La partecipazione come apertura alla convivenza

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La partecipazione come apertura alla convivenza
Animazione Sociale marzo | 2010 inserto | 67
La partecipazione
come apertura
alla convivenza
Il lavoro di comunità
con i sinti e i rom
di Venezia-Mestre
Gli operatori sociali,
se alla base del loro
agire pongono
lo sviluppo di relazioni
dentro la comunità
locale come via per
l’emancipazione per
tutti i gruppi, vengono
a perseguire il loro
mandato ponendosi
«tra» i vari gruppi,
attivando spazi
di riconoscimento,
dialogo sui problemi,
invito a non
fossilizzarsi sul
proprio punto di vista.
Se si riconosce
ai gruppi la dignità
di produttori
di significati, questi
possono percepire che
l’abitabilità chiede una
partecipazione critica,
senza nascondere
i problemi, nell’intento
di individuare «aree
di comunanza»
entro cui delineare
diritti e doveri.
Troppo spesso i progetti nei confronti dei sinti sono
segnati da assistenzialismo e paternalismo, sintomi di
relazioni asimmetriche. Il dialogo che qui presentiamo
mette in luce, al contrario, una «pratica delle relazioni» all’insegna dello sviluppo di comunità che sostiene
e favorisce la cittadinanza attiva dei sinti. Il servizio
Etam del Comune di Venezia ha accompagnato i sinti
anche in momenti molto conflittuali di ostilità nei loro
confronti che hanno assunto una visibilità mediatica
di livello nazionale. Senza chiudere gli occhi di fronte
alle contraddizioni, il lavoro educativo di comunità ha
insistito sia sull’empowerment sia sulla costruzione di
legami sociali con il quartiere. Nei momenti più duri di
ostilità, il servizio ha comunque continuato a lavorare
sulle relazioni fra la comunità sinta e il quartiere, ma al
contempo ha cercato modalità artistiche e creative per
aiutare i sinti stessi a parlare con tutta la città. L’uso di
una pluralità di strumenti artistici e culturali (mostre,
spettacoli, pubblicazioni) ha aiutato a costruire conoscenza e anche consenso, favorendo occasioni di confronto, di scambio, vicinanza e la costruzione di alleanze
via via più larghe. In questi processi gli operatori si sono
lasciati mettere profondamente in discussione rispetto
al loro operato, senza mettersi al riparo dal cambiamento che stavano promuovendo.
Ripamonti | Il servizio Etam del Comune di Venezia è una
delle poche esperienze italiane di servizio pubblico con
Inserto del mese I La scelta dell’educare per convivere tra sinti e gagé
Conversazione fra Ennio Ripamonti
e Radiana Gregoletto
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personale dipendente specializzato in interventi di comunità. In questo ambito sono decisamente più frequenti nel nostro Paese situazioni di progettazione «a termine» portate
avanti da organizzazioni del Terzo settore (associazioni di promozione sociale, cooperative,
consorzi) con finanziamenti specifici e, in larga parte, temporalmente circoscritti. Prima
di affrontare il tema del vostro lavoro con i gruppi sinti e rom del territorio sarebbe interessante ricostruire, a grandi linee, la storia di questo servizio e delle principali questioni
di cui vi siete occupati in questi anni.
Gregoletto | Il servizio Etam - Animazione di comunità e territorio è attivo dai primi
anni ’90 e, come tu hai ricordato, è una delle poche esperienze in Italia di servizio pubblico che lavora nell’ambito dello «sviluppo di comunità». Formato esclusivamente
da educatori, il servizio nasce con la finalità di attivare processi che facilitino «le forme
del partecipare» dei cittadini alla vita della città, attraverso iniziative e progetti attuati
con l’apporto attivo degli abitanti residenti nelle varie comunità territoriali e/o dei
servizi istituzionali operanti nel territorio. Le prime esperienze del servizio tendono
a creare spazi di confronto, non necessariamente di accordo, tra l’amministrazione
e particolari settori della città, alcuni quartieri, diverse zone sociali e urbane.
Lo strumento principale di lavoro è l’animazione di comunità, intesa come una
«particolare strategia di cambiamento», basata sull’ascolto, sulla valorizzazione
delle risorse e sul rispetto dei saperi e delle conoscenze. Il lavoro di comunità
rappresenta una forma di intervento sociale che assume la comunità come soggetto che esprime volontà di autodeterminazione e di cambiamento. E i soggetti,
a seconda delle situazioni, sono stati negli anni diversi e differenti quali persone,
gruppi spontanei, associazioni, organizzazioni e famiglie.
