Piacere, Amerigo Dumini, 11 omicidi…(seconda parte)

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Piacere, Amerigo Dumini, 11 omicidi…(seconda parte)
Gengis Khan, Nerone, il Feroce Saladino, Geronimo, Rasputin, tutti i cattivi che turbavano
i miei sogni fanciulleschi sono stati riabilitati dalla Storia, e si è scoperto che poi “così
cattivi non sono mai” come diceva la canzone….
Sono rimaste solo le mefistofeliche figure di secondo piano, comparse della Storia:
Amerigo Dumini, per esempio….
di Giacinto Reale
Di seguito, qualche riga – senza nessuna pretesa di organicità – su alcune vicende della vita di
Dumini: la spedizione di Montespertoli, la prima del fascio fiorentino, che pure presenta gran parte
delle caratteristiche della successiva stagione squadrista; il curriculum da “galeotto” del nostro,
durante e dopo il Regime fascista, che ne fa, credo, un vero recordman in materia carceraria; la
questione dei “sussidi” ricevuti fino al 1939, che dovrebbero comprovare il legame ricattatoria che lo
univa ai vertici fascisti, e, quindi, la diretta responsabilità di Mussolini nell’omicidio Matteotti.
(1)
LA PRIMA SPEDIZIONE PUNITIVA: Montespertoli, 11 ottobre 1920, lunedì: un grosso
bandierone rosso sventola dal balcone del Municipio; è la prima conseguenza della
vittoria socialista alle elezioni comunali della domenica.
In paese c’è fermento da qualche giorno: ai due/tre fascisti locali si accompagna un
giovanottone alto e moro, dall’accento meridionale; tutti pensano sia un poliziotto in borghese,
e si interrogano su che cosa stia tramando.
In effetti, si tratta di Gennaro Abbatemaggio, uno dei protagonisti “dalla parte dei buoni” del
famoso processo Cuocolo alla camorra, che è stato volontario di guerra, Ardito, legionario
fiumano, e ora simpatizza per la causa fascista. (1)
A fargli compagnia, nel pomeriggio dell’11, scendono dalla corriera proveniente da Firenze
quattro uomini, dalle fisionomie decise: Amerigo Dumini, Bruno Frullini, Attilio Paoli e Giacinto
Fani, che si danno subito da fare: “Lo scopo era quello di imporre ai trionfanti pussisti che
avevano conquistato quel Comune, di inalberare, anziché il cencio rosso, la gloriosa bandiera
tricolore… Ci recammo nel caffè principale, covo dei comunisti, ove attaccammo senz’altro a
voci spiegate, l’Inno degli Arditi.
Giacinto Reale
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Qualcuno sgusciò fuori zitto zitto, molti vollero opporsi al nostro canto con offese volgari.
Volarono pugni e bastonate, finché avemmo ragione degli avversari inviandoli a letto”. (2)
Fattasi sera, ed obbligati a restare in paese, perché non ci sono più corriere, i cinque pensano
di mettere a frutto la notte per sistemare la faccenda del famoso bandierone.
Non hanno calcolato, però, che l’allarme per la loro presenza si è sparso dappertutto: “Tutta la
notte – il tempo era bello – staffette corsero per vari sentieri tra boschi e campi fino ai poderi e
ai casolari delle frazioni più avanzate… Si disposero blocchi stradali… Con vanghe, falci,
zappe, forconi, con una decisa e silenziosa determinazione, quasi tutti i contadini (ed erano
centinaia) si erano venuti radunando in piazza per difendere il Comune”. (3)
Lo sparuto gruppetto fascista non può fare altro, a questo punto, che asserragliarsi nella
Caserma dei Carabinieri; rinforzi di truppa arrivano da Firenze, mentre ad un camion con una
trentina di squadristi accorsi in soccorso, viene impedito l’accesso al paese.
Dopo qualche ora, ristabilita la calma, i cinque imprevidenti – il cui capo è Dumini – possono
ripartire, sotto buona scorta, e tornare nel capoluogo, per ricevere elogi ed affrontare
polemiche, a seconda di come l’episodio venga giudicato (prova di coraggio o incosciente
esibizionismo?) nel loro stesso ambiente.
