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RASSEGNA STAMPA
mercoledì 2 settembre 2015
L’ARCI SUI MEDIA
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ESTERI
INTERNI
LEGALITA’DEMOCRATICA
RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
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IL SALVAGENTE
INTERNAZIONALE
L’ARCI SUI MEDIA
Da Redattore Sociale del 01/09/15
Sentenza Strasburgo, Arci: precedente
importante per la discussione su hotspot
Arci commenta la sentenza della Corte Europea sul trattenimento
illegale e l'espulsione di tre cittadini tunisini. "Crea un importante
precedente, di cui le istituzioni italiane ed europee dovranno tener
conto nella discussione in corso e nei trattamenti concreti riservati ai
migranti"
ROMA - Una sentenza che "riveste una grande importanza, per i contenuti e per il
contesto in cui si colloca" e che "crea un importante precedente, di cui le istituzioni italiane
ed europee dovranno tener conto nella discussione in corso e nei trattamenti concreti
riservati ai migranti". Questo il commento dell'Arci sulla decisione della Corte europea che
ha rileva la violazione dei diritti di tre tunisini, i queali dopo il soccorso in mare erano stati
rinchiusi a Lampedusa e poi rispediti via nave nel loro paese. Il procedimento era stato
intentato da due avvocati italiani, Luca Masera e Stefano Zirulia, per contro di tre cittadini
tunisini. La vicenda risale al 2011, ministro dell’Interno Maroni, quando nel centro di
Lampedusa vennero rinchiusi per 4 giorni, senza l’avvallo della magistratura e senza poter
contattare un legale, diversi migranti tunisini che poi vennero espulsi collettivamente verso
il paese d’origine. "Tre di loro, grazie anche all’intervento dell’Arci, - sottolinea
l'associazione - vennero rintracciati in Tunisia e diedero mandato ai due legali di sporgere
denuncia".
La sentenza della corte Europea, spiega Arci, stabilisce tre principi fondamentali: è
illegittimo detenere una persona senza che il provvedimento di restrizione della libertà
personale venga avvallato da un magistrato e sia consentito ai detenuti di consultare un
legale; le condizioni di detenzione nel centro di Lampedusa non rispettavano quanto
previsto dall’articolo 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in particolare per
quel che riguarda i trattamenti disumani e degradanti; le espulsioni collettive verso la
Tunisia erano illegittime, perché effettuate solo sulla base della nazionalità degli espulsi,
senza il vaglio dei singoli casi e senza un provvedi,mento della magistratura.
La sentenza crea duqnue un precedente, di cui le istituzioni italiane ed europee dovranno
tener conto ad esempio per la discussione "sulla prevista detenzione negli hot spot, di cui
si chiede con insistenza all’Italia di dotarsi. Hotspot e Hub chiusi nel sud Italia, dove i
migranti verrebbero trattenuti in attesa dell’identificazione e della valutazione se richiedenti
asilo o meno". "Secondo i giudici della Corte questo trattamento sarebbe illegale. prosegue Arci - Come illegali sono le condizioni di degrado in cui vengono costretti a
vivere i migranti e richiedenti asilo nella maggior parte dei Cie e dei Cara. Una sentenza
dunque che rafforza chi da anni si batte contro quella sospensione del diritto cui le
istituzioni si sentono autorizzate nei confronti dei migranti, chiedendone il rispetto della
dignità e dei diritti".
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Da Vita.it del 01/09/15
Arci: Sentenza contro i respingimenti
dell'Italia è un precedente importante
di Redazione
L'associazione plaude a una decisione che reputa "illegittime la
detenzione e l'espulsione di una o più persone senza il vaglio dei singoli
casi", come successo nel 2011 ai danni di molte persone tunisine. "Ora
bisognerà tenerne conto nei trattamenti riservati ai migranti"
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo condanna l’Italia per il trattenimento illegale e
l’espulsione di tre cittadini tunisini: è la sentenza del procedimento intentato davanti alla
Corte Europea dei Diritti dell’Uomo da due avvocati italiani, Luca Masera e Stefano Zirulia,
per i tre migranti tunisini.
"La sentenza riveste una grande importanza, per i contenuti e per il contesto in cui si
colloca", afferma l'Arci. La vicenda risale al 2011, Ministro dell’Interno Maroni, quando nel
centro di Lampedusa vennero rinchiusi per 4 giorni, "senza l’avvallo della magistratura e
senza poter contattare un legale, diversi migranti tunisini che poi vennero espulsi
collettivamente verso il paese d’origine", spiega l'associazione. "Tre di loro, grazie anche
all’intervento dell’Arci, vennero rintracciati in Tunisia e diedero mandato ai due legali di
sporgere denuncia".
La sentenza della corte Europea, secondo la stessa associazione, "stabilisce tre principi
fondamentali: è illegittimo detenere una persona senza che il provvedimento di restrizione
della libertà personale venga avvallato da un magistrato e sia consentito ai detenuti di
consultare un legale; le condizioni di detenzione nel centro di Lampedusa non rispettavano
quanto previsto dall’articolo 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in particolare
per quel che riguarda i trattamenti disumani e degradanti; le espulsioni collettive verso la
Tunisia erano illegittime, perché effettuate solo sulla base della nazionalità degli espulsi,
senza il vaglio dei singoli casi e senza un provvedi,mento della magistratura".
Questa sentenza "crea un importante precedente, di cui le istituzioni italiane ed europee
dovranno tener conto nella discussione in corso e nei trattamenti concreti riservati ai
migranti. Questo vale per esempio sulla prevista detenzione negli hot spot, di cui si chiede
con insistenza all’Italia di dotarsi. Hot spot e Hub chiusi nel sud Italia, dove i migranti
verrebbero trattenuti in attesa dell’identificazione e della valutazione se richiedenti asilo o
meno", continua l'Arci. "Secondo i giudici della Corte questo trattamento sarebbe illegale.
Come illegali sono le condizioni di degrado in cui vengono costretti a vivere i migranti e
richiedenti asilo nella maggior parte dei Cie e dei Cara. Una sentenza dunque che rafforza
chi da anni si batte contro quella sospensione del diritto cui le istituzioni si sentono
autorizzate nei confronti dei migranti, chiedendone il rispetto della dignità e dei diritti".
http://www.vita.it/it/article/2015/09/01/arci-sentenza-contro-i-respingimenti-dellitalia-e-unprecedente-import/136340/
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Da Corriere.it del 02/09/15
Diritti umani, sentenza europea condanna
l’Italia per il trattenimento illegale di cittadini
tunisini
di Francesca Chiavacci *
ROMA - E’ arrivata a sentenza il procedimento intentato davanti alla Corte Europea dei
Diritti dell’Uomo da due avvocato italiani, Luca Masera e Stefano Zirulia, per contro di tre
cittadini tunisini. La sentenza riveste una grande importanza, per i contenuti e per il
contesto in cui si colloca.
La vicenda risale al 2011, Ministro dell’Interno Maroni, quando nel centro di Lampedusa
vennero rinchiusi per quattro giorni, senza l’avvallo della magistratura e senza poter
contattare un legale, diversi migranti tunisini che poi vennero espulsi collettivamente verso
il paese d’origine. Tre di loro, grazie anche all’intervento dell’Arci, vennero rintracciati in
Tunisia e diedero mandato ai due legali di sporgere denuncia.
La sentenza della corte Europea stabilisce tre principi fondamentali: 1) è illegittimo
detenere una persona senza che il provvedimento di restrizione della libertà personale
venga avvallato da un magistrato e sia consentito ai detenuti di consultare un legale; 2) le
condizioni di detenzione nel centro di Lampedusa non rispettavano quanto previsto
dall’articolo 3 della convenzione Europea dei diritti dell’uomo, in particolare per quel che
riguarda i trattamenti disumani e degradanti; 3) le espulsioni collettive verso la Tunisia
erano illegittime, perché effettuate solo sulla base della nazionalità degli espulsi, senza il
vaglio dei singoli casi e senza un provvedi,mento della magistratura.
Questa sentenza crea un importante precedente, di cui le istituzioni italiane ed europee
dovranno tener conto nella discussione in corso e nei trattamenti concreti riservati ai
migranti. Questo vale per esempio sulla prevista detenzione negli hot spot, di cui si chiede
con insistenza all’Italia di dotarsi. Hot spot e Hub chiusi nel sud Italia, dove i migranti
verrebbero trattenuti in attesa dell’identificazione e della valutazione se richiedenti asilo o
meno. Secondo i giudici della Corte questo trattamento sarebbe illegale. Come illegali
sono le condizioni di degrado in cui vengono costretti a vivere i migranti e richiedenti asilo
nella maggior parte dei Cie e dei Cara.
Una sentenza dunque che rafforza chi da anni si batte contro quella sospensione del
diritto cui le istituzioni si sentono autorizzate nei confronti dei migranti, chiedendone il
rispetto della dignità e dei diritti.
* Presidente Arci nazionale
http://sociale.corriere.it/diritti-umani-sentenza-europea-condanna-litalia-per-iltrattenimento-illegale-di-cittadini-tunisini/
del 02/09/15, pag. 2
Espulsioni, l’Italia condannata: “Ha violato i
diritti umani”
Luca Fazio
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Una goccia di giustizia in un mare di morte e disperazione. Mentre di ora in ora viene
aggiornata la conta dei vivi e dei morti che si avventurano nel tratto di mare più pericoloso
del mondo — 351 mila persone dall’inizio dell’anno secondo l’Organizzazione
internazionale per le migrazioni (Oim) — l’Italia viene condannata dalla Corte europea dei
diritti dell’uomo di Strasburgo per violazione dei diritti umani. Si tratta di una singola storia
che riguarda tre ragazzi tunisini e risale al 2011 ma è esemplare perché sottolinea la
disumanità di un trattamento che riguarda decine e decine di migliaia di esseri umani che
in questi anni sono stati parcheggiati (reclusi) in strutture di accoglienza che continuano ad
essere improvvisate. Secondo la Corte di Strasburgo, la detenzione e l’espulsione da
Lampedusa dei tre migranti, fuggiti dalla Tunisia dopo le rivolte della “primavera araba”,
era illegale e in palese violazione della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Italia
adesso dovrà versare ai tre tunisini diecimila euro a testa per “danni morali” e altre 9 mila
e 300 per le spese legali.