Per il nostro servizio la comunità e il territorio, intesi come soggetti con i quali
collaboriamo e luoghi dove viene effettuato il nostro intervento, hanno nel tempo
cambiato sembianze. Dai cittadini degli insediamenti popolari della terraferma
veneziana, la nostra attenzione si è estesa alla comunità sinta e poco dopo a luoghi
della città dove l’attenzione delle persone è spesso rivolta alla difficile convivenza
con i cittadini di altra nazionalità.
Il superamento delle distanze
Ripamonti | Quando e come il vostro servizio è stato coinvolto dal Comune nell’intervento
con i gruppi sinti-rom di Mestre?
Gregoletto | Il progetto ha inizio nel 1998 e riguarda l’aspetto sociale collegato
all’operazione di ricollocazione del campo sinti e rom all’interno di un progetto
urbanistico più ampio, inserito nel primo Contratto di quartiere gestito allora dal
Ministero dei Lavori pubblici. È importante dire che la comunità a cui facciamo
riferimento è di nazionalità italiana da diverse generazioni ed era composta, nel suo
insieme, da circa 45 nuclei famigliari. Con l’approccio del Contratto di quartiere
si riconosceva che non era sufficiente «fare nuove case», ma era necessario tenere
intrecciate la dimensione urbanistico-abitativa e la dimensione sociale e culturale.
Il progetto riguardava l’area del campo nomadi di Via Vallenari dove era previsto
sorgesse un nuovo insediamento abitativo per famiglie e per anziani, insieme a una
zona a verde pubblico. Il campo invece doveva essere trasferito a Favaro nei pressi
di Via Martiri della Libertà, attraverso un progetto sociale in cui veniva prevista la
«progettazione partecipata» con gli abitanti e la realizzazione di strutture, moduli
abitativi innovativi, spazi e servizi in grado di migliorare notevolmente la qualità
della vita e la sicurezza dei residenti rispetto alla situazione precedente.
È alla fine del 1998 che muove i primi passi la lunga e coinvolgente relazione tra
il nostro servizio e i cittadini rom e sinti di Mestre, con lo scopo di attivare la loro
partecipazione diretta alle scelte da prendere rispetto alla loro condizione di vita e
per definire, insieme all’Istituzione pubblica, un progetto in grado di tenere conto
e rispettare il loro modo di abitare la città.
Fino a questo momento i contatti fra la comunità sinta e gli operatori del Comune
erano stati pochi e del tutto occasionali. Nel passato recente il campo era stato
frequentato quasi esclusivamente da alcuni volontari. Per l’équipe di Etam si è
trattato quindi di un mandato che, in un primo momento, ha fatto affiorare una serie
di paure legate alle nostre rappresentazioni rispetto a quella comunità, riflessioni
legate al modo di proporsi a quei cittadini così presenti in città ma così sconosciuti
e, a volte, così invisibili ai nostri occhi. La novità e la voglia di confrontarsi anche
con questa parte della città alla fine ha prevalso, facendo scattare entusiasmo e
volontà di affrontare questa nuova esperienza.
Ci sembra interessante riuscire a riconoscere queste rappresentazioni da parte di
operatori sociali. Non è raro assistere ad atteggiamenti di velata negazione di queste
paure, quasi che gli operatori fossero scevri da pregiudizi o dall’influenza delle
rappresentazioni sociali che circolano nella società. Le ricerche ci dicono che le
comunità rom e sinte sono quelle che evocano maggiormente sentimenti di paura,
atteggiamenti di sospetto e presa distanza. Si tratta di processi che ci chiamano in
causa direttamente, come cittadini e come operatori, sia a livello individuale che
organizzativo (come équipe e/o servizio).
Certo, questo passaggio interno all’équipe è stato fondante. Dopo di che il processo
si è messo in moto. Poco dopo infatti a Mestre è stato organizzato un convegno sulla
situazione dei profughi dell’ex Jugoslavia e abbiamo deciso di cogliere l’occasione
ed essere presenti per cominciare a conoscere alcuni del campo. Effettivamente
l’approccio stesso a questa comunità non ci è venuto «naturale» come nostro solito. Generalmente quando iniziamo a lavorare con la gente di un quartiere non ci
facciamo molti problemi: andiamo in strada e fermiamo le persone, cominciamo
a chiacchierare con loro, conosciamo il territorio assieme agli abitanti che ce lo
raccontano, lo guardiamo attraverso i loro occhi e la loro concreta esperienza di
vita quotidiana. Avviene tutto molto naturalmente.
