lecito supporre che il progetto organizzativo si elaborò
nell'entourage di Mussolini, cioè tra i De Bono, i Finzi, i Rossi, i Marinelli
(sicuramente Marinelli), o almeno uno o alcuni di questi, ovvero i quadri
dirigenziali di quella che è stata chiamata la “banda del Viminale”, ma è
altrettanto probabile che l’elaborazione del progetto fosse partita da settori
collaterali a questo entourage, per esempio, gli ambienti politico finanziari che
ruotavano attorno al Corriere Italiano di Filippelli (giornale politico, ma di
supporto ad affari finanziari), ovviamente con la complicità di almeno uno dei
gerarchi sunnominati.
Ma se i componenti della congrega del Viminale sono tutti in qualche modo
invischiati in traffici di dubbia natura, anche del genere di quelli riconducibili
agli ambienti che hanno oramai deciso di abbattere Matteotti e scaricare il Duce,
non è detto che presi singolarmente siano tutti al corrente del progetto di rapire
e magari uccidere Matteotti o che, sapendolo, lo condividano.
E questo per la semplice considerazione che costoro dovevano ben
immaginare che le conseguenze di quel delitto avrebbero
inevitabilmente comportato anche la loro rovina, specialmente se gli
indizi avessero condotto alla banda di Dumini.
Se cadeva il governo di Mussolini, cadevano anche le loro poltrone.
Non è un caso che alcuni uomini, tra i più esposti dell'entourage di Mussolini, a
ridosso del delitto, essendo evidentemente al corrente di “qualcosa”, anche se
non si sa fino a che punto, cercarono di procurarsi un alibi.
Orbene, se questi personaggi, pur consci dei rischi che personalmente
correvano, non si diedero da fare per far desistere dal mettere in pratica
171
l'eliminazione di Matteotti, ma alcuni si premunirono di trovarsi un alibi per
uscir fuori indenni dalla prevedibile bufera che si sarebbe inevitabilmente
scatenata (lasciandoci invece dentro Mussolini), vuol dire che alcuni non ne
sapevano niente, altri ne sapevano solo qualcosa, e magari qualcuno era anche
affine agli ambienti che non digerivano più il Duce e questo “qualcuno”
paventava anche che una possibile apertura di Mussolini ai socialisti e ai
Confederali, avrebbe ugualmente provocato la caduta di qualche poltrona.
Esiste comunque un altro “ ordine ”, proveniente dal quel mondo affaristico
speculativo, da quelle Lobby alle quali alcuni di costoro sono riconducibili, un
ordine, una disposizione alla quale alcuni non ne sono al corrente, ed altri
invece non possono opporsi e devono, obtorto collo, provvedere.
Scendendo nel “pratico”, fermo restando che l'interesse, la volontà e la
commissione di mettere in atto un azione criminosa contro il deputato
socialista, venne dal quel “putrido ambiente politico-affaristico” a cui, causa
sparizione del dossier di Gatti e Bombacci, non è stato possibile assegnare dei
nomi precisi, possiamo partire da un dato di fatto sufficientemente plausibile:
per l' esecuzione di questa azione (cogliendo al volo anche l'opportunità di
nascondersi dietro “l'alibi” del discorso antifascista di Matteotti del 30 maggio),
se ne incaricarono personaggi influenti i quali da posizioni di potere, ad un dato
momento, ne impartirono l'ordine esecutivo ad Amerigo Dumini.
E questi personaggi influenti, logica vorrebbe di cercarli tra i membri della
“banda del Viminale”: Marinelli, Finzi, Rossi, De Bono e gli ambienti a loro
attigui (i vari Filippo Filippelli, Pippo Naldi, ecc.), tra cui dovrebbero esserci,
ma valli a individuare, coloro che ignorano tutto o in parte, coloro che invece
“sanno” e basta, ma anche coloro che “sanno” e organizzano. Senza dimenticare
che per il De Bono, il cui ruolo è tutto da accertare, c’è una lettera di Dumini che
gli scrisse negli anni ’30 quando era Ministro delle colonie, ricordandogli che fu
la sua fedeltà e la sua fermezza davanti al Senato dell’Alta Corte di giustizia, se il
De Bono si salvò dalla incriminazione. Come per dire: mentii tacendo e ti salvai
ora mi devi essere riconoscente. Cosa venne nascosto sul De Bono?
Scrive Mauro Canali, forse generalizzando, ma con qualche fondo di verità,
riferendosi alla mattinata di giovedì 12 giugno, quando non era ancora giunta la
segnalazione di Rodolfo De Bernart, il commissario di PS del quartiere
Flaminio, che dopo le 12,30 diffuse inopportunamente la notizia che era nota la
targa dei rapitori. Fino a quel momento, dice Canali:
«pur essendo al corrente del delitto e della identità degli assassini, De Bono,
Finzi, Filippelli, e Rossi non si mostrarono particolarmente preoccupati fino
alle prime ore di giovedì pomeriggio. Essi si limitarono a seguire le indagini
come se tutto ciò non li riguardasse. E continuarono a mantenere rapporti
apparentemente normali con Dumini”.
Tradurre perà questa, sia pur fondata, osservazione, in precisi capi di accusa,
non è molto facile.
Il fatto che questa famigerata Ceka sia stata composta, a partire da Dumini, da
manovalanza conosciuta e utilizzata in passato o comunque contigua a
Mussolini e al partito, ha consentito di elaborare ipotesi, senza alcuna prova, per
172
coinvolgere direttamente il Duce, o qualche suo collaboratore, attingendo più
che altro da affermazioni riportate in dubbi “memoriali”, palesemente di parte, i
cui autori, forse non estranei al complotto, recitarono il copione che gli era stato
assegnato.
Resta però il fatto che teoricamente uomini dell'entourage di Mussolini o
almeno non tutti, difficilmente avrebbero preso, senza il suo consenso,
l'iniziativa delittuosa; iniziativa che, oltretutto e come appena accennato, poteva
avere conseguenze estremamente pericolose per le loro poltrone.
Mussolini ebbe a dire alla sorella Edvige che la vicenda Matteotti era «una
bufera che mi hanno scatenato contro proprio quelli che avrebbero dovuto
evitarla» forse riferendosi ai De Bono, Marinelli, Finzi e Rossi.
Escludendo quindi il Duce, dalla responsabilità della direttiva, è chiaro allora
che bisogna ritenere che colui (o coloro) che impartirono tale ordine (dietro
innominate ispirazioni) non potette agire diversamente, oppure (improbabile
però) che non ne valutò a pieno le conseguenze per sè stesso, ritenendo magari
che “un pò” di sconquasso avrebbe definitivamente allontanato ogni ipotesi di
apertura del governo ai socialisti.
Nell'esecuzione di questo ordine poi, si giocò sull'equivoco di precedenti frasi a
caldo di Mussolini (di circostanza e alle quali non aveva dato alcun seguito) e del
clima che, da tempo, si era venuto a determinare circa l'intenzione di impartire
una “lezione” al deputato socialista. Non si può neppure escludere che in un
primo momento Mussolini, irritato dagli attacchi di Matteotti ( informato che il
deputato avrebbe esposto alla camera pesanti denunce contro il governo) avesse
espresso il desiderio di dargli una lezione. Ma sicuramente deve essere stato un
desiderio subito fugato, non un esplicito ordine, ma ci fu chi giocò su questo
stato d’animo e poi gli capitò come il cacio sui maccheroni, un Matteotti che si
espose con il suo forte discorso antifascista del 30 maggio, che adesso
consentiva anche di agire dietro un copertura fittizia, di stati d’animo e reazioni
politiche.
Scrisse Carlo Silvestri, profondo conoscitore di tutti gli aspetti di questo Affaire:
«Non posso escludere che a Poveromo e Dumini abbiano raccontato delle
storie quando li hanno arruolati per il rapimento di Matteotti. Io sono
convinto però che delle storie non fossero state raccontate a Marinelli“
(Silvestri C.: Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Ruffolo 1947).
Possibile che invece lo stesso Dumini, con un doppio gioco ancor più ambiguo,
prese ordini anchr da altri personaggi, giocando su lo stesso equivoco di lasciar
credere ad una spedizione punitiva contro il deputato socialista.
Stabilire adesso chi poteva (o potevano) essere colui (o coloro) che conosceva
fino in fondo, avendolo ordinato, il progetto omicida è estremamente
complicato, perché se è pur vero che molti indizi hanno portato ad individuare
questa persona in Giovanni Marinelli, è altrettanto vero che resta difficile
non ritenere, che qualche altro non ne fosse complice.
E i sospetti si appuntano su De Bono, nel caso di un coinvolgimento di casa
Savoia e su Finzi, nel caso di un coinvolgimento di loschi ambienti affaristici e
173
ancotra su Rossi nel caso di ambienti “massonici” interesati a ridimensionare
Mussolini..
L’ipotesi di Matteo Matteotti, che addita il Re come responsabile del mandato
omicida, considera questo mandato prendere corpo dietro il De Bono che lo
trasmette al Marinelli, e magari non è estraneo neppure il Finzi che nelle
questioni petrolifere era sempre in mezzo.
Il fatto che Francesco Giunta, pur fuori dalla cricca omicida, segretario di un
partito fascista retto da un direttorio di cui fanno parte anche Rossi e Marinelli,
pochi giorni prima dell'evento delittuoso, avvertì Matteotti dal guardarsi dalla
Ceka, lascia a pensare che, dentro e attorno a quella che è stata definita la
“banda del Viminale ”, si era parlato di una azione contro il deputato socialista.
Inoltre, questa iniziativa, nella sua fase esecutiva, era già in piedi da alcuni
giorni, prima del discorso del deputato socialista del 30 maggio, visti i tempi e i
preparativi che dovette fare il Dumini per chiamare a Roma gli altri esecutori e
gli appostamenti che in quei giorni furono messi in atto su Matteotti. E questo
anche se poi, al dunque, qualcosa dovette far precipitare gli eventi, perché si ha
la sensazione che il delitto fu da tempo programmato, ma la sua fase esecutiva
del 10 giugno fu alquanto affrettata e precipitosa.
Quindi se è pur vero che non tutti gli esponenti della banda del Viminale
potrebbero essere stati al corrente della macchinazione, in definitiva per tutti
loro pericolosa e compromettente, altrettanto improbabile è che tutti non ne
sappiano proprio niente, visto che è da giorni che il Dumini, che da quelle parti
è di casa, sta trafficando nei preparativi di questo crimine e come abbiamo visto
per il Giunta, qualcosa è pur trapelata.
Nonostante sia datato, rasta ancora validissima la analisi fatta da Renzo De
Felice, in “Mussolini il fascista” Vol. 1, Einaudi 1966:
«Il clima del tempo era quello che era. .. violenze del genere… erano tutt’altro
che rare. Pensare quindi al ricorso di una “lezione” era per un fascista, specie
in un momento d’ìira, cosa quasi normale. Ma tra il pensarlo e l’ordinarlo c’era
però di mezzo la sensibilità politica.
Che poi Marinelli, il responsabile numero uno, dell’azione contro Matteotti a
cose fatte cercasse di scaricare, in un privato colloquio con alcuni membri
dell’entourage per di più anch’essi compromissibili: - Rossi per le sue minacce
alla Camera, e per i suoi rapporti con Dumini, Finzi per i suoi rapporti con il
“Corriere Italiano” e probabilmente con quel mondo affaristico che, si diceva
Matteotti avrebbe voluto, se non fosse stato eliminato, denunciare
pubblicamente, De Bono come responsabile primo dell’ordine pubblico - la
responsabilità prima su Mussolini, non può meravigliare, così facendo non
solo diminuiva la propria responsabilità, ma cercava di creare un fronte
unico, dell’entourage di fronte a Mussolini per impedirgli di dissociarsi da
esso, fargli coprire il delitto o almeno, assumerlo sulle spalle del regime.
Una sorta di ricatto, insomma, come appunto subito lo intese Mussolini
appena informato da De Bono: “Stanno gettandoti addosso la responsabilità”.
“Questi vigliacchi mi vogliono ricattare!”
174
Senza dire che, a ben vedere, dalle dichiarazioni di Finzi (che oltretutto,
secondo Salvemini, vanno prese tutte con cautela dato che egli viene colto
ripetutamente in flagrante menzogna) non risulta che Mussolini abbia
ordinato a Marinelli o ad altri di sopprimere Matteotti o di dargli una
“lezione”. Marinelli, disse Finzi, riferendo della riunione del 12 giugno sera,
aggiunse che egli e Rossi, nelle ultime recriminazioni del Presidente, avevano
ravvisato la decisa volontà che al deputato unitario e a qualche altro dovesse
essere resa difficile l’esistenza.
Che conclusione si può trarre da questi elementi ?
Allo stato attuale della documentazione, secondo noi, solo quella che ne ha
tratta Cesare Rossi (che pur a quest’epoca era ferocemente antimussoliniano e
non si vede perché avrebbe dovuto usare indulgenza a giudicare un uomo che
prima lo aveva sacrificato per salvarsi e poi perseguitato e tenuto in carcere
per anni) il 23 gennaio 1947 nel corso di un suo interrogatorio in occasione del
rinnovato processo Matteotti: lo zelo di Marinelli diede attuazione alle
minacce di Mussolini pronunciate in un momento d’ira e conformemente alla
mentalità tipicamente fascista, per la quale chi non si piegava doveva essere
costretto a farlo con la violenza”.
Fin qui De Felice, noi oggi aggiungeremmo che in Marinelli ci fu molto di più di
un eccesso di zelo, perchè ci fu il venire incontro a chi gli tornava utile una
impresa del genere.
Riassumendo tutte queste possibili responsabilità, tutto al più, si possono
azzardare nomi solo in via ipotetica, vista la inaffidabilità di tutte le deposizioni.
Tanto per averne una idea di questa inaffidabilità, si prenda una deposizione di
Aldo Putato, davanti al giudice Istruttore Del Giudice, in seguito poi ovviamente
ritrattata, destino comune a tante altre deposizioni:
«Dopo il violento discorso di Matteotti, venni a sapere per bocca di Dumini,
che il Duce aveva ordinato che entrambi si tenessero pronti, insieme a Volpi,
Viola, Poveromo e Malacria ad agire per dare al deputato socialista la lezione
che meritava».
Egli, il Putato, riteneva dapprima che si trattasse di una spedizione punitiva, ma
poi il Dumini gli disse che bisognava ucciderlo.
Si da il caso, però, che dopo il discorso di Matteotti del 30 maggio, Putato e gli
altri erano già dal 22 maggio a Roma a preparare il rapimento, quindi pare
difficile credere che apprendano solo adesso quello che dovrebbero fare!
Cosicchè riflettendo su quanto fin qui esposto, su le varie ipotesi, sui personaggi
in qualche modo implicati nella vicenda Matteotti, possiamo ipotizzare, ma solo
in via teorica, che i “ superiori sconosciuti” interessati alla liquidazione di
Matteotti e di Mussolini, tramite personaggi come Filippelli e Naldi o Marinelli
riuscirono a forzare certe decisioni e ad assegnare a Dumini l'incarico omicida.
Non si dimentichi che Dumini, come Ceka, era a disposizione di Rossi e
Marinelli, ma quale fittizio dipendente del Corriere Italiano (vi figurava a libro
paga con un mezzo ruolo di segretario e ispettore viaggiante) era anche di casa
con Finzi al Viminale e quindi con De Bono.
175
Cesare Rossi, invece, che appare in questo contesto più defilato, quasi a sé
stante, a curarsi i propi interessi, anche con vari intrallazzi con il Dumini,
risulta intimo di tutto quell’ambiente massonico, elementi “revisionisti”, ecc.,
che oramai hanno deciso di liquidare Mussolini. Di certo non doveva trovarsi
molto a suo agio il Rossi, visto che, bazzicava costoro (lo troviamo
costantemente e fino all’ultimo in compagnia di Carlo Bazzi, per esempio), ma
allo stesso tempo doveva a Mussolini fama, posto ed onori.
Come si vede quindi siamo in presenza di un contesto alquanto complesso, dove
i personaggi si muovono come in cerchi concentrici, tutti tra loro legati da sottili
fili, ma allo stesso tempo indipendenti.
Franco Scalzo, autore di alcuni lavori sull'affaire Matteotti, nel suo libro “ Il
caso Matteotti, radiografia di un falso storico ” - Settimo Sigillo 1996,
ricostruisce che già a maggio, a Parigi, Cesare Rossi incontrò Campolonghi,
Naldi, Bazzi ed altri elementi massonici e lì si mise a punto il progetto di agire
contro Matteotti e procurare la caduta di Mussolini.
Anzi, per lo Scalzo, precedentemente, gli stessi ambienti avevano causato la
morte di Bonservizi, all'interno di una trama che faceva parte di uno stesso
piano. Ecco come riassume questa vicenda lo stesso Scalzo nel suo libro:
«Ci sono troppi personaggi, avvolti nella penombra, rispetto ai quali ogni
certezza è arbitraria
Si può essere sicuri solo di due cose: che Mussolini non c'entrava
affatto, e che i mandanti del delitto sono ancora sopra di noi,
refrattari alle vicende giudiziarie, potenti al punto da essere
esonerati dal figurare tra i protagonisti della Storia. Perché loro
muovono i fili. E gli altri vi sono appesi».
E’ uno scenario inquietante questo indicato dallo Scalzo, ma niente affatto
fantasioso o arbitrario, ma a nessuno ha mai fatto comodo indagarlo.
In definitiva, si può ritenere che per lo Scalzo, escluso Mussolini, quasi tutta la
banda del Viminale, coadiuvata dai vari Filippelli, Naldi, ecc., era partecipe del
processo criminoso. Su questa linea, sia pure con alcuni distinguo e la diversa
premessa che il mandate sia Mussolini, è anche il Canali.
A nostro avviso, anche questa ipotesi, magari con qualche eccezione, potrebbe
essere sostenibile e tra l'altro risolverebbe il dubbio che si genera pensando al
fatto che era alquanto difficile che in quell'ambito si potesse essere all'oscuro di
quanto stava preparando il Dumini.
La domanda chiave, però, è un'altra: come poterono i veri responsabili del
delitto, utilizzare la Ceka e impartire questo ordine all’oscuro di Mussolini?
Costoro giocarono sull’equivoco, di precedenti stati d’animo di
Mussolini, che in certi momenti dovette veramente aver espresso
intenzioni bellicose contro Matteotti, ma rendendosi poi conto della
assurdità della cosa, le lasciò cadere, ma altri utilizzarono queste
situazioni per coinvolgere gli esecutori nel nome di Mussolini.
Una attenta escussione di tutto l'insieme della vicenda, il particolare più volte
ricordato che le conseguenze del delitto potevano travolgere gli stessi
organizzatori, il fatto che sia Bombacci che Mussolini, forti anche del biglietto
176
confessione di Marinelli del 1943, che scagionano Rossi, ci inducono ad essere
più cauti e ad affermare che resta estremamente incerto stabilire chi dei membri
della “ banda del Viminale” poteva realmente essere al corrente di questa
iniziativa e fino a che punto condividerla e agevolarla, anche se noi restiamo del
parere che, tutto sommato, forse fu il solo Marinelli ad agire, in un determinato
modo delittuoso e in collusione con altri ambienti collaterali.
Considerando però che, di fatto, qui è come se ci fossero ”due
mandanti”, uno che persegue il fine di tacitare Matteotti ed uno che
persegue quello di defenestrare Mussolini, obiettivi che si integrano
a vicenda, è probabile che ci siano anche più personaggi coinvolti.
Possiamo così anche sostenere, che a fianco di chi da gli ordini a
Dumini (per lo Scalzo, anche se non lo dice chiaramente, sono un po’
tutti, mentre per il Canali, dietro ordine di Mussolini, sono Rossi e
Marinelli), che forse ad eccezione di Marinelli, resta difficile
individuare, tutti gli altri o sono ignari o vi sono implicati in qualche
modo, forse sapevano o avevano intuito qualcosa.
Nel fare questi nomi, però, nel dubbio meglio andarci cauti.
In definitiva non sarebbe poi così irreale, ipotizzare uno scenario del genere:
un gruppo ristrettissimo di personaggi è interessato a sopprimere Matteotti, per
tacitarlo, mentre un altro gruppo più ampio, è interessato a defenestrare o
indebolire Mussolini. Ovviamente alcuni di questi due gruppi potrebbero
coincidere. In tal caso, il progetto criminoso, prenderebbe forma su due distinti
piani: c’è chi punta diritto all’omicidio ed impartisce gli ordini necessari
(tramite il Marinelli che può disporre della Ceka); tutti gli altri invece si
muovono dietro motivazioni più sfumate e finalizzate a ridimensionare
Mussolini (dietro ispirazione massonica) ed anche a questi magari una sola
spedizione punitiva contro Matteotti che crei forti reazioni, puo’ anche andar
bene, salvo che, per alcuni, se cade il Duce, cadono anche loro dai posti
prestigiosi che Mussolini e il fascismo gli ha consentito di ricoprire, e quindi,
almeno che non ne siano costretti, alla condivisione di un delitto, potrebbero
esserne estranei per la sola fase delittuosa (per esempio Cesare Rossi).
Ma abbiamo ipotizzato.
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“Bella vita” dei carcerati
Scrive Mauro Canali parlando degli incriminati che venero incarcerati:
«Ai detenuti fu consentito, ad esempio, di ricevere il vitto da un ristorante
esterno alla prigione, Pagava ovviamente il PNF… Il sarto che fornì ai cinque
detenuti il vestiario per un periodo che va dal maggio 1925 a febbraio 1926,
fatturò per una cifra pari a 42 mila lire».
Quindi poi vari sussidi, la grossa parte la incassò Dumini e la sua famiglia,
agevolazioni di ogni genere anche in modo che i detenutiti, in vista del processo,
comunicassero tra loro e con i maggiori imputati, compresi Rossi e Marinelli.
Panzeri rifugiato a Marsiglia ebbe vari agevolazioni tramite il fasci locale ed
anche Malacria che era di nuovo rifugiato a Marsiglia ebbe varie agevolazioni e
se ne intralciava l’estradizione.
Dopo il processo, dove tra l’altro Malacria e Viola erano stati assolti per non
aver commesso il fatto (sic!) agli imputati la vita non andò troppo male.
Dumini: come noto passò da un atteggiamento sprezzante nei primi mesi di
galera, poi sentendosi scoperto e incastrato nel delitto e mezzo abbandonato,
nonostante le sovvenzioni che riceveva, prese a protestare e ricattare. Alla
sorella Flora scrisse a novembre:
«Va bene che esco. Non possono farne a meno, ma quando? Brutti traditori e
carogne. Come mi voglio divertire dopo con tutti loro!>>.
Dopo il processo, uscito di prigione la notte del 26 maggio del 1926 e
sorvegliato perché non espatriasse, venne espulso dagli Arditi di Milano, e per
alcuni anni ebbe varie traversie, cercando di scappare dall’Italia e finendo in
galera di nuovo. Nel frattempo però godette di vari sussidi ed elargizioni. Solo
nel 1933, si sospetta per il fatto che aveva nascosto in uno studio legate
americano un esplosivo “memoriale”, la sua situazione migliorò.
Dumini, quindi, nel 1934, si sistemò in Libia dove grazie a molte agevolazioni
sovvenzioni concessegli da Mussolini diede avvio ad attività imprenditoriali e da
colono che gli resero moltissimo.