Secondo i giudici, lo Stato italiano ha sottoposto i tre uomini a un trattamento degradante a
causa delle penose condizioni in cui si trovava il centro di primo soccorso di Contrada
Imbriacola, a Lampedusa: sanitari sprovvisti di porte, sovraffollamento, mancanza di
acqua, materassi per terra, divieto di contatti con l’esterno. Inoltre, hanno condannato
l’Italia per violazione dei diritto alla libertà e alla sicurezza poiché i tre tunisini sono stati
detenuti senza che alcuna legge lo prevedesse e senza essere stati informati della
possibilità di presentare ricorso. La Corte, infine, ha stabilito che l’Italia ha violato il divieto
alle espulsioni collettive nel momento in cui ha rispedito i tre a Tunisi dopo averli
imprigionati su una nave attraccata nel porto di Palermo.
La sentenza non sembra destinata a “fare giurisprudenza” eppure, come si augura il
segretario generale del Consiglio d’Europa Thorbjorn Jagland, si potrebbe cominciare da
qui per salvare l’Europa da se stessa. “La crisi migratoria rappresenta una seria minaccia
al rispetto dei diritti umani in molte parti d’Europa — ha detto Jagland — e la sentenza di
oggi ricorda a tutti i 47 membri del Consiglio d’Europa che i richiedenti asilo e i migranti
devono essere trattati come esseri umani, con gli stessi diritti di tutti e come garantito dalla
Convenzione europea dei diritti umani”. Per l’Arci, che ha supportato l’azione legale dei tre
tunisini, la sentenza crea un precedente interessante in vista del vertice europeo di metà
settembre. “Le istituzioni italiane ed europee — si legge in una nota — dovranno tenerne
conto nella discussione in corso e nei trattamenti concreti riservati ai migranti, ad esempio
sulla prevista detenzione negli hot spot di cui si chiede con insistenza all’Italia di dotarsi.
Hot spot e hub chiusi nel sud Italia, dove i migranti verrebbero trattenuti in attesa
dell’identificazione. Secondo Strasburgo questo trattamento sarebbe illegale, come illegali
sono le condizioni di degrado in cui vengono costretti a vivere i migranti nella maggior
parte dei Cie e dei Cara”.
Del resto fino ad ora è questa l’accoglienza che l’Europa ha riservato alle 351.314 persone
(fonte: Oim) che dal gennaio 2015 hanno attraversato il Mediterraneo: almeno dieci paesi,
tra cui anche l’Italia, sono appena stati “richiamati” dalla Commissione europea per il
mancato rispetto delle regole sull’asilo e sull’identificazione dei migranti. “E’ l’ultimo
avvertimento prima dell’apertura di una procedura di infrazione”, ha spiegato ieri un
portavoce Ue. Ma non è con i richiami e con i tempi dell’euro burocrazia che si possono
affrontare tragedie di questa entità: nei primi otto mesi di quest’anno sono morte (almeno)
2.643 persone. Rispetto all’anno scorso sono arrivati 132.314 migranti in più e solo
nell’ultima settimana circa 20 mila persone hanno cercato di entrare in Europa. Grecia e
Italia sono i paesi più esposti: con rispettivamente 235 mila e 115 mila esseri umani
conteggiati. La macabra statistica dice anche che agosto è stato il secondo mese con più
morti (638), superato solo da aprile con 1.265 cadaveri tra ripescati e scomparsi in fondo
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al mare. Gli ultimi quattro, è cronaca di ieri, ancora non rientrano nelle statistiche ufficiali.
Erano su un gommone a 50 miglia dalla coste libiche.
del 02/09/15, pag. 14
In Italia esiste ancora il «confino» politico
***
Venerdì 28 agosto la Magistratura bolognese ha disposto la misura del «divieto di dimora»
nella sua città per Gianmarco De Pieri. Gianmarco risiede da vent’anni a Bologna, dove è
un cittadino socialmente, economicamente, culturalmente attivo. Lì vive la sua famiglia con
Gloria e il piccolo Leonardo che proprio in questi giorni dovrebbe fare il suo ingresso in
asilo.
I suoi più elementari diritti di cittadinanza sono negati per un episodio di limitata rilevanza
penale, ma di significativo valore sociale: il 18 giugno scorso, insieme a molti altri, si è
opposto allo sgombero forzato di decine di donne, uomini e bambini, precari e poveri
senza casa di ogni origine, da Villa Adelante, residenza fino ad allora e da allora
abbandonata al degrado.
Gli viene imputato l’attivo impegno nei movimenti sociali cittadini, il pubblico dissenso e la
concreta opposizione alle politiche europee e governative di austerity che, in questi anni di
crisi, hanno reso la nostra società più povera, più ingiusta e meno democratica.
I magistrati, come purtroppo già avvenuto in simili casi, hanno applicato una misura
particolarmente odiosa disponibile nei Codici, e che ricorda da vicino l’allontanamento
coatto degli oppositori al regime fascista: Gianmarco è stato mandato al «confino», né più
né meno.
Gianmarco De Pieri deve poter tornare subito a Bologna, da cittadino libero, senza alcuna
restrizione alla sua libertà personale e agibilità politica. Così come non devono più trovare
applicazione provvedimenti che, calpestando diritti costituzionalmente garantiti, cerchino di
limitare e chiudere spazi di espressione del dissenso e dell’opposizione sociale e politica.
Primi firmatari:
Luciana Castellina (già parlamentare italiana ed europea, giornalista e scrittrice)
Francesca Chiavacci (presidente nazionale Arci)
Maurizio Landini (segretario generale Fiom Cgil)
Stefano Rodotà (docente di Diritto costituzionale dell’Università di Roma)
Luigi Manconi (senatore del Pd)
Eleonora Forenza (parlamentare europea Gue – Ngl)
Nicola Fratoianni (deputato e coordinatore nazionale Sel),
Elly Schlein (parlamentare europea Socialisti & Democratici)
Marco Revelli e Massimo Torelli (Lista Altra Europa con Tsipras)
Stefano Bonaga e Sandro Mezzadra (docenti Università di Bologna)
Filippo Miraglia (vicepresidente nazionale Arci)
Raffaella Bolini (reponsabile Internazionale Arci)
Gianni Rinaldini (Fondazione Claudio Sabbatini)
Carlo Balestri (Uisp/Mondiali Antirazzisti)
Wu Ming (scrittori)
Girolamo De Michele (insegnante e scrittore)
Franco Berardi Bifo (agitatore culturale)
Giovanni Paglia (deputato di Sel)
Mirco Pieralisi (consigliere comunale di Bologna)
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Gianfranco Bettin (sociologo, scrittore)
Zerocalcare (artista, autore di graphic novel)
email per ulteriori adesioni: [email protected]
Da Repubblica.it (Bologna) del 01/09/15
"De Pieri torni libero": Rodotà e Manconi
firmano l'appello del Tpo
Divieto di dimora in città per l'attivista dopo lo sgombero di una
palazzina
Il costituzionalista Stefano Rodotà, il senatore democratico Luigi Manconi, il numero uno
della Fiom Maurizio Landini sono fra i firmatari dell'appello del Tpo perché Gianmarco De
Pieri possa "tornare subito a Bologna, da cittadino libero, senza alcuna restrizione alla sua
libertà personale e agibilità politica". Per De Pieri, storico attivista del Tpo, è scattato il
divieto di dimora a seguito degli scontri avvenuti durante lo sgombero di una palazzina
occupata in viale Aldini, lo scorso 18 giugno.
"Gianmarco è stato mandato al 'confino', né più né meno", tuona il Tpo rievocando misure
di stampo fascista. A sottoscrivere l'appello anche il coordinatore nazionale di Sel Nicola
Fratoianni, Luciana Castellina (già parlamentare italiana ed europea, giornalista e
scrittrice) e Francesca Chiavacci (presidente nazionale Arci), ma anche i bolognesi Franco
Bifo Berardi, i Wu Ming, Mirco Pieralisi (consigliere comunale di Bologna), Stefano Bonaga
e Sandro Mezzadra (docenti Università di Bologna). "Gianmarco- sottolinea il Tpo- risiede
da vent'anni a Bologna, dove è un cittadino socialmente, economicamente, culturalmente
attivo".
L'episodio del 18 giugno che ha dato origine al divieto di dimora aveva "limitata rilevanza
penale ma forte valenza sociale", ricorda il centro sociale: "Insieme a molti altri, De Pieri si
è opposto allo sgombero forzato di decine di donne, uomini e bambini, precari e poveri
senza casa di ogni origine, da Villa Adelante, residenza fino ad allora e da allora
abbandonata al degrado".Di diverso avviso la Procura di Bologna, che aveva chiesto
l'arresto, individuando una serie di reati, dal furto aggravato alla resistenza a pubblico
ufficiale.
http://bologna.repubblica.it/cronaca/2015/09/01/news/de_pieri-122022354/
Da Repubblica.it del 01/09/15 (Milano)
Milano, CasaPound prepara il raduno: rivolta
dei cittadini. Il Comune: no alla
manifestazione
Il pressing su Palazzo Marino per bloccare il meeting. Coinvolti comitato
per l'ordine e la sicurezza, Prefettura e Questura: "Città medaglia d'oro
per la Resistenza, ferma la contrarietà all'evento"
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La città dell'Expo, la città medaglia d'oro per la Resistenza dice no al raduno di
CasaPound. Dopo l'annuncio dei "fascisti del terzo millennio" che hanno presentato la loro
festa nazionale a Milano l'11-12-13 settembre interviene Palazzo Marino per bloccare una
manifestazione a dir poco fuori luogo per i tanti che hanno scritto a Comune chiedendo
una presa di posizione che condannasse l'iniziativa.