Questa modalità, nel caso della comunità di Via Vallenari, non ci convinceva molto:
era come se quel contesto avesse dei confini diversi da quelli a noi noti, un perimetro ben preciso ma difficile da individuare e, soprattutto, da varcare. Come se,
benchè vivessimo nello stesso luogo, ci separasse una netta linea di demarcazione.
Avvertivamo la distanza. Pensavamo che il modo migliore, o forse quello che in quel
momento ci veniva più facile immaginare, fosse quello d’incontrarsi in un «luogo
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neutro», che non invadesse il loro spazio e dove fosse possibile un incontro libero,
dove fosse più facile dire «no, grazie, ma questa proposta non mi interessa».
Ripensandoci credo che in noi abbiano giocato sentimenti fortemente contrastanti,
poiché eravamo davanti a una comunità differente dalle altre che abbiamo praticato
negli anni e con la quale il confronto avrebbe fatto emergere questioni che chiamavano in causa la nostra soggettività e il nostro rapporto con ciò che definiamo come
diversità. La cosa comunque funzionò e dopo pochi giorni due operatori di Etam
erano già al campo a discutere con loro, a intrecciare le prime relazioni.
La scommessa sulla partecipazione
Ripamonti | Esitare nell’approccio indica attenzione e rispetto. Riconoscere la difficoltà
nel «trovare le misure» per approcciare un interlocutore sconosciuto richiede un atteggiamento di umiltà e di rispetto dell’altro. Anche per evitare il rischio di avviare una relazione
che pre-figura l’altro prevalentemente come un «utente» da assistere, scenario molto
ricorrente nelle esperienze di lavoro con i gruppi rom e sinti. Come individuare modalità
di lavoro sociale ed educativo che permettano di andare oltre una logica squisitamente
assistenziale (peraltro importante)? Più da vicino, come avete interpretato l’approccio
dello sviluppo di comunità in questa situazione, inedita per il vostro servizio?
Gregoletto | Non è stato semplice adattare a quel contesto i metodi e gli strumenti
professionali che abbiamo collaudato in altre situazioni. Ci trovavamo davanti a
una realtà completamente diversa che dovevamo per prima cosa conoscere.
È stata questa attenzione alla conoscenza che ci ha consentito di decodificare questa
realtà e di acquisire la consapevolezza necessaria a riconoscere le diversità in gioco,
a volte radicali: ciò che era vero per loro non lo era per noi, ciò che in altre situazioni
abbiamo sempre dato per scontato, lì con loro, non lo era affatto. Abbiamo dovuto
riformulare insieme concetti e comportamenti, dando significati nuovi (alle parole
e alle azioni) che comprendessero la nostra e la loro visione della vita.
Parlare di progettazione ha voluto dire confrontarsi con un modo diverso di concepire il futuro, con un concetto molto pervasivo di precarietà esistenziale (oggi ci
siamo, domani chissà...) che connota la loro vita costituendo una diversità sostanziale nel modo di approcciarsi alle cose. Abbiamo inoltre dovuto ripensare con
loro i modi e gli strumenti più adeguati per far partecipare tutti alle decisioni che si
prendevano. Non solo perché l’analfabetismo di molti membri del gruppo rendeva
impossibile adottare approcci centrati sull’uso della parola scritta, ma anche perché
l’idea di rappresentanza che noi operatori proponevamo non era contemplata da
una comunità in cui si decide per sé e per il proprio nucleo familiare.
Dopo una fatica iniziale ci siamo però resi conto che le cose potevano comunque
funzionare e che tentare di promuovere un coinvolgimento partecipativo che includesse tutti era la scommessa su cui puntare. Riformulare insieme la prospettiva
futura della comunità era un passo decisivo per il percorso che avevamo davanti.
Alla fine il percorso è emersa la proposta di costruzione di un nuovo villaggio, nella
forma di una soluzione abitativa che fosse nel contempo rispettosa della cultura
della comunità sinta e integrata nel contesto più ampio della città.
Ripamonti | L’itinerario descritto dice molto sui fenomeni di apprendimento collettivo
e sul cambiamento sociale. Le culture sono dinamiche e osmotiche. Si trasformano.