Niente di speciale, come si vede: eppure, ci sono già molti degli elementi che
accompagneranno l’intera stagione squadrista: la sfida di pochi (pochissimi) contro molti
(quattro contro un paese intero); la sfrontatezza ardita (i canti nell’osteria, alla faccia dei
paesani); l’obiettivo simbolico (togliere il bandierone rosso), senza che siano previste violenze
alle persone; il pressapochismo e la mancata formulazione di un “piano B” (quando i soccorsi
da Firenze provano ad arrivare – ed anche qui: 30 uomini appena –, nessuno ha pensato a
“come”, e infatti, incappano nelle maglie poliziesche e non riescono a passare); la litigiosità
interna, che prende corpo nell’eterno conflitto moderati (“era meglio non andare, se doveva
finire così”) contro estremisti (“bisogna dimostrare di non avere paura, mai!”).
Dumini, comunque, ne uscirà complessivamente bene: conferma il suo coraggio spregiudicato,
il suo ruolo di leader, e, nello stesso tempo diventa l’elemento più rispettato e temuto dagli
avversari: nei mesi a venire, quasi ovunque in Italia, ogni volta che ci sarà un protagonista di
fatti di violenza che parla con accento toscano, le vittime faranno il nome di Amerigo Dumini.
(2)
GALERA SOS: ricostruire il percorso di vita di Dumini dopo l’omicidio Matteotti, non è
facile, per l’accavallarsi di vicende diverse, in Italia e fuori; colpiscono, però, i lunghi
periodi trascorsi tra carcere e confino. Il che, per un “sicario superprotetto” appare
perlomeno strano.
Provo a fare una ricostruzione, suddividendola in due momenti: cominciamo dal ventennio
fascista:
a)
Trieste, agosto 23: arrestato, al rientro dalla Jugoslavia, per “traffico d’armi con
Giacinto Reale
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paese straniero”(vicenda, i cui esatti risvolti non saranno mai chiariti)… resta in
cella per un periodo brevissimo (forse un paio di giorni);
b) Roma, 12 giugno 1924: arrestato per l’omicidio Matteotti… condannato il 24 marzo
del ’26 a 5 anni, 10 mesi e 20 giorni di detenzione, oltre che all’interdizione dai
pubblici uffici, al pagamento delle spese processuali e al risarcimento dei danni;
viene inoltre espulso dai ranghi dell’Esercito e privato della Medaglia d’argento,
oltre che della pensione di mutilato.
A seguito dell’amnistia del ‘25, 4 anni vanno detratti dal computo, per cui esce dal
carcere il 26 maggio 1926 (1 anno e 11 mesi di detenzione);
c)
Roma, 23 settembre 1926: arrestato per “oltraggio al Capo dello Stato” (con
riferimento ad alcune espressione profferite in un bar ed ascoltate da uno degli
agenti che costantemente lo tengono sotto controllo)… condannato (anche per il
possesso di una pistola non denunciata) il 9 ottobre dello stesso anno a 14 mesi e 20
giorni di reclusione, oltre alla multa di lire 1000.
Questa condanna, così com’è, comporta l’annullamento del condono di 4 anni avuto al
processo Matteotti… solo la Grazia Sovrana, ottenuta all’ultimo minuto, sventa il
pericolo, e così esce dal carcere il 20 dicembre del 1927 (15 mesi di detenzione);
d) Firenze, 4 maggio 1928: arrestato per le lesioni provocate nel corso di una rissa
(con l’ex squadrista Adamo Aiazzi, per una storia di donne)…scarcerato qualche
giorno dopo per la derubricazione della gravità delle lesioni (sarà poi assolto al
processo celebrato nel 1933);
e) Chisimaio, 29 settembre 1928: arrestato nella cittadina libica (dove si trova in cerca
di lavoro), rimpatriato e avviato al confino alle Tremiti, con condanna a 5 anni “per
aver avuto rapporti con fuoriusciti, e precisamente con Cesare Rossi”….usufruisce
dell’amnistia del decennale (1932) e viene liberato il 14 novembre del 1932 (4 anni e
2 mesi di confino);
f)
Roma 12 aprile 1933: arrestato “per sospetto tentativo di espatrio clandestino”,
inizia uno “sciopero della fame”, e viene scarcerato il 29 aprile (17 giorni di
detenzione);
g) Firenze, 17 luglio 1933: arrestato “per sospetto tentativo di espatrio clandestino”, è
condannato a 5 anni di confino… scarcerato a fine aprile dell’anno dopo, viene
avviato in Cirenaica, dove gli assegnano una concessione agricola (9 mesi di
confino).