"Molti di voi ci stanno scrivendo in pubblico e in privato - si legge in un messaggio sulla
pagina Facebook dell'amministrazione - per chiedere una presa di posizione sull'iniziativa
che diverse organizzazioni di estrema destra hanno annunciato per i prossimi giorni a
Milano. In merito, l’assessore alla Sicurezza e coesione sociale Marco Granelli fa sapere
di avere già chiesto al Prefetto di discutere la questione alla prossima riunione del
comitato per l’ordine pubblico e la sicurezza, ribadendo la ferma contrarietà del Comune di
Milano, città Medaglia d'oro per la Resistenza, allo svolgimento, sul suo territorio, di
manifestazioni con evidenti connotazioni fasciste".
La tre giorni delle "tartarughe" - dal simbolo del movimento CasaPound - doveva cadere
nelle intenzioni degli organizzatori in contemporanea con un altro evento, ormai una
specie di rituale, nel calendario del neofascismo militante: il meeting internazionale
promosso per il terzo anno consecutivo da Forza nuova a Cantù. Stessa data (dall'11 al
13), solo 50 chilometri di distanza. Tanto da far parlare di "settembre nero". Contro il
raduno, era partito l'appello unitario di Anpi, Pd, Sel, Altra Europa con Tsipras e Cgil. Poi
si sono fatti avanti i cittadini. Contro l'appuntamento di Cantù si è formato un 'comitato per
il no al Festival neonazista a Cantù' che, secondo il Pd locale, "ha raccolto da subito
migliaia di adesioni da semplici cittadini e cittadine, canturini/e e non, e da una serie di
sigle che vanno dal Partito democratico canturino all'Arci, dai sindacati unitari a
Rifondazione, dall'Anpi provinciale agli studenti medi".
"Penso che questo tipo di raduni non si debbano fare nel comune di Milano, città con una
profonda tradizione antifascista", ha spiegato Granelli - ho scritto al comitato per l'ordine e
la sicurezza pubblica e ho scritto una lettera a Prefettura e Questura esprimendo parere
negativo. In questi raduni ci sono persone che si rifanno apertamente a ideali fascisti,
Milano ha una profonda tradizione antifascista e riteniamo che eventi di questo tipo non
debbano svolgersi qui". Parlando del rapporto tra la Lega Nord e CasaPound Granelli ha
detto: "Ci preoccupa la legittimazione data da Matteo Salvini a movimenti di tipo
neofascista, ci preoccupano i tentativi di approfittare del disagio delle persone, spesso in
quartieri popolari con case Aler, quindi gestiti dalla Regione Lombardia, dove la Lega ha
poteri decisionali". Il comitato per l'ordine e la sicurezza pubblica si dovrebbe riunire
giovedì prossimo: "auspico che si possa sapere quanto prima dove si terrà la
manifestazione", ha concluso Granelli.
http://milano.repubblica.it/cronaca/2015/09/01/news/milano_raduno_casapound122017934/
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INTERESSE ASSOCIAZIONE
Del 2/09/2015, pag. 11
Il retroscena.
La sorpresa di Palazzo Chigi e via Arenula: “Siamo già intervenuti sui
penitenziari
con le misure alternative e la tenuità del reato”
Il Papa spiazza il governo “Non ci sono le
condizioni per un atto di clemenza”
LIANA MILELLA
ROMA. Tra palazzo Chigi e ministero della Giustizia lo definiscono «un fulmine a ciel
sereno». «Una vera sorpresa» aggiungono fonti autorevoli dei due palazzi. Perché fino a
oggi, nelle pur intense relazioni bilaterali tra il Vaticano e il governo in vista del Giubileo, di
un gesto di clemenza verso i detenuti non si era mai parlato.
Neppure durante le trattative con il Guardasigilli Andrea Orlando per preparare una grande
manifestazione a piazza San Pietro con un migliaio di detenuti presenti prevista per l’anno
prossimo e alla quale il Papa tiene molto. Sarebbe stato il contesto giusto per manifestare
la richiesta di clemenza, da tradursi, nella legge italiana, in un’amnistia, che cancella del
tutto il reato, o in un indulto, che si limita a eliminare la pena. Gli ultimi nel ‘90 e nel 2006.
Un dettaglio considerato molto rilevante. «Il Papa non si rivolgeva di certo all’Italia, ma a
tutto il mondo. Ben diverso dal messaggio di Wojtyla direttamente al nostro Paese nel
2000 e nel 2002» chiosa un Pd vicinissimo a Renzi. Che, sulla praticabilità politica di una
clemenza è tranchant: «Non esiste. Questione chiusa. Non c’è alcuna possibilità di aprire
una trattativa su amnistia e indulto. Non solo perché non si riuscirebbe mai a raggiungere
la maggioranza dei due terzi del Parlamento, ma perché il Pd ha già scelto una linea
alternativa sulle carceri». Ufficialmente, è il responsabile Giustizia del Pd David Ermini a
chiudere la porta a qualsiasi querelle: «L’indulto è erga omnes e serve solo ai politici per
lavarsi la coscienza. Ma poi, nel giro di pochi anni, il problema del sovraffollamento è
punto e a capo». La politica è tutt’altra, misure alternative al carcere, tenuità del fatto e
messa in prova, detenzione domiciliare, stop alla carcerazione preventiva facile. Chiosa
Ermini: «I nostri interventi vanno esattamente incontro allo spirito delle parole del Papa. Si
agevola chi ha mostrato la volontà di cambiare strada».
Il Guardasigilli Orlando non commenta le parole del Papa, ma si affida ai numeri. Diffusi
qualche ore dopo l’annuncio del Vaticano. I suoi, sulle carceri, sono positivi. Al 31 luglio i
detenuti in cella erano 52.144, cifra ben lontana rispetto a quando l’ex responsabile
Giustizia del Pd diventa ministro e si vede precipitare addosso la grana della condanna di
Strasburgo a multe milionarie per il sovraffollamento. I detenuti erano allora 62.536, a
fronte di 47.709 posti, oggi saliti a 49.655.
L’impegno di Orlando è un’ossessione che lo ha portato a dar vita agli Stati generali
dell’esecuzione penale per analizzare da vicino il pianeta carcere.
Due terzi del Parlamento per indulto e amnistia sono tanti. E tanti sono i nemici della
clemenza, a fronte degli amici di sempre. Un “nemico” è la Lega, tant’è che Salvini dice
subito no perché il suo pensiero «va a tutte le vittime dei reati di quei carcerati». Sul fronte
opposto ecco l’instancabile Marco Pannella che ha chiesto un’udienza al Papa Francesco
poiché solo lui «rispetto a tutti quelli che potevano, ha fatto vivere e tradotto una realtà che
investe l’Italia e gli italiani». Anche il Pd Luigi Manconi, come Patrizio Gonnella di
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Antigone, chiede che «il Parlamento non ignori le parole del Papa», com’è avvenuto con
quelle di Napolitano nel 2013, quando l’ex Capo dello Stato indirizzò un messaggio
specifico alle Camere. Ma per tutti parla il ddl sull’amnistia che dall’inizio della legislatura è
fermo nella commissione Giustizia del Senato. Dice il presidente Palma: «L’accordo
politico non c’è».
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ESTERI
del 02/09/15, pag. 16
Il super generale Usa eroe in Iraq: «L’Isis si
batte arruolando qaedisti»
I consigli di Petraeus, lo «stratega» di Bush. La Casa Bianca resta
scettica
Guido Olimpio
WASHINGTON L’idea fa discutere. Per molti funzionari è impraticabile, quasi un insulto.
Un osservatore, esperto della regione, l’ha definita un segno di disperazione che prova il
fallimento della strategia anti Isis. Ad agitare l’arena è David Petraeus, ex direttore della
Cia e per molto tempo comandante delle forze Usa nello scacchiere Iraq-Afghanistan.
L’alto ufficiale ha fatto trapelare sul sito Daily Beast una proposta controversa: per fermare
l’Isis in Siria dobbiamo servirci dei qaedisti. Con una successiva precisazione alla Cnn ,
forse dopo essersi accorto di essere andato oltre, ha chiarito che lui si riferiva «a individui,
elementi moderati» e non all’intero movimento che «per nessuna circostanza deve essere
cooptato nell’azione anti-Isis».
Il piano del generale, oggi in pensione ma sempre molto ascoltato, considera di stringere
un patto con la componente meno «radicale» di al Nusra, la fazione che è legata ad Al
Qaeda. Petraeus cercherebbe di ripetere, in uno scenario diverso, la famosa campagna
lanciata in Iraq nel 2007, quando riuscì a organizzare un fronte sunnita anti-qaedista
tirando dentro — in cambio di denaro — clan tribali e alcune milizie. Operazione che
senza dubbio ha portato dei risultati. Temporanei. Il movimento creato da Al Zarqawi è poi
risorto e si è tramutato nello Stato Islamico, un nemico ancora più forte.
I parametri siriani sono però complicati. Primo. Al Nusra è stato inserito da Washington
nella lista nera del terrorismo. Secondo. Gli Usa hanno condotto raid contro una «sezione»
della formazione, il fantomatico gruppo Khorasan: un modo per evitare di dire che stavano
attaccando proprio Al Nusra. Terzo. La fazione ha «neutralizzato» un buon numero di
ribelli addestrati dagli Stati Uniti non appena hanno cercato di crearsi uno spazio. Come è
possibile collaborare in queste condizioni? Storia accompagnata da ricostruzioni piene di
intrighi. Una sostiene che al Nusra sarebbe stata informata dai servizi turchi, pochi
contenti della presenza di guerriglieri sponsorizzati dal Pentagono o dalla Cia. Difficile dire
se sia andata così, però è chiaro che sono aumentati i dubbi sui margini d’azione di
brigate protette dagli Usa.
I pragmatici, invece, pensano il contrario e ricordano come il progetto di Petraeus trovi
qualche corrispondenza nelle iniziative sostenute dal Qatar per imbarcare nello
schieramento «moderato» — termine poco appropriato — anche al Nusra. Il problema è
che non bastano dichiarazioni e promesse di non attaccare (per ora) l’Occidente. Quello
che conta sono i comportamenti. E alla Casa Bianca hanno fatto capire che non si fidano
dei protagonisti. A ragione temono, come accadde con parte dei mujaheddin afghani, che
gli insorti possano essere degli alleati temporanei. Oggi ti aiutano a tenere testa al Califfo,
ma domani perseguono la loro agenda. Sarebbe strano il contrario. Nella ricerca di
soluzioni c’è spazio anche per Mosca. Fonti israeliane hanno rivelato che piloti russi
starebbero per arrivare in Siria, in vista di future missioni aeree contro l’Isis e insorti.