La stessa partecipazione è un processo che si apprende sperimentandolo. È possibile
conservare aspetti di una cultura (per esempio, il modo di abitare) e trasformarne altri
(per esempio, il modo di prendere decisioni). Altrimenti il rischio è di congelare le culture
di gruppo in un assetto a-storico. Il successo del percorso partecipativo che ha condotto
a una decisione condivisa ne è una conferma.
Ma qui viene chiamata in causa un’altra questione cruciale: la fiducia. Nel lavoro di
comunità è di fondamentale importanza costruire un rapporto fiduciario con quelli che
vengono considerati i destinatari dell’intervento al fine di coinvolgerli in maniera attiva
nel processo di sviluppo.
Come avete fatto a costruire questo rapporto fiduciario?
Gregoletto | Sto pensando che, vista la complessa vicenda del trasferimento del
campo, la costruzione di questo rapporto di fiducia per noi non ha riguardato
solamente la comunità sinta, ma anche una serie variegata e composita di soggetti
sociali che in questi anni sono stati coinvolti nel progetto: amministratori, tecnici
dell’assessorato alla casa, all’urbanistica e al patrimonio, operatori sociali di altri
servizi, volontari e semplici cittadini, operatori di aziende municipalizzate, giornalisti e altro ancora.
Con tutti questi interlocutori è stato fondamentale far comprendere che l’azione
di Etam poteva certo facilitare la comunicazione («aprendo porte» e «costruendo
ponti») ma che alla fine sarebbe stato indispensabile confrontarsi direttamente
con le istanze della comunità sinta. È stato necessario sottrarsi a un ruolo di eccessiva mediazione indiretta per poter promuovere un confronto diretto, ovviamente
preparato e accompagnato. In questo modo è stato possibile far sperimentare
alle diverse parti che il confronto, su problemi ben identificati, può produrre una
soluzione soddisfacente. Capita sovente che non sia tanto «il problema in sé» a
rendere intricate le situazioni quanto le diverse «rappresentazioni» del problema.
Gioca qui il potere deformante degli stereotipi. Molte cose sono state risolte facendo
incontrare le due parti, creando uno spazio che potesse garantire le diverse opinioni
e che riportasse sempre al centro il motivo per cui si era lì, cioè il problema.
Va detto peraltro che con la comunità di Via Vallenari, la costruzione del rapporto
di fiducia è stata una tappa obbligata del percorso, come dire «o ci stai, oppure non
fa per te». Questo lo senti subito quando entri al campo: loro comunicano con gli
occhi, con i gesti, attraverso le situazioni che accadono che sono diversi da te, ma
non per questo meno di te. E se vuoi restare, se vuoi costruire un impegno reciproco «devi metterti in gioco», devi scegliere di confrontarti, a volte senza afferrare
completamente il senso di quello che sta accadendo e nella consapevolezza che sei
all’interno di un incontro che produce trasformazione, che modifica te e l’altro.
Noi ci siamo stati, a volte con molta fatica e altre con grande entusiasmo.
Una reciproca trasformazione
Ripamonti | Quindi una trasformazione reciproca, dove l’operatore non è al riparo dal
cambiamento che sta cercando d’innescare. Si scorge qui la necessità di «affidarsi» per
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poter costruire fiducia. Non è raro incontrare esperienze di lavoro sociale ed educativo
con comunità in crisi e/o emarginate dove lo stesso team degli operatori crede poco
nelle possibilià reali di cambiamento. Su questo terreno l’approccio dello sviluppo di
comunità può vantare una lunga tradizione di lavoro con gruppi minoritari attraverso l’investimento in processi virtuosi come la partecipazione, la collaborazione e l’assunzione
di responsabilità.
Puoi farci degli esempi di successo e insuccesso nella vostra esperienza?
Gregoletto | Il primo esempio richiama il metodo che abbiamo usato più spesso a cui
mi riferivo in precedenza. Abbiamo lavorato con i sinti intorno al tema della gestione
dei luoghi del campo, sulla cura degli spazi comuni, passando da una centratura
quasi esclusiva sulla famiglia a un avere cura più allargato, di comunità.