Mussolini temeva Dumini perché con le sue testimonianze avrebbe potuto
mettere nei guai il regime, ricordare gli ordini di Mussolini per certe spedizioni
punitive, le malefatte di vari esponenti del Pnf, De Bono e Marinelli compresi,
che recuperati dal Duce si erano piazzati di nuovo ai vertici del partito e del
regime, ed inoltre avrebbe potuto sconfessare tutto il processo di Chieti, e forse
altro ancora. Di certo non poteva dimostrare Mussolini come mandante del
delitto Matteotti, altrimenti Mussolini, temendolo, non avrebbe avuto, fin da
subito dopo il delitto, un netto atteggiamento di chiusura e di condanna, verso
gli autori, tanto da far preoccupare Dumini, che trovava anche difficoltà a
prendere un adeguato avvocato (non si voleva che divergesse troppo dal deciso
instradamento del processo di Chieti), di essere stato totalmente abbandonato e
inducendolo a scrivere e ventilare minacce.
Mussolini mantenne questa avversione e chiusura verso Dumini, lasciando solo
che gli passassero sussidi e benefici in carcere, almeno fino al 1932. Poi venne il
periodo libico dove il Dumini si sistemò adeguatamente.
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En passant facciamo notare che, altri dittatori” avrebbero risolto la “pratica
Dumini,” da subito, con un “suicidio” o un “incidente” definitivo. Se Dumini
fosse stato complice di Mussolini, come lo era stato in altre occasioni, anche nel
delitto Matteotti, sicuramente Mussolini se non lo avesse fatto eliminare
avrebbe immediatamente raggiunto, un accordo sottobanco con lo stesso.
Poveromo riprese la sua attività di macellaio a Lecco, ma non più da garzone
quale era stato, aprì un negozio. Poi andò in Eritrea e fece fortuna con i camion.
Volpi, espulso dagli Arditi di Milano, nel 1930 scrisse a Mussolini per essere
aiutato. Diverrà un agiato dirigente al mercato di Milano. Morirà nel 1939 e il
Duce, non dimentico dei suoi meriti in guerra e nel fascismo invierà una vistosa
corona di fiori.
Malacria, ottenne un posto al Ministero delle Colonie poi chiese di essere
inviato come ufficiale in Cirenaica. Morirà nel 1934.
Viola impianterà a Milano delle attività imprenditoriali nell’edilizia, che gli
resero molto. Curioso, per le illazioni sulle sue presunte collusioni con i
sovietici, che otterrà un passaporto per la Russia.
Panzeri che era stato assolto e ritenuto non partecipante al rapimento, tornerà
in Francia a Marsiglia e parteciperà al fascio del luogo. Poi cadde in disgrazia e
venne anche espulso dal fascio di Marsiglia, fini in guai con la polizia e quindi
rientrerà a Milano nel 1929 dove avrà una edicola di giornali.
Putato, farà l’agente dell’Agip, poi dopo la conquista dell’Abissinia emigrerà in
Eritrea e sposerà la figlia del generale tessitore. Dopo l’occupazione inglese, sarà
portato prigioniero in India.
Il Thieschald infine dopo aver ottenuto qualche sussidio, fatto uscire dal
processo, nessuno se lo filò più e venne abbandonato al suo destino.
Rievocate così queste vicende, dobbiamo fare alcune considerazioni, iniziando
dal fatto che qualunque siano stati i favoreggiamenti verso questi uomini di
certo non possono mettersi in relazione, come molti fanno, al fatto che costoro
potessero mettere Mussolini sul banco degli accusati come mandante del delitto
Matteotti.
Di certo, avendo fatto parte della Ceka, avevano molte malefatte o illegalità da
poter raccontare e questo non poteva essere permesso da parte del regime
fascista, a meno che non volesse suicidarsi.
Ma c’è anche da dire che Mussolini aveva utilizzato costoro per esercitare una
certa violenza, che comunque si rigiri è pur sempre una “violenza
rivoluzionaria” e pertanto il Duce non poteva dimenticare che erano stati al
servizio del fascismo e che lo stesso delitto Matteotti, chiunque lo avesse
commissionato e pur deleterio per Mussolini stesso, costoro lo avevano eseguito
presumendo di farlo in nome e per conto del fascismo ed ora si trovavano in
quelle condizioni, in conseguenza di questa loro partecipazione al fascismo.
Piaccia o meno le cose stanno in questi termini.
179
Il processo di Chieti del 1926
Non ci sono dubbi e non può meravigliare che il Regime fascista, le cui
avvisaglie del suo avvento totalitario si erano viste con il discorso di Mussolini
del 3 gennaio del 1925 (regime che si andò poi a concretizzare in tutti i sui
aspetti totalitari in poco più di un anno), intese incanalare il processo Matteotti
verso una conclusione non sconvolgente per i suoi assetti politici e istituzionali.
In effetti, per esempio, arrivare a mettere sotto processo importanti fascisti ex
sottosegretari al Viminale (Aldo Finzi), capi stampa alla Presidenza del
Consiglio (Cesare Rossi) e del partito fascista (Giovanni Marinelli), se non anche
l'ex capo della polizia e della Milizia Emilio De Bono, come pur sarebbe stato
doveroso, avrebbe probabilmente portato in giudizio dell'Alta Corte del Senato
(compente per i reati dei suoi membri e quelli dei ministri) anche Mussolini,
sebbene innocente rispetto al delitto aprendo, una grave crisi in tutto il sistema
politico.
Portare in giudizio, invece, i vari Filippo Filippelli, Filippo Naldi, ecc., avrebbe
potuto aprire una finestra su un ambiente di potentati del mondo industriale e
finanziario che per varie ragioni poteva ritenersi intoccabile.
Una eventualità questa che né il partito fascista, né Mussolini si sarebbero
potuti permettere e quindi si procedette nella strada, oramai obbligata, di
addomesticare il processo e al contempo di instaurare la dittatura.
Si decise, tra l'altro, che la difesa degli imputati sarebbe stata assunta da
Roberto Farinacci il che, essendo egli contemporaneamente anche segretario del
PNF, assumeva un significato particolare.
Non a caso Farinacci ebbe a sottolineare: «Il processo non si farà né al regime,
né al partito. Il processo si farà alle opposizioni».
In realtà Mussolini desiderava più che altro un dibattimento a fari spenti e
privo di colorazioni politiche e la logica del processo che poi si terrà a Chieti a
marzo del 1926 la si poteva già intravedere nel comportamento di Dumini, che
albergava in carcere, ma ci si premuniva di non fargli mancare niente.
Questi, nelle sue risposte agli interrogatori durante l'istruttoria, fini per adattare
i suoi racconti a quella che doveva essere una versione di comodo atta a pilotare
il futuro processo in un certo modo. Il Dumini, una volta arrestato, aveva negato
tutti gli addebiti mossigli, cercando di sostenere una amena versione di come
aveva passato la giornata di martedì 10 giugno 1924. Le sue risposte agli
interrogatori erano state persino strafottenti.
Anche a Luglio interrogato dal Presidente della Sezione di Accusa Mauro Del
Giudice e dal P.M. Guglielmo Tancredi, rilasciò una versione dei fatti a dir poco
ridicola, smentendo al contempo o stravolgendo alquanto alcune dichiarazioni
che aveva precedentemente rilasciato Aldo Putato. Negò anche che lui potesse
aver spedito un telegramma ad Albino Volpi a Milano per farlo venire a Roma e
di essere stato alla guida dell'auto noleggiata di cui poco era pratico e oltretutto
poi quel giorno, disse, gli faceva male il braccio reso invalido per esiti di guerra.
Insomma con il delitto non c'entrava nulla, qualcun altro lo aveva commesso a
sua insaputa. Ammise solo che qualche volta aveva fatto dare una controllatina
180
al Matteotti perché lo teneva sotto osservazione ritenendolo in contatto con
elementi sovversivi francesi.
A luglio Dumini aveva preso, dopo alcune vicissitudini, l’avvocato Giovanni
Vaselli, che lo difenderà al processo. Un avvocato dicesi che andava bene a
Mussolini preoccupato per il suo regime dagli sviluppi processuali. Il Vaselli
cercherà di svuotare il processo dagli aspetti politici e si porrà anche come
segreto referente, mediatore e uomo di fiducia del Dumini, verso l’esterno.
A ottobre del '24, invece, nel corso della stessa istruttoria e sempre davanti a Del
Giudice e Tancredi, di fronte alle schiaccianti prove che lo inchiodavano alle sue
responsabilità (oltretutto una perizia stabilì che il Volpi e il Dumini avevano
lasciato impronte delle dita su un vetro e sul parabrezza della famigerata
Lancia), ammise la sua partecipazione al sequestro, adducendo però la
motivazione di aver agito contro Matteotti solo per volerlo interrogare circa le
sue responsabilità in vari attentati perpetrati ai danni di fascisti in Francia. Una
volta sequestrato con questi scopi, raccontò che il Matteotti venne messo in auto
e lui si premunì che non gli fosse fatto alcun male.
Ad un certo punto però fu richiamato concitatamente da coloro che stavano
dietro con il sequestrato i quali gli dissero che, non si sa come, il Matteotti stava
male. Infatti gli usciva abbondante sangue dalla bocca ed in pochi minuti spirò.
Il Dumini descrisse anche le fasi del sotterramento del cadavere e disse di
essere stato alla guida dell'auto (in tal modo riduceva notevolmente la possibile
pena). Scagionò il Filippelli che gli aveva prestato l'auto, da ogni connivenza e
colpa, si rammaricò di aver messo nei guai persone come Cesare Rossi e
Giovanni Marinelli che non c'entravano nulla e disse che lui, il Filippo Naldi,
non lo conosceva affatto.
Per tornare agli anni '20, accadde che nel frattempo, in seguito alla denuncia di
Giuseppe Donati (direttore del quotidiano "Il Popolo") contro il capo della
polizia, generale Emilio De Bono (presentata al Senato il 6 dicembre 1924, in
quanto De Bono era un senatore del Regno), l'Alta Corte di Giustizia presso il
Senato, avocò il caso e procedette ad una sua istruttoria.
Mesi dopo l'Alta Corte di Giustizia del Senato, (presieduta dal generale Zepelli),
con sentenza emessa il 12 giugno 1925, dichiarò non farsi luogo a procedere
contro il De Bono per inesistenza del fatto in ordine ad alcuni capi di
imputazione, e per non aver concorso alla realizzazione del fatto in ordine ad
altri. In tal modo il generale De Bono uscì subito di scena.
A fine luglio del 1925, inoltre, erano stati emanati provvedimenti di amnistia e
indulto in merito ai reati di natura politica, provvedimenti che in seguito
tornarono utili ai vari imputati nel processo Matteotti e consentirono ad altri
implicati di uscire di scena. In ogni modo, l'istruttoria con i rinvìi a giudizio per
questo delitto, che si era istituita fin dal giugno 1924, si concluse con la sentenza
del 1° dicembre 1925 da parte della Sezione di accusa della Corte di Appello di
Roma, presidente, con funzioni d'istruzione, il magistrato Mauro Del Giudice e
l'intervento del sostituto procuratore generale Guglielmo Tancredi.
In realtà il Tancredi era stato poi improvvisamente destinato alla Corte di
Cassazione ed era stato sostituito da Nicodemo Del Vasto (cognato di Farinacci)
181
che ben presto aveva avuto non pochi dissensi con il Del Giudice palesando il
Del Vasto una certa volontà di annacquare le imputazioni.
Al sequestro del deputato socialista comunque, dopo i primi assurdi dinieghi,
avevano ammesso la loro partecipazione Amerigo Dumini, Albino Volpi,
Giuseppe Viola, Augusto Malacria e Amleto Poveromo i quali, accusati
di sequestro di persona e omicidio volontario, dalla sentenza del 1 dicembre,
sono rinviati a giudizio. Aldo Panzeri per insufficienza di prove e Filippo
Putato per non aver commesso il fatto sono prosciolti. Otto Thieschald è
prosciolto per non aver commesso il fatto e non avervi concorso.
Giovanni Marinelli, Cesare Rossi, Filippo Naldi e Filippo Filippelli
viene stabilito di non procedere in ordine alla imputazione di omicidio per non
aver commesso il fatto e non avervi concorso. Del resto già il Regio decreto di
amnistia del 25 luglio 1924 aveva sottratto molti di costoro al processo.
Incredibilmente il proscioglimento di Filippelli e quindi del Naldi, pregiudicò di
poter arrivare ai grandi potentati economico finanziari. Filippelli, una volta
rimesso in libertà, a ottobre del '24, venne letteralmente ignorato da Mussolini.
Nel 1926 poi espatriò in Francia per sfuggire ad un mandato di cattura per la
bancarotta del Banco Adriatico di Cambio.
Il Naldi, una volta rimesso in libertà, a ottobre del '24, venne letteralmente
ignorato da Mussolini. Nel 1926 poi espatriò in Francia per sfuggire ad un
mandato di cattura per la bancarotta del Banco Adriatico di Cambio.
Il 21 dicembre del 1924 infine si stabilisce che, per motivi di sicurezza, il
processo viene rimesso a Chieti.
A Chieti quindi viene trasferito il processo (presidente sarà Giuseppe Danza
della Corte d't di Foggia e la pubblica accusa sarà sostenuta dall'avvocato
generale Alberto Salucci, sostituto procuratore Generale della Corte d'Appello
dell'Aquila). Lo scomodo magistrato Del Giudice, oltretutto, venne promosso e
quindi dovette lasciare il suo ufficio romano per quello di Catania. Con questo
trasferimento di sede si era garantito uno sviluppo processuale senza particolari
sorprese e in una cittadina alquanto tranquilla.
Era chiaro che tutta l'impalcatura processuale sarebbe stata instradata verso un
accertamento delle rispettive responsabilità degli esecutori materiali
dell'omicidio e quindi, non dovendo mettere in pericolo il neo regime fascista,
non si sarebbe potuto arrivare alle nascoste verità che avevano determinato quel
delitto. Il processo infatti era oramai stato orientato sulla natura dolosa
dell'omicidio, perpetrato nel clima di violenze tra fascismo e antifascismo, e
quindi era stato accantonato ogni altro aspetto di progetto intenzionale
finalizzato ad altri e diversi scopi.
Di fatto si finì per celebrare un processo contro "cinque irresponsabili", causa di
tutto l'evento delittuoso, che andavano certamente puniti, ma esclusa la
premeditazione, con tutte le attenuanti possibili.
Escluso dalla requisitoria di Del Vasto il movente di un delitto per vendetta
sull’omicidio di Bonservizi, di cui si riteneva responsabile Matteotti, per il fatto
che una lettera di Dumini che avrebbe dovuto comprovare questa versione, non
182
era verificabile, mentre la presunta presenza di Matteotti in Francia nel periodo
precedente la uccisione, era falsa.
Il movente affaristico invece con le relative indagini sulla convenzione con la
Sinclair Oil, si riteneva che non avessero fornito la prova della collusione di
Filippelli e Naldi con la compagnia petrolifera.
Cosicchè il movente restò del tutto appeso in aria.
Restava infine solo qualche preoccupazione su come avrebbe potuto deporre
Aldo Putato al processo visto alcune sue precedenti testimonianze non proprio
in linea con quelle degli altri imputati. Ma alla fine, anche il Putato dovette
allinearsi agli altri.
E finalmente il processo per l'assassinio di Matteotti fu tenuto a Chieti con inizio
dal 16 marzo 1926 e la sentenza fu emessa il 24 marzo dopo sette udienze.
Di fatto, applicando un sottile marchingegno giuridico, si era diviso il capo di
accusa in due momenti distinti; l'ordine di sequestrare Matteotti e quindi
l'uccisione. In tal modo si poteva sostenere che chi ha dato l'ordine del
rapimento non ha necessariamente dato quello di uccidere e chi ha commesso
l'omicidio lo ha fatto non premeditatamente.
Con grandi frasi roboanti, ma di poca sostanza, la pubblica accusa di Salucci
finisce lei stessa per indicare che non ci fu la volontà di ammazzare Matteotti,
perché questo evento andava al di là delle intenzioni dei cinque partecipanti al
sequestro. Già l'accusa quindi escluse le eventuali aggravanti.
Farinacci e gli altri avvocati della difesa avranno buon gioco a pilotare il
processo, sostenendo anche che tutta quella atmosfera di odio e di sangue era da
ascriversi alla responsabilità proprio di Matteotti che ne ha creato le premesse.
Insomma il processo di Chieti fu una ridicola farsa, ma tanto per
esprimere un paragone paradossale, fu forse più serio dei plurimi
processi per la strage di piazza Fontana del ‘69, conclusisi con varie
assoluzioni di uomini dei Servizi , non individuazione di mandanti
ed esecutori e i parenti delle vittime condannati a pagare le spese
processuali per l’ultimo ricorso in Cassazione.
Le Condanne al processo di Chieti
Al processo addomesticato di Chieti, esclusi quelli che erano stati
estrapolati in istruttoria dai rati maggiori, per cui presero solo condanne minori,
per esempio Rossi e Marinelli accusati solo di aver ordinato il sequestro, e
Filippelli di avevi cooperato, tutti reati previsti dalla amnistia di luglio, vennero
rimessi in libertà. Per i rimasti in ballo queste furono le condanne:
a Dumini, Volpi e Poveromo, fu esclusa l’aggravante della premeditazione
dell’atto delittuoso e vennero condannati a soli 5 anni, 11 mesi e 20 giorni di
reclusione. Con il periodo già scontato, (1 anno e 9 mesi di reclusione, amnistie
e condoni), dopo poco uscirono tutti di galera.
Malacria e Viola vennero assolti per non aver commesso il fatto.
183
Il processo bis di Roma del 1947
Nel territorio del governo del Sud, occupato dagli Alleati, il governo del
generale Pietro Badoglio il 27 luglio 1944, aveva emanato un Decreto
Luogotenenziale con il quale si stabiliva che le sentenze già pronunciate per i
delitti fascisti (punibili con pene detentive, superiori nel massimo ai tre anni),
erano dichiarate giuridicamente inesistenti, quando su quelle sentenze vi aveva
influito lo stato di coercizione morale determinato dal fascismo stesso. Bella
faccia tosta del Re, di Badoglio & Co!
Di conseguenza la Corte di Cassazione, dichiarò giuridicamente inesistenti la
sentenza istruttoria del 1° dicembre 1925 della Sezione di accusa della Corte di
Appello di Roma e la sentenza definitiva del 24 marzo 1926 emessa dalla Corte
di Assise di Chieti.
Nel dopoguerra pertanto, in pieno clima antifascista e post liberazione, si ebbe il
secondo processo Matteotti.
Come è stato giustamente rilevato anche questo processo fu più che altro un rito
di professato ''antifascismo", laddove si voleva dimostrare una qualsiasi
responsabilità di Mussolini.
Ma più in là di una presunta responsabilità morale non si riuscì ad andare, né
tanto meno si volle arrivare a chiamare in causa il "putrido e corrotto ambiente
politico affaristico" che pur in aula Carlo Silvestri aveva richiamato.
Il secondo processo Matteotti si celebrò tra il 22 gennaio ed il 4 aprile 1947 a
Roma presso la prima Sezione della Corte di Assise di Roma composta dal
Presidente Erra, Consigliere togato Fibbi e da cinque giudici popolari.
La pubblica accusa fu sostenuta dal pubblico ministero Giovanni Spagnuolo.
Veramente sorprendente fu il fatto che alcuni dei vecchi implicati o chiacchierati
per quel delitto, ora anche imputati, si trovavano da tempo sulla sponda
antifascista ed altri erano stati anche notevolmente perseguitati dal regime
fascista.
Imputati nel processo furono infatti, Francesco Giunta, Cesare Rossi,
Amerigo Dumini, Giuseppe Viola, Amleto Poveromo, Filippo
Filippelli, Filippo Panzeri.
Viola e Filippelli sono giudicati in contumacia in quanto latitanti ed il primo
si presume anche sia morto.
Gli altri componenti della Ceka, Volpi, Putato e Malacria erano morti.
Giunta e Rossi dovrebbero essere giudicati per avere, quali dirigenti del Pnf,
ideato e organizzato la famigerata Ceka; ancora Rossi (assieme a Giovanni
Marinelli, deceduto) perché ritenuti mandanti dell'uccisione di Matteotti e tutti
gli altri imputati per essere ritenuti gli esecutori materiali del rapimento e
dell'uccisione del deputato socialista.
La Corte di Assise, però, con la sua sentenza del 4 aprile 1947, dichiarò non
doversi procedere nei confronti di Filippo Filippelli, per i reati da lui commessi,
per estinzione degli stessi in seguito all'amnistia.
184
Il Filippo Naldi invece rimase fuori dal processo ed ancora per via dell'amnistia,
questa volta quella del 1946.
C'è però da notare che, in questo caso, l'imputazione di questi due compagni di
merende (Filippelli e Naldi) avrebbe dovuto formularsi, a differenza del 1925,
non solo come favoreggiamento, ma come complicità nel sequestro e
nell'omicidio. Comunque, ancora una vlta, personaggi vicini ad ambienti
economico finanziari, se la cavarono in qualche modo.
Si dichiarò inoltre non doversi procedere nei confronti di Cesare Rossi,
Francesco Giunta, Filippo Panzeri e Filippo Filippelli per i reati loro
ascritti, per estinzione di questi a seguito all'amnistia disposta dal Dpr.
22.6.1946 n. 4.
Rossi in pratica usufruisce dell'amnistia per l'accusa di aver costituito la Ceka ed
aver organizzato il sequestro, e per insufficienza di prove dall'accusa di
correità nell'omicidio.
Giunta ebbe l'insufficienza di prove per la eventuale sua responsabilità nella
costituzione della Ceka (nel 1950 la Cassazione trasformerà l'insufficienza di
prove in assoluzione piena per non aver commesso il fatto).
Durante il processo si riscontra che il Dumini si è riappacificato con Cesare
Rossi e questo comporterà da parte sua un ridimensionamento di vecchie sue
testimonianze.
Al processo dichiarerà, con buona pace del suo vecchio memoriale, che un
giorno aveva sentito il Rossi che parlava con il Marinelli e gli diceva:
«Solo dalla tua insensibilità morale poteva scaturire un fatto così maldestro:
sequestrare cioè un uomo dopo un discorso trionfale di Mussolini. Marinelli
cercò di difendersi e da ciò ebbi la conferma che noi avevamo agito solo per
iniziativa di Marinelli e all'insaputa di Mussolini. Io chiesi a Marinelli se
Mussolini fosse al corrente di ciò che stava tramando contro Matteotti, e
Marinelli mi disse di no».
Pur dovendo prendere con le molle le storie raccontate dal Dumini, bisogna dire
che questa volta lo stesso ebbe una certa dignità ed un certo coraggio. Non
bisogna infatti dimenticare che, agli inizi del 1947, ci trovavamo in pieno regime
democratico antifascista, e molti avrebbero gradito e certamente ricompensato
un Dumini che avesse sparato a zero contro Mussolini.
Rossi da parte sua cercò di ridimensionare il ruolo di Dumini, affermando che
questo era un soggetto abulico agli ordini di Albino Volpi.
Le condanne al processo di Roma
A Mussolini era stata imputata la correità nel sequestro e nell'omicidio di
Matteotti, aggravato e qualificato, ed in più era chiamato in causa per la
costituzione della Ceka e le varie spedizioni punitive del tempo. Ma Mussolini
nel frattempo era morto e la fase istruttoria si era dovuta fermare a questa
simbolica responsabilità.
185
Escludendo quelli che nel frattempo erano deceduti (per esempio Malacria e
Volpi, oltre Finzi, De Bono e Marinelli), restavano Amerigo Dumini, Amleto
Poveromo e Giuseppe Viola (questi in contumacia), che furono condannati,
quali autori materiali del delitto, stabilendo la premeditazione del fatto e le
aggravanti del caso.
A costoro fu comminata la pena dell'ergastolo, commutata poi in 30 anni di
carcere.
Dumini poi nel 1950 ebbe anche la confisca dei beni da parte della Corte di
Appello.
Nel 1951, la pene vennero condonate di 11 anni sempre dalla Corte di Appello.
Poveromo morì in carcere a Parma nel 1952.