Movimenti che fanno eco ad un recente intervento del presidente Bashar Assad: «Il
Cremlino non abbandona mai i suoi alleati».
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Del 2/09/2015, pag. 30
Palmira
Così l’Islam può salvare gli ultimi tesori della
Siria
PAOLO MATTHIAE
LA PIÙ GRANDE bellezza di Palmira è scomparsa. Cancellata da una nuvola immensa, in
un possente fragore. Il Tempio di Bel è volato in aria, in pezzi, in polvere. Una rovina
imponente che aveva sfidato i secoli si è dissolta, forse nella notte, in un boato che il
deserto non aveva ancora mai udito. Nessuno potrà più vedere ammaliato le albe
rosseggianti sulle pietre rosa di quel rudere spettacolare che i beduini avevano protetto nei
secoli e che i viaggiatori europei riscoprirono tra Seicento e Settecento, abbagliati come
da un miraggio. Dopo freddi annunci di morte, febbrili controlli di speranza, spiragli tenaci
di rifiuto alla rassegnazione per qualcosa che a tutti è sembrato troppo enorme per essere
vero, la testimonianza gelida delle foto satellitari ha brutalmente riportato alla realtà
crudele di un patrimonio culturale immenso scientificamente demolito, pezzo per pezzo,
tra le prediche farneticanti di uomini stravolti da una fede inumana e l’orrore di donne e di
uomini agghiacciati da questo insano incrudelire contro le testimonianze della storia e le
bellezze della cultura. Il Tempio di Bel, che si ergeva all’inizio della spettacolare via
colonnata che attraversava tutta la città verso settentrione all’interno dell’area urbana cinta
dalla fortificazione di Diocleziano, si trovava nella zona meridionale ed era il maggiore
luogo di culto e il più monumentale edificio sacro della città, eretto al centro di
un’amplissima corte chiusa sui quattro lati, di oltre 200 metri di lunghezza, da un alto muro
di cinta porticato.
Questa grande recinzione e le rimanenti colonne del porticato non sembrano aver sofferto
dalla micidiale esplosione, ma è il cuore del santuario, l’originalissimo nucleo templare,
interamente circondato da un peristilio di colonne corinzie che erano solo in parte ancora
in posto e caratterizzato dalle due celle opposte, a nord e a sud, perfettamente conservate
con le splendide lastre decorate delle coperture, che è stato fatto esplodere.
Dalle foto satellitari, solo il portale che si apriva sul peristilio sul lato meridionale, in non
piccola parte ricostruito durante il protettorato coloniale francese, è rimasto in piedi,
mentre la splendida struttura centrale che faceva del Tempio di Bel la più originale e
brillante realizzazione dell’architettura sacra di tutto l’Oriente romano delle prime fasi
dell’impero è totalmente scomparso. Il santuario centrale, sul luogo di un precedente
importante tempio ellenistico, fu dedicato nel 32 d.C. dopo lavori che dovettero iniziare alla
fine del regno di Augusto o nei primi anni di Tiberio e i grandi colonnati periferici furono
completati solo verso il 120 d.C.
Quando la città, forse all’inizio di una decadenza che non fu mai totale, passò sotto il
controllo degli Umayyadi, dopo la fulminea conquista araba del 635-636 — e certo il
Tempio di Bel doveva ancora conservare molto del suo splendore — nessuno di quei primi
potenti califfi, sensibili al fascino dell’arte del passato impero di Roma e del presente
dominio di Bisanzio, osò oltraggiare quelle splendide architetture. Alcuni graffiti nella cella
meridionale degli inizi dell’VIII secolo rivelano che il santuario dell’antico tempio fu
impiegato come una moschea, approfittando del fatto che la cella meridionale era rivolta
alla Mecca. Come già in altre occasioni di criminali distruzioni di monumenti straordinari,
anche oggi l’orrore per le nefande imprese dello Stato islamico cede allo sgomento e
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all’indignazione e si attende la condanna, ormai rituale, di queste gesta abominevoli da
parte delle più alte autorità dell’Unesco e ormai anche dell’Onu, che certo ribadiranno con
vigore che si tratta di crimini contro l’umanità. Ma ormai la misura delle atrocità contro le
donne, gli uomini, i monumenti è colma oltre ogni peggiore previsione.
L’Is inesorabile colpisce umanità e cultura in una situazione di impunità oggettiva in Siria e
in Iraq, mentre la coalizione delle massime potenze mondiali dell’Occidente, detentrici di
armi pretese di infallibile precisione, si muove con singolarissima prudenza, vantando
successi parzialissimi che per lo più non hanno di mira le forze militari del preteso
Califfato, ma le strutture produttive della dilaniata Repubblica Araba Siriana oggi sotto il
controllo dell’Is. L’Unione europea stessa comincia a pensare che forse qualcosa si deve
fare per contrastare davvero questo strano Califfato, sorto dalle mani esperte ma
maldestre di apprendisti stregoni adusi a strumentalizzare i peggiori estremismi
fondamentalisti del mondo islamico, solo ora che la tragedia della Libia da un lato e quella
della Siria dall’altro, per l’immane problema dei profughi e dei rifugiati, minaccia le sue
proprie frontiere a sud e ad est. Le massime autorità religiose dell’Islam, il cui prestigio,
malgrado l’assenza strutturale di gerarchie riconosciute, è immenso, se non tacciono del
tutto, certo non levano alta la loro voce a proclamare con chiarezza e senza soste che le
atrocità contro l’umanità non avranno certo remunerazione oltre la vita terrena, ma
saranno punite spietatamente e che le atrocità contro i monumenti, l’arte, la bellezza, non
creeranno certo meriti, ma ira inflessibile, in chi giudicherà gli uomini in un’altra vita.
Angoscia infinita per l’ultimo e più terribile strazio della cultura e della bellezza. Ma
indignazione ormai anche per le troppe complicità, le troppe ambiguità,i troppi errori che i
potenti della terra, e dietro di loro anche i meno potenti, continuano a coprire
ostinatamente, lasciando perire in una inenarrabile desolazione di orrori una parte di
mondo che vanta meriti enormi nello sviluppo della civiltà.
del 02/09/15, pag. 8
Zhor ci salverà?
E Renzi chiamò il golpista Sisi
Antonio Tricarico*
La scoperta del giacimento gigante di Zohr 1X al largo delle coste egiziane nel Mar
Mediterraneo da parte dell’Eni ha scatenato un grande giubilo nella sede del cane a sei
zampe e nel mondo politico, Renzi compreso, corso a telefonare al «golpista» al-Sisi per
sottolineare l’importanza della scoperta. A fronte di un balzo del prezzo del gas dell’un per
cento subito dopo l’annuncio, in tanti si sono chiesti cosa cambierà nel delicato scacchiere
energetico mediorientale ed europeo.
Che Claudio Descalzi, ad di Eni, esulti, è abbastanza scontato. La scoperta avrà un
impatto positivo anche sull’utile del gruppo. L’Eni è già il principale produttore in Egitto e
gode quindi, anche per motivi storici, di una relazione privilegiata con la dirigenza del
paese. Ma il fatto che l’Eni diversifichi le sue fonti e faccia più profitti non significa
necessariamente che l’Italia ne beneficerà. In molti è balenata l’idea che con queste nuove
scoperte — per altro l’Eni sta sviluppando un altro importante giacimento di gas in
Mozambico — il nostro paese si può progressivamente emancipare dagli import dalla
Russia, e magari ridurre la dipendenza da altri stati meno stabili del Mediterraneo, vedi la
Libia. Ma il gioco non è così semplice. Dovrebbe averlo insegnato il post-sbornia
Kashagan, dove a diciassette anni dalla scoperta l’Eni (e il governo kazako) ancora
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attendono di vedere gas e petrolio scorrere, mentre il giacimento è già passato alla storia
come Cash-All-Gone, in un gioco di parole che da solo descrive un investimento di oltre 43
miliardi ancora non produttivo.
Resta da vedere dove l’Egitto vorrà esportare in caso una sua eccedenza del nuovo
giacimento e quali rotte sarebbero a disposizione. Si pensi che il gasdotto che collega
l’Egitto a Israele tramite l’agitato Sinai è bersaglio di attentati terroristici che lo mettono
fuori uso. Il sogno di avere un gasdotto ad anello in tutto il mediterraneo (sponda sud e est
fino alla Turchia), dopo diversi decenni di progetti infruttuosi, resta un miraggio. Allo stesso
tempo viviamo il paradosso che, in nome della diversificazione delle fonti di
approvvigionamento per aumentare la sicurezza energetica europea, si stanno
pianificando numerose nuove infrastrutture di connessione ben oltre le effettive necessità.
Si pensi al contestato gasdotto Tap, che dovrebbe portare il gas azero dalla Turchia fino al
Salento — per buona pace della bellezza delle coste pugliesi. La Banca europea per gli
investimenti è pronta a prestare ben due miliardi di euro di soldi pubblici. Ma in realtà il
Tap porterebbe una quota limitata di gas rispetto al South Stream dalla Russia alla
Bulgaria e poi all’Europa, recentemente abortito dopo la crisi con la Russia. Inoltre tutte le
previsioni sui consumi di gas in Europa al 2050 ci dicono che in realtà le infrastrutture
esistenti sono sufficienti per soddisfare i bisogni.
E allora perché tanta euforia politica di Renzi e e compagni? L’Italia sogna di diventare
l’hub energetico del Mediterraneo assicurando profitti ai grandi attori energetici, Eni in
primis, tramite un mercato del gas liberalizzato e finanziarizzato. Poco importa se per
raggiungere l’obiettivo bisogna stringere accordi con governi dittatoriali, quali quello azero
e lo stesso al-Sisi in nome dell’imperativo di sottrarsi alle grinfie del despota Putin.