La gestione dei rifiuti è stato lo spunto per sperimentare un percorso di mediazione
tra l’azienda municipalizzata che gestisce lo smaltimento e la comunità di via Vallenari. L’azienda sosteneva che i residenti del campo non posizionavano l’immondizia
all’interno dell’apposito cassone. La critica faceva trasparire, in modo tuttaltro
che velato, un giudizio molto negativo su quelle persone. Da parte della comunità
si ripeteva invece che il cassone era insufficiente e non poteva servire le oltre 160
persone che usufruivano di quel servizio.
È chiaro che, avendo sentito le due parti, sarebbe stato più comodo per noi risolvere
il problema sostituendoci ai soggetti interessati e chiedendo un cassone in più. Si
sarebbe trattato di una soluzione funzionale nell’immediato, ma dal respiro corto. È
certo che poco o nulla sarebbe cambiato, tanto riguardo al pregiudizio dell’azienda
nei confronti dei sinti quanto rispetto al grado di assunzione di responsabilità da
parte di questi ultimi nella ricerca di una soluzione alla questione.
Aver lavorato invece perché le due parti potessero conoscersi, incontrarsi e confrontarsi sul problema specifico ha permesso di trovare una soluzione condivisa, ha
creato una relazione tra le due parti che in seguito hanno continuato a risolvere altri
problemi usando la stessa modalità senza alcun bisogno della nostra mediazione.
Questo metodo è una pratica ormai consolidata. Lavorare in questo modo ha
significato fare leva sulla responsabilità che ognuno ha nei confronti di se stesso
e degli altri. In passato la modalità più frequente era quella di richiedere (e per
certi versi pretendere) che fosse l’operatore a farsi carico dei problemi delegando
e quindi, in molte circostanze, evitando di prendersi responsabilità: «aiutami tu»,
«vai tu», «fai tu».
Ho in mente a riguardo una situazione in cui la morte di un’anziana è diventata occasione di confronto e crescita per tutti quelli che hanno vissuto quell’esperienza.
Quando muore un anziano, generalmente viene bruciata la roulotte con dentro
tutti i suoi averi, i suoi oggetti e anche i suoi soldi. È chiaro che bruciare un’intera
roulotte è una pratica al di fuori di ogni regola e che non è tollerabile sul piano
della sicurezza e della salvaguardia ambientale. Su questo episodio ci siamo confrontati duramente con loro, mantenendo fermo il nostro punto di vista e quindi
l’impossibilità di bruciare qualsiasi cosa. Nel contempo abbiamo tentato di capire,
di aprire uno spazio che ci consentisse di conoscere le ragioni di quell’usanza, i
motivi alla base di quella azione. Il pensiero portato era riconducibile a una sorta
di intoccabilità dei beni di una persona scomparsa da parte degli altri. Le cose della
persona morta non possono essere possedute da altri. Eravamo al cospetto di un
significato sociale della morte e dei beni molto diversa dalla nostra, con un correlato
di comportamenti e atteggiamenti difficilmente riconoscibili dalla cultura corrente.
Eredità era per loro una parola quasi senza significato. E tutto questo per noi è di
difficile comprensione.
Partendo da questo confronto, riconoscendo le ragioni dell’una e dell’altra parte,
si è iniziato a pensare insieme a una scelta che tenesse insieme le diverse esigenze.
In questo modo si è trovata una soluzione: impacchettare la roulotte con tutte le
cose dentro come avviene per le auto che vengono demolite. Se ne occuparono
subito e la cosa venne risolta. È chiaro che avremmo potuto porre la questione in
termini diversi e cioè, senza confronto e discussione, affermando le regole e basta.
Sicuramente anche qui avremmo speso meno tempo, ma possiamo bene immaginare
che il risultato e le conseguenze sarebbero state molto diverse.
Il dialogo con tutti i cittadini
Ripamonti | È un episodio che mette in evidenza il potere risolutivo del dialogo e la necessità di aprirsi alle ragioni dell’altro per trovare soluzioni praticabili e soddisfacenti per
entrambi. Una sorta di elogio della creatività, di cui il lavoro di comunità non può mai fare
a meno. D’altro canto viviamo in un clima culturale che enfatizza la «ragione delle regole»
e la parola «sicurezza» sembra un vero e proprio «mantra» della contemporaneità. Come
se non fosse possibile coniugarla con confronto, solidarietà e collaborazione. Sempre
più spesso, infatti, emergono problemi di convivenza fra i gruppi sinti-rom e alcune fasce
di cittadini residenti nei territori limitrofi ai campi e/o villaggi. Difficoltà che non di rado
vengono enfatizzate in modo tale da farle percepire come irrisolvibili. Come si trattasse
di gruppi «irriducibilmente» diversi e inconciliabili con l’integrazione sociale.