In totale, quindi, tra carcere e confino, 8 anni e 6 mesi circa di detenzione… non mi sembrano
pochi per quello che viene considerato “uomo di fiducia e sicario di Mussolini”.
Giacinto Reale
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Chi ancora si gingilla con la bubbola di un Dumini “ricattatore” di Mussolini, perché in
possesso di segreti indicibili e documenti (mai trovati) accusatori, dovrebbe forse interrogarsi
su questi numeri: dei 19 anni intercorrenti tra l’omicidio Matteotti e la caduta del fascismo, il
toscano ne passa quasi 9 tra carcere e confino e altri 9 in terra di colonia.
E va ancora aggiunto che i suoi periodi di libertà sono una via crucis di persecuzioni
poliziesche che coinvolgono anche i familiari, fino all’arresto, per esempio, della compagna e
del padre, nel luglio del ’33.
Anche a voler prescindere dai singoli episodi, ognuno dei quali ha una storia a sé, talora non
completamente chiarita, il minimo che si può dire è che nei suoi confronti non viene usato
alcun favoritismo.
Ci saranno poi:
a. 1 mese e mezzo in carcere “preventivo”su ordine del Governo Badoglio;
b.
3 mesi in carcere “a disposizione delle superiori autorità” agli inizi della RSI, per
opera della “Banda Carità”.
E infine, a Repubblica democratica ed antifascista dichiarata:
c.
10 anni di carcere – in due tranche – tra il 1945 e il 1956, sempre per il delitto
Matteotti.
(3) L’ODORE DEI SOLDI: Mayda, nella sua prevenutissima biografia (colma di errori, come ho
detto) si incaponisce con il calcolo dei “contributi” finanziari che Dumini avrebbe
ottenuto dal Regime, per un totale, in 12 anni, di circa 390 mila lire.
Andando a spanne, sulla base di una conversione ISTAT che ho trovato in rete, dovrebbero
essere circa 500 mila euro; una grossa cifra comunque, che, però credo meriti due parole di
commento:
– quasi il 70% (260 mila lire circa) della cifra totale è concentrate in solo 9 grossi
finanziamenti: in mancanza di ulteriori spiegazioni, e non potendosi qui fare un raffronto
incrociato tra le date e la posizione del Dumini, si può ragionevolmente ipotizzare che tali
denari siano destinati al pagamento di avvocati, spese processuali e risarcimento alla
controparte per il delitto Matteotti, oltre che – assegnati nei periodi nei quali il Dumini era al
confino – ad assicurare la sopravvivenza, in mancanza di altri mezzi di sostentamento, a lui
stesso, alla sua compagna, ed ai genitori malati.
Per il resto (130 mila lire circa suddivise in una ottantina di volte), si tratta, in genere, di
modeste sovvenzioni (anche di 3/500 lire) probabilmente destinate a soddisfare piccole
Giacinto Reale
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esigenze di sopravvivenza quotidiana.
Non si tratta, comunque, di un caso isolato. Sarebbe troppo lungo fare qui un elenco completo
delle sovvenzioni che il Regime (e spesso Mussolini in persona) concede, negli stessi anni, ai
tanti richiedenti: non solo squadristi falliti, ma, soprattutto, intellettuali di scarsa fortuna e con
qualche vizio, giornalisti appassionati di cavalli, pittori dagli incerti successi ma dalle voraci
esigenze, etc; ad essi andranno soldi (a molti anche per il canale-OVRA) e, quasi sempre,
appoggi nella ricerca di un editore e sostegno nel procacciamento di recensioni e giudizi
favorevoli per libri e mostre d’arte.