Senza parlare dell’impatto climatico che avrà tutto questo gas una volta bruciato, in Italia e
altrove. D’altronde in preparazione della conferenza sul clima di dicembre a Parigi Renzi è
stato chiaro: dimenticatevi che smettiamo di bruciare petrolio e gas. E allora che ci salvi il
nuovo dio del mare Zhor…
del 02/09/15, pag. 8
La morte di Alì e il rogo di Kfar
Douma: un mese di clamore per nulla
Cisgiordania. I palestinesi sono convinti che le autorità israeliane non
stiano realmente cercando i responsabili della morte del bimbo di 18
mesi e del padre Saad, uccisi dal rogo innescato con ogni probabilità da
coloni ebrei a Kfar Douma
Michele Giorgio
GERUSALEMME
«Tolleranza zero con gli estremisti» proclamò ad alta voce il premier israeliano Netanyahu.
«Abbiamo affrontato il fenomeno del terrorismo ebraico troppo debolmente» aggiunse il
capo dello stato Rivlin. «Misure risolute per proteggere la popolazione locale» dalla
violenza dei coloni israeliani, invocò con forza l’alto rappresentante della politica estera
dell’Ue Federica Mogherini. Il presidente palestinese Abu Mazen da parte sua assicurò
«Presenteremo il caso alla Corte penale internazionale». Fece scalpore il rogo che nella
notte tra il 30 e il 31 luglio carbonizzò Ali Dawabshah, 18 mesi, e che una settimana dopo
avrebbe ucciso anche Saad Dawabshah, il padre del bimbo palestinese, rimasto
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gravemente ustionato. Dopo quella notte in cui alcuni individui lanciarono bottiglie
incendiarie contro l’abitazione dei Dawabshah nel villaggio di Kafr Douma, il mondo
apprese della violenza degli estremisti di destra e dei coloni israeliani in Cisgiordania che i
palestinesi denunciano invano da anni. Lo stesso esercito e i giornali israeliani sin dal
primo momento non ebbero dubbi sulla paternità dell’azione assassina. La firma lasciata
sulle pareti annerite della casa non lasciava alternative: “Vendetta” e “Lunga vita al
Messia”. Parole e slogan dei “redentori” della biblica terra di Israele, “Eretz Israel”, forse
intenzionati a vendicare la demolizione ordinata un paio di giorni prima dalla Corte
Suprema di un paio di edifici nella colonia ebraica di Bet El.
Un mese dopo, passati il clamore e le tensioni di quei giorni che fecero intravedere l’inizio
di una nuova Intifada palestinese, pochi ricordano che i membri superstiti della famiglia
Dawabsha, Ahmad, 4 anni, e Riham, 29, la mamma di Ali, sono ancora in ospedale.
Ahmad dovrebbe farcela mentre Riham lotta ancora tra la vita e la morte. Da metà agosto
respira solo grazie all’aiuto dei macchinari dell’ospedale Cheba, il suo corpo è ustionato
per un 80% e alcuni organi interni, a cominciare dai polmoni, funzionano solo in parte a
causa delle bruciature e del fumo intenso che ha inalato durante l’incendio. «Preghiamo e
speriamo per Ahmad e Riham. Non possiamo fare altro», dice sconsolato Hussein
Dawabshah, il nonno di Ali, a chi si reca a fargli visita a Kafr Douma. Lui e tutti gli altri
membri della famiglia dicono di non avere alcun fiducia nelle indagini israeliane. «All’inizio
i militari (israeliani) si mostravano comprensivi e gentili, poi sono spariti e gli assassini di
mio nipote e mio cugino restano liberi», dice Basem, uno zio di Ali.
I palestinesi sono convinti che nessuno stia realmente cercando i responsabili della morte
di Ali e Saad Dawabshah. In queste quattro settimane il clamore mondiale suscitato dal
rogo di Kfar Douma ha prodotto soltanto un ordine di “detenzione amministrativa” (carcere
senza processo) per sei mesi nei confronti di tre militanti della destra e provvedimenti
restrittivi nei confronti di una decina di coloni ed estremisti. Queste persone comunque non
sono accusate di essere coinvolte nell’uccissione di Ali e di suo padre. L’impressione di
tanti è che il servizio di sicurezza Shin Bet sia frenato da pressioni politiche. Con un
governo che li sostiene apertamente e una Knesset dove hanno decine di parlamentari
amici, e qualche volta anche vicini di casa, i coloni israeliani più estremisti si sentono
intoccabili.
Non sono intoccabili invece i palestinesi sotto occupazione militare. Le unità scelte
dell’esercito israeliano entrano ed escono come vogliono dalle città autonome della
Cisgiordania che pure ricadono sotto la piena autorità dell’Anp di Abu Mazen. Tuttavia
l’altra notte a Jenin, dove erano entrate per catturare un esponente del Jihad, Bassem al
Saadi, hanno incontrato una forte resistenza, anche armata, dei palestinesi come non
accadeva da anni. Si è scatenata una vera e propria battaglia con l’utilizzo da parte
israeliana di mezzi blindati, elicotteri e ruspe. Inizialmente si era parlato di alcuni morti ma
lo scontro ha provocato solo feriti, tra cui un soldato forse colpito da “fuoco amico”.
Distrutta dagli israeliani la casa della famiglia Abu al Hija, vicina ad Hamas. Le forze di
sicurezza dell’Anp sono rimaste chiuse nelle caserme senza intervenire.
del 02/09/15, pag. 19
Ucraina, si rompe il fronte del governo
Destre e oligarchi in rivolta contro la riforma costituzionale. Salgono a
tre le vittime degli scontri
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MOSCA La frattura fra le forze che sostengono il governo di Kiev sembra farsi sempre più
insanabile dopo che altri due poliziotti sono morti a seguito del lancio di una bomba a
mano contro le forze dell’ordine lunedì.
I gruppi di estrema destra scesi in piazza contro la riforma costituzionale che prevede
alcune autonomie per i territori del Donbass confermano la loro posizione: «È il governo
che ci ha costretti con questa legge a reagire».
Gli uomini del partito Svoboda sono arrivati con mazze ferrate e bombe fumogene, poi uno
di loro ha lanciato la granata in mezzo agli agenti della Guardia Nazionale, uccidendone
sul colpo uno. Tra gli oltre cento feriti, ce ne sono di gravissimi e quindi non si esclude che
il bilancio possa ulteriormente peggiorare.
In ogni caso la maggioranza è a pezzi, con un altro partito, quello radicale, che ha
annunciato la sua uscita dalla coalizione di governo. Sarà quindi assai difficile per il
presidente Petro Poroshenko ottenere a breve un secondo voto della Rada con una
maggioranza di due terzi.
Sono in rivolta i neonazisti e i nazionalisti, sono sul piede di guerra tutti i gruppi di destra e
perfino gli ex democratici di Yulia Tymoshenko, la pasionaria della rivoluzione arancione
del 2004. Ma soprattutto dietro alle formazioni politiche che si agitano, ci sono gli oligarchi
che sono stati tagliati fuori dal potere (e quindi dagli affari) a seguito dell’arrivo del nuovo
gruppo dirigente e che finanziano un po’ tutti. È interessante notare che la riforma
costituzionale contro la quale hanno votato due dei cinque partiti che sostengono il
governo, è stata invece approvata da deputati dell’opposizione, brandelli di quel Partito
delle Regioni che faceva capo al presidente Yanukovic cacciato a furor di popolo l’anno
scorso.
Lo scontro, in realtà, riguarda i gruppi politici di Kiev e non è invece sui contenuti della
legge costituzionale, in quanto questa prevede solo dei blandi principi di «devolution».
Dovrà essere una legge specifica a stabilire le misure concrete dell’autonomia da
assegnare al Donbass. Si pensa a organismi elettivi, a una specie di milizia popolare, ma
anche al disarmo delle formazioni armate esistenti.
Il provvedimento, comunque, è stato già violentemente criticato da Mosca e dai leader
indipendentisti che lo bollano come un «tradimento» degli accordi di Minsk.
Il ministro degli Esteri Lavrov ha detto che la legge prevede solo «ambigue promesse»
mentre dovrebbe includere le «misure concrete di governo autonomo» concordate con
Russia, Germania e Francia. L’accordo di Minsk, ha spiegato Lavrov, «è una cosa seria ed
è legalmente vincolante». Ancora più duri i leader del Donbass che già l’anno scorso
organizzarono un referendum sul distacco da Kiev. Ora starebbero pensando a una
consultazione sull’annessione alla Russia. È presto per parlarne, dicono, ma «è chiaro che
puntiamo a una integrazione».
Fabrizio Dragosei
del 02/09/15, pag. 8
L’Osa boccia Bogotà
Venezuela. Rinviata all'8 settembre la riunione di Unasur sulla crisi di
frontiera
Geraldina Colotti
La crisi tra Colombia e Venezuela arriva sul tavolo degli organismi regionali. Bogotà si è
rivolta all’Organizzazione degli stati americani (Osa) per chiedere un vertice straordinario
sulla chiusura della frontiera, decisa il 21 agosto da Caracas nello stato Tachira. Il
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Consiglio permanente dell’Osa ha però bocciato la richiesta per 18 a 17. Il Venezuela ha
invece accettato di discutere la questione con l’Unione delle nazioni del sud (Unasur).
L’incontro avrebbe dovuto tenersi domani in Ecuador, ma è stato rinviato all’8 settembre: a
causa degli impegni internazionali della ministra degli Esteri venezuelana Delcy
Rodriguez, in viaggio diplomatico in Vietnam e in Cina insieme al presidente Nicolas
Maduro. «Se la riunione non si fa in settimana non vale la pena», ha però dichiarato la
ministra degli Esteri colombiana, Maria Angela Holguin.