Puoi raccontarci come si è presentata questa questione a Mestre?
Gregoletto | Il campo, come già detto, è presente a Mestre già dalla fine degli anni
’60 ed è situato in una zona abbastanza centrale e frequentata della città. Tuttavia,
molti sono gli abitanti del nostro territorio che fino a un anno e mezzo fa non sapevano neppure della sua esistenza. Sicuramente questo è dovuto al fatto che questi
cittadini non sono distinguibili dagli altri e sono integrati nel tessuto cittadino.
Hanno familiarità con i servizi della città, frequentano le scuole, i negozi, i parchi,
parlano, oltre alla loro lingua, anche il dialetto veneziano.
Da due anni a questa parte, però, le cose sono drasticamente cambiate. Il clima
culturale e politico a cui facevi referimento si è fatto sentire anche a Venezia, una
città da sempre accogliente e solidale che ha ospitato nel tempo due grandi campi
di profughi della ex-Jugoslavia riuscendo a governarne la chiusura e a trovare
una soluzione abitativa per tutte le persone. Anche la scelta politica dell’Amministrazione di trasferire il campo di Via Vallenari fino a poco tempo fa non aveva
incontrato pareri negativi.
In questi ultimi due anni i cittadini di Venezia hanno «conosciuto» una realtà che
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non sapevano di avere così vicino. Dico conosciuto fra «virgolette» perché di conoscenza effettiva ce n’è assolutamente poca. Si tratta in larga parte di rappresentazioni
che hanno cominciato a circolare. All’improvviso questi cittadini hanno cominciato
a essere descritti come ladri e criminali, stranieri, giocatori d’azzardo e mendicanti
a cui il Comune avrebbe deciso di «regalare» graziose villette pagate con i soldi di
tutti. Insomma un concentrato dei peggiori pregiudizi e luoghi comuni.
È stato un periodo molto difficile per i sinti, per il servizio, per l’Amministrazione
che ha comunque continuato a sostenere la legittimazione del progetto e i diritti dei
residenti veneziani di cultura sinta. Da parte nostra abbiamo lavorato con i sinti e
gli uffici competenti per preparare il trasferimento dal campo al nuovo villaggio.
Inoltre, visto ciò che stava accadendo in città, la strategia dell’équipe Etam è stata
quella di muoversi su due fronti. Da una parte stando molto a contatto con la comunità, in modo da rinsaldare sia le relazioni fra noi e loro che quelle fra la comunità e
il contesto allargato esterno al campo, con una presenza nei momenti di difficoltà
e confrontandosi su ogni azione da compiere. Dall’altra parte abbiamo scelto di
trovare luoghi e forme diverse per parlare assieme ai sinti veneziani all’intera città
di Venezia. È così che attraverso l’utilizzo di strumenti anche artistici e culturali
quali la fotografia, la narrazione, la pittura siamo entrati in vari luoghi della città
provocando, stimolando, incoraggiando occasioni di scambio, di approfondimento
e di vicinanza. Sono quindi nate delle mostre fotografiche, dei piccoli spettacoli,
una pubblicazione condivisa con altri servizi e una serie di altre iniziative.
La pratica delle relazioni
Ripamonti | Questo «colpo d’ala» allarga lo sguardo e l’azione. A volte lavorando con
comunità minoritarie appare necessario uscire dall’angolo in cui ci si sente costretti,
quasi che «fuori» non ci siano alleati e forze vive della società interessate a conoscere,
entrare in contatto, dialogare, convivere.
Il lavoro di comunità non può essere solo una «faccenda da operatori», ma una vicenda
che chiama in causa la cultura civica di una città. Una sorta di pedagogia della civis.
L’intervento nel villaggio di Mestre è ancora in corso.
Quale ti pare possa essere la prospettiva futura del vostro intervento?
Gregoletto | Con l’équipe per il momento stiamo avviando una valutazione complessiva del progetto e stiamo cominciando a fare delle ipotesi di lavoro per il
prossimo futuro.