Infine, grazie al condono ottenne la libertà condizionale il 22 marzo 1956.
L'anno successivo, fu sollevato da ogni debito con la giustizia, si iscrisse al
MSI, ma non fece politica Affrontò travagli giudiziari per riavere i suoi beni
confiscati, Morì in condizioni disagiate e per un incidente domestico a natale del
1957.
Del processo di Roma, resteranno scolpite nella pietra le sacrosante parole di
Carlo Silvestri, da noi già riportare e che giova ripetere:
«Signori della Corte, ho deciso di venire qui, dinanzi alla Maestà
della Giustizia per dire in piena coscienza che se noi, nella seconda
metà del giugno 1924, avessimo giustiziato Benito Mussolini come
responsabile, come mandante, come comunque coinvolto nel delitto
Matteotti noi non avremmo commesso un atto di giustizia, ma
avremmo compiuto un delitto ! ».
1924: la satira del giornale “ll becco giallo”
186
Obiettivo assassinare Mussolini
A ridosso della vicenda Matteotti, su ispirazione di alcuni oppositori,
venne anche progettato di assassinare Mussolini,
L’omicidio era stata predisposto nel giugno 1924 giorni dopo la sparizione di
Matteotti e doveva consumarsi negli uffici presidenziali di Palazzo Chigi,
scarsamente, se non per nulla, vigilati.
Un gruppetto si sarebbe infilato negli uffici e avrebbe sparato a bruciapelo a
Mussolini al suo tavolo da lavoro..
Vi era coinvolto anche Carlo Silvestri, desideroso di vendicare Matteotti, e i più
decisi sembravano Carlo Sforza, Tito Zaniboni (proprio quello che Mussolini
voleva portare al governo con i socialisti, e che poi nel 1925 venne arrestato per
un tentativo di uccidere Mussolini), Romano Cocchi, Enrico Tulli, Guido
Grimaldi tutti sicuri massoni, oltre Riccardo Lombardi e Alfredo Morea,
probabile massone.
Questo episodio è rimasto alquanto celato ed è difficile ricostruirlo esattamente
epurandolo di qualche fantasia.. Sembra comunque che il fronte interessato, si
estendeva a diversi personaggi dell’establishment industriale e finanziario. Una
certa ricostruzione l’ha fatta Rodolfo Putignani nel suo “Processo alla storia”,
oltre che sulla base dei racconti di Carlo Silvestri e di una lettera del 1946 del
Conte Carlo Sforza, al Silvestri. Mettendo insieme varie testimonianze, si potè
ricostruire che al comando di Zaniboni, ritenuto eroe di guerra, ci si doveva
introdurre a Palazzo Chigi per assassinare Mussolini.
Nel frattempo si era anche predisposta una campagna stampa per far fronte alle
reazioni dei fascisti, la posizione di Casa Savoia e al fatto che Mussolini era pur
sempre un Capo del governo. Sembra che il gran maestro Domizio Torrigiani di
Palazzo Giustiniani, aveva cercato di addomesticare un Aldo Finzi in crisi, per
fargli fare la parte del grande accusatore di Mussolini.
L’impresa, prevista tra il 16 – 19 giugno 1924, quando oramai era evidente che
Matteotti aveva fatto una brutta fine, abortì all’ultimo momento, forse per le
indecisioni di alcuni “moderati” (sembra che Giovanni Amendola ebbe a dire
“non siamo dei briganti”) e per la defezione del generale Peppino Garibaldi, che
doveva coadiuvare lo Zaniboni e forse anche per una tempestiva azione di
vigilanza della neo Milizia, allertata da Italo Balbo, a cui era giunto sentore di
“qualcosa”.
Sembra che Balbo predispose di far venire a Roma, dal comando della Milizia di
Perugia, la 92a Legione “Ferrucci” di Firenze e l’equivalente di un battaglione
della 75a Legione di Ferrara. Fu così che dalla notte del 17 e 18 giugno per Roma
giravano molti militi della milizia, un deterrente di non poco conto.
Come abbiamo visto, anni dopo Carlo Silvestri, al processo di Roma, disse
espressamente:
«se noi, nella seconda metà del giugno 1924, avessimo giustiziato Benito
Mussolini come responsabile, come mandante, come comunque coinvolto nel
delitto Matteotti noi non avremmo commesso un atto di giustizia, ma
avremmo compiuto un delitto ! ».
187
Un colloquio infuocato
E' interessante conoscere un episodio del clima di quei giorni. L’episodio
è anche riferito in modi e tempi un po’ diversi, sia pure di poco e lo si è anche un
poco romanzato. Ne riportiamo una versione.
Visto che Mussolini da tempo tentennava ad intraprendere una decisa reazione
contro l'antifascismo e la Milizia stava passando una brutta crisi di identità
sentendosi le mani legate, il 30 dicembre del 1924, alla caserma Magnanapoli di
Roma, sede della 112° Legione, si tenne una riunione, di ufficiali della MVSN,
che, di fatto, mise "sotto giudizio", Mussolini e incaricò il console Aldo
Tarabella, valoroso ex combattente 7 volte decorato, di andare a parlare al Duce.
Il giorno dopo Tarabella, accompagnato da circa altri trenta consoli, andò a
colloquio con Mussolini e disse esplicitamente al Duce che se lui non voleva
assumersi le responsabilità della Rivoluzione, queste se le sarebbero assunte
loro e quel giorno stesso si sarebbero presentati al carcere di "Regina Coeli" per
essere giudicati. Mussolini rispose che non sapeva come fare, in quanto gli
avevano buttato in mezzo ai piedi un cadavere (quello di Matteotti, ovviamente).
Al che, Tarabella, senza alcuna remora replicò:
«Ma che capo di rivoluzione siete se vi spaventate di un cadavere?!».
Ne seguì grande animazione e richieste di far fucilare i capi dell'opposizione.
Mussolini replicò significativamente:
«Dovrei piuttosto far fucilare coloro che hanno ucciso Matteotti e che sono i
veri responsabili della situazione!».
E' interessante sapere che già il 25 giugno 1924 Italo Balbo, allora comandante
Generale della MVSN, aveva già seriamente proposto di fucilare i responsabili.
La riunione ebbe termine con l'impegno di Mussolini, resosi conto
dell'intransigenza e della esasperazione dei fascisti da troppo tempo sottoposti a
linciaggio morale, che avrebbe abbandonato, proprio di li a pochi giorni, la
politica dell’ incassare senza reagire, a cominciare con il discorso del 3 gennaio
1925 (progetto che del resto già aveva in mente e predisposto). E così fu.
Con la dittatura del ventennio, prevalse la ragion di Stato, la necessità di
appianare questa triste faccenda senza strascichi che potevano nuocere alla
rinascita della Nazione. I primi a fare le spese di tutto questo furono le
opposizioni e lo stesso previsto processo a Chieti agli assassini di Matteotti.
Un altro aneddoto, non si sa fino a che punto sia vero, narra che quello che poi
diverrà il leggendario ''generale Conte Rossi'' della guerra civile spagnola, cioè
Arconovaldo Bonaccorsi, un bolognese, fascista della prima ora, fegataccio
senza paura e senza macchia, subito dopo il delitto Matteotti, mentre Mussolini
vacilla seriamente, arrivò a Roma con altri squadristi bolognesi e irruppe nello
studio del Duce piantando il suo pugnale di assalto nella scrivania.
Al contempo urla, con la sua voce alta e forte, proporzionata alla sua alta figura,
che è pronto a rifare questo gesto nel cuore degli avversari del fascismo.
Quindi con gli altri camerati si mette a intonare gli inni dello squadrismo.
Anche per questo gesto, si disse, Mussolini, rinfrancato, ritrovò lo spirito di un
tempo e superò quei tremendi momenti.
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Perché Mussolini non andò fino in fondo
Per capire perché Mussolini non volle o non potè arrivare fino in fondo,
cioè fino alla individuazione dei mandanti del delitto Matteotti e neppure alla
esemplare punizione di Dunini & Co., occorre fare un paio di premesse.
Prima considerazione: vicende come quella di Matteotti, se si fossero verificate
in un regime che vede al potere un dittatore senza scrupoli, oltretutto
responsabile della segreta eliminazione di un suo avversario scomodo, questi
avrebbe sicuramente risolto tutta la vicenda e tagliato ogni possibilità di futuri
ricatti ai suoi danni, fucilando i responsabili presi con le mani nel sacco e
facendo “suicidare” o “sparire” qualche altro personaggio divenuto scomodo.
In un sistema democratico, viceversa, quando dietro certi crimini ci sono i
cosiddetti “poteri forti” e ambienti intoccabili, la cosa viene risolta attraverso la
mano dei “Servizi”, i depistaggi, gli inquinamenti, i “suicidi” e gli assassini del
caso, fino a rendere imperscrutabile ed ingarbugliata la vicenda e impedire che
si potesse arrivare ai mandanti (e spesso ai diretti esecutori), come i casi
dell'assassinio di Kennedy in America e la strage di piazza Fontana, Italicus,
Mattei, Moro, Sindona, Calvi, ecc., in Italia insegnano.
Seconda considerazione: Mussolini non era quel genere di dittatore
sanguinario ed inoltre nell'Italia del 1924, egli non deteneva nelle mani una fetta
di potere tale da assicurargli la più ampia libertà di intervento.
Anzi le stesse forze che avevano avuto interesse ad eliminare Matteotti e
preventivato la sua caduta dal governo, avevano tali e tanti agganci di potere,
anche a livello internazionale, per i quali diventava oltremodo difficile se non
impossibile poterli colpire esemplarmente. Senza considerare poi che il Regime,
ovvero la dittatura che prese piede dopo il delitto Matteotti fu un palese
compromesso tra quelle che erano le rimanenti valenze rivoluzionarie del
fascismo e gli ambienti di potere e conservatori di sempre. Non per niente tutto
il cosiddetto “ventennio”, che andando dal 1925 al 1943 possiamo anche
definirlo un “diciottennio”, fu all’insegna della “diarchia”, Fascismo –
Monarchia, ma a veder bene nelle pieghe della storia, la vera diarchia che
contava fu più che altro tra ambienti massonici, in particolare nell’esercito,
seppur momentaneamente posti in sonno, e la Chiesa.
Al tempo del delitto, Mussolini, una volta venutone a conoscenza, si era limitato
a non muovere un dito per coprire i responsabili esecutivi del crimine (con tutti
i limiti ovviamente di una strategia che mirava a proteggere la saldezza del
governo), quindi pretese che facessero le valige dai loro posti di potere, quelli
“chiacchierati” o del contorno equivoco attorno al suo governo.
Oltretutto bisogna anche dire che Mussolini si trovò, in parte, le mani legate,
perché egli sapeva che il fratello Arnaldo era facile a farsi coinvolgere, seppure
in buona fede, in situazioni che potevano prestarsi a sospetti ed inoltre dovendo
curare i finanziamenti per il suo giornale, poteva generare equivoci.
Ma Mussolini aveva anche usufruito di servigi da parte di quelli che poi
qualcuno aveva utilizzato come assassini di Matteotti, ovvero i Dumini e la Ceka.
189
Fu così che costoro, un po’ per ricatto, un po’ perché era meglio per tutti non
perseguirli, uscirono quasi subito di galera e poi si diedero ad affari spesso
neppure limpidi, all’ombra stessa del regime.
Alla fin fine, comunque, superate sia pure a fatica e non senza grossi rischi e
traumi personali che rasentarono il tracollo dell’uomo e del governo, le
conseguenze del delitto Matteotti, a Mussolini tutto lo sconquasso gli tornò
opportuno per riappropriarsi, con il tempo, delle sue facoltà decisionali tese ad
imporre alla politica economica quel carattere dirigista del governo che lui
trovava etico ed essenziale.
Tutto questo però all’insegna del compromesso, come accennato sopra parlando
della configurazione che ebbe il regime del “ventennio” e quindi senza
attaccare le grosse lobbies finanziarie ed evitando di scatenare una guerra
contro la Commerciale, la Standard Oil di Rockefeller e le compagnie petrolifere
inglesi, perché l'avrebbe sicuramente perduta. Mussolini non potè quindi
rimuovere i grossi ambienti finanziari e industriali che stavano dietro a tutto
l'Affaire e che, rimasti ai loro posti, per il “ventennio” successivo continuarono a
condizionare l'operato di Mussolini e a frenarne le riforme sociali.
Anche verso gli inglesi Mussolini capì bene cosa c’era dietro, ma le implicazioni
erano tante che dovette far finta di niente.
Eppure come nota Fabio Andriola: «provvide a far sapere a chi di dovere che
aveva capito da chi era arrivato il colpo quasi mortale. Poche settimane dopo,
un articolo sotto pseudonimo pubblicato dal suo quotidiano ‘Il Popolo d’Italia’
conteneva una frase apparentemente misteriosa che, letta oggi alla luce di
quanto detto, assume forse un rilievo diverso e più netto: “Non mi
meraviglierei – scriveva un certo “Spettatore” – che dovesse risultare domani
come la mano stessa che forniva a Londra all’on. Matteotti i documenti
mortali, contemporaneamente armasse i sicari che sul Matteotti dovevano
56
compiere il delitto scellerato”».
Mussolini optò quindi per instradare, tramite Roberto Farinacci, il processo di
Chieti in un certo modo (delitto preterintenzionale, nel clima degli scontri con
gli antifascisti, ma senza troppa verve e violenze come voleva Farinacci), il solo
che avrebbe salvaguardato la saldezza del regime, anche se avrebbe comportato
miti condanne per gli esecutori e l’insabbiamento della verità.
Questo spiega, in un certo senso, tutto quello che avvenne nei mesi successivi al
delitto, con imputati che se la cavarono a buon mercato (Dumini e i componenti
della Ceka), se addirittura non vennero assolti, altri personaggi in qualche modo
implicati o sfiorati dalla vicenda che presero il volo verso l’estero (Carlo Bazzi,
Cesare Rossi, Massimo Rocca, Arturo Benedetto Fasciolo, Filippo Filippelli,
Pippo Naldi, Max Bondi, ecc.) dove diedero sfoggio di una loro nuova
dimensione antifascista, ed altri ancora che tra un ricatto, una minaccia e una
promessa, se ne rimasero tranquilli in disparte (Finzi), se addirittura non
ripresero i loro posti di potere (Emilio De Bono, Giovanni Marinelli).
Con il discorso del 3 gennaio 1925 il Duce si prese idealmente tutte le colpe
degli altri, che ebbero così la certezza di rimanere indisturbati, precludendosi in
190
tal modo la possibilità di dover toccare i vertici dell'Alta Banca ai quali non era
in grado di lanciare la sfida.
Il risultato minimo che conseguì fu, come detto, la necessaria epurazione nelle
fila del PNF e del Viminale, a cominciare dai vari Cesare Rossi, Aldo Finzi,
Amerigo Dumini (questi messo per un po’ in galera) e relative conventicole e
accoliti e l'aver successivamente strappato dalle mani dei fratelli Albertini il
Corriere della Sera, legato ad interessi industriali e interferenze massoniche.
Anche il ministro Orso Mario Corbino venne liquidato.
Nell'estate del 1924, Mussolini aveva provocatoriamente mandato a far sapere a
Toeplitz, l'onnipotente padrone della Commerciale, che gli sarebbero state
“gradite” le sue dimissioni, al che, il banchiere rispose, con evidente spirito
ricattatorio e forte degli appoggi di cui godeva:
“ Va bene..., sono pronto ad andarmene. Purché riesca a realizzare
in 24 ore cinque miliardi di Buoni del Tesoro “.
Si constata quindi, da parte del Duce, un comportamento riduttivo rispetto alla
punizione dei colpevoli (del resto lui stesso non era esente da colpe per il
precedente uso della Ceka) visto che non venne richiesto almeno l'ergastolo per i
responsabili del delitto, nè si fece piena luce sui veri mandanti dello stesso.
L’uscita, non a caso, di Filippo Filippelli dal processo di Chieti, significò
precludersi, attraverso il suo sodale Pippo Naldi, di arrivare ai grossi vertici
industriali e finanziari che stavano dietro al delitto.
Durante la RSI, nel febbraio 1945, Nicola Bombacci spiegò perchè il Naldi restò
intoccabile: disse che Mussolini non poteva chiedere l’incriminazione del Naldi
senza smascherare al contempo anche le responsabilità dei massimi mandanti e
dei complici “morali” annidati nell’Alta Banca e nella grande Industria.
Ma questo voleva dire trascinare sul banco degli imputati il fior fiore
dell’Industria e della Finanza nazionale. Prendere di petto uomini potenti che
era chiaro volevano la fine del fascismo e del governo di Mussolini, alcuni
avevano anche avevano brigato a latere del tentativo di soppressione del Duce
del giugno 1924. Rodolfo Putignani nel suo citato “Processo alla Storia”,
tratteggia qualche nome che si sarebbe dovuto coinvolgere nel repulisti:
Senatori del Regno come Luigi Albertini direttore del Corriere della Sera, e
Carlo Sforza “cugino”, cioè “Collare dell’Annunziata” del Re; Alberto Bergamini,
già direttore del Giornale d’Italia, grado 33° della massoneria di Palazzo
Giustiniani e Alfredo Frassati, direttore de La Stampa; Giuseppe Donati
direttore de Il Popolo, del Partito Popolare, cattolico e considerato massone.
Quindi Filippo Naldi, da anni uomo dei poteri forti, faccendiere navigato tra il
mondo massonico, quello industriale e quello finanziario;
Max Bondi, finanziere e speculatore di borsa, grado 33° della massoneria di
Palazzo Giustiniani, che proprio nei giorni successivi al delitto Matteotti, mise in
atto una grossa speculazione al ribasso in borsa;
Giuseppe Toeplitz amministratore delegato della Banca Commerciale, uomo di
spessore internazionale, socio d’onore della ebraica potentissima Loggia
americana B’nai B’rit;
191
Giovanni Agnelli, presidente della Fiat e senatore del regno; Ettore Conti,
dirigente nazionale della Confindustria; Arturo Bocciardo presidente dell’Ilva;
Giacinto Motta amministratore delegato della Edison; Emilio Bruzzone
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portavoce dell’industria saccarifera, gli armatori genovesi, e tanti altri ancora.
Senza contare Casa Savoia e i suoi scheletri nell’armadio che si paravano dietro
il fascismo e lo appoggiavano per convenienza.
Tutto questo è consequenziale a quanto precedentemente affermato:
scoperchiando la pentola del delitto Matteotti ne sarebbe seguita la necessità di
scontrarsi, con esito prevedibilmente negativo, con certi poteri, determinando
come minimo la chiusura di ogni rubinetto finanziario per il governo e la sua
inevitabile caduta. In pratica Mussolini, per il pur giusto amore della verità,
avrebbe pregiudicato la rinascita del paese, provocato uno sconquasso dalle
imprevedibili conseguenze e senza neppure essere sicuro che queste “forze”
potessero essere sconfitte, anzi tutt’altro.
Certo Mussolini poteva contare sulla neo costituita Milizia, e su
alcune centinaia di migliaia di fascisti, un seguito che, oltre alla
paura di un salto nel buio per il paese, fu l’unico deterrente che non
consentì di defenestrarlo facilmente, ma il rapporto di forza con un
esercito fedele al Re e tutte le altri componenti determinanti in una
nazione, restava sempre svantaggioso per il fascismo.
Mussolini dopo il discorso del 3 gennaio 1925, sia pure a caro prezzo aveva, di
fatto, vinto la partita, ma per esigenze nazionali e possibilità di sopravvivenza,
non volle, nè potè stravincere e come era nella sua indole lasciava agli “sconfitti”
una via di fuga purchè si togliessero di torno.
Quelle componenti borghesi, con l'Alta Finanza e la Grande Industria in testa,
che gioco forza rimasero indenni al loro posto, pur dovendo incassare la
momentanea sconfitta, Mussolini, obtorto collo, se le dovette portare appresso,
e cercò di utilizzarle negli interessi del paese, mentre al contempo queste stesse
componenti cercarono di trarre dal fascismo ogni vantaggio che gli potesse
derivare dalla pace sociale che questi assicurava e da una politica economica
nazionale espansiva sui mercati esteri. Ovviamente fin quando gli conveniva ed
infatti la guerra del '40 fece venire tutti i nodi al pettine e tutti costoro buttarono
a mare il fascismo e tradirono persino la nazione in guerra.
Il Duce solo con la RSI, con le componenti reazionarie (Capitalismo,
Massoneria, Vaticano e Casa Savoia) in quel momento e per la prima volta nella
storia d’Italia fuorigioco, potrà avere la possibilità che non si lasciò sfuggire, non
solo di edificare la società socialista, ma anche di fare quello che non potette
fare nel 1925, ovvero di intraprendere una indagine profonda e definitiva su
quel torbido delitto, cosa che pur tra le pieghe delle guerra, fece fare a Nicola
Bombacci e al suo segretario Gatti.
Ma come sappiamo i risultati di quella inchiesta vennero fatti opportunamente
sparire e quindi si estinsero con la vita stessa di Mussolini.
Anche Bombacci e Gatti, fucilati a Dongo senza giustificazioni per una condanna
a morte, portarono nella tomba il loro segreto.
192
Fatta eccezione per Mussolini che sarebbe stato ammazzato in ogni caso, più di
uno ha visto in quelle fucilazioni, in particolare di Bombacci e Gatti, l'ordine
proveniente da “qualche parte”, di tacitare quanti “sapevano” certe verità
(Bombacci era al corrente di accordi segreti con i sovietici durante il ventennio e
non solo commerciali, per esempio, ci si chieda perchè in Italia non ci furono
attentati da parte delle tante cellule comuniste, ma solo di marca massonica;
certe trattative per arrivare ad un armistizio con i sovietici nel 1943, ecc.).
Come si vede, per comprendere bene il comportamento e l’operato di Mussolini
che altrimenti si potrebbe prestare ad equivoci, bisogna conoscere e analizzare
l’uomo e la sua politica che spesso, quando costrettovi dalle circostanze è di stampo
pragmatico e accantona gli aspetti ideologici.
Per esempio: si ritiene forse che Mussolini non sapesse che Alberto Beneduce o
il suo ministro preferito Carlo Alberto Biggini fossero massoni e Pietro Badoglio
un massone e per giunta responsabile, in parte di Caporetto?
Che non sapesse che i membri del Gran Consiglio del fascismo quel 25 luglio ‘43
lo volevano silurare e conosceva persino il famigerato O.d.G. di Grandi?
Certo che lo sapeva, eppure a Beneduce aveva affidato la riforma dell’IRI, e a
Biggini la ricostruzione storica degli eventi che ci portarono in guerra, con tanto
di documenti segreti del suo Carteggio con Churchill (anche questi spariti!).
Il fatto è, come disse Bruno Spampanato, che Mussolini quando trovava un
bravo tecnico, un uomo di ingegno, non badava ad altro e se lo accaparrava
nell’interesse nazionale, confidando che lui teneva sotto controllo la situazione
ricompensando e motivando il soggetto facendo leva sulle sue caratteristiche.
Per Badoglio, invece, errando nel ritenerlo in Italia il massimo competente in
armi e strategie belliche (e non lo era), sperava che questi gli potesse fornire un
ottimo assetto alle FF.AA., contando sul fatto che, essendo il Badoglio, un avido
e un venale, lasciandolo arricchire lo avrebbe potuto avere al suo fianco.
Sul 25 luglio il discorso è più complesso, ma la sua analisi mostra anche qui
chiaramente il modus operanti di Mussolini. Per questo rinviamo al nostro
58
articolo su Rinascita dell’8 Ottobre 2009.
Orbene, tornando al delitto Matteotti, conoscere queste attitudini di Mussolini
aiuta a spiegare il suo comportamento verso Dumini, oppure comprendere un
altra questione che altrimenti farebbe sospettare responsabilità di Mussolini.