L’ambasciatore del Venezuela all’Osa ha accusato la Colombia di voler trasformare la
vicenda in un «circo mediatico» per far salire la tensione. E ha aggiunto: «Speriamo che,
per ragioni elettorali (il 25 ottobre si terranno le regionali, ndr,) il presidente Santos non
scelga di superare l’ex presidente colombiano Alvaro Uribe in fatto di violenza verbale o di
decisioni». Nei giorni scorsi, Santos ha infatti richiamato l’ambasciatore venezuelano «per
consultazioni» e Maduro ha reagito nello stesso modo in base al principio di reciprocità.
Uribe si è subito recato nella città di Cucuta, alla frontiera con il Tachira, e ha inscenato
una virulenta manifestazione «contro la dittatura castro-madurista». Per l’occasione, Uribe
— grande sponsor del paramilitarismo e nemico del processo di pace con la guerriglia
marxista, in corso all’Avana — ha assunto l’insolito ruolo di difensore dei diritti umani dei
colombiani irregolari, accompagnati oltrefrontiera: oltre 1.000 secondo le autorità
colombiane, circa 800 secondo quelle venezuelane. Sono stati espulsi a seguito dello
stato d’emergenza dichiarato dal governo venezuelano in diversi punti dello stato Tachira.
Una misura decisa per far fronte al contrabbando di prodotti sussidiati che sta
dissanguando l’economia del paese. Lo stato Tachira alberga il 4,5 % della popolazione
venezuelana, però «consuma» l’8,5% del totale degli alimenti del paese: praticamente la
metà di quel che arriva nel Tachira se ne va in Colombia con il contrabbando, fidando
anche su una vasta rete di corruzione. Un business superiore a quello del traffico di droga,
che ha al centro soprattutto la benzina, venduta a un prezzo irrisorio in Venezuela. Un
mercato che si alimenta con il traffico illegale di valuta. A Cucuta, cittadina colombiana di
frontiera in cui risiedono 566.000 abitanti, esistono oltre 1.000 locali in cui si può cambiare
denaro venezuelano e dollari ottenuti al tasso agevolato (e circa 3.000 lungo la frontiera).
A seguito dello stato d’emergenza e della drastica diminuzione dell’afflusso illegale, diversi
uffici di cambio hanno chiuso. Il sito Dolar Today, gestito da banchieri venezuelani e
imprenditori, fuggiti con i soldi dei contribuenti, gestisce le fluttuazioni del mercato parallelo
e perturba l’economia. In questi giorni ha fatto sapere che, anche con lo stato d’eccezione,
le cose non cambieranno molto, perché gran parte delle tranzazioni si svolge comunque
«via telefono».
Una situazione complessa. A Cucuta, l’indice di povertà è al 33%, la disoccupazione
supera il 19% e gli impieghi sono per l’80% informali. Il 72% della popolazione vive del
contrabbando col Venezuela. Il governo Maduro, che si richiama al socialismo del XXI
secolo, segue le orme dei precedenti governi di Hugo Chavez, basati su una decisa
ridistribuzione delle risorse a favore degli strati meno favoriti. Nel paese risiedono a pieno
diritto quasi 6.000 colombiani, molti dei quali fuggiti dalla miseria provocata dalle politiche
neoliberiste dei loro governi, oppure dalla sanguinosa repressione che colpisce dal oltre
cinquant’anni l’opposizione colombiana. E così, alla frontiera, sono in molti a innalzare
cartelli per chiedere di poter rientrare in Venezuela.
E mentre la destra colombiana sbraita, diversi parlamentari di sinistra e organizzazioni
popolari cercano di contrastare con cifre e dati la feroce campagna stampa contro Maduro.
Ricordano i falsi positivi (gli omicidi di civili fatti passare per guerriglieri) e le costanti
espulsioni di contadini. Denunciano la massiccia presenza di paramilitari alla frontiera
venezuelana, inviati a fini destabilizzanti.
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Com’è accaduto durante le proteste violente contro il governo, l’anno scorso, alcuni media
hanno diffuso immagini provenienti dalla repressione in Guatemala come se fossero
violenze contro gli espulsi colombiani. Per quelle violenze — che hanno provocato 43
morti e oltre 800 feriti -, è stato riconosciuto colpevole il leader oltranzista Leopoldo Lopez,
ma l’entità della pena si conoscerà in questi giorni.
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INTERNI
Del 2/09/2015, pag. 12
Renzi sfida i dissidenti “Chi ferma le riforme
blocca anche la ripresa”
Il premier: “Se vince il no, si vota e addio alla crescita” Il governatore
Rossi: “Io segretario Pd? Perchè no?
FRANCESCO BEI
ROMA . «Con i dati dell’Istat che certificano la crescita dei posti di lavoro voglio vedere chi
si assumerà la responsabilità di mandare tutto all’aria e bloccare la ripresa». Gasato per la
buona notizia sull’occupazione, dopo il disastro comunicativo del ministero del Lavoro,
Matteo Renzi guarda alla sfida che si aprirà al Senato la prossima settimana, quella sul
disegno di legge costituzionale. Lo spettro delle elezioni anticipate resta sullo sfondo,
anche se più come spauracchio per intimidire la fronda interna al partito. E intanto il report,
aggiornato giorno dopo giorno da Luca Lotti, quello con i nomi dei senatori su cui contare,
è finalmente arrivato sulla scrivania del premier. Che compulsando la lunga serie di volti
che lo compongono si è soffermato sul dato finale: «Sulla carta ne abbiamo 185. Anche se
scomputiamo la minoranza ce la possiamo fare ».
Tanti infatti sono i voti che la maggioranza, in teoria, potrebbe raggranellare sul ddl
Boschi. Una quota stratosferica, che significativamente considera nella colonna dei “Si”
anche i voti di quei 25 (o 29) senatori della minoranza dem che non sono mai scesi dalle
barricate. Oltre agli apporti dei fuoriusciuti forzisti, grillini e Gal. È questa la quota di
partenza dal quale inizare a sottrarre per arrivare a una cifra realistica. Ed è proprio quel
numeretto, scritto in fondo al report, all’origine della spavalderia che il premier mostra con
chiunque lo interroghi sul tema: «I voti li abbiamo comunque, ma certo sarebbe meglio se
la minoranza del partito guardasse il merito e alla fine considerasse quanto possiamo
offrire».
Centottantacinque voti, meno i venticinque dissidenti del Pd, e si arriva a centosessanta.
Solo un voto in meno della maggioranza assoluta necessaria nella terza votazione. Se
davvero le cose andassero così per il capo del governo sarebbe una prova di forza.
Specie tenuto conto che in questo passaggio parlamentare in realtà i margini sono molto
più ampi, dato che basta la maggioranza semplice dei presenti. Uno dei capigruppo
dell’opposizione, che ha potuto scorrere in via riservata il rapporto-Lotti, ammette che «i
nomi sono quelli lì. Anche se considera nel mucchio di 185 pure i dissidenti dem, gli altri ci
sono tutti». Tra i 44 di Forza Italia ci sarebbero poi alcuni incerti. Ieri l’Adnkronos faceva i
nomi di alcuni senatori berlusconiani disponibili a considerare un voto positivo sulle
riforme: Francesco Nitto Palma, che da tempo non partecipa più alle riunioni di partito e
non nasconde il profondo malessere nei confronti della gestione di Fi, poi Domenico
Auricchio, Franco Cardiello, Sante Zuffada e Riccardo Villari.
Il messaggio di Renzi è dunque chiaro: se voglio posso fare a meno di voi. Della
minoranza Pd e di Berlusconi. Una posizione di forza in vista dell’apertura di una
eventuale trattativa. Qualcosa in effetti inizia a muoversi. E anche la fotografia della
minoranza, avvicinandosi, presenta delle sfumature tra una frazione di irriducibili - da
Mucchetti a Mineo- e una parte maggioritaria più aperta a compromessi. Claudio Martini,
che fa da ponte fra le varie anime della minoranza, è molto prudente: «Il documento dei 25
non è stato scritto per rompere ma per discutere e ragionare insieme. Speriamo quindi che
si apra davvero uno spazio per il ragionamento». Un altro peso massimo della minoranza
19
come il presidente della Toscana Enrico Rossi, pur lanciando la sua candidatura come
anti-Renzi in vista del congresso («perché no? »), alla Stampa due giorni fa ha rivolto un
appello all’area bersaniana: «Un Senato a elezione diretta non è più un Senato dei
territori!». Insomma, le basi per un compromesso esistono. E in questa settimana, fino alla
seduta della commissione affari costituzionali di martedì prossimo, si capirà quanto sono
grandi i margini per un’eventuale ricucitura. I bene informati raccomandano di non perdere
l’appuntamento di domani alla festa dell’Unità a Milano. Quando il destino ha previsto in
calendario per la stessa serata un dibattito con Pier Luigi Bersani e un altro con Maria
Elena Boschi. In teoria, dietro il tendone, i due dovrebbero incrociarsi. E forse provare a
gettare un primo seme per arrivare a un’intesa che non faccia perdere la faccia a nessuno.
Proprio la Boschi è considerata la più tetragona tra i renziani, la più affezionata a
mantenere il ddl che porta il suo nome così com’è. Se un’apertura dovesse arrivare da lei,
sarebbe il segnale che anche Renzi è disposto a cedere qualcosa.
del 02/09/15, pag. 6
Senato non elettivo, ora i renziani
si aggrappano alla diga-Finocchiaro
La presidente di Commissione non vuole toccare l’articolo 2, Grasso è
di avviso diverso
Francesca Schianchi
Anna Finocchiaro è di nuovo al lavoro, a Roma. A una settimana dalla ripresa della
discussione sulla riforma del Senato, la presidente della Commissione Affari costituzionali,
anche relatrice della legge, riprenderà in mano carte e dossier. Sapendo che occhi (e
speranze) dei renziani saranno puntati su di lei. Già: perché prima che sia il presidente del
Senato Pietro Grasso a prendere la «decisione con la D maiuscola», per dirla con il
renziano Giorgio Tonini, dovrà essere lei a dare la sua opinione sulla possibilità di riaprire
il conteso articolo 2 della legge, cuore di tutta la riforma, quello che contiene l’indicazione
su come verranno eletti i futuri membri di Palazzo Madama. E, nonostante i pareri di
entrambi debbano ancora arrivare, i due presidenti sono orientati in modo opposto: lei già
convinta che quel pezzo della riforma non sia più modificabile, lui ben più possibilista sulla
sua riapertura.