Faccio solo un nome: Sibilla Aleramo, scrittrice, protofemminista, con simpatie socialiste,
firmataria del crociano “Documento degli intellettuali antifascisti”, poi, dopo l’8 settembre,
“organica” al PCI, riceve, tra il 1928 e il 1943, 230mila lire, e non mi sembrano poche.
Di certo c’è che Dumini conduce – almeno fino al periodo africano – una vita di stenti (nella
quale trascina i cuoi cari) e che il sequestro totale dei suoi beni disposto nel dopoguerra dalla
Magistratura antifascista darà miseri risultati… un po’ di soldi gli verranno – inaspettatamente
– dai diritti della sua autobiografia.
Insomma: qualche “fantasiosa “costruzione anche qui, e la sottovalutazione di indizi che,
invece vanno contro la vulgata del sicario assoldato col compito di punire gli avversari del
Regime.
Questo, per esempio: nella primavera del ’23 Dumini si trasferisce a Roma, chiamato – questa
la versione corrente – ad organizzare quella Ceka fascista che deve rendere la vita difficile agli
avversari. Con lui, Aldo Putato, che sarà poi anche presente nell’auto al momento del
rapimento di Matteotti:
“Entrambi ebbero l’incarico ufficiale di ispettori viaggianti alle vendite (del “Corriere italiano”
di Filipelli ndr), con il compito di controllare e seguire la diffusione del quotidiano. Il loro
stipendio fu fissato in 2.500 lire mensili, ma a Natale Filippelli lo ridusse a 1.500 perchè i due
non si facevano quasi mai vedere in redazione”. (5)
E anche questo è strano: un killer assoldato e obbligato a trasferirsi a Roma, al quale viene
trovato un incarico di copertura, il cui stipendio, però, sarà d’autorità ridotto, per “scarso
rendimento”, senza che i suoi “protettori” facciano niente… sembra piuttosto il trattamento
riservato ad un qualunque questuante al quale, per toglierselo dai piedi, alla fine è stato
trovato un qualsivoglia impiego.
Per finire, anche se un po’ “fuori tema”, un cenno alla vicenda Matteotti, nella quale il nostro ha un
ruolo importante, ma se ne vedrà assegnato, dalla vulgata corrente (e anche in sede giudiziaria) uno
ancora più rilevante. (6)
Ruolo che ne fa, di fatto, il primo responsabile di un atroce delitto che si ipotizza voluto e consumato
a freddo, nonostante a favore della preterintenzionalità giochino una serie di incontrovertibili
Giacinto Reale
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elementi:
assenza di qualunque precauzione nelle fasi che precedono il rapimento: l’auto
viene regolarmente noleggiata da Filipelli; la mattina del rapimento Dumini si
reca tranquillamente al garage per farsi fare il pieno di 100 litri; uno degli
incaricati della sorveglianza dell’abitazione di Matteotti si fa fermare ed
identificare, perché “sospetto” dai fascisti del quartiere; il numero di targa, non
mascherato in alcun modo, viene notato e appuntato da alcuni abitanti della
zona;
dinamica del rapimento che ricorda molto da vicino una comica di Charlot
piuttosto che l’operato di “professionisti della violenza”: in tre non riescono a
bloccare e tenere fermo Matteotti; vengono a diverbio con due ragazzini che si
stanno gustando la scena e che, però, si beccano un ceffone (forse) proprio da
Dumini; richiamano, per la loro goffaggine, l’attenzione di diversi passanti, con
uno dei rapitori che resta appeso allo sportello per alcune centinaia di metri, e
due che fuggono a piedi, perché non riescono a rientrare in auto;
sgomento dei rapitori al momento in cui si accorgono della morte del rapito: per
due ore vagano, con il cadavere a bordo, nella campagna romana, per decidere
come disfarsene; fanno 250 chilometri con quel pericoloso carico, finché
procedono ad una sepoltura di fortuna, utilizzando gli attrezzi in dotazione alla
vettura: un cavacopertoni, la leva del crick, una lima ed un martello;
serie di comportamenti irrazionali dopo il rientro a Roma: tornato in città,
Dumini va a parcheggiare l’auto – che tutta impolverata ed infangata non può
non dare nell’occhio – nel cortile del Viminale; poi la trasferisce, con una scusa,
nel garage di un giornalista all’oscuro di tutto; infine prova ad asportare, con
mezzi di fortuna, le parti della tappezzeria insanguinate… insomma, una serie di
errori, uno dopo l’altro;
mancata organizzazione di un piano di fuga: nel giro di 15 giorni i responsabili
sono tutti arrestati, e due solo riescono ad espatriare prima che le manette
scattino anche ai loro polsi.