Per esempio, è possibile che Mussolini non abbia mai fatto chiedere ad Amerigo
Dumini, chi lo aveva incaricato del rapimento Matteotti?
E quindi perché poi, il Duce recuperò Marinelli e gli fece anche fare carriera e se
lo portò dietro fino al suo tradimento del 25 luglio?
Se lo ha fatto, e potrebbe anche darsi di no, forse è perché riteneva che la
vicenda di Rossi e Finzi, scaricati, poteva bastare, che Marinelli e la Ceka,
erano anche figli di un certo contesto, in cui c’erano molte sue
responsabilità, che arrivare ai veri responsabili del delitto, nascosti
dietro i poteri forti, non era facile e neppure opportuno, che oramai
il regime fascista era fuori dalle conseguenze del delitto Matteotti e
quindi era meglio non toccare più quell’argomento. Amen.
193
VERSO LA DITTATURA
Non guasta dare, a questo punto, altri sintetici cenni per quanto riguarda
gli eventi successivi al delitto Matteotti, che avrebbero potuto concludersi, con
la caduta del governo di Mussolini e la distruzione del fascismo o invece, come
poi avvenne, con la dittatura gradualmente imposta dal capo del governo.
Un anticipo di quello che sarebbe successo di lì a qualche mese, lo si ebbe a
luglio del 1924, quando su proposta di Mussolini passò un decreto avente lo
scopo di infrenare gli eccessi della stampa di opposizione e le esuberanze
polemiche dei fascisti. In pratica un mezzo bavaglio alla stampa.
Sempre a luglio, quando oramai si conosceva quale sarebbe stata la linea
difensiva di Cesare Rossi, di cui si sapeva anche che il suo Memoriale era oramai
nelle mani delle opposizioni, Mussolini, messo con le spalle al muro, fu costretto
a scegliere l'unica linea difensiva che gli avrebbe consentito di superare la crisi e
quindi, anche se non molto convinto, raggiunse un accordo con Farinacci
(l'anima del fascismo estremista che in qualche modo aumentò la sua influenza
dopo il caso Matteotti), su come affrontare la conduzione e gli sviluppi
processuali del caso Matteotti.
[Farinacci prenderà la segreteria del PNF dal 15 febbraio 1925 e la tenne fino al
30 marzo 1926 pochi giorni dopo la conclusione del processo di Chieti].
In pratica: si sarebbe riaffermato che sia il fascismo che Mussolini erano
estranei al delitto Matteotti, delitto che veniva condannato senza riserve e sul
quale ci si impegnava a fare luce, ma al contempo si sarebbe impedito alle
opposizioni aventiniane di fare, attraverso questo processo, il processo al regime
e al fascismo, anzi si accettava la sfida e si sarebbe fatto il processo al partito di
Matteotti e ai “quattro gaglioffi che si sono impadroniti di un morto”.
Tanto per cominciare, Farinacci avrebbe assunto la difesa di Amerigo Dumini.
Il primo agosto, viceversa, Mussolini aveva compiuto un atto distensivo teso
chiaramente a tranquillizzare la monarchia.
Venne infatti approvato dal Consiglio dei Ministri un nuovo ordinamento per la
milizia, con il quale la MVSN diventava parte integrante delle Forze Armate e
quindi obbligata al giuramento al Re.
Poco dopo, il 7 agosto ’24 Mussolini enunciò ai dirigenti fascisti, ma non
attraverso la stampa, un suo piano politico per evitare l'isolamento del fascismo.
In sostanza, dopo aver preso alcune decise posizioni politiche, il Duce rassicurò i
suoi uomini che se lo avessero seguito e ubbidito li avrebbe difesi fino all'ultimo,
e se le cose fossero precipitate e non ci fosse stata altra via, egli non si sarebbe
sottratto dall'estremo rimedio dell'insurrezione.
Ora però chiedeva che gli lasciassero condurre la battaglia sul piano politico e
tattico come voleva lui, cioè con piglio intransigente, ma scartando la cosiddetta
violenta "seconda ondata" farinacciana. ''Non disturbare il nocchiero " titolò un
suo articolo sul Popolo d'Italia del 16 agosto.
La situazione sembrò leggermente migliorare per Mussolini, ma era sempre in
equilibrio instabile.
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Il delitto Casalini. Il 12 settembre del ‘24 accadde però che un esaltato sparò
a Roma al deputato Armando Casailini esponente delle Corporazioni sindacali,
uccidendolo.
Casalini era un forlivese del 1883 di idee mazziniane e socialiste e su queste basi
aveva fondato nel 1922 l’Unione mazziniana filo mussoliniana. Era conosciuto
come un mite ed onesto deputato eletto nel famoso "listone". Forte, spontanea,
esasperata e immediata fu la reazione dei fascisti.
Mentre il Popolo d'Italia di Mussolini, preoccupato che le violenze incontrollate
potessero far degenerare la situazione politica, ordinava ai fascisti "la massima
disciplina e nessuna violenza”, Farinacci dalle colonne del suo Cremona Nuova
sparava a zero contro l'opposizione e minacciava il ricorso alle mitragliatrici.
E' sintomatico, per valutare la posizione di Mussolini decisamente in ribasso,
che in quel frangente, la voce che venne più ascoltata fu quella di Farinacci e di
altri estremisti e quindi violenze e devastazioni, avvennero un pò dappertutto.
Oltre alle opposizioni, soprattutto le Logge massoniche furono prese di mira, in
particolare quelle di Palazzo Giustiniani, ma anche alcune di quelle, meno ostili,
di piazza del Gesù di Raul Palermi.
Mussolini intraprese un lungo viaggio, con discorsi in molte località, nel
tentativo di placare le acque, ma non ottenne grandi risultati perché la
situazione emotiva era oramai incontrollabile.
E' ovvio che anche conseguentemente a tutto questo la situazione politica ben
presto degenerò in senso sfavorevole a Mussolini, anche perché il mondo della
grande Industria che aveva accettato, obtorto collo, di astenersi da attacchi
diretti al governo di Mussolini, visto che questi bene o male continuava a
garantire l'ordine e la pace sociale, cominciò a dare evidenti segni di
insoddisfazione e preoccupazione.
Il 12 novembre, in un clima di grande incertezza si riaprirono le Camere, che
rividero la presenza dei comunisti e la perdurante assenza degli "aventiniani" (i
parlamentari delle opposizioni usciti simbolicamente dal parlamento),
nonostante gli sforzi di Don Sturzo (oramai in procinto di trasferirsi in America)
e di Giolitti, che volevano far riprendere alle opposizioni l'attività parlamentare.
[Giolitti ebbe a dire ironicamente: «A Mussolini capitano tutte le fortune!
quando ero io al governo mi davano continuamente battaglia in Parlamento,
ora che c'è lui, addirittura abbandonano l'aula!»
Nelle settimane successive però si fece netta la sensazione che la maggioranza di
governo era in via di sfaldamento.
Ma "l'Aventino" non seppe approfittare della nuova situazione, nonostante
venisse sollecitato ad agire politicamente da Giolitti.
Impantanato com'era nella sua opposizione sterile, aveva oramai deciso di fare
più che altro politica, salvando la sua unità, puntando alla "questione morale",
usando senza ritegno ogni "sensazionale rivelazione" gli venisse in mano, come
il memoriale di Rossi ed una denuncia contro De Bono additato quale
corresponsabile nel delitto Matteotti anche per aver insabbiato successive
indagini.
195
Per la cronaca, i leader delle opposizioni, attraverso Ivanoe Bonomi, portarono
questi documenti al Re, il quale li accolse, ringraziò e non fece niente, fermo
come era nella sua decisione di non agire al di fuori del parlamento.
[E qui bisognerebbe indagare sui panni sporchi del Re rispetto a suoi
“favori” verso la Sinclair e/o la Standard Oil. Qualcuno lo ha ventilato,
ma nessuno lo ha approfondito]
Giuseppe Donati, dunque, il 6 dicembre 1924 presentò la denuncia contro il
generale e senatore Emilio De Bono, fatto questo che fece avocare gli atti
istruttori all'Alta Corte del Senato, che li trattenne per circa cinque mesi.
Al senato, il 3 dicembre, parlarono contro la politica del governo Albertini e
Lusignoli, ma più significativo fu il discorso di Ettore Conti a nome del mondo
industriale, il quale diede la sensazione che questo mondo stava per dare a
Mussolini il benservito.
Il 27 dicembre Il Mondo pubblicò i primi estratti del memoriale di Cesare Rossi,
e Mussolini, intelligentemente, non volle assolutamente impedire questa
pubblicazione. Nonostante questo famoso memoriale non contenesse
circostanziate accuse che provavano un ordine omicida di Mussolini in merito
al delitto Matteotti, ma più che altro una responsabilità morale, la sua
pubblicazione provocò una gran sensazione nell'opinione pubblica.
Mussolini sembrava oramai con le spalle al muro, ma per sua
fortuna il Re e l'Esercito, che come sottolineò Renzo De Felice, ben
volentieri se ne sarebbero liberati, avendo paura di fare un salto nel
buio non sapevano cosa fare e quindi niente fecero.
La situazione comunque si fece matura per una soluzione in un senso o
nell'altro. Fu così che a Mussolini non restò che giocare le carte più rischiose.
In pratica egli, approfittando delle incertezze della Corona, pensò di forzare la
situazione e di ottenere dal Re il consenso parlamentare per applicare tutti gli
strumenti di legge eccezionali e repressivi a disposizione del governo.
In tal modo avrebbe risolto la situazione una volta per tutte, anche a costo di
perdere nella sua maggioranza qualche esponente moderato.
Egli quindi provò a chiedere al Re un decreto in bianco di scioglimento della
Camera che poi avrebbe sciolto al momento opportuno indicendo nuove
elezioni, mostrando così a tutti che, di fatto, il Re era dalla sua parte.
Con una nuova legge elettore uninominale, da far approvare, si sarebbe quindi
liberato degli aventiniani, ma avrebbe anche emarginato i fascisti intransigenti,
rimanendo padrone del campo.
Una scelta di forza, una tattica ed una strategia "rivoluzionaria", ma di stampo
tipicamente politico, come era nel carattere di Mussolini.
Nei giorni seguenti però il Re non accettò di firmare questo decreto
in bianco, ma si impegnò con Mussolini che se egli avesse fatto
approvare la nuova legge elettorale e dopo lo svolgimento del
processo per il delitto Matteotti, gli avrebbe consentito di sciogliere
la Camera.
196
Dopo che l’ultimo dell’anno Mussolini ebbe il famoso “colloquio infuocato”, con
i comandanti della Milizia, come sappiamo il 3 gennaio 1925 egli, sicuro che
comunque il Re non lo avrebbe ostacolato, giocò il tutto per tutto, prendendosi
ogni responsabilità "politica, morale e storica" rispetto a tutto quello che era
accaduto coprendo così, di fatto, ogni eventuale situazione o ambiente
"intoccabile".
Quindi con un discorso breve ma durissimo, senza mezzi termini pose tutti di
fronte ad un fatto compiuto e ad una scelta forzata, preannunciando la
irremovibile decisione di applicare provvedimenti di natura eccezionale e
risolvere così, una volta per tutte, la situazione.
Iniziava il regime fascista.
Stralci del discorso del 3 gennaio.
« Signori!
Il discorso che sto per pronunziare dinanzi a voi forse non potrà essere, a rigor
di termini, classificato come un discorso parlamentare.
Il mio discorso sarà quindi chiarissimo e tale da determinare una chiarificazione
assoluta. Voi intendete che dopo aver lungamente camminato insieme con dei
compagni di viaggio, ai quali del resto andrebbe sempre la nostra gratitudine per
quello che hanno fatto, è necessaria una sosta per vedere se la stessa strada
con gli stessi compagni può essere ancora percorsa nell'avvenire.
Sono io, o signori, che levo in quest'Aula l'accusa contro me stesso. Si è detto
che io avrei fondato una Ceka. Dove? Quando? In qual modo? Nessuno
potrebbe dirlo! Veramente c'è stata una Ceka in Russia, che ha giustiziato senza
processo, dalle centocinquanta alle centosessantamila persone, secondo
statistiche quasi ufficiali. C'è stata una Ceka in Russia, che ha esercitato il
terrore sistematicamente su tutta la classe borghese e sui membri singoli della
borghesia. Una Ceka, che diceva di essere la rossa spada della rivoluzione (…)
Se io avessi fondato una Ceka, l'avrei fondata seguendo i criteri che ho sempre
posto a presidio di quella violenza che non può essere espulsa dalla storia. Ho
sempre detto, e qui lo ricordano quelli che mi hanno seguito in questi cinque
anni di dura battaglia, che la violenza, per essere risolutiva, deve essere
chirurgica, intelligente, cavalleresca. Ora i gesti di questa sedicente Ceka sono
stati sempre inintelligenti, incomposti, stupidi. Ma potete proprio pensare che nel
giorno successivo a quello del Santo Natale, giorno nel quale tutti gli spiriti sono
portati alle immagini pietose e buone, io potessi ordinare un'aggressione alle l0
del mattino in via Francesco Crispi, a Roma, dopo il mio discorso di
Monterotondo, che è stato forse il discorso più pacificatore che io abbia
pronunziato in due anni di Governo?
Risparmiatemi di pensarmi così cretino. (…)
Ebbene, dichiaro qui, al cospetto di questa Assemblea e al cospetto di tutto il
popolo italiano, che io assumo, io solo, la responsabilità politica, morale, storica
di tutto quanto è avvenuto. Se le frasi più o meno storpiate bastano per
impiccare un uomo, fuori il palo e fuori la corda! Se il fascismo non è stato che
olio di ricino e manganello, e non invece una passione superba della migliore
gioventù italiana, a me la colpa! Se il fascismo è stato un'associazione a
delinquere, io sono il capo di questa associazione a delinquere! Se tutte le
violenze sono state il risultato di un determinato clima storico, politico e morale,
ebbene a me la responsabilità di questo, perché questo clima storico, politico e
morale io l'ho creato con una propaganda che va dall'intervento ad oggi.
197
Conclusioni
Il
tempo trascorso e le sparizioni di
importanti documentazioni, in particolare quelle
raccolte da Bombacci e Gatti e forse chissà
anche alcune pagine del memoriale di Amerigo
Dumini occultate dagli inglesi e dagli americani,
non consentono oggi di accollare responsabilità
precise, di indicare senza errare i nomi dei
mandanti sconosciuti. I processi di Chieti e di
Roma, per evidenti motivi, servono a poco.
Mettendo insieme le documentazioni disponibili, le testimonianze più
attendibili e analizzando fatti e circostanze, possiamo comunque
ricostruire il quadro di questa brutta storia e intuire e forse qualcosa
di più, le varie responsabilità. Vediamo.
Il contesto storico - politico dell’epoca
Prima di tirare le conclusioni di questo sporco affare bisogna fare
una premessa fondamentale che consiste nell’inquadrare la figura di
Mussolini e le sue intenzioni su cosa si prefiggeva con la conquista
del potere. Di fatto vi sono due posizioni opposte, che non sono
corrette e non inquadrano bene il personaggio e il contesto storico.
Da una parte infatti abbiamo coloro, come lo storico Canali, che
considerano Mussolini un mezzo gangster che messe le mani sul
potere lo usa a suo uso e consumo e per chi lo ha sostenuto e
sviluppa quindi un sistema di tangenti e malversazioni. Matteotti ne
metterebbe in pericolo la sopravvivenza e quindi non ci pensa due
volte a farlo sopprimere.
Dall’altra quelli che considerano Mussolini un anima candida, ignaro
di tutto e ingannato dagli stessi uomini che lui ha portato a certi posti
di potere e che ora stanno usando questo potere per interessi
personali. E sono costoro che, sentendosi minacciati dalle possibili
denunce di Matteotti e dai cambiamenti politici che il Duce
intenderebbe fare prendono la decisione di sopprimere Matteotti e far
cadere il governo.
Le cose in realtà sono molto più complesse e stanno in modo
alquanto diverso ed è per questo che
i seguaci di una
interpretazione o dell’altra, si trovano poi alle prese con
contraddizioni ed elementi che ne mettono in dubbio la ricostruzione
di quelle vicende.
In realtà Mussolini in quei suoi primi anni di governo, conscio di
avere un potere effimero per le mani, raggiunto anche attraverso
accordi e compromessi con poteri che non gli piacciono; di dover
198
“ripagare” quegli interessi che lo hanno aiutato nella sua ascesa al
governo, “forze” che potrebbero anche farlo crollare e lui non
potrebbe opporsi con serie possibilità di successo, si barcamena,
accondiscende a che molti intrallazzino e si impinguino, anzi tutto
questo gli fa gioco, ma intervenendo a volte al momento opportuno
per avocare a sè decisioni importanti, suscita inevitabili reazioni.
Egli vorrebbe governare nell’interesse della nazione, avendo in
mente certi progetti, ma è seduto ad un grande e pericoloso tavolo
da gioco, con comprimari, amici e nemici, e almeno per quanto
riguarda la vicenda Matteotti, ne rimarrà invischiato e scottato.
Non può fare diversamente, non ha uomini all’altezza e un vero
partito rivoluzionario per le mani con cui giocare il tutto e per tutto,
mentre di fronte ci sono la Monarchia, l’Esercito, la Polizia, la Chiesa,
la Massoneria, gli Agrari, gli Industriali e la finanza con le Banche,
tutti poteri enormemente più forti, in mezzo ai quali può sopravvivere
solo dividendoli, stringendo accordi e alleanze, promettendo e
sfruttando la necessità comune di avere un governo forte che rimetta
in sesto la nazione, sconquassata dalla guerra e dal disordine.
Quale governo, post risorgimentale, fino ad allora, non ha
sopravvissuto anche attraverso giochi sporchi, traffici di ogni genere,
tangenti e altro che appagano determinati interessi che sono stati
coinvolti nel potere? Chi più e chi meno tutti, compresa Casa Savoia.
Tutto questo è nella natura stessa del “potere” che al tempo, quale
lascito risorgimentale, sostanzialmente si configurava nell’equilibrio o
nella contrapposizione di una triarchia: la Chiesa, la finanza
massonica e il rampante capitalismo. Senza dimenticare gli interessi
internazionali che pesano sul nostro paese, soprattutto da parte
britannica: controllare l’Italia, quale portaerei naturale nel
mediterraneo e punto strategico sulle rotte petrolifere.
Al contempo la Finanza, sviluppatasi con il risorgimento massonico,
si può dire che gestiva buona parte della nostra economia.
In questa situazione Mussolini, che è e resta un rivoluzionari, sia
pure di genere “politico”, qualunque siano i suoi futuri intenti e
programmi ha per il momento una necessità prioritaria: sopravvivere
in sella al potere, da poco conquistato, cercando di allargarlo e
consolidarlo. Programmi e progetti di grande respiro e che possono
toccare determinati interessi creando reazioni contrarie, avverranno
con il tempo, con la possibilità di utilizzare il potere a questi fini.
E a questi fini egli usa le armi in cui è maestro: quelle della politica
supportate, all’occorrenza da un minimo di violenza, come all’epoca
era uso fare. Alieno al denaro e disgustato dal malaffare per
accaparrarlo, se il caso e se necessario, non ci pensa due volte a far
“rimpinzare” chi di dovere, se questo può tornare utile alla sua
politica e agli interessi nazionali.
199
Volete quindi che Mussolini non sappia che certi uomini e certi
ambienti che lo hanno aiutato a prendere il potere e a cui ha fatto
promesse, ora vorrebbero intascare i frutti del loro appoggio?
Ma certo che lo sa, anzi molti uomini li ha piazzati proprio lui in
determinati gangli del poter, sia perché gli sono utili e sia perché li
deve in qualche modo ricompensare.
Che non sappia che il suo partito, il suo giornale fanno fronte a
necessità economiche come si è sempre fatto ovvero procacciandosi
finanziamenti (da non confondere con arricchimenti personali)?
Sono sistemi che non gli piacciono affatto, che ha in prospettiva di
eliminare questo andazzo, ma conoscete forse rivoluzionari che fino
a quando il potere non gli consente di mettere in piedi situazioni
diverse, risolvono il problema di reperire mezzi economici,
diversamente dall’esproprio o dal farsi finanziare da chi ha paura o
ha interesse a farlo?
Siamo realisti: tutto questo è nella natura umana, nelle leggi storiche
del potere e tutto questo è anche il contesto del tempo, ma non
bisogna neppure esagerarlo, perché, anzi, Mussolini, mostra sempre
di avere un occhio per gli interessi della nazione, del resto vero fine
del suo potere, e spesso interviene o si mette di traverso stroncando
o frenando certi appetiti. Non a caso va in rotta di collisione con gli
ambienti della onnipotente Commerciale. E se si arriva al delitto
Matteotti è proprio perché Mussolini è su un altro piano rispetto a chi
sta usando il potere solo per i suoi interessi.
Ecco perché, quando scoppierà il caso Matteotti, lui che in definitiva
ne é fuori (ma a chi vede dall’esterno, considerando l’uso della Ceka,
il giro delle tangenti, può dare la sensazione di essere invischiato nel
delitto), reagisce nell’unico modo possibile: sbatte fuori molti suoi
stretti collaboratori, Rossi e Finzi in primis, misconosce e scarica
Dumini e la sua banda, si pone contro i vari Filippelli, Naldi, ecc. che
pur avevano trafficato con i suoi uomini, tutta gente che per
ingordigia si sono bruciati con le loro mani, i quali però restano
stupefatti e indignati ed ovviamente la prendono, molto male.
E non avendo scelta è costretto ad arrangiarsi, a mischiare le carte,
se il caso a mentire e dare disposizioni che possano salvare il
governo e il fascismo che gli sono costati anni di sacrifici e per i quali
ci sono stati non pochi morti.
Ed ecco perché una volta che è riuscito a sopravvivere al cataclisma
del delitto, sconfinando nella dittatura e liquidando quella sporca
storia con un processo a Chieti addomesticato, lascia che tutti coloro
che, colpevoli o innocenti, sono stati invischiati nel delitto e non sono
fuggiti all’estero, ponendoglisi platealmente contro, si trovino una loro
collocazione, come per esempio Finzi e gli stessi della banda
Dumini, ed anzi molti come De Bono, Marinelli, ecc. li recupera
nell’alveo del regime. E’ sempre stata questa la costante del suo
200
modus operandi: mettere una pietra sopra, badare al sodo e alle
necessità contingenti.
E non deve neppure stupire che in qualche modo concede
sussidi e agevolazioni agli uomini
della Ceka caduti in
disgrazia. Egli sà benissimo che quegli uomini un tempo gli
sono stati utili e fedeli, che le rivoluzioni necessitano di
fegatacci e che queste qualità spesso si accoppiano a tendenze
delinquenziali, ma del resto, le rivoluzioni non si possono fare
con i soli, pochi, idealisti e le educande.
Se costoro hanno ucciso Matteotti, se sono stati utilizzati da chi
poteva farlo, anche contro il suo governo, creandogli un
cataclisma, egli sa bene che sono pur sempre stati suoi uomini,
forse alcuni hanno anche creduto di agire per il fascismo e non
li può abbandonare del tutto, senza contare che potrebbero
rivelare particolari imbarazzanti per il fascismo.
Portiamoci ora ai momenti precedenti il delitto dove possiamo
constatare che in quella tarda primavera del 1924 molti nodi stavano
venendo al pettine, a cominciare dal governo di Mussolini e la sua
posizione di potere a cui vari ambienti conservatori e speculatori
avevano pur contribuito e finanziato per raggiungere.