Finocchiaro più esperta
La scelta della Finocchiaro sarà un precedente di peso per il presidente Grasso. Non
vincolante, beninteso (è successo decine di volte che il parere su ammissibilità o meno di
emendamenti fosse difforme tra presidente di Commissione e del Senato, spiega un
funzionario), ma nemmeno marginale, anche perché, come si fa notare con malizia in
ambienti renziani, «Grasso è pur sempre alla prima legislatura, mentre Anna ha
un’esperienza di anni e anni», essendo eletta in Parlamento dal 1987. «Mutare la scelta in
ordine alla natura del Senato significa, oggettivamente e fuori da ogni giudizio di valore,
rimettere la riforma sulla linea di prima partenza», ha detto un mese fa, nella relazione
sulla legge prima della pausa estiva, la Finocchiaro. Il giorno dopo, è stata una figura di
primo piano come il presidente emerito Napolitano a escludere in una lettera al «Corriere
della Sera» la possibilità che si introduca il Senato elettivo che tanto vorrebbe la
minoranza Pd. Grasso invece, pur non avendo ancora detto quale sarà la sua decisione (e
avendo smentito chi gli attribuiva già una scelta definitiva), non ha mai escluso l’ipotesi di
riaprire l’articolo: prima ha rinviato la valutazione a «un’attenta analisi delle proposte
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emendative», poi ha ricordato che, comunque, l’art. 2 andrà rivotato, per via di una piccola
modifica in un comma diverso da quello che parla di elezione del Senato. Le posizioni
insomma sono ben diverse: ed è vero che, prima della pausa estiva, la Finocchiaro aveva
espresso il desiderio che ogni decisione trovasse «di concorde avviso» i due presidenti,
ma i beninformati assicurano che i due non si sono per il momento consultati, e che quella
frase potrebbe rimanere un grazioso auspicio.
Direttamente in Aula
A meno che la decisione che prenderà la maggioranza non sia quella, a oggi molto
accreditata, di andare direttamente in Aula saltando il passaggio in Commissione. Gli
emendamenti presentati sono oltre 500mila: se anche la Finocchiaro dichiarasse
inammissibili quelli sul Senato elettivo, ne resterebbe qualche migliaia. Troppi: ecco allora
che la scelta, per aggirare il problema, potrebbe essere andare subito in Aula. E lì- dove
però il leghista Calderoli ha già promesso sei milioni di emendamenti- sarà Grasso a
gestire lo stallo. E decidere se riaprire o meno l’articolo su cui tutto ruota: i tentativi di
mediazione dei renziani con la minoranza Pd sono andati a vuoto, no a ipotesi di listini di
vario tipo, loro vogliono riaprire l’art. 2 della legge. E poco sono allettati, almeno per ora,
dalla disponibilità concessa dai renziani di cambiare funzioni del Senato e Titolo V.
21
LEGALITA’DEMOCRATICA
del 02/09/15, pag. 32
Arcipelago ’ndrangheta
La mafia calabrese si è modernizzata e ora allunga ovunque i suoi
tentacoli
di Corrado Stajano
Avevo letto i racconti di Umberto Zanotti Bianco, Tra la perduta gente , sulla Calabria dei
primi decenni del Novecento ed ero rimasto inorridito e turbato dalla povertà disperante
degli abitanti di un paese di nome Africo, ai piedi dell’Aspromonte. Scrittore, archeologo,
liberaldemocratico gobettiano, Zanotti Bianco era una figura di intellettuale politico ricca di
fascino che dedicò anni a rendere migliori le inumane condizioni degli umili che vivevano
in quella regione d’Italia. Avevo visto anche le fotografie di rara efficacia di Tino Petrelli
che con il giornalista Tommaso Besozzi, dopo la Seconda guerra mondiale, aveva fatto un
reportage in quel paese il cui nome derivava forse dal greco aprikos o dal latino apricus . E
poi, in quegli anni Settanta del secolo scorso, avevo letto le cronache quotidiane, spesso
giudiziarie, che avevano per protagonista un sacerdote di nome Giovanni Stilo, definito «il
prete padrone» di Africo, che i giornali di sinistra giudicavano «spogliato di ogni sacralità»
e accusavano di un corposo malfare, proprietario di una scuola che sfornava diplomi a
pagamento, in consuetudine con ministri e uomini del potere politico democristiano, vicino
agli ambienti della ’ndrangheta, la mafia calabrese. Il prete querelava ogni volta i suoi
«diffamatori» e usciva sempre illibato dai processi.
Decisi di saperne un po’ di più e proposi a Giulio Einaudi l’idea di un libro su quel paese;
ne avevo già scritti un paio per la sua casa editrice. Mi disse di andare a vedere, era
incuriosito da quella storia, avrebbe voluto venire anche lui in quello sconosciuto luogo
calabrese impastato dalla ’ndrangheta, parola di origine grecanica, derivata da
andragathos , l’uomo coraggioso, valoroso: l’onorata società della Calabria.
Quando si seppe di quella mia decisione diventai vittima di ironie. Andavo a mettere il
naso in una terra dominata un tempo da un’organizzazione arcaica, ora morta e sepolta,
con una simbologia in cui troneggiavano entità chiamate Osso, Mastrosso, Carcagnosso
(Gesù Cristo, San Michele Arcangelo, San Pietro), infarcita di statuti, di gerarchie, di riti
d’iniziazione, di giuramenti con il sigillo del sangue. (...)
Chissà se i giuramenti degli adepti rispettano ancora oggi l’antico rituale. La ’ndrangheta è
diventata la più importante e temibile organizzazione criminale del mondo. Ha una
dimensione globale, lavorano al suo servizio banchieri, finanzieri, uomini corrotti, a molti
livelli, delle istituzioni e della politica, notai, commercialisti, avvocati specialisti nel diritto
internazionale privato, diplomatici, procacciatori di appalti pubblici e privati, esperti nel
riciclaggio del denaro sporco, amministratori capaci. Gli ’ndranghetisti possiedono fiumi di
denaro. La droga e il traffico delle armi, in un mondo che disdegna ancora la parola pace,
rappresentano il profitto primario dell’organizzazione diventata in numerosi posti l’azienda
leader del mercato criminale, sopravanzando anche Cosa nostra siciliana. (...)
Non soltanto la droga e le armi: la ’ndrangheta e i suoi affiliati posseggono interi isolati di
città, catene di bar, di ristoranti, di alberghi, di centri commerciali, si occupano dello
smaltimento dei rifiuti, della sanità, gestiscono banche clandestine e le trame dell’usura, le
bische, il movimento terra, la compravendita di voti in cambio di favori inimmaginabili.
L’atlante criminale della ’ndrangheta — una multinazionale che ha una carta in più, quella
del delitto e della strage nei confronti dei concorrenti temibili e fastidiosi — copre tutto il
mondo: oltre all’Italia, soprattutto quella del Nord, il Canada, gli Stati Uniti, il Sudamerica
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— in particolare la Colombia — e, in Europa, la Svizzera, l’Olanda, la Germania, i Balcani.
(...)
Non più dissimile da Cosa nostra, la ‘ndrangheta è governata da una centrale che, anche
in Calabria, ha un potere assoluto sulle varie famiglie. Non esiste più l’indipendenza
anarcoide di una volta. (...)
I figli e i nipoti della ’ndrangheta analfabeta hanno lasciato coppola e lupara negli armadi di
casa, hanno studiato, si sono laureati, in Giurisprudenza, Economia e commercio
soprattutto, frequentando poi corsi di formazione nelle università più rinomate, dottorati,
master, stage, e con questi raffinati bagagli seguitano, assai più pericolosi degli esponenti
della ’ndrangheta di paese che minaccia e spara — non ha certo smesso di farlo —, il
lavoro di famiglia, solo un po’ modernizzato.
La ’ndrangheta è simile a una monarchia ereditaria. Nelle cronache si ritrovano infatti, di
continuo, gli stessi nomi, figli o nipoti. Anche i nomi del mio libro Africo ballano da un
processo all’altro.
I discendenti hanno girato il mondo, ne conoscono usi e costumi, parlano le lingue, ma la
casa madre resta in Calabria. Africo, Bianco, Platì, San Luca, Bovalino, Cittanova, Siderno
seguitano a essere le radici dei «locali», i luoghi sparsi nei continenti dove gli uomini della
’ndrangheta si incontrano per le «mangiate», i summit mafiosi, come un tempo quello
famoso di Montalto, sull’Aspromonte, o quelli, annuali, della processione alla Madonna di
Polsi. Magari adesso sono le suite dei grand hotel del mondo ad accogliere i capi
’ndranghetisti laureati che distribuiscono là dentro «cariche e doti», i gradi e i poteri, come
in un esercito, senza dimenticare mai, si è già detto, i luoghi natii, l’artigianato (diventato
industria) del crimine sanguinante.
Sono passati più di 35 anni da quando, per la prima volta, arrivai ad Africo. Mi sembrò una
caserma abbandonata dove dominava il grigio delle case spesso non finite, della scuola
del prete, simile a un granaio dismesso, del municipio, con una torretta nel mezzo,
costruito da un capomastro del paese memore dello stile di Mussolini urbanista. Non c’era
nessuno, neppure un’anima nelle strade in quella tarda mattinata. Ma era soltanto
l’apparenza, perché da dietro le persiane semichiuse, a pianterreno delle case, scorgevo
occhi mobilissimi che osservavano circospetti lo straniero.