Di fronte a tutto questo, sostenere che i quattro (o gli otto, anche sul numero ci sono versioni
contrastanti) rapitori di Matteotti si siano dati convegno sul lungotevere Arnaldo da Brescia per
ammazzare mi sembra abbastanza fuori della logica. (6)
Sarà il caso di ricordare, infine, che tre mesi prima dell’agguato a Matteotti, il 12 marzo, alla
stazione di Milano Dumini e Volpi (e forse qualcun altro della stessa squadretta di Roma) hanno
organizzato un’aggressione a Cesare Forni, ras fascista dissidente; questi, che è un gigante forte e
coraggioso, si difende con molto più vigore di Matteotti, ma se la caverà con qualche costola rotta.
(7)
E prima c’erano state l’aggressione all’altro fascista dissidente Misuri e quella ad Amendola, sempre
senza esiti letali.
Giacinto Reale
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Questo per dire che scopo di queste “operazioni” (condannabili, ca va san dire) è di intimidire
l’avversario e i suoi seguaci, non certo di provocarne la morte, che non sarebbe utile a nessuno,
anzi…
Per tornare a Dumini, e chiudere, credo si possa affermare che era un “uomo di mano”, capace di
essere violento in tempi di violenza (subita e praticata), ma non un bravaccio; di buona cultura e con
un corretto modo di porsi, si trovò coinvolto – involontariamente – in un gioco più grande di lui, e finì
stritolato tra la ragion di Stato che non poteva difenderlo e i nemici politici che ne fecero obiettivo di
una campagna di odio e falsità con pochi precedenti.
Stavolta si può tranquillamente condividere la tesi di Mayda: “Dumini impersonava l’immagine
stereotipata che l’antifascismo aveva del fascismo”.
NOTE
(1)
Abbatemaggio, poco tempo dopo sarà allontanato dal movimento fascista; Pasella
scriverà da Milano a Luigi Zamboni, responsabile del fascio fiorentino: “Avrà letto oggi
stesso (11 novembre ndr) su “Il Popolo d’Italia” la nostra diffida circa questo figuro.
Allontanatelo da voi e fatelo allontanare da tutti gli amici. È uno scroccone che si è recato
da tutte le parti a battere cassa desiderando vivere senza far nulla” (in: Roberto
Cantagalli, “Storia del fascismo fiorentino 1919-25”, Firenze 1972 pag 127)
(2)
Bruno Frullini, “Squadrismo fiorentino”, Firenze 1933, pag 39
(3)
Cantagalli, op cit, pag 118
(4)
Durante la detenzione, Dumini non rinuncia al suo spirito toscanaccio, e si fa stampare
carta da lettere con l’emblema nazionale del PNF e l’intestazione: “Gruppo Arditi Fascisti
– Distaccamento di Regina Coeli – via della Lungara 29, Roma
(5)
Mayda, op cit, pag 139
(6)
La più completa ricostruzione (anche se da leggere, al solito, con la dovuta cautela) è
quella di Mauro Canali: “Il delitto Matteotti”, Bologna 1997; numerosi poi i volumi sulle
“motivazioni” della vicenda
(7)
E infatti, varie tesi si sono via via sovrapposte (volevano ucciderlo ma in un secondo
momento, volevano interrogarlo sui fatti di Francia e poi ucciderlo, volevano sottrargli i
documenti relativi a scandali finanziari, etc) anche in contraddizione tra di loro, ma tutte
concordi nell’escludere la volontà di uccidere “in quel luogo e in quel momento”
(8)
Per i dettagli, vds: Pierangelo Lombardi, “Il ras e il dissidente”, Roma 1998
Giacinto Reale
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