Questi ambienti, con l’Alta Banca in testa che presiede a tutti i
processi industriali in atto, e branche speculatrici di capitalismo, si
sono annidati nelle pieghe del Partito fascista, della stessa
Presidenza del Consiglio e del Viminale. Mussolini che con la marcia
su Roma ha contratto una specie di cambiale con detti “poteri”, per
un po’ ha lasciato fare, ed era inevitabile, ma adesso, non solo non
onora quella cambiale consegnando a costoro lo Stato e tutta
l’economia, ma comincia a mettersi di traverso su alcune importanti
speculazioni. Ci vuole vedere chiaro, prende tempo, concede e poi
ritratta la condivisione per l’emanazione di leggi e concessioni
importanti: petrolio, bische, dazi doganali, residuati bellici,
“privatizzazioni” e quant’altro.
Interessi di vario genere vengono messi in pericolo o almeno in
forse, perché Mussolini, pur essendo un pragmatico e un realista,
sotto, sotto, mostra di privilegiare gli interessi nazionali, e la sua
ideologia, contrariamente a quanto aveva lasciato capire a certi
poteri forti, prima di andare al potere e per averne l’appoggio, è
socialista nel sociale e opposta a quella liberista nella considerazione
dello Stato e al contempo la sua prassi di governo è dirigista e non
da semplice mediatore e controllore.
Ma la cosa non è certo semplice perché l’Italia ha avuto un
Risorgimento di stampo massonico ed è infeudata di ambienti
anglofili e francofili, di logge massoniche e anche la Chiesa ha non
indifferenti interessi in ballo, scontrarsi con costoro può essere
esiziale.
201
Tutta la finanza nazionale, la nostra cultura (eccetto quella cattolica),
e l’editoria, sono nate da culla massonica, bilanciate dal potere e
dalla cultura della Chiesa e i governi post risorgimentali sono sempre
stati caratterizzati, da malversazioni, scandali finanziari, speculazioni
e via dicendo: Il regno delle tangenti e delle speculazioni, insomma.
Affari sporchi
Tra questi interessi emerge quello importantissimo del petrolio, che
coinvolge la posizione ambigua della filo britannica Casa Savoia,
lobby e conventicole che lucrano sulle tangenti che vengono pagate
(anche alle opposizioni!) per ottenere contratti, concessioni e sgravi
fiscali.
Coinvolge anche gli interessi britannici (Anglo Persian Oil Company),
quelli degli Stati Uniti (Standard Oil e Sinclair Oil) e in parte anche
quelli Sovietici (soprattutto dopo il riconoscimento da parte del
governo italiano dell’Urss), tutti paesi interessati a fonti petrolifere,
accordi commerciali di monopolio, di aree di raffinazione, ecc.
Difficile però seguire i veri interessi e le vere strategie delle
compagnie inglesi e quelle di Rockefeller, oltre a quelle minori (per
esempio Sinclair, che spesso giocano ruoli indefiniti), perché è un
campo soggetto ad accordi, guerre, contrasti, ricomposizioni e
acquisizioni azionarie, repentine e a getto continuo.
Comunque il governo italiano si muova, non può che favorire un
settore e danneggiare gli altri e in questa realtà c’è chi vorrebbe
operare, favorendo propri interessi, e chi invece non trascurare
quelli nazionali. Ma proprio su questo particolare aspetto economico,
Mussolini è alquanto digiuno di cognizioni e quindi va a tentoni,
laddove può facilmente compiere sbagli. Ad esempio rinvia il
progetto della creazione di un Ente petrolifero di Stato, proprio lui che
è un culture dello Stato, ma come dargli torto se il bilancio dello
Stato, non concede fondi per realizzare il progetto e seguenti
trivellazioni e se un economista come Einaudi gli consiglia sia più
remunerativo acquistare il petrolio dall’estero?
Anche il grosso affare delle “bische”, dove sono state pagate tangenti
per una Legge che autorizzi il gioco d’azzardo e predisponga la
possibilità di aprirne di nuove, con tutto l’indotto di alberghi, treni di
lusso ecc., non è cosa da poco e c’è chi si sente gravemente
danneggiato dall’impasse che questi provvedimenti stanno subendo.
Privatizzazioni già promesse, ingenti affari su residuati bellici, dazi
doganali, ed altro ancora, si trovano al centro di enormi interessi.
In un caso o nell’altro, troviamo sempre gli interessi dell’Alta Banca,
con la Commerciale di Toeplitz in testa, e la stessa Standard Oil
cointeressata in vari affari non solo petroliferi.
Ma occorre anche avvertire il lettore che nulla in questa vicenda
può essere dato per scontato, come invece hanno fatto, molti
202
storici: non è detto che l’elemento scatenante il delitto sia stato
proprio il petrolio, certamente il più indiziato, o non invece lo
furono le bische o entrambi questi due malaffare, o altro ancora.
ll progetto dei socialisti al governo
In questa situazione, così delicata, così contraddittoria, con tutti
questi interessi in ballo, Mussolini deve muoversi con i piedi di
piombo e non ha alcuna intenzione di sfasciare il partito (già stretto
dai Ras che vorrebbero spadroneggiare e i “revisionisti” che con la
scusa della “normalizzazione” lo vorrebbero “liberalizzare” per
sottometterlo ai poteri forti), e mettere a rischio il governo, ma ha
però accarezzato anche un suo vecchio progetto, ora in un certo
senso obbligato, quello di portare al governo i popolari (interessando
il Vaticano) e i socialisti moderati con i Confederali che controllano i
settori sindacali.
E’ l’unico modo per rafforzare la sua posizione e per coinvolgere nel
difficile progetto di riforme e crescita nazionale, di un paese
estremamente arretrato, tutte le componenti popolari.
Questo progetto, prematuro e già fallito dopo la marcia su Roma, sta
ora, nel 1924, riprendendo corpo e vari sondaggi e contatti sotto
banco sono in essere. A questo proposito, Matteotti che si pone
come un irriducibile antifascista, non è poi un problema
insormontabile, in quanto con il moderato successo che il suo PSU
ha ottenuto alle elezioni di aprile, ci sono ora tutte le condizioni
oggettive perché, da una posizione di prestigio, lui che in definitiva è
un riformista e un anticomunista, possa alla fin fine dare il consenso
ad una partecipazione dei socialisti al governo.
Ovviamente un governo forte, aperto a sinistra, sia pure moderata,
vede l’ostilità della massoneria, minacciata anche da intese del
governo con il Vaticano, di cui già si hanno i primi sentori, e
danneggiata in tutti quei settori speculativi che controlla. Anche il
fatto che precedentemente Mussolini aveva fatto approvare dal Gran
Consiglio del fascismo l’incompatibilità tra fascismo e massoneria,
una enunciazione sia pure più che altro teorica, non era stato per i
massoni un buon segnale
La massoneria italiana, era al tempo divisa in due obbedienze, quella
di Palazzo Giustiniani, decisamente avversa al fascismo, e quella di
Piazza del Gesù, più possibilista e non aliena ad accordi con il
regime e che conta molti affiliati nelle fila del fascismo.
Il progetto di “apertura a sinistra” di Mussolini, non è di certo gradito
da casa Savoia e vede poi l’ostilità degli ambienti reazionari e
conservatori del partito fascista e di quelle lobby speculative che già
mal digeriscono i freni che Mussolini continuamente frappone alla
realizzazione dei loro interessi.
203
Intendiamoci, non è che Mussolini voglia fare il “grande
moralizzatore”:, egli è abbastanza realista per comprendere che con
quell’andazzo è inevitabile che anche il Pnf, il suo stesso giornale Il
Popolo d’Italia, e uomini e ambienti del suo entourage ministeriale, si
procaccino finanziamenti (in pratica quello che è sempre avvenuto in
Italia, anche nel dopoguerra con la Prima Repubblica e con la
Seconda Repubblica!), ma la sua filosofia di governo, il suo concetto
dello Stato, lo inducono a privilegiare gli interessi nazionali, ad
imporsi con forza decisionale e questo lo pone in rotta di collisione
con tutto il mondo delle grosse speculazioni, Finanza in testa.
La situazione nel paese, quindi comincia a farsi esplosiva, soprattutto
dopo le elezioni dei primi di Aprile ‘24, dove, come accennato, il PSU
di Matteotti risolutamente antifascista, ma anche avverso ai
comunisti, ha ottenuto un buon successo (5,9% e 24 deputati alla
Camera superando sia la corrente ortodossa del socialismo che i
comunisti) e potrebbe avere ora le mani libere per prendere qualsiasi
decisione e anche Mussolini ha ottenuto un grosso successo con il
“Listone” (oltre il 61% con 355 eletti), garantendo al governo, grazie
al meccanismo elettorale maggioritario, un ampia maggioranza.
Probabilmente non sfugge, a chi di dovere, che Matteotti, nel suo
famoso discorso “antifascista” alla Camera del 30 maggio ‘24, dove
denuncia brogli, non mette però sotto accusa il governo, non ne
chiede le dimissioni, e successivamente Mussolini nella sua
magistrale risposta del 7 giugno alla Camera, pur difendendo il
partito e la validità delle elezioni, manda più di un segnale ai
socialisti e ai confederali per una futura partecipazione al governo.
Evidentemente Mussolini sà di poter fare queste aperture, grazie a
sondaggi sottobanco che devono essere intercorsi con settori
moderati della sinistra. Ma per il 7 giugno, il meccanismo di morte,
era già in moto, e quel discorso non accentuò, né rallentò i progetti
già avviati.
In questa situazione esplosiva, era accaduto, infatti, che Matteotti nel
suo breve viaggio a Londra dal 22 al 26 aprile ‘24, aveva ottenuto, di
sicuro da ambienti massonici e laburisti, importanti informazioni,
forse documentazioni (difficile però ipotizzare che furono forniti
documenti, compromettenti e tangibili, che poi nessuno ha mai più
tirato fuori) che potevano procurare un grosso scandalo nel paese.
Soprattutto sulla faccenda del petrolio e delle bische.
Fatto sta, che Matteotti avesse avuto documenti compromettenti o
invece solo informazioni in merito, era filtrata la voce che il deputato
socialista avrebbe denunciato una specie di tangentopoli alla
camera. Matteotti nel suo programmato intervento per l’11 giugno, in
sede di discussine del Bilancio provvisorio dello Stato avrebbe
tratteggiato la finanza di Mussolini come rovinosa per il paese,
puntando l’indice su tutta una serie di accuse: per le tariffe doganali
204
protezionistiche, sfacciate protezioni accordate a gruppi industriali,
tangenti petrolifere e così via. Avrebbe chiamato in causa uomini di
governo coinvolti in casi di corruzione.
Ma se anche il partito fascista poteva essere coinvolto in
finanziamenti e tangenti, da nessuna parte filtra l’intento di Matteotti
di chiamare in causa direttamente Mussolini. Anzi da quel poco che
se ne deduce dall’articolo anonimo dei primi di giugno, autore
Matteotti, su Echi e Commenti, e da quello postumo su English Life,
sembra che Matteotti, mandi un “messaggio” a Mussolini, più o
meno: guarda che stai consegnando il governo e il fascismo alla
speculazione, cambia registro oppure ne resterai coinvolto.
Lo strano comportamento degli inglesi
Resta ancora poco chiaro il perché gli inglesi, sia pure la
massoneria e i laburisti, abbiano armato la mano di Matteotti, anche
se si può presumere che sono interessati a difendere i loro interessi
petroliferi in Italia.
Ma è anche vero però, a prescindere dalla massoneria, che gli
inglesi non vedono di malocchio un governo forte nel nostro paese, a
quel tempo non anti britannico, per il motivo che garantisce una certa
stabilità e quindi è nel loro interesse per il controllo del mediterraneo
(solo quando infatti, anni dopo, Mussolini cercherà di praticare una
geopolitica che punta alla riappropriazione dei nostri diritti nel
mediterraneo, toccando anche quelli inglesi in Africa, si arriverà
decisamente alla guerra con i britannici). Non solo, ma proprio in
quel periodo Mussolini sta dialogando con reciproci intenti con il
laburista Ramsay McDonald, primo ministro britannico.
Quindi cosa si prefiggono ora i britannici e/o la massoneria
britannica armando la mano di Matteotti e di fatto armando la mano
ai suoi assassini, per poi infine ritirare questa mano?
Solo far saltare gli interessi petroliferi concorrenti?
Porre in difficoltà il Re e/o Mussolini, ma poi rinunciare a dargli il
colpo di grazia? Quando Casa Savoia è da sempre Stata una
crEatura inglese, e Mussolini non è mal visto da loro nonostante che
i laburisti non lo amino di certo.
Lascia anche perplessi che una volta assassinato Matteotti, non
risulta che la massoneria o chi altro sia, attraverso qualche canale,
ne abbia fornite e replicate di nuove e compromettenti di
documentazioni, mentre invece risulta che gli inglesi, in futuro, si
guardarono bene dallo sfruttare polemiche contro Mussolini sul
delitto Matteotti e mostrarono atteggiamenti ambigui rispetto alla
posizione di Dumini, (Churchill sia nel periodo quando era “amico” e
ammiratore di Mussolini, che successivamente, quando ne divenne
nemico e in guerra, evitò ed anzi impedì che si attaccasse Mussolini
205
sul delitto Matteotti, segno evidente che gli inglesi avevano qualche
scheletro nell’armadio).
E’ noto che gli inglesi, durante la Grande Guerra, soprattutto dopo
Caporetto, finanziarono il Popolo d’Italia di Mussolini, interessati a
che il fronte interno italiano, alquanto precario, reggesse. Anche
successivamente, un governo forte in Italia, paese del sud Europa, in
posizione delicata per le rotte petrolifere, come già accennato, non
dispiaceva ai britannici a prescindere se fossero governati dai
laburisti o dai conservatori. Solo successivamente, molti anni dopo,
le diverse esigenze geopolitiche tra i due paesi portarono a rompere
queste intese e questi equilibri.
Ora però tutto questo può spiegare perché, a delitto Matteotti
avvenuto, gli inglesi ritirarono la mano, ma non spiega perché prima
armarono quella di Matteotti esponendolo a ritorsioni e mettendo in
pericolo il governo di Mussolini.
Ci si domanda: perché nel 1924 gli inglesi dovevano contribuire a
portare un attacco verso Mussolini procurando una tangentopoli, e
finendo per gettargli un cadavere tra le gambe?
Che nel 1924 non fossero al potere i Tory, ma i laburisti, e che fu
solo una faccenda di affari riguardanti il petrolio, non spiega tutto.
Il delitto
Arriviamo al punto: ad aprile - maggio 1924, in questo coacervo
di interessi e situazioni esplosive, Giacomo Matteotti viene a trovarsi
al centro di un crocevia di morte, laddove aspetti economici e venali,
posizioni di potere da difendere ad ogni costo e giochi internazionali,
hanno interesse a impedirgli che faccia certe denunce alla Camera,
determinando uno scandalo e rovinando importanti personaggi e, al
contempo, chi vede oramai di traverso il governo di Mussolini e vuole
farlo cadere gli tornerebbe anche utile un crimine da addossargli.
Insomma si determinano le condizioni giuste per prendere due
piccioni con una fava: tacitare Matteotti e defenestrare
Mussolini.
Ma oltre ai moventi, ci sono anche i “mezzi” per realizzare una
operazione con duplice finalità: la Ceka, il gruppetto di prezzolati che
apparentemente agisce agli ordini della Presidenza del Consiglio e
del Viminale e ne è a libro paga, ma di fatto è controllata soprattutto
da Giovanni Marinelli e anche da Cesare Rossi ed è facilmente
condizionata da certi poteri e interessi eterogenei, attraverso Finzi,
ambienti del Corriere Italiano, massoni , ecc., senza escludere il
lavorio di Intelligence straniere.
Mussolini non può essere il mandante
Per gli intermediari che progettarono e diedero incarico alla Ceka
per questo delitto, ovvero la così detta “Banda del Viminale” e
206
personaggi attigui, non ci pronunciamo, eccetto una forte
propensione a considerare colpevole il Marinelli e, almeno in parte,
innocente il Rossi. Ma il Rossi, attraverso collusioni massoniche non
è però estraneo a tutto quell’ambiente, che sta cercando di
ridimensionare, se non defenestrare Mussolini, sebbene sia conscio
che se cade Mussolini cade anche lui. Il suo gioco quindi risulta di
difficile comprensione e forse si può presumere che egli miri solo a
ridimensionare Mussolini o metterlo con le spalle al muro,
nell’interesse di certi ambienti a cui è legato, ma senza farlo cadere.
Per il mandate (ma sarebbe meglio dire “i mandanti”), si pensi quello
che si vuole su Mussolini, ma egli non può essere il mandante
dell’omicidio di Matteotti e neppure di una spedizione punitiva
degenerata in assassinio.
Se prendiamo atto, come lo stesso storico Mauro Canali deve
ammettere, che un ordine omicida diretto di Mussolini non c’è e non
si troverà mai, e quindi anche lui deve formulare quello che resta un
“teorema”, in base a congetture e deduzioni su documenti dubbi, per
esempio la lettera di Dumini presente negli archivi americani, allora
sono molto più concrete e valide le seguenti deduzioni contrarie:
Primo: se Mussolini fosse stato il mandante, non avrebbe
reiteratamente inveito contro il deputato socialista, durante le fasi
preparatorie del delitto e fino a ridosso del crimine. Non poteva non
essere coscio che lui, Capo del governo, avrebbe poi dovuto
cavalcare tutta la fase calda post delitto, dando l’impressione
all’opinione pubblica di un Capo di governo che si sta impegnando
per normalizzare l’ordine pubblico.
Secondo: avrebbe semmai ordinato un delitto professionale, e non
in pieno giorno davanti a testimoni, con esecutori a lui riconducibili.
Ed oltretutto, a delitto consumato, si sarebbe comportato ben
diversamente che non subire un mezzo crollo morale e psicologico.
Terzo: era abbastanza intelligente per capire che la scomparsa di
Matteotti sarebbe stata la tomba di ogni progetto politico di apertura
a sinistra per il quale stava lavorando da mesi e per il suo governo,
molto più deleteria di eventuali denunce alla Camera. Denunce alle
quali, alla peggio, forte di un ampia maggioranza e riconosciute
abilità dialettiche e di manovra, avrebbe, potuto in qualche modo
tamponare. E’ anche poco credibile che Matteotti nel suo viaggio a
Londra, avvenuto pochi giorni prima che venisse sottoscritta la
Convenzione Sinclair, aveva potuto già avere documenti
compromettenti, e quindi più che altro poteva fornire denunce verbali,
sempre contestabili (più probabile che a Londra ci fossero documenti
compromettenti per il Savoia).
207
Ma torniamo comunque al paragrafo precedente: eventuali accuse si
possono controbattere o negare, uccidendo invece Matteotti ci si
sarebbe dati la zappa sui piedi.
Quarto: diciamolo chiaramente: non può essere un caso, ma anzi è
significativo, che le documentazioni sequestrate a Mussolini nel
1945, precedentemente esaminate da Carlo Silvestri, dove risultava
evidente che il Duce nulla c’entrava con l’omicidio Matteotti, vennero
fatte letteralmente sparire dagli antifascisti e nel caso dagli Alleati
che avrebbero dovuto avere, invece. tutto l’interesse a non
scagionare Mussolini.
Quinto: proprio il fatto che il mandante di questo crimine, che nasce
in un contesto di situazioni che si sono evolute in un certo modo, non
è Mussolini, ma ambienti e personaggi potentissimi, che sono però
sfumati dietro le quinte e non facilmente identificabili, spiega che a
costoro necessita solo un azione sbrigativa che elimini la minaccia
Matteotti e poi metta nei guai il Duce.
Costoro, attraverso i loro intermediari in grado di arrivare alla Ceka,
ordinano, probabilmente a Marinelli, quel rapimento che
sostanzialmente è una via di mezzo tra una spedizione punitiva, a cui
i membri della Ceka sono abituati, un impresa di minacce e
bastonature per venire in possesso di informazioni dalla vittima, e
probabilmente la commissione di un delitto vero e proprio. E questi
sicari finiscono proprio per muoversi su questi tre piani, combinando
anche una serie di goffe e malaccorte azioni.
In questo contesto i Finzi, i Rossi, i De Bono potrebbero anche
essere innocenti, rispetto ad aver diramato un ordine omicida o
esserne complici nella sua progettazione, ma in virtù dei tanti fili che
li legano agli ambienti affaristici che hanno interesse a tacitare
Matteotti e alla massoneria, non si può definire con certezza ogni
singola posizione, e comunque anche loro, in qualche modo, ne sono
“idealmente” invischiati.
Questa impresa criminale era stata progettata ancor prima del
discorso del 30 maggio 1924 che espose Matteotti alle ire dei fascisti
e qualche esternazione di rabbia di Mussolini che offrirà anche un
capo di accusa verso Mussolini e un pretesto per il delitto.
La data esatta di progettazione di questo delitto è sicuramente
legata al momento in cui si ebbe voce che Matteotti poteva
denunciare concretamente certi scandali e certi ambienti. Il discorso
quindi del 30 maggio fu probabilmente un acceleratore, ma non
l’elemento determinante per dare il via alle operazioni. In ogni caso
certezze in questo senso non ci sono. Ad un paio di giorni prima del
20 maggio 1924, invece, data in cui Dumini convoca a Roma gli altri
componenti della Ceka, che arriveranno il 22, si può forse attestare il
208
momento in cui gli venne dato l’ordine omicida da eseguirsi in fretta,
prima dell’ 11 giugno e del previsto discorso di Matteotti alla Camera.
Ordine omicida o spedizione punitiva degenerata?
L’attento esame degli esiti autoptici (sia pur carenti date le
condizioni dei resti organici) e la valutazione delle cronache del
rapimento (sicari che agiscono alla luce del sole con un auto a cui
neppure nascondono la targa), farebbe ritenere che l’uccisione fu
preterintenzionale, avvenne in macchina nel luogo e nel momento
sbagliato, probabilmente per la reazione della vittima, che forse
doveva solo essere rapita, bastonata, e fatta parlare. I sicari si
trovarono invece tra le mani un cadavere inaspettato e un auto
imbrattata di sangue senza avere i mezzi per sotterrarlo.
Si deve quindi propendere per un omicidio non ordinato?
Andiamoci piano, perché è difficile credere che si sarebbe poi
liberato Matteotti, il quale non solo avrebbe sicuramente dato
indicazioni per far arrestare i rapitori, ma avrebbe anche potuto
reiterare le sue minacciate denunce alla Camera e comunque
scatenare reazioni incontrollate.
La stessa mancanza di una pala, che i rapitori non si sono portati
appresso, potrebbe dipendere dal fatto che non necessitava, perché
Matteotti doveva essere portato e ucciso in un posto dove sarebbe
poi stato fatto sparire. Ma avanza sempre una domanda: perché in
quel posto non ci sono ugualmente andati con il cadavere?
Comunque se è quasi certo che Matteotti fu ucciso in macchina
non volendo, è anche prevedibile che la sua soppressione, con
altri modi e in altro luogo, era comunque prevista.
Ci sono quindi elementi, circa le finalità del progetto criminoso, per
optare sia per una ipotesi che per un'altra, senza cambiare di troppo
il quadro complessivo del crimine, visto che importante è il movente
affaristico con previsti effetti politici, quindi l’interesse dei mandanti a
tacitare Matteotti e far cadere Mussolini, tutti scopi da raggiungere
con l’utilizzo di persone (“la banda del Viminale”) a cui i mandanti
possono arrivare attraverso altre persone e altri ambienti.
Piuttosto c’è anche chi ha introdotto il sospetto che tra i cinque della
Ceka, ci fosse chi giocò un suo segreto ruolo, evidentemente in virtù
di qualche mandato ricevuto. E‘ inutile però aggiungere altri misteri
non decifrabili ad un mistero già abbastanza complesso.