Sicuramente un ambito dove avrebbe senso un lavoro di comunità con i sinti riguarda il tema del lavoro. Già in passato in questo settore si sono fatte delle cose,
ma pensiamo potrebbero assumere una più adeguata strutturazione. Con questi
cittadini, infatti, anni fa siamo intervenuti per strutturare meglio la raccolta di
materiale ferroso che è da sempre il lavoro che permette loro di avere un reddito e
che consente quindi il mantenimento dei nuclei famigliari. Ogni singolo svolgeva
questa attività per conto proprio, senza sottostare a nessuna regolamentazione e
quindi capitava sovente di incorrere in multe salatissime che, fra l’altro, non potevano permettersi di pagare.
Il nostro intervento, anche in questo frangente, è consistito nel farli incontrare con
i soggetti che avevano competenza in materia. Dopo vari confronti la questione
è stata regolamentata ed è stato previsto che, a determinate condizioni fissate in
un’ordinanza, i raccoglitori potessero svolgere l’attività in convenzione con l’azienda municipalizzata per lo smaltimento dei rifiuti. È stata una soluzione che, oltre
ad aver permesso alla comunità del campo di continuare a svolgere questo lavoro,
ci ha consentito di introdurre argomenti legati alle regole del vivere in comune e
sulla legalità.
L’approfondimento che vorremmo ora introdurre è legato alla possibilità di dare
vita a una cooperativa di lavoro, una soluzione che, oltre a garantire la raccolta
del ferro anche in località diverse dal comune di Venezia, potrebbe offrire diverse
soluzioni occupazionali ma, soprattutto, permetterebbe di aprire un confronto
sul significato di cooperazione, sulla rappresentanza e su forme di solidarietà in
ambito lavorativo.
Il trasferimento al nuovo villaggio è avvenuto il 25 novembre 2009, senza nessun
impedimento e con molto entusiasmo da parte della comunità sinta ma anche
dell’Amministrazione e di tanti altri cittadini. Certo, come ogni trasloco che si rispetti, i problemi non finiscono in giornata e ancora adesso si stanno ultimando le cose
in sospeso. Ora i residenti veneziani sinti abitano in un luogo che hanno fortemente
desiderato, che hanno contribuito a creare e che restituisce loro dignità.
Forse è ancora troppo presto per valutare un’operazione (se così questa lunga vicenda si può definire) che è iniziata molto tempo fa e che ha visto la partecipazione
di numerose persone in ruoli diversi. Pensiamo però che alcuni elementi, dal nostro
punto di vista, possano già essere rilevati. Siamo sicuri che, a seconda delle situazioni
e dei punti di vista diversi, i soggetti che hanno partecipato al progetto abbiano
potuto sperimentare come, in progetti di elevata complessità, risulti centrale la
«pratica delle relazioni», lo sviluppo di legami sociali e la promozione di forme di
responsabilizzazione e di cittadinanza attiva.
GLI AUTORI
Radiana Gregoletto è educatrice del servizio
Etam dell’Assessorato alle Politiche sociali del
Comune di Venezia: [email protected]
Elena Poli ([email protected]) e Stefano Petrolini ([email protected]) coordinano
i progetti con i sinti della cooperativa sociale Kaleidoscopio di Trento
Piergiorgio Reggio è docente presso la Facoltà di
Scienze della formazione dell’Università Cattolica
di Milano. È vice-presidente di Ipf-Italia (Istituto
Paulo Freire): [email protected]
Ennio Ripamonti, esperto di sviluppo di comunità, è presidente della società di consulenza Metodi
di Milano: [email protected]
Tommaso Vitale è ricercatore di sociologia presso l’Università di Milano Bicocca dove insegna
Scienza politica: [email protected].
IL PROGETTO
La riflessione dell’inserto su un approccio educativo ai problemi sollevati dalla fatica del convivere
fra gruppi rom e popolazione maggioritaria va
inserita nel contesto di una più vasta ricerca della
rivista sulla possibilità di abitare i territori contenendo la paura degli altri. Una sfida che coinvolge
tutti, ma tocca da vicino il rapporto con gli immigrati, con i gruppi segnati da fragilità, con i giovani
che reagiscono in modo violento alla sensazione
che non ci sia un futuro sensato.
Da questo punto di vista, perseguendo un progetto di sviluppo di comunità come scambio tra
mondi diversi, la rivista vede nell’«educarsi insieme» piuttosto che nel punire e ghettizzare, una
possibilità indispensabile, non appena si prende
atto che il futuro è il convivere – solidale o distruttivo che sia – tra mondi culturali plurali.
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