Data questa eterogeneità e contraddittorietà di situazioni, il fatto che
il delitto ha un movente affaristico, non disgiunto dai sicuri effetti
politici; che i veri mandanti sono sfumati dietro le quinte; che gli
intermediari che arrivano fino a Marinelli e la Ceka, sono lobby
massoniche a scatole cinesi legate da invisibili fili, è perfettamente
inutile sforzarsi di inquadrare il tutto in una ferrea logica e
209
pretendere di spiegare ogni avvenimento, ogni fatto ogni
contraddizione e ogni gesto insensato.
Anche il fatto che tra la “banda del Viminale” erano a tutti note le
invettive di Mussolini contro Matteotti, non fu difficile, per “chi di
dovere”, far credere che l’azione contro il deputato socialista fosse
voluta o comunque gradita da Mussolini.
Cosicché il destino di Matteotti è segnato, e di riflesso sembra
segnato anche quello di Mussolini.
Le condizioni ideali per l’omicidio, ripetiamo già previsto e
organizzato, le determina il forte discorso del 30 maggio di Matteotti
alla camera che espone al massimo il parlamentare, attirandogli la
reazione dei fascisti infuriati, e la reazione a caldo di Mussolini che
gli inveisce contro, profferendo minacce (forse interpreta quel
discorso, che pur letto bene non chiude totalmente a future intese di
59
governo, come un ulteriore diniego di Matteotti).
Questa reazione, oltretutto in pubblico, espose anche Mussolini nel
senso che se fosse successo qualcosa a Matteotti, tutti lo avrebbero
ritenuto responsabile nonostante poi il suo discorso del 7 giugno,
dove non solo mostrò di aver smaltito la collera, ma profuse anche
un rilancio verso future intese con i socialisti moderati.
Resta però il fatto che coloro che incaricarono Dumini (solo Marinelli?)
giocarono sull’equivoco, di precedenti stati d’animo di Mussolini, che in
certi momenti dovette aver espresso intenzioni bellicose contro
Matteotti, ma rendendosi poi conto della assurdità della cosa, le lasciò
cadere, ma altri utilizzarono queste situazioni per coinvolgere gli
esecutori nel nome di Mussolini.
210
Riassumere quanto espresso in queste conclusioni:
 Il delitto ha un movente affaristico (tacitare Matteotti), ma con effetti,
previsti e desiderati, di natura politica (far crollare il governo di
Mussolini o almeno metterlo con le spalle al muro), possibile quindi
che vi siano più personaggi e ambienti cointeressati o non estranei,
se non al delitto a tutto il contesto che lo determina, compresi
anche interessi stranieri (inglesi, americani e sovietici).
 Mussolini fu assolutamente estraneo al rapimento e al delitto che in
definitiva lo danneggiava in ogni senso.
 Insinuazioni su possibili tangenti intascate da Mussolini e/o il fratello
Arnaldo, sono solo congetture; metterle poi in relazione ad una
presunta volontà di Mussolini di tacitare, uccidendo, Matteotti, è una
assurdità che si configura in un vero e proprio teorema fantasioso.
Vero però che l’andazzo del tempo contemplava giri di
finanziamenti, possibile quindi che ci sia stato anche un giro che
riguardava il PNF e il Popolo d’Italia, come riguardava i governi
precedenti, i partiti e anche le opposizioni.
 Che Arnaldo Mussolini fosse coinvolto in qualche giro affaristico
non ha alcuna incidenza su questa vicenda, se non magari nel
legare poi le mani a Mussolini nel poter fare un repulisti generale.
 Difficile appurare, in mancanza di precise documentazioni, il
coinvolgimento del Re o addirittura che sia partito da lui l’ordine
omicida. In ogni caso l’ipotesi di Matteo Matteotti non è del tutto
peregrina è va tenuta in considerazione (la ripetiamo: De Bono
informa emissari di Casa Savoia che Matteotti sta per far esplodere
uno scandalo che coinvolge il Re nelle vicende del petrolio. Forse
tramite FilippeIli e questi a sua volta attraverso Dumini, mettono in
atto il delitto forzando certi intenti di dare una lezione a Matteotti e
trasformandola in un omicidio. Detto en passant si dovrebbe
aggiungere il Marinelli.
 Di sicuro l’ordine omicida partì da ambienti e personaggi che
avevano tanto da perdere sia per le denunce di Matteotti che per la
politica di Mussolini..
 I Finzi, i De Bono, i Cesare Rossi, sono probabilmente estranei
all’ordine omicida (formuliamo però questa considerazione con
tante riserve), ma sono in qualche modo coinvolti nel complesso
della vicenda per via di certi fili, politico - affaristici e finanziari che li
legano agli ambienti nei quali si trovano i veri mandanti. Giovanni
Marinelli è invece seriamente indiziato per aver organizzato il
211
delitto, e intermediari come Filippelli, Naldi e la stesa Commerciale,
lo seguono a ruota.
 Menzogne, depistaggi, inquinamenti e altro messi in atto da molti
attori di questo Affaire, non sono necessariamente da mettere in
relazione con il loro diretto coinvolgimento nel delitto.
 Difficile stabilire, con assoluta certezza, cosa veramente volevano
fare i rapitori sequestrando Matteotti. E’ evidente che lo
ammazzarono in auto, nel modo e momento non previsti, ma è
quasi cero che comunque lo avrebbero poi soppresso.
 Gli effetti, per il governo di Mussolini di un omicidio o anche del solo
rapimento con bastonatura di un deputato di quella notorietà e
portata, sarebbero stati non troppo diversi. Ergo assume minore
importanza dirimere il dubbio precedente.
 Testimonianze contraddittorie del Dumini hanno scarso valore: il
suo primo memoriale è ridicolo, mentre quello nascosto nel 1933 in
America, che tra l’altro non si conosce per intero, non è totalmente
affidabile, perché è evidente che il Dumini confezionò un prodotto
che gli salvasse la vita e fosse utilizzabile per eventuali ricatti.
Ebbene, come già detto, in quel memoriale “americano” il Dumini
dichiara di aver ricevuto l’ordine omicida dal Marinelli, cosa
questa che conferma il famoso “biglietto” o farfalla carceraria,
con la confessione di Marinelli, che Mussolini asserì di aver
ricevuto dall’ex gerarca condannato a morte a gennaiol 1944.
Quello che accadde dopo divenne inevitabile, ma ogni elemento
sta a dimostrare che in definitiva ci furono due vittime e queste
furono Matteotti e Mussolini, oltre alla storia del paese che
viceversa avrebbe di certo preso un altro indirizzo.
212
POST SCRIPTUM
Avevamo terminato più o meno così, come sopra, un nostro precedente
saggio, senza accennare ad una ipotesi che pur ci si era presentata e non solo a
noi, ma più che altro avevamo evidenziato l’innocenza in quel delitto, riguardo a
Mussolini e ci sembrava di avanzare ora una ipotesi, non tanto azzardata,
quanto di difficile comprensione per i comuni lettori, anche perché,
sostanzialmente, si basa su valutazioni e intuizioni di tipo deduttivo.
Ma oggi che anche uno storico “di regime”, come Arrigo Petacco si è espresso
senza tentennamenti per l’innocenza di Mussolini in quel delitto, e quindi
oramai il dubbio su le sue responsabilità sembra vacillare anche per buona parte
della storiografia embedded, e soprattutto ora che alcuni ambienti accademici
hanno rotto il ghiaccio proprio con l’ipotesi che appresso andremo a illustrare,
cioè questa ipotesi di una tacita intesa tra Mussolini e Matteotti, ci sembra
opportuno renderla nota, considerando che sia su Mussolini , che su Matteotti ci
60
sono molte cose ancora da scoprire.
Il sospetto di una intesa
Si trattava del fatto, che emergeva da tanti particolari, che in quel maggio
– giugno 1924 tra Mussolini e Matteotti ci possa essere stata una tacita intesa, se
non addirittura un certo gioco delle parti. Ad entrambi, per le considerazione
che più avanti riporteremo, poteva essere conveniente che venissero denunciati
certi scandali alla Camera. Considerando tanti piccoli particolari che sono
emersi negli anni, noi propendiamo per una “reciproca convenienza” tra i due
leader, piuttosto che un vero e proprio accordo o contatto, anche se,
sicuramente, ci furono sondaggi sottobanco con alcuni esponenti del PSU. E
dalla reciproca convenienza, alla “tacita intesa” il passo è breve anche senza un
contatto diretto tra i due interlocutori.
Il fatto è che i socialisti unitari ne avrebbero tratto indubbi vantaggi di
immagine e di agibilità politica anche a sinistra e Mussolini invece avrebbe
potuto avere mano libera per quelle svolte di governo a sinistra, che caldeggiava,
e per sbarazzarsi del “cappio” che componenti reazionarie del Pnf e ambienti
speculativi, gli tenevano al collo. Sbarazzarsi di questo “cappio” però non era
facile stante le forti resistenze di queste componenti conservatrici e speculative
che pur avevano aiutato Mussolini nell’ascesa e di un certo potere e privilegi su
cui potevano contare.
Anche la possibile messa in difficoltà del Re, se fosse stato chiamato in causa per
aver le mani in pasta nello scandalo del petrolio, ne indeboliva la posizione a
tutto vantaggio di Mussolini. E casa Savoia rischiava grosso, uno scandalo che
rischiava di travolgerla determinando come minimo il passaggio della corona al
Duca D’Aosta.
In definitiva i due uomini, pur contrapposti con acrimonia, non erano poi così
distanti. Per esempio, prendendo spunto da un articolo di Mussolini su la rivista
213
”English Life”, dove questi aveva citato Macchiavelli, Matteotti, sulla stessa
rivista che lo pubblicherà postumo, si porrà in contrasto evidenziando che la
condivisione al pensiero del “Principe”, da parte di Mussolini, si riduceva a farsi
irretire nelle spire della Banca Commerciale e i suoi intrallazzi. Sarebbe stato
meglio per lui e il paese cambiare lo spartito. E’ un attacco, che a ben leggere,
non è contro Mussolini quanto contro il suo entourage di approfittatori, e quindi
un palese invito a sbarazzarsene.
Ed è quello che, in un certo senso, vorrebbe fare anche Mussolini, ma con il
tempo, con i dovuti modi, perché quell’entourage lo aveva, sostenuto fino
all’ascesa al governo, e l’Alta Banca ne aveva finanziato buona parte della sua
politica, marcia su Roma compresa e prenderla direttamente di petto, voleva
dire rimetterci le penne.
Ma in ogni caso, tra i due uomini, Mussolini e Matteotti, vi erano le condizioni
oggettive affinchè in futuro si potesse trovare un punto di intesa.
Mussolini, è noto, conosceva a fondo i meccanismi della politica parlamentare,
ma era anche stretto da un “patto” sottointeso con la Monarchia, che ne aveva
favorito indirettamente l'ascesa al governo (non al potere reale, si badi bene).
E’ comprensibile quindi che Mussolini, sapendo che Matteotti aveva le prove di
un certo giro di tangenti e magari dei traffici dei Savoia (tangenti e/o l’impegno
sottoscritto dal Re a “NON trovare” il petrolio in Libia), possa aver ritenuto
utile l’azione di denuncia del parlamentare socialista, se non addirittura di
averla in qualche modo tacitamente “assecondata”.
E questo spiegherebbe anche il
fatto che la moglie di Matteotti, avendo forse avuto sentore di
”qualcosa”, anche magari che il marito gli avesse solo detto che non
era Mussolini il “nemico” principale non ebbe poi grandi titubanze
ad accettare, la innocenza di Mussolini e gli aiuti che per anni il Duce
gli fece pervenire.
Tutto quello che è avvenuto dopo chiarisce ancor più questa ipotesi ed anzi la
conferma.
Quello che ha in qualche modo celato queste osservazioni è il fatto che in
definitiva Matteotti alla Camera aveva fortemente attaccato il fascismo e quindi
è ovvio considerare questi due antagonisti su sponde opposte e irriducibili.
Ma in realtà Matteotti era preoccupato più che altro del “cedimento” interno al
suo partito e al sindacato che sapeva era molto sensibile al “richiamo” che
sottotraccia Mussolini stava facendo verso i socialisti. Un cedimento che
avrebbe consentito ai comunisti, di attaccare fortemente il partito socialista.
Ma dopo le elezioni di aprile che avevano dato una netta vittoria al listone
fascista e un buon risultato ai socialista di Matteotti, il segretario avrebbe potuto
ora rivedere tutta la faccenda, da una posizione di forza e già si può notare che
nel famoso discorso alla Camera contro il fascismo e i sospetti di brogli
elettorali, Matteotti non aveva chiesto le dimissioni del governo. Gli bastava
tenere alta la polemica con il fascismo per frenare eventuali compagni sensibili a
certi “richiami”.
214
Ma fatto questo, le cose ora potevano cambiare, perché era cambiata tutta la
situazione politica. E lo comprese bene Mussolini, smaltita la rabbia “a caldo”,
per gli attacchi di Matteotti, quando pochi giorni dopo, il 7 giugno ‘24, nel suo
discorso “di risposta” fece evidenti aperture verso i socialisti.
Anni dopo Mussolini disse a Carlo Silvestri, che le sue “aperture” nel discorso
del 7 giugno fecero temere che lui si era orientato ad offrire la partecipazione nel
governo ai socialisti e questo fece precipitare gli eventi, e dare il via alla cattura
di Matteotti già prevista da giorni e realizzata il pomeriggio del 10 giugno.
E’ ovvio che la volontà di Mussolini di imbarcare i socialisti non era di certo
sfuggita. Anche a Casa Savoia se ne era al corrente: Umberto II, parlando del
delitto Matteotti, anche in relazione ai rapporti tra suo padre il Re e Mussolini,
ebbe a dire che Mussolini nel 1924 aveva cominciato a lavorare segretamente
per attirare nel governo alcuni capi socialisti e che il discorso del 7 giugno ’24
61
era un appello in quel senso.
Orbene, è adesso venuto il momento di accennare a questa “ipotesi”, perché la
stanno anche avanzando alcuni ricercatori storici, in particolare Michelangelo
Ingrassia della Università di Palermo, che l’ha esposta nel N. 104 di “Storia in
Rete” di giugno 2014.
Dal suo articolo cogliamo i passaggi essenziali.
L’articolo di Michelangelo Ingrassia
Il servizio di Igrassia: “Matteotti: ecco i veri retroscena”, inizia dal fatto
che le elezioni di quel maggio ’24 avevano determinato un buon
successo del PSU di Matteotti che, di fatto, si imponeva sulla sinistra
dei socialisti massimalisti e dei comunisti, con i quali era in forte
dissenso ed aveva anche respinto la loro proposta di un fronte unico
contro il fascismo, mentre Mussolini aveva stravinto le elezioni, ma
solo grazie all’apporto delle componenti conservatrici e di destra.
E già qui si creavano le condizioni per quella intesa con il PSU, da tanto cercata
da Mussolini e che Matteotti aveva, fino ad allora rifiutato. Matteotti però, pur
avendo accentuato il suo “antifascismo”, nel suo partito era alquanto isolato,
visto che i suoi dirigenti, erano in maggioranza propensi ai compromessi e
prima o poi avrebbe dovuto decidersi in un senso o nell’altro, quello
collaborativo con il governo.
Del resto, in precedenza, se Matteotti avesse accettato qualsiasi collaborazione
con il Governo, avrebbe avuto sul collo il fiato degli estremisti del PCdI, ma ora,
dopo il successo elettorale e gli ultimi atteggiamenti del PSU che aveva
aumentato fortemente l’ostilità al fascismo e al governo, paradossalmente, si
determinava una nuova situazione. Novità che consentono di poter fare alcune
scelte, che prima si negavano o erano impossibili, ma che poi diventano fattibili
e che sono ricorrenti nella politica.
Ora, ancor più che nei due anni precedenti, c’erano le condizioni per quella
apertura a sinistra, che aveva trovato consenzienti vari esponenti Confederali e
215
anche il Vaticano stesso (quindi buona parte dei Popolari) che aveva ben
accolto le aperture di Mussolini verso la Chiesa, e tutto questo avrebbe
consentito a Mussolini di imporre il suo dirigismo nella faccenda dei Petroli
soprattutto e dei prestiti dagli Stati Uniti bypassando le grandi Banche.
Quello che oggi risalta agli occhi, oltre alla volontà di Mussolini di
aprire il governo “a sinistra” è, al contempo, la evidente necessità di
Matteotti di decidersi, prima o poi, in questo senso, anche perché il
segretario socialista, oltretutto avverso ai comunisti, è abbastanza
accorto e non può ignorare che una politica di solo antifascismo
intransigente, non porterà da nessuna parte e che Mussolini,
costretto dalle circostanze, continuerebbe sicuramente a governare
raccogliendo comunque sempre più consensi popolari.
Non era un caso che Matteotti nella sua filippica alla Camera contro il fascismo,
pur chiedendo l’invalidamento delle elezioni non chiese però le dimissioni del
Governo, mentre Mussolini nella sua successiva risposta, sempre alla Camera,
dopo una difesa d’ufficio del fascismo e delle elezioni, lanciò più di una offerta ai
socialisti, rimettendo nelle loro mani la decisione di accettarle o meno.
Tutti questi aspetti, sebbene evidenti, non sono stati presi in considerazione
dalla storiografia ufficiale e quindi poco si è indagato su di essi.
Pochi si sono posti la domanda: ma a chi sarebbe veramente convenuta
una denuncia di scandali sul petrolio e/o le bische, in parlamento,
che avesse messo in difficoltà il Sovrano e/o lobby speculative?
Alle risposte che poteva convenire alla politica del PSU in quel momento e forse
a chi si destreggiava, in concorrenza sulle questioni del petrolio (gli interessi
inglesi, statunitensi, sovietici, ecc.), bisogna mettere in conto che uno
sconquasso del genere conveniva anche a Mussolini. Anzi forse proprio
Mussolini aveva interesse a far fare alla opposizione una denuncia del genere
che ovviamente lui non poteva fare.
Accennato ad Ingrassia, e già che ci siamo, diciamo che neppure si è indagato
adeguatamente su un delitto che potrebbe essere collegato proprio al caso
Matteotti. Quello del deputato fascista Armando Casalini ucciso a Roma il 12
settembre del 1924 da un antifascista che si disse voleva vendicare Matteotti e
venne fatto passare come uno squilibrato. Casalini, repubblicano, ex operaio,
amico di Nenni, segretario Generale delle Corporazioni sindacali, era forse stato
un tramite, utilizzato da Mussolini, per tenere i contatti con il PSU.
Ergo il suo delitto, non si può escludere, potrebbe mettersi in relazione alla
necessità di tacitare un pericoloso testimone. Proprio come a Dongo nel 1945
vennero inspiegabilmente fucilati Nicola Bombacci e Luigi Gatti, altri due
pericolosi testimoni sul caso Matteotti e di certo non passibili di pena di morte.
Coincidenze? Diciamo una supposizione, per così dire, “complottista”.
Ma andiamo avanti con il servizio di Ingrassia, entriamo nel merito.
Con perfetto intuito, afferma Michelangelo Ingrassia:
“Tuttavia rileggendo attentamente il testo, si nota che dopo un micidiale
attacco al Partito Nazionale Fascista e alla sua condotta elettorale, quel
216
discorso si conclude con un severo appello al governo; rivolgendosi
direttamente a Mussolini, infatti, Matteotti afferma:
“”Noi sentiamo tutto il male che all’Italia apporta il sistema della violenza;
abbiamo lungamente scontato anche noi pur minori e occasionali eccessi dei
nostri. Ma appunto per ciò, noi domandiamo alla maggioranza che essa
ritorni all’osservanza del diritto. Voi che oggi avete in mano il potere e la
forza, voi che vantate la vostra potenza, dovreste meglio di tutti gli altri
essere in grado di fare osservare la legge da parte di tutti.
Voi dichiarate ogni giorno di volere ristabilire l’autorità dello Stato e della
legge.
Fatelo, se siete ancora in tempo, altrimenti voi, sì, veramente rovinate quella
che è l’intima essenza, la ragione morale della Nazione””.
E’ in questo brano il vero significato politico dell’intero discorso.
Matteotti, infatti, realisticamente non chiede le dimissioni del
governo bensì si appella a esso sfidandolo a ristabilire l’autorità
dello Stato e a salvare la ragione morale della Nazione.
Mussolini accetta la sfida e replica a Matteotti con il noto discorso del 7
giugno 1924 nel quale, dopo una formale difesa d’ufficio dello squadrismo si
rivolge direttamente ai socialisti unitari affermando: “”non si può
rimanere sempre estranei; qualche cosa, bene o male, bisogna dire
o fare, una collaborazione positiva o negativa deve esserci (…) E’
un quesito che pongo alla vostra coscienza; voi lo risolverete; non
tocca a me risolverlo””.
Questo è il momento culminante dell’intera vicenda. (…).
Cosa sarebbe accaduto se Matteotti, che già il 30 maggio aveva sfidato il
governo a ristabilire l’autorità dello Stato, avesse l’11 giugno denunciato al
governo il coinvolgimento di settori identificati del Fascismo e dello Stato in
un losco traffico di corruzione? Si sarebbe inevitabilmente creata una
situazione d’emergenza.
A quel punto il governo sarebbe stato costretto a intervenire
chiedendo la collaborazione straordinaria di quelle personalità e
di quelle forze che avevano contribuito a smascherare i corrotti
all’interno del Fascismo e dello Stato.
La collaborazione tra Matteotti e Mussolini, determinata così da
una situazione emergenziale, sarebbe stata allora giustificata di
fronte all’opinione pubblica nazionale e internazionale, davanti al
proletariato e in faccia ai comunisti, ai massimalisti, ai fascisti e
agli antifascisti che sarebbero stati costretti a valutare il fatto
nuovo e a prendere una posizione.
Tutto questo presuppone una questione che la storiografia non ha
mai osato affrontare: Matteotti e Mussolini potevano organizzare
insieme il determinarsi di una situazione d’emergenza che avesse
giustificato la loro collaborazione al governo della Nazione?
C’è da considerare, innanzitutto, su quali elementi storici dovrebbe reggersi
tale nuova questione.
217
Il primo elemento è costituito dal rapporto politico tra i due protagonisti:
Matteotti e Mussolini.
62
Sul numero di gennaio di questa rivista
si è già visto che i due uomini
politici avevano alle spalle una comune militanza politica segnata da
divergenze pratiche, ma da convergenze teoriche e che pur schierati su fronti
avversi, avevano collaborato nei momenti straordinari della storia del
Socialismo italiano; i due ex compagni, carissimi nemici, avrebbero potuto
certamente
ritrovarsi ancora una volta insieme
di fronte ad una
straordinaria emergenza che riguardava la Nazione.
Il secondo elemento è rappresentato
dalla politica di collaborazione
perseguita da Mussolini tra il 1922 e il 1924 e avversata da Matteotti.
Nel 1924, però, il quadro politico che faceva da sfondo era cambiato rispetto
al 1922. Mussolini adesso era presidente del Consiglio con una maggioranza
ampia e che, grazie al sistema maggioritario, si estendeva ben oltre i confini
del suo partito.
Alla Camera e al Senato c’era un’opposizione costituzionale che sovente
collaborava con il governo. Matteotti, in quanto segretario del maggior
partito della sinistra, era il nuovo leader della minoranza.
Matteotti però, avverte Mimmo Franzinelli, adesso era anche un uomo solo:
“”segretario di un partito i cui dirigenti propendono – tranne poche eccezioni
– per una linea di compromesso “”; una condizione rilevata anche da Mauro
Canali il quale ha osservato che l’avversione alla collaborazione “”aveva finito
per rendere politicamente precaria la sua carica alla segreteria del partito,
perché gli aveva inimicato ampi settori di esso, urtando personaggi, come gli
organizzatori sindacali, tutti collaborazionisti, che godevano d’un indiscusso
potere””.
Lo stato d’animo in cui si trovava il deputato socialista in quel frangente, mai
tenuto in considerazione dalla storiografia, non può non avere influito nelle
sue riflessioni sulla situazione politica personale e complessiva.
E’ possibile che un uomo politico come Matteotti, nelle condizioni anche
intime in cui si trovava dentro e fuori il suo partito, non abbia tenuto conto di
tutte le possibili soluzioni tese a superare il suo isolamento e a definire
l’assetto politico italiano compreso la scelta della collaborazione, nel 1924
ancora circolante all’interno del suo partito e del sindacalismo confederale?
Il terzo elemento riguarda la natura del delitto e si ricava dalla trama stessa
dell’intera vicenda così com’è stata ricostruita dagli atti processuali e dalla
storiografia: il delitto
fu politico, ispirato dalla vendetta e dettato
dall’esigenza di bloccare la denuncia di un colossale scandalo affaristico che
coinvolgeva una parte del mondo politico e di quello finanziario.
E’ però necessario riesaminare la natura del crimine da una prospettiva
diversa da quella in cui fin qui è stata osservata.
Il delitto fu politico ma non va collocato nell’ambito del conflitto
tra Fascismo e Antifascismo bensì nel più ampio contesto della
lotta combattuta in quel momento tra quelle forze politiche ed
economiche che auspicavano un radicale mutamento della scena
politica nazionale, e
quelle che invece intendevano lasciare
218
immutato lo scenario italiano; e questi due schieramenti erano
trasversali al Fascismo e all’Antifascismo.
Il delitto fu ispirato dalla vendetta, ma non del fascista Mussolini contro
l’antifascista Matteotti, bensì dalla vendetta dei gruppi fascisti, contrari alla
svolta, contro lo stesso Mussolini che quella svolta intendeva praticare.
Erano gli stessi gruppi che nel 1922 avevano sequestrato il repubblicano
Torquato Nanni, amico di Mussolini e di autorevoli esponenti socialisti, per
eliminare, spiega De Felice, “”un tramite tra Mussolini ed i riformisti”” nello
stesso momento in cui erano in corso le trattative per una collaborazione dei
socialisti con il governo nato dalla marcia su Roma. (…).
“Alla luce di questa nuova prospettiva è possibile quindi ipotizzare che le cose
siano andate così: è presumibile che Mussolini abbia pensato nel 1924 di
chiedere la collaborazione di Matteotti e che le carte dell’affare Sinclair, se
rese pubbliche, avrebbero potuto giustificare davanti all’opinione pubblica
la collaborazione tra i due ex compagni.
Canali scrive che Matteotti cominciò a interessarsi dell’affare S i n c l a i r
durante il suo breve viaggio segreto in Inghilterra, nell’aprile 1924; il
deputato socialista, dunque, ricavava le sue informazioni nello
stesso momento in cui l’ex socialista Mussolini e il laburista
Ramsay McDonald, primo ministro britannico, dialogavano per
dirimere la questione dell’Oltregiuba [la striscia di territorio fra
Somalia e Kenya ceduta dagli inglesi alla colonia italiana NdR] e
del Dodecaneso: è presumibile che in tale frangente si sia
verificato un passaggio d’informazioni, se non di documentazioni,
sulla questione petrolifera italiana che interessava anche agli
inglesi.
Potrebbe sembrare impossibile una collaborazione tra Matteotti e Mussolini
nel 1924, eppure un precedente esiste e risale al febbraio 1923 quando
Gregorio Nofri, del comitato centrale del PSU e amministratore del giornale
del partito «La Giustizia», avviò trattative con Sandro Giuliani , capo
redattore de «Il Popolo d’Italia» e uomo di fiducia di Mussolini, su una
possibile intesa tra il Duce e i socialisti unitari.
Filippo Turati, come Mussolini era al corrente di tali contatti e, spiega De
Felice, “”il che non solo era vero, come dimostra la corrispondenza di quei
giorni tra Turati e la Kuliscioff (dalla quale appare che lo stesso Matteotti
aveva consentito all’incontro Nofri-Giuliani), ma era ancora solo una parte
della verità.
Da una lettera della Kuliscioff del 13 febbraio 1923 si arguisce infatti che il
contatto, sollecitato dai fascisti, doveva stare molto a cuore a Mussolini che
pare si fosse dimostrato disposto a recarsi in segreto a Milano in aereo,
probabilmente per trattare personalmente e a più alto livello””.
Quel dettaglio sul consenso di Matteotti alle trattative, posto tra
parentesi da De Felice, rende presumibile che quei contatti,
interrotti nel 1923, fossero ripresi nella primavera del 1924, in un
contesto politico cambiato nel quale, sulla base della questione
219
morale,
sarebbe stato possibile raggiungere
collaborazione tra Matteotti e Mussolini”. (…).
l’intesa sulla
Dopo aver quindi, come noi, supposto che forse la moglie di Matteotti, Velia,
sapeva qualcosa circa qualche tacita intesa tra Mussolini e Matteotti e che
Mussolini avrebbe ottenuto dalla collaborazione un risultato storico sul piano
nazionale e internazionale, si interroga Ingrassia:
“Cosa sarebbe rimasto a Matteotti? Anch’egli avrebbe
conseguito un
eccezionale risultato storico, sul piano del Socialismo italiano e mondiale; lo
spiega lo stesso Mussolini quando dichiara, negli anni Trenta, al giornalista
Yvonne De Begnac: “”noi avevamo interesse a che l’onorevole
Matteotti, il più solido fra gli anticomunisti italiani, proseguisse la
lotta per l’autonomia
e per la riunificazione del Socialismo
italiano””.
Un governo formato dalla collaborazione tra Matteotti e Mussolini e nato
dalla questione morale, mentre l’Italia era in sintonia con l’Unione Sovietica
così come con la Gran Bretagna laburista, e mentre in Francia il Socialismo
vinceva le elezioni e in Belgio si apprestava a vincerle, avrebbe consentito al
Socialismo italiano riunificato di indicare una nuova via a quello europeo e
una nuova relazione tra il Socialismo occidentale quello orientale della
Russia.
Matteotti
sarebbe stato l’artefice del rinnovamento
del Socialismo
internazionale e colui che avrebbe costretto il Fascismo italiano a una svolta
a sinistra mentre nascevano in Europa altri movimenti ispirati al Fascismo.
Davvero, dunque, la collaborazione con i socialisti, come sosteneva Mussolini,
avrebbe determinato una svolta storica nella politica italiana e nella politica
internazionale”.
In
conclusione,
considerando
questo
possibile
aspetto
“incredibile” della vicenda, noi crediamo che l’ipotesi di una specie
di tacita intesa che si stava realizzando tra Matteotti e Mussolini, sia
concreta.
Diciamo “tacita intesa”, perché non crediamo che ci sia stata una
intesa diretta tra Mussolini e Matteotti, ma entrambi erano in grado
di capire come stavano le cose.
Del resto esplorazioni e sondaggi sotto banco con i Socialisti, molti
dei quali probabilmente tenuti proprio da Casalini, erano in auge.
Quindi la situazione era quella e prima o poi si sarebbe arrivati ad
una intesa diretta tra Matteotti e Mussolini, per intanto le denunce
di Matteotti alla Camera potevano anche tornare utili per entrambi.
Diversamente se si fosse già arrivati anche ad una diretta “intesa”,
Mussolini probabilmente ne avrebbe parlato almeno a Carlo
Silvestri, cosa che non ha fatto.
Agli storici, dipanare questa interessante ipotesi, anzi qualcosa di
più di una ipotesi.
220
BIBLIOGRAFIA
Non riteniamo opportuno fornire un ampia bibliografia sul caso Matteotti.
Si da il caso infatti che nei tanti anni trascorsi vi è stata un inflazione di
testimonianze, memoriali, smentite, indiscrezioni, quant’altro, a cui molti
giornalisti storici e scrittori ci si sono attaccati con molta superficialità,
capando nel mazzo quanto gli poteva tornare utile, a prescindere dalla
attendibilità, onde produrre testi a suffragio di loro ipotesi, contribuendo così
alla confusione ed alla inattendibilità generale.
Pochi testi quindi, crediamo siano sufficienti per una introduzione e una
conoscenza di questo argomento.
Borando C.: Il delitto Matteotti tra verità e silenzi (Analisi della stampa
d’epoca) Senaus 2004
Canali M.: Il delitto Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo
Mussolini, Il Mulino, 1997 e Edizione riveduta 2004.
Capecelatro G.: La banda del Viminale, Saggiatore, 2004.
De Felice R.: Mussolini il fascista. La conquista del potere,1921-1925,
Einaudi, 1966.
Del Giudice M.: Cronistoria del processo Matteotti. Opere Nuove 1985
Emidio O.: Il delitto Matteotti, Mursia, 1980.
Fasanela G.: Cereghino J. M. : “Il golpe inglese”. Chiarelettere 2011.
Fracassi C.: Matteotti e Mussolini: 1924 il delitto del lungotevere. Mursia 2004
Igrassia M.: “Matteotti: i veri retroscena”, Storia in Rete, N. 104,
giugno 2014
Petacco A.: “Musssolini? Era estraneo al delitto”, Intervista, Storia in Rete,
N. 111, gennaio 2015
Rossi C.: Il delitto Matteotti (processi e polemiche giornalistiche), Milano 1947.
Rossini G.: Il delitto Matteotti fra il Viminale e l’Aventino, Il Mulino, 1968
Scalzo F.: Il caso Matteotti, radiografia di un falso storico, Settimo Sigillo, 1997.
Silvestri C.: Matteotti, Mussolini e il dramma italiano, Ruffolo, 1947.
Tiozzo E.: La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini, Aracne 2005
Tiozzo E.: “Le prove contro i teoremi”, Storia in Rete, N. 111, gennaio 2015
221
NOTE
1
2
Capacelatro G. “La banda del Viminale”, Ed. Il Saggiatore 2004.
“Oggi”, n. 51, 13 dicembre 2000
3
Cfr.:Alessandro De Felice “Il gioco delle ombre. Verità sepolte della Seconda Guerra
Mondiale” (reperibile tramite il Sito www.alessandrodefelice.it).
Su la vicenda dei segreti “arricchimenti”, di Mussolini, tema caro a Mauro Canali, che almeno
però è un vero storico, ci si sono gettati pseudo storici inattendibili, come l’americano Peter
Tompkins, senza accorgersi delle tante assurdità e sballati riferimenti storici da loro riportati.
Il giornalista Gennaro di Stefano su la rivista “non storica“ “Oggi” ha pubblicato: Matteotti fu
ucciso perché scoprì le mazzette di Mussolini, [“Oggi”, n. 51, 13 dicembre 2000], Lo storico
Alessandro De Felice, parente del più noto Renzo, nel suo eccezionale e voluminoso lavoro: “Il
gioco delle ombre”, ha dedicato alcune pagine su questa questione, ridimensionandola ed
evidenziando i tanti dati carenti, errati e riferimenti sballati.
Per comprendere bene la faccenda di questi presunti “beni nascosti all’estero” da Mussolini,
rimandiamo quindi al citato lavoro di Alessandro De Felice..
4
Le “favolose” ricchezze di Mussolini.
Per la precisione, i beni di Mussolini che sono riscontrabili, al momento della sua morte (a parte
la residenza della Rocca delle Caminate vicino Predappio, che fra il 1924 e il 1927, fu
totalmente restaurata con un “prestito littorio”, una sottoscrizione indetta fra i cittadini della
Romagna, per poi essere donata a Mussolini che la elesse sua residenza estiva migliorandola
poi con suoi beni), erano costituiti dai proventi della cessione degli stabilimenti e macchinari del
Popolo d’Italia, avvenuta in quei giorni dell’aprile ‘45, all’industriale Riccardo Cella (che li
comprava per conto di terzi) e che il Duce aveva diviso con i suoi parenti, eredi del fratello, del
figlio Bruno e la sorella Edvige), e dalla rimanenza di una liquidazione appena riscossa per i
diritti d’autore di suoi scritti. La moglie Rachele inoltre, aveva con sé (oltre parte di questi
proventi) gioielli di famiglia e molti regali, anche di valore, avuti dal Duce nel ventennio, che gli
furono sequestrati dagli Alleati e poi restituiti riconoscendogli la proprietà. Durante la Rsi,
Rachele, protestò più volte con il marito, perché con il modesto stipendio di Stato che
percepiva, non ce la faceva, a far fronte alle spese di una famiglia allargata a vari rifugiati e lui
si rifiutava di farsi concedere altro che pur gli poteva spettare. Nel dopoguerra poi non sembra
proprio che Rachele Guidi vedova Mussolini e i suoi figli, abbiano condotto una vita lussuosa,
anzi tutt’altro, e neppure che abbiano rivendicato ricchezze all’estero. Chissà se il Canali potrà
spiegare dove sono i beni.
5
Per questo argomento, sia pure qui non pertinente, vedesi: Marinò Viganò “Mussolini, i
gerarchi e la "fuga" in Svizzera”; e l’articolo “Quell’aereo per la Spagna”, in Nuova Storia
Contemporanea" N. 3-2001.
6
Preposti alla supervisione e liquidazione di queste faccende erano un democristiano, il conte
Pier Maria Annoni del CLN regionale lombardo, e soprattutto il comunista Emilio Sereni in
quanto Commissario di governo per l'ex ministero degli interni. Il tutto avveniva anche dietro
una certa “osservazione” massonica visto che molti personaggi erano attigui alla massoneria.
Importanti documenti di Stato e militari, che potevano interessare gli Alleati, in particolare gli
inglesi, vennero ignobilmente a questi consegnati e note sono le vicende di Churchill che fece
fuoco e fiamme per entrare in possesso di importanti e clamorosi documenti che lo
riguardavano. Cfr.: Fabio Andriola: “Mussolini Churchill carteggio segreto“, Sugarco 2007.
222
7
Oltre ad alcune interviste, le testimonianze di C. Silvestri sono reperibili in: Silvestri C.:
Mussolini, Matteotti e il dramma italiano, Ruffolo, 1947; C. Silvestri. Mussolini, Graziani e
l'antifascismo, Longanesi, 1949].
8
Si è supposto poi che quelle carte vennero mandate dal Pci a Mosca (anche il figlio di
Matteotti, confidò di aver saputo da un deputato del PCI che il dossier Matteotti, fatto preparare
da Mussolini, era stato spedito a Mosca tra il 1945 e il ‘46), ovvero che furono distrutte: lo
storico Renzo De Felice ipotizzò che probabilmente Togliatti le fece sparire forse in base a
qualche accordo per reciproci scambi politici..
9
De Felice R.: “Mussolini il fascista. La conquista del potere”, Einaudi, 1966.
10
Oltre ad articoli e interviste, questo tema il Canali lo ha sviluppato nei suoi: Il delitto
Matteotti. Affarismo e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997, e la sua riedizione
del 2004, più snella, elisa di alcune documentazioni, ma sostanzialmente uguale; e in Mussolini
e il petrolio iracheno. L'Italia, gli interessi petroliferi e le grandi potenze, Einaudi, 2007. Ci
sarebbe da osservare che se il malcostume delle tangenti è praticato dalla notte dei tempi, una
spassionata e obiettiva analisi del periodo del fascismo, dimostra che fu molto inferiore al
malcostume dei regimi democratici, reso evidente dal fatto che speculatori e pescecani vari non
si arricchirono in modo smisurato come nei tempi attuali.
11
Dal citato servizio su “Oggi”, n. 51, 13 dicembre 2000, riportiamo questo passaggio, perché
evidenzia bene le forzature e le congetture usate dal Mauro Canali, il quale riscontrando
“ricevute” passate per Mussolini, le interpreta come una riscossione di tangenti.
<<“Nel mio libro sulla genesi del delitto Matteotti”, precisa lo storico [Mauro Canali, n.d.r.], “sono
riuscito a dimostrare almeno tre tangenti sicure e non è certo facile trovare le prove materiali
della corruzione… C’è poi una lettera del commissario straordinario delle Ferrovie, incaricato di
vendere i residuati bellici della prima guerra mondiale, che scrive a Mussolini: “Le 250 mila lire
(circa 400 milioni attuali, n.d.r) che ebbi a consegnarvi poche sere or sono provengono da una
vendita di materiali esistenti in magazzini di corpo d’armata”. E Mussolini, sull’appunto, verga la
parola “riservatissimo”. Vi sono poi altre sicure tangenti, come una di 750 mila lire (circa un
miliardo di oggi, n.d.r.) fatta passare per donazione a un istituto per ciechi”>>.
Commenta Alessandro De Felice (nel suo Il gioco delle ombre, op. cit.):
<<Si tratta in questo caso di un leit motiv caro a Canali, il quale, nel suo saggio sul delitto
Matteotti teso a dimostrare la colpevolezza di Benito Mussolini nell’omicidio del deputato
socialista veneto avvenuto nel giugno 1924, cerca di costruire un circuito storico univocamente
monocorde con non poche forzature interpretative legate ad episodi per nulla inerenti l’oggetto
della sua – peraltro apprezzabile – ricerca>>.
12
Lascia perplessi il fatto che nel suo voluminoso testo il Canali non sviluppi una analisi sul
ruolo della Commerciale e del Toeplitz e neppure del Naldi e della Massoneria, incanalando
invece il tutto sulla malafede di Mussolini. La Commerciale e il Toeplitz al tempo veri vampiri
della nostra economia e finanza, a cui molti attori del delitto Matteotti sono legati, viene citata di
rado, anzi quando viene citata lo è per riportare che si lamentava di un possibile doppio gioco
della Standard Oil con cui si era consociata per la petrolifera Saper, Standard Oil che invece gli
era legata a doppio filo. Il Naldi, potente uomo ombra dell’epoca, è citato più che altro come
“agente” della Sinclair, il che è anche dubbio. La Massoneria viene appena sfiorata, eppure era
una potente forza dell’epoca e nell’Affaire Matteotti non stava di certo a pettinare le bambole.
13
Forse conscio di questo “buco” nel suo teorema, il Canali, così congettura:
<<Le responsabilità dirette di Rossi, Marinelli e Fasciolo, nell’’organizzazione del delitto,
e quello di De Bono, Finzi e Acerbo, nell’intralciare le indagini e nell’occultare prove,
conducono direttamente alle responsabilità morali di Mussolini. Non è infatti possibile
credere che un intero gruppo dirigente, quello, sia detto per inciso, la cui fedeltà era più
223
antica e fidata, potesse decidere concordemente e in completa autonomia di sopprimere
un avversario politico di grande spicco>>.
Attestare come organizzatori del delitto, dIversi collaboratori di Mussolini, è funzionale a
sostenere poi che il Duce non poteva essere ignaro, dunque era lui il mandante.
Questo ragionamento del Canali è però indimostrato nell’ipotesi di partenza, quella che furono
più di uno ad organizzare il delitto (quando probabilmente, fu il solo Marinelli, imbeccato da
certi “poteri” a cui non poteva dire di no). In realtà tutti gli altri, che avevano vari scheletri
nell’armadio, ne restarono invischiati o coinvolti : Rossi per certi maneggi politici con cui
trafficava e per la sua vicinanza al Dumini, stesa cosa per Finzi attiguo a quel mondo finanziario
speculatore, il Fasciolo perché ne venne coinvolto la sera del 10 giugno quando i rapitori
rientrarono in città (o chissà per quale “traffico”), il De Bono per il suo ruolo di capo della Polizia
per cui si mise a disposizione non si sa bene di chi e perchè. Ma se poi anche un altro di questi
componenti “la banda del Viminale”, era complice con il Marinelli non cambia il contesto di
fondo.
14
Scrive il Canali: «… siamo quindi al 2 giugno (…) …l’ira di Mussolini che si scaglia contro
l‘inerzia dei due collaboratori (Rossi e Marinelli, n.d.r.), si può senz’altro concludere che l’intesa
definitiva tra il Capo del governo e i due responsabili della Ceka per la soppressione di Matteotti
venne raggiunta nell’incontro del 2 giugno».
15
Per attestare un Mussolini assassino, il Canali porta l’esempio di alcune aggressioni
ordinate da Mussolini contro avversari politici, dicendo che potevano finire con un assassinio.
Certo che potevano finire in un assassinio (ma non avevano quelle spedizioni punitive ordini
omicidi) ed in ogni caso non si può asserire che siccome Mussolini avrebbe ordinato un
omicidio in altre occasioni (e questo ordine a freddo non è neppure veritiero), per forza
deve averlo fatto anche per Matteotti.
16
Le necessità tattiche, tattica in cui Mussolini era maestro, non di rado hanno fatto si che lo
troviamo dietro situazioni opposte. Era un modo per interferire chi poteva dar fastidio. Per
esempio lo troviamo, in parte dietro la nascita della corrente revisionista, che poi cercherà di
scompaginare il fascismo e dovrà abbandonare al suo destino; lo troviamo non avverso alla
fondazione del Corriere Italiano, un giornale che può tornargli utile come fonte ufficiosa del
governo e del fascismo e procacciatore di finanziamenti, ma che poi come sappiamo, legato
alla Banca Commerciale e altri ambienti finanziari, prese una diversa strada., E così via..
17
Mussolini ebbe a scrivere: <<Quando io non ci sarò più, sono sicuro che gli storici e gli
psicologi si chiederanno come un uomo abbia potuto trascinarsi dietro per vent'anni un popolo
come l'italiano. Se non avessi fatto altro basterebbe questo capolavoro per non essere
seppellito nell'oblio. Altri forse potrà dominare col ferro e col fuoco, non col consenso come ho
fatto io. (...) Tutti i dittatori hanno sempre fatto strage dei loro nemici. Io sono il solo passivo: 3
mila morti (camice nere – n.d.r.) contro qualche centinaio. Credo di aver nobilitato la dittatura.
Forse l'ho svirilizzata, ma le ho strappato gli strumenti di tortura. Stalin è seduto sopra una
montagna di ossa umane. E' male? Io non mi pento di avere fatto tutto il bene che ho potuto
anche agli avversari, anche nemici, che complottavano contro la mia vita, sia con l'inviare loro
dei sussidi che per la frequenza diventavano degli stipendi, sia strappandoli alla morte. Ma se
domani togliessero la vita ai miei uomini, quale responsabilità avrei assunto salvandoli?
Stalin è in piedi e vince, io cado e perdo. La storia si occupa solamente dei vincitori e del
volume delle loro conquiste ed il trionfo giustifica tutto. La rivoluzione francese è considerata
per i suoi risultati, mentre i ghigliottinati sono confinati nella cronaca nera>>.(Intervista
a Ivanoe Fossati “Mussolini si confessa alle stelle”, 1945, pubblicata nel 1948).
18
Nonostante il termine “Ceka”, non siamo in presenza di una vera polizia segreta, ma un
qualcosa di molto più informale. I sequestratori comunque erano: Amerigo Dumini (30 anni, ne
tracciamo il profilo a parte nel testo, qui basti sapere che era un ex squadrista ed a capo di
questa Ceka); Albino Volpi (35 anni falegname, con qualche condanna per reati comuni, era
224
chiamato il “caimano del Piave” per essersi distintosi in guerra ed aveva partecipato con
Ferruccio Vecchi alla costituzione della Associazione degli Arditi d’Italia, che poi scioltasi, ne
aveva rifondata un'altra a Milano: Arditi di Guerra fascisti. Aveva partecipato ai Fasci di
combattimento vicino a Mussolini); Giuseppe Viola (28 anni, Ardito, commerciante, farà poi
bancarotta ed è accusato anche di diserzione, ma sarà amnistiato. Sospettato di essere una
spia dei sovietici); Augusto Malacria 36 anni, ex capitano dell’esercito comportatosi
valorosamente in guerra e figlio di un generale); Amleto Poveromo (31 anni, Ardito, macellaio
milanese con dei precedenti per reati comuni).
Con partecipazioni non ben definite nel sequestro, ci sarebbero: Aldo Putato (22 anni amico di
Dumini, un ex ufficiale dei granatieri dicesi indebitato); Filippo Panzeri (27 anni Ardito, ma
pregiudicato per reati comuni, condannato per diserzione era stato amnistiato, era definito un
muscoloso teppista); e Otto Thierschald (28 anni, un austriaco chiamato “il russo”, spia ed
elemento dedito a vari traffici, noto alla polizia sotto diversi nomi). Come vedesi degli ex
squadristi ed ex arditi, nell’orbita del fascismo di quegli anni. Sicuramente gente poco
raccomandabile, ma la storia dimostra che nelle rivoluzioni partecipano idealisti e personaggi di
fegato spregiudicati non sempre dalla fedina penale pulita. E’ la natura umana, e del resto le
rivoluzioni non si fanno con gli impiegati pantofolai e le educande, ma sono necessari
anche questi soggetti. La stampa li ha riempiti di vari epiteti dispregiativi, spesso però gratuiti ed
anche per le accuse di diserzione occorre considerare varie contingenze e non
necessariamente gesti di viltà. Nel bene e nel male parteciparono alla Rivoluzione fascista.
Nel novembre del 1923 Dumini, Putato, Volpi e Poveromo, con Panzeri ottimo conoscitore del
francese, andarono in Francia per supportare il fascio locale, ma il loro vero ruolo è ambiguo.
Secondo Paolo Monelli, in un suo vecchio articolo, dove si rifà a quanto scritto da Carlo Silvestri
(in “Matteotti e il dramma italiano”), il 10 gennaio ‘24 Mussolini, in una riunione segreta tenuta a
casa sua a Roma, con il Segretario del Pnf Giunta, il Generale Emilio De Bono, Cesare Rossi,
Giovanni Marinelli e Roberto Forges Davanzati, considerò l’opportunità di costituire una sorta di
robespierriano Comitato di Saluta Pubblica Rivoluzionario a cui viene affidato subito un gruppo
deciso, spregiudicato pronto ad eseguire qualsiasi ordine (la Ceka). Il gruppo avrebbe dovuto
essere agli ordini di Mussolini, organizzato da Marinelli e al comando di Dumini, ma all’atto
pratico, come venne poi a configurarsi restò solo un gruppetto di scagnozzi. Di chi fosse sotto
la responsabilità e comando è rimasto alquanto indeterminato, in quanto le testimonianze ora
indicano Rossi, ora Marinelli. Probabilmente furono entrambi ad esercitare questa
estemporanea gestione. Lo storico Canali è scettico che un dirigente opaco, con funzioni
amministrative, come lui dice fosse il Marinelli, potesse aver avuto da Mussolini la
responsabilità della Ceka, ma questo non è affatto detto, Marinelli oltretutto esercitò anche
cariche nel PNF di ordine direttivo, ed inoltre sulla Ceka, a nostro avviso, avevano influenza o
possibilità di contatto, tramite Dumini, anche in via privata, magari trasversalmente, personaggi
interessati, che non apparivano, attraverso Rossi, Finzi, Marinelli o De Bono.
19
Queste situazioni sono comuni a tutti gli assetti di potere. Si prendano ad esempio i
"democratici" Stati Uniti d'America e si analizzino le loro vicende storiche: troveremo le stesse
manipolazioni, gli stessi processi addomesticati, anzi con il contorno in più di "delitti", "suicidi" e
scomparse eccellenti! E nella democratica Italia: Portella della ginestra, Mattei e Moro, stragi di
Piazza Fontana, Italicus, Bologna, tanto per citare i crimini più eclatanti. Anche qui le indagini su
questi turpi e delittuosi episodi, furono manipolate, depistate, con i "servizi" intenti a inquinare
prove, ministri, generali e alti dirigenti inquisiti e poi, ad anni di distanza, prosciolti o condannati
a pene lievi, processi che non hanno mai individuato i veri mandanti e spesso neppure gli
esecutori, "suicidi" e "delitti" eccellenti a contorno, ecc.
20
Emilio De Bono, il "vecchio fregnone" come lo chiamava Mussolini, per l'uso a farsi mettere
in mezzo da scaltri maneggioni, anche nel caso Matteotti ha avuto molte responsabilità.
Sicuramente il generale, già impicciato in vari trafficucci, era stato tramite di qualche maneggio
attinente al delitto, qualche favore a casa Savoia, ecc., ma probabilmente era estraneo al
progetto omicida.
225
21
Navarra Q., Memorie del cameriere di Mussolini, Ed. L’Ancora del Mediterraneo 2004..
22
Relazione anonima su Clara, In Appendice 14 – R. De Felice, Mussolini l’alleato, Tomo
Secondo, Einaudi 1997.
23
24
“Mussolini il fascista. La conquista del potere”, Einaudi, 1966.
Tiozzo E.:
La giacca di Matteotti e il processo Pallavicini, Aracne 2005.
25
Comunque sia, Filippo Turati che lavorava nelle stesse stanze di Matteotti, non poteva non
sapere a quale dossier il compagno si stava dedicando. E stessa cosa vale per Arturo Labriola.
Il loro silenzio fu colpa, della comunanza massonica di costoro?
26
27
Cfr.: M. Del Giudice, Cronistoria del processo Matteotti, Palermo 1954
Cfr.: Corte di Assise di Roma, Sentenza, dichiarazioni udienza 14 febbraio 1947
28
L’adesione alla massoneria di moltissimi esponenti politici dell’epoca, è un fatto importante
nelle indagini su questo delitto. Al tempo però era normale che molti agitatori, rivoluzionari e
politici, soprattutto gli ex interventisti, avessero la tessera massonica. La Massoneria non era
solo una lobby di potere, ma anche un portato culturale formatosi con il risorgimento.
Praticamente all’epoca o si era massoni o clericali. Ad esempio, Carlo Silvestri, interventista,
giornalista e tessera massonica e così molti costituenti i Fasci di combattimento nel 1919.
29
Vedesi: A. Petacco: “La storia ci ha mentito”, Ed. Mondadori , 2014: Dice il Petacco: «Quel
delitto è molto strano, anche se poi ci hanno versato sopra valanghe di propaganda e di bugie,
etc. È un delitto stranissimo perché io, che oltre lo storico ho fatto anche il giornalista di cronaca
nera, ho seguito il fatto come è accaduto veramente… voi pensate che,10 giorni prima che
aveva stravinto le elezioni politiche, il capo del governo, non ancora dittatore, per fare uccidere
il capo l’opposizione manda 4 manigoldi con una lima arrugginita? Ecco, io proprio per questo
non ho mai creduto che Mussolini avesse fatto il delitto».
30
31
32
33
Vedi: E. Tiozzo, in “Storia in Rete”, N. 111, Gennaio 2014.
A. De felice, Il gioco delle ombre Op. cit.
“Oggi”, n. 51, 13 dicembre 2000.
Cfr. : B. Li Vigni, Le guerre del petrolio, Editori Riuniti 2004
34
Tutti contatti e passaggi, con giri di tangenti petrolifere, non ignoti a Cesare Rossi
responsabile della comunicazione alla Presidenza del Consiglio, sostenuto dal “Corriere
Italiano” di Filippo Filippelli, da Filippo Naldi attiguo a potenti ambienti finanziari, dagli ambienti
finanziari vicino ad Aldo Finzi sottosegretario agli interni, e dagli ambienti della Commerciale.
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Già tempo prima la Standard Oil negli Usa, attraverso la grande stampa e il circuito
Rockefeller, aveva spinto, sfruttando lo scandalo in America che aveva coinvolto la Sinclair Oil,
per il ridimensionamento di questa compagnia.
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Spesso giornalisti e storici, impregnati di antifascismo, perdono la realtà delle vicende
storiche. Tutti presi nel considerare Mussolini intento chissà a quali malversazioni e
accaparramenti, per esempio, interpretano il fatto che Mussolini nel 1934 rinunciò, a vantaggio
degli inglesi, a certe concessioni petrolifere che avevamo in Irak. Dimenticano però di valutare il
contesto storico che portò a quella dolorosa rinuncia. Il fatto è che l’Italia, si stava indirizzando
verso la realizzazione di un grosso progetto geopolitico: l’acquisizione dell’Ethiopia che
necessitava di grossi fondi, e che trovava i britannici strenuamente contrari. Fu quindi
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necessario incamerare più soldi possibile dalla vendita delle concessioni dei pozzi petroliferi in
Irak agli inglesi, e poi barattare segretamente con gli inglesi il “passi” per le nostre navi, che
altrimenti sarebbe stato impedito, anche se questo costituì un ridimensionamento dell’Agip. Fu
così che gli inglesi ci estromisero dal petrolio irakeno, che oltretutto al tempo in Italia non si
valutò che avrebbe raggiunto l’importanza strategica che poi ebbe e in cambio gli inglesi si
limitarono ad una dimostrazione di facciata e a sanzioni destinate a stemperarsi. Insomma
Mussolini giudicò più importante la realizzazione dell’ “Impero” che non il petrolio irakeno:
potrà forse aver sbagliato, ma il giudizio non può riguardare la malafede.
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38
Capacelatro G. “La banda del Viminale”, Ed. Il Saggiatore 2004.
De Felice R.: “Mussolini il fascista. La conquista del potere”, Einaudi, 1966.
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Vari deputati e compagni di partito di Matteotti erano scettici che egli potesse avere
documenti compromettenti da esibire nel discorso alla Camera. E scettici erano anche i familiari
di Matteotti.
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41
De Felice R.: “Mussolini il fascista. La conquista del potere”, Einaudi, 1966.
Storia in Rete, N. 104, giugno 2014..
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Carlo Silvestri, milanese nato nel 1893 e deceduto nel 1955, fu un socialista intimo d Turati
e vicino ad altri esponenti riformisti. Passò dall' Avanti! al Corriere della Sera dove iniziò una
importante carriera da giornalista. Silvestri era stato in sintonia con Mussolini durante la sua
“svolta” interventista del 1914, ma poi ne fu tra i massimi accusatori, dopo il delitto Matteotti.
Aggredito ad ottobre del 1926 dai fascisti, restò seriamente ferito. Più di una volta Farinacci
cercò di fargli fare la pelle. Durante la RSI (1943 - 1945) autorizzato e con l’aiuto di Mussolini
mise in piedi la “Croce Rossa Socialista” che salvò tante personalità dalla fucilazione o
deportazione in Germania. Mussolini aveva scritto di lui:
«Silvestri è un generoso. È appena sfuggito al pericolo di essere fucilato dai tedeschi che già si
occupa della sorte degli altri... Antifascista ha subito molte vicende con molta dignità. Nei suoi
panni e anche per molto meno, altri avrebbe fatto il fuoriuscito; egli invece, è rimasto in Italia, fra
gli italiani e da quando siamo in guerra, so che lo preoccupano soltanto le sorti del Paese. Non
è capace di agire per secondi fini».
Parlando della sua deposizione a Roma, durante il processo per il delitto Matteotti, Silvestri
disse: <<non ho inteso - come tanti faziosi insinueranno - difendere Mussolini, che tante altre
colpe avrà sicuramente da espiare, quanto accusare coloro che sono riusciti a nascondersi
nell'ombra, grazie all'involontaria complicità dei "patrioti" che il 29 aprile del 1945 hanno fucilato
a Dongo Luigi Gatti e Nicola Bombacci. Io ho inteso, al contrario, denunciare la responsabilità di
coloro che riuscirono a deviare le ricerche delle origini del delitto, che ebbe certamente
intenzioni antiproletarie e antisocialiste. L'uccisione di Matteotti è stato uno dei tanti delitti di
quel capitalismo deteriore e cainamente speculatore, cui per gran parte dobbiamo se l'Italia si
trova in queste miserabili condizioni>> Cfr.: Silvestri C., Mussolini, Matteotti e il dramma italiano,
Ruffolo, 1947; C. Silvestri. Mussolini, Graziani e l'antifascismo, Longanesi, 1949].
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Per la testimonianza di Finzi, il Canali mette in dubbio la buona fede dello stesso nel riferire
quelle cose a Silvestri, un Finzi, dice lo storico, che sperava di rientrare in qualche modo
nell’agone politico, una fonte interessata, inoltre, dice lo storico, infida e inattendibile. Ma come
si vede la contestazione di questa testimonianza, da parte del Canali, è più che altro una sua
congettura. Per la testimonianza riguardante Balbo, invece, il Canali fa osservare che il Balbo
era uno strenuo difensore della Milizia e lo stesso Mussolini, nel suo ultimo discorso del 7
giugno prima del delitto, aveva esaltato la Milizia, dicendo alle opposizioni di mettersi in testa
che non sarebbe stata sciolta. Secondo il Canali quindi, non sarebbe possibile che Balbo e
Mussolini avessero affrontato, in quei termini, quell’argomento. Ma anche in questo caso ciò
non toglie che in quei giorni di giugno prima del delitto, Mussolini non ne abbia parlato a Balbo,
magari come ipotesi, come accenno, o altro e che poi alla Camera abbia fatto quel discorso non
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vuol dire niente, non inficia di certo di raggiungere un accordo con i Socialisti dai contenuti
differenti da quelle enunciazioni. Anche questa testimonianza, quindi, per noi resta valida.
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Cfr.: Petacco A., La storia ci ha mentito, Ed. Mondadori, 2014.
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Anzi quel progetto criminoso, come giustamente ricostruisce anche Mauro Canali, era già in
esecuzione dal 20 – 22 maggio quando Dumini impianta all’hotel Dragoni di Roma il quartier
generale per gli elementi della Ceka che arriveranno da Milano..
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Il carattere e l'indole di Mussolini, potevano comprendere azioni di natura violenta,
spedizioni punitive, ma non l'omicidio freddamente premeditato. Molti storici sono concordi nel
non considerare Mussolini un assassino. Per esempio, in quel contesto storico teoricamente,
Mussolini poteva anche aver fatto bastonare Alfredo Misuri e Piero Gobetti, ma non avrebbe di
certo ordinato un assassinio a freddo.
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Massimo Rocca, alias Libero Tancredi, di origini ebraiche, giornalista, era stato anarchico
interventista, poi fascista, divenne deputato e fece parte della direzione del Fasci. Si
caratterizzò per una corrente Revisionista, di stampo liberale, invisa a vari Ras tra cui Farinacci.
Dopo il delitto Matteotti, il Rocca finirà fuoriuscito a Parigi.
48
Rodolfo Putignani: "Processo alla storia", Prime-Time Ed. 1999.
49
A cura di P. Paoletti: Il Memoriale Dumini. Contributo alla storia del fascismo: il delitto
Matteotti, Rivista N. 2, marzo-aprile 1986, Sansoni Editore, Firenze.
50
Scrive Crispo-Moncada: «Secondo le notizie e i dati a nostra conoscenza risulta che Filippo
Naldi, fu Giovanni e di Bigetti Teresa, nato a Borgo San Donnino (Parma) il 30 maggio 1886,
domiciliato a Roma, ecc,.. è uno dei principali, se non addirittura il principale macchinatore
del delitto»
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Anche Mauro Canali avanza dubbi sul viaggio a Parigi di Rossi, scrivendo:
«Rossi era entrato in Francia il 9 maggio e giunto a Parigi vi si era trattenuto alcuni giorni
evitando accuratament4e di incontrare i rappresentati del fascio, egli era rientrato a Roma il 19
o 20 maggio. Considerata la coincidenza tra il ritorno di Rossi e la convocazione a Roma da
parte di Dumini dei suoi complici sembra difficile che non vi fosse alcun nesso tra i due eventi.
E’ del tutto verosimile l’ipotesi che l’ordine di avviare l’operazione criminale venisse dato a
Dumini da Rossi». Secondo noi che il Rossi abbia dato l’ordine criminale è dubbio, ma che
abbia svolto un suo gioco, tutto da definire, in quella vicenda è certo.
52
Enzo Sardellaro nel suo saggio “ Il delitto Matteotti indagine su la figura di Aldo Finzi,
braccio destro di Mussolini fino al delitto Matteotti. (http://www.storiaxxisecolo.it/
aldofinzidelittomatteotti.pdf), circa il Filippelli riporta la deposizione di Pennetta capo dell'Ufficio
di Polizia Giudiziaria:
<< Chi intuì la verità sin dagli inizi fu probabilmente Pennetta, (commissario Epifanio Pennetta,
n.d.r.) capo dell'Ufficio di polizia giudiziaria, il quale giunse alle seguenti conclusioni: "... Gli
esecutori materiali e i loro mandanti immediatamente si prefissero la vendetta politica; altri
invece avrebbero approfittato per la difesa di interessi particolari... ed avrebbero prestato il loro
aiuto senza scoprire gli scopi che cercavano perseguire e fingendo anzi amicamente di aiutarli
unicamente nella loro vendetta politica...". C'erano dunque persone, secondo Pennetta, che
"fingendo" di voler aiutare i mandanti e gli esecutori, tiravano invece solo al proprio interesse.
Tra questi apparentemente "disinteressati" protagonisti c'era Filippelli. "... Non interessi speciali
politici da tutelare aveva... il Filippelli, continuava Pennetta, egli temeva soltanto che l'on.
Matteotti, coi documenti dei quali era in possesso, avesse potuto attaccare l'attività non chiara
del Filippelli stesso in combinazioni finanziarie..." ».
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Tutto sta ad indicare che Amerigo Dumini, tenne sempre Mussolini sotto un implicito ricatto
e il Duce per evitare il riesumarsi di vecchie accuse e coinvolgimento degli interessi di Stato,
preferì accontentarlo nelle sue richieste. Dumini era stato intimo della Presidenza del Consiglio,
la stessa famigerata Ceka non era stata estranea a Mussolini e questo losco ex squadrista
fiorentino aveva avuto parte in spedizioni punitive e speculazioni. Quindi egli sapeva troppe
cose e se avesse vuotato il sacco avrebbe messo nei guai tutto il regime fascista.
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Durante la RSI, Mussolini parlando spesso di queste faccende con Carlo Silvestri, non
sembra che ebbe ad accennare a responsabilità diretta del Sovrano (chiamò in causa putridi
ambienti di finanza e capitalismo corrotto), mentre è ovvio che nel clima del tempo, ferocemente
antimonarchico, se fosse emerso, un richiamo a queste responsabilità di casa Savoia, non
avrebbe mancato di farlo. Il contesto del “petrolio” e tangenti quindi fu un contesto molto esteso
di vari affari e finanza.
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Nel supporre che non lo si voleva morto però non si può non considerare che malmenare un
deputato noto e importante, forse sottrargli documenti e poi lasciarlo in vita, sapendo che ne
conosceva il contenuto ed avrebbe comunque potuto riottenerli e dare elementi per individuare i
rapitori, non è tanto logico. Visto però che, come abbiamo sostenuto, per gli scopi dei mandanti,
ben celati nell’ombra, cioè tacitare Matteotti, recuperare documenti e far cadere Mussolini, sia
un ordine omicida che una spedizione punitiva raggiungono lo stesso scopo, noi lasciamo in
piedi entrambe le possibilità. Probabilmente l’uccisione in macchina fu determinata dalla
reazione di Matteotti e conseguente fendente con una lama che lo uccise dissanguandolo, ma
se proprio dobbiamo dare una preferenza alle varie ipotesi, propendiamo per la sua
eliminazione, magari in un secondo momento, dopo averlo fatto parlare, era comunque stata
messa in conto.
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57
Cfr. La grande piovra, n. f., in Il Popolo d’Italia, 10 agosto 1924.
Cfr.: Rodolfo Putignani: "Processo alla storia", Prime-Time Ed. 1999.
58
M. Barozzi: 25 luglio 1943 Lo “strano” comportamento di Mussolini, su Rinascita 8 Ottobre
2009, e visibile anche nel sito della Fncrsi (in Notiziario 2009):
https://www.facebook.com/sharer/sharer.php?app_id=309437425817038&sdk=joey&u=http%3
A%2F%2Ffncrsi.altervista.org%2Fstrano_comportamento_Mussolini.htm&display=popup&ref=p
lugin&ret=login.
59
Mussolini confesserà molti anni dopo che il discorso di Matteotti lo aveva oltremodo irritato
perché intimamente doveva riconoscere che le accuse di Matteotti che il fascismo stava
divenendo succube di poteri forti e del capitalismo era vera.
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In una testimonianza di Pierre Pascal, circa una intervista rilasciata nella primavera del 1945
a Gargnano da Mussolini allo stesso Pascal, il Duce gli disse:
<<…devo anche soggiungervi una cosa che per quanto ne so non è mai stata raccontata. Ci
sono dei testi da rintracciare. Dei testi, Pascal! Verrà il giorno che si troveranno. Si saprà così
ciò che pensava allora il loro martire (Matteotti, n.d.r.) che io non ho mai cessato di
compiangere! Credete alla mia parola>>. Cfr.: P. Pascal, Mussolini per alla vigilia della sua
morte e l’Europa, “Letteratura-Tradizione”, Esplorazioni e disamine, Heliopolis Edizioni di
Edizioni del Veliero Srl, Pesaro, 2001.
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Cfr.: S. Marano “Mussolini e il Re mio padre, 3 gennaio 1959.
Vedi “Matteotti e Mussolini, vite parallele”, su «Storia In Rete» n. 99.
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Gli storici, sul delitto Matteotti, si sono così divisi:
rispetto a Mussolini: innocentisti o colpevolisti; e rispetto al
rapimento: delitto preterintenzionale, oppure premeditato.
Un altro distinguo è tra coloro che vedono nel movente petrolifero,
considerato preminente, un coinvolgimento del Re Vittorio
Emanuele III ed altri no. Molti si sono accontentati della ipotesi di
Matteo, figlio di Matteotti, che sospettava il Re quale mandante del
delitto del padre, ma senza fornire molti elementi a supporto.
Sorvolando sui lavori più datati, si evidenzia il giornalista storico
Franco Scalzo che ha prodotto un pregevole testo (Il caso
Matteotti, radiografia di un falso storico, Settimo Sigillo, 1997),
pregno di informazioni, concentrate sull’ipotesi affaristica non
disgiunta dai voluti effetti politici, perseguiti dai mandanti del
delitto. Il lavoro del giornalista, innocentista rispetto a Mussolini,
ha dato però l’impressione di aver messo troppa carne al fuoco,
oltre ad alcuni elementi non dimostrabili.
Tra coloro che invece ritengono Mussolini mandante del delitto,
l’inchiesta dello storico Mauro Canali (Il delitto Matteotti. Affarismo
e politica nel primo governo Mussolini, Il Mulino, 1997 e 2004), con
taglio storiograficamente professionale, è divenuto un testo sacro.
Gli innocentisti, viceversa, vanno per conto loro, con tesi
eterogenee, ma nessuno però, si è peritato di confutare quello che
pur chiamano il “teorema del Canali, pregno di congetture”.
Fatto sta che la tesi del Canali pressoché immutata da 17 anni a
questa parte, è oramai al centro di tutta la storiografia sul delitto
Matteotti, ed è quindi necessario affrontarla e sviscerarla per
condividerla in tutto o in parte o per confutarla definitivamente.
L’importanza che essa assume nella letteratura fa sì che ogni altra
ipotesi ci si debba confrontare.
Ci è quindi parso evidente, a noi “innocentisti”, riprendendo una
nostra inchiesta sul delitto Matteotti, ampliarla in considerazione
critica, anche per la tesi di Mauro Canali.
Non abbiamo particolari documentazioni da esibire per confutare il
“Teorema” del Canali, ma riteniamo siano sufficienti gli stessi
documenti da lui considerati e l’insieme di tutto quello che si
conosce sul caso Matteotti e relativo periodo storico, per non
condividere la sua tesi.
Roma - Marzo 2015 – Testo non in vendita – Ai soli fini di studio
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