Il silenzio assoluto non mi sembrò sereno, ma innaturale. Dov’erano gli uomini e le donne
del paese? Prigionieri dei muri di casa? I vecchi non sedevano neppure, come in tutti i
paesi del Sud, sulle panchine della piazza. E dov’era chi lavorava? In campagna, dalla
parte della fiumara, o verso la statale, dalla parte del mare? Un paesaggio desolato. La
sensazione era di essere capitato in un paese coloniale squallido e abbandonato, anche
se costruito soltanto vent’anni prima: intessuto di ombre. Il bar era deserto, persino la
stazione, un po’ fuori dal paese, era deserta, ma quella targa, Africo Nuovo, era
rassicurante, dava almeno la certezza che non mi ero sbagliato, ero arrivato veramente in
quel puntino del mondo che avevo desiderato vedere. Ma come avrei fatto a scrivere il
libro che mi ero ripromesso di scrivere, quel libro che Giulio Bollati, direttore della Einaudi,
nel suo risvolto di copertina rimasto in questa edizione a segnare il tempo, quel tempo,
definì «storia politica, narrazione, testimonianza, documento, inchiesta»?
Tutto risultò meno arduo, almeno apparentemente, di quanto avevo temuto. Abitavo a
Roccella Jonica, una quarantina di chilometri da Africo, in una vecchia casa di pietra
foderata di bougainvillea color porpora. Dalle finestre vedevo il mare, l’ambiente era più
rassicurante che nel paese dove andavo ogni mattina e ritornavo la sera come un
pendolare. Non incontrai mai don Giovanni Stilo nonostante l’avessi cercato, non parlai
mai con una sola donna. Ebbi lunghi colloqui con Santoro Maviglia, personaggio antico,
vecchio capo della ’ndrangheta convertito in carcere alla politica e all’anarchia. I giovani
erano i più disponibili ma il sospetto aleggiava sempre, reciproco. Spesso, lo capii dopo,
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avevo avuto torto a dubitare di qualcuno; qualche volta, invece, la ragione era stata dalla
mia parte e ne restai amareggiato.
Si sapeva sempre tutto di quel che facevo, chi vedevo, dove, quando. Ero seguito da mille
sguardi e da presenze interessate. Anche la mia visita a Catania dove andai a parlare con
Rocco Palamara, un altro dei protagonisti di Africo , ricoverato all’ospedale dopo che era
stato ferito, divenne materia di conversazione tra uomini e donne del paese, con dovizia di
particolari veri o inventati.
La sensazione di solitudine che avevo avuto la mattina della prima visita era scomparsa
quasi del tutto. Il paese si era un po’ popolato, i bambini giocavano nei cortili, i vecchi
sedevano immobili sulle panchine, le donne facevano la spesa al mercato, s’incontrava
qualcuno anche davanti alla chiesa che sembrava un manufatto non finito, con tre
immagini dipinte sulla facciata biancastra, uno zappatore e una donna che reca doni a san
Francesco, le braccia aperte a un mondo che non sembra volerlo ascoltare. Doveva esser
stata un’allucinazione quell’immagine di solitudine disperata nell’isola sperduta del mio
primo giorno di Africo.
Il libro viene pubblicato nel 1979, in gennaio. Sono anni infuocati. Nell’anno appena
passato è stato sequestrato e ucciso Aldo Moro, la politica si è imbrigliata, il governo della
«non sfiducia» traballa — durerà ancora poco —, il terrorismo continua a uccidere. Anche
la mafia.
Ma è un tempo di passione, inimmaginabile oggi. L’opinione pubblica vuol sapere, discute.
La questione meridionale, oggi scomparsa dalle agende della politica, allora è considerata
un problema nazionale: non può essere risolto finché i poteri criminali, la mafia e la
’ndrangheta, non saranno estirpati dalla Sicilia e dalla Calabria dove sono dominanti. (La
camorra comparirà furente dopo il terremoto in Irpinia del novembre 1980. Per godere dei
frutti della ricostruzione.)
Africo suscita attenzione, dibattito, polemiche anche aspre. La televisione, Tg2 Gulliver ,
gli dedica un documentario di quasi mezz’ora. Scrittori, politici, antropologi discutono in
modo non formale di quel libro, tra gli altri Giorgio Amendola, Piero Bevilacqua, Vincenzo
Consolo, Tullio De Mauro, Giovanni Giudici, Mario La Cava, Giovanni Russo.
Ad Africo il libro provoca scandalo. Per i più don Stilo è un benefattore, chi ha delle riserve
su di lui tace impaurito. Per tutta una sera se ne discute in una seduta del consiglio
comunale del paese, tra insulti e qualche timida difesa. Il libro viene definito dai Dc di
Africo «denigratorio e disgustoso»; i comunisti sono prudenti — gli anarchici fanno ombra
—, il prete è pur sempre un interlocutore.
Il 31 marzo don Giovanni Stilo «sporge formale querela contro l’autore e l’editore del libro
Africo , nel testo del quale sono contenute numerose affermazioni diffamatorie, aggravate
dalla attribuzione di fatti determinati e finalizzate — come emerge da tutto il contesto del
volume — a ledere profondamente e irreversibilmente l’onore, il prestigio e la reputazione
del querelante sia come uomo che come sacerdote».
La giustizia italiana è solitamente lenta. Non in questo caso. Il 18 luglio autore ed editore
di Africo sono invitati a comparire davanti al Tribunale di Torino, la città dove è stato
stampato il libro.
Arrivavano nel mio studio di Milano telefonate di minaccia, anche di morte. Disturbanti.
Pareva che quelle voci urlanti forassero i muri della quieta stanza. Giulio Einaudi, a Torino,
trovava ogni giorno sottocasa uomini neri, immobili come le figure di uno sfondo di teatro.
Disturbanti anche loro. Era come se facessero la guardia, intimidenti, all’uomo che li aveva
offesi.
Un’aula del vecchio Tribunale torinese ospitava il processo. Il presidente, Elvio Fassone,
fece in udienza l’istruttoria che il rito direttissimo non permetteva. Chiedeva, ascoltava,
richiedeva, protagonista la ’ndrangheta calabrese portatrice di violenza e di morte. Sedevo
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su una panchetta vicino a Giulio Einaudi nella luce flebile che veniva dagli alti finestroni.
Don Stilo era arrivato a Torino con una piccola corte. I nostri avvocati, di gran nome,
Vittorio Chiusano, Bianca Guidetti Serra e il più giovane Giampaolo Zancan, erano esperti
e agguerriti. I processi di mafia sono difficili, è arduo provare la verità dei fatti. Non sono
stati molti, negli anni, i processi di quel genere — mafia e informazione — andati a buon
fine.
Elvio Fassone conduceva il dibattimento con autorità, non dava mai nulla per scontato.
Capivo che il punto focale del processo erano quei nomi che nelle mie pagine non avevo
fatto. Chi erano il coltivatore diretto, l’imprenditore, il professore di liceo, il commerciante, il
sindacalista, l’impiegato? Erano persone in carne e ossa, non avevo inventato nulla di quel
che mi avevano detto, a favore o contro il prete. Fedele allo spasimo. Non volevo dire chi
erano, ben cosciente che alcuni di loro avrebbero rischiato la vita.
La richiesta del Tribunale era impellente, il processo era in bilico. Decisi così di fare il
nome dell’allora presidente del Tribunale di Locri, Guido Marino, l’avevo incontrato un paio
di volte parlando a lungo con lui. Anche se ora, per quieto vivere, avrebbe potuto dire di
non avermi mai visto.
La sua lunga testimonianza davanti al Tribunale di Torino (il 13 novembre 1979) fu una
vera lezione sulla ’ndrangheta e su don Giovanni Stilo: cementò le accuse su di lui e
aggravò la sua posizione processuale di querelante. Fu essenziale per la mia assoluzione.
Ha scritto Elvio Fassone nella sua sentenza («Giurisprudenza italiana», aprile 1982): il
consigliere Marino «ha non solo confermato la genuinità delle dichiarazioni che Stajano gli
attribuisce nel libro sotto un riguardoso anonimato, ma ha arricchito il quadro con
l’esperienza che deriva a colui che per molti anni ha goduto di un eccezionale
osservatorio, quale poteva essere l’ufficio di presidente del Tribunale di Locri. La
definizione di “prete, sceriffo, governatore” se non si sustanzia di numerosi fatti concreti (al
di là di quello, peraltro non insipido, nell’ottica dei rapporti mafiosi, dell’intromissione di don
Stilo nel ratto di una maestrina sequestrata da mafiosi) ha però tutta l’autorevolezza della
fonte qualificata ed esperta, avvezza a distinguere tra prova e sospetto, ma capace di
percepire come il sospetto — in un ambiente come quello africota — possa anche
significare prova abortita, o inquinata o intercettata».
La sentenza del giudice Elvio Fassone è stata per me più gratificante di tante lusinghiere
recensioni di letterati illustri. Ha toccato la miserabile vita di poveri cristi, la sopraffazione
protagonista di un frammento dell’Italia abbandonata. Il diritto riconosciuto a chi scrive di
informare, secondo le regole, di rivelare anche le piaghe più oscure e torbide della società
italiana fa da cardine alla sentenza.
Qualche cenno. «È bene premettere che il requisito formale della comunicazione del
pensiero — e cioè la “continenza” dei modi usati — non è in discussione, poiché lo stile di
S. è costantemente sorvegliato e l’autore rifugge per quanto è possibile dall’adottare
espressioni o giudizi propri, ricorrendo quasi sempre a testimonianze e a riferimenti esterni
(…), con ampio ricorso a stralci di sentenze, requisitorie, atti giudiziari o di polizia». E poi:
«La figura di don Stilo, pur essendo egli un evidente protagonista della storia locale, non la
sovrasta, né la esaurisce. Non don Stilo, ma Africo è l’oggetto dell’indagine di S., perché è
Africo il microcosmo dolente che riproduce pregi e difetti, speranze e corruzioni di tutto un
modo di vivere, di una cultura e di un tessuto che sono i veri temi dell’impegno civile
sotteso dal libro». E ancora: «S. è minuzioso nel riferire tutti i dati reperibili, talora
addirittura con la pedanteria di chi sa di camminare su un terreno minato, e vuole
sottolineare a ogni costo l’obiettività dei riscontri». E infine: «Chiunque voglia fare
applicazione di questi principi (il diritto alla comunicazione del pensiero) alla materia
trattata da S. (…), quel cancro sociale che è la mafia nelle sue varie accezioni, si rende
immediatamente conto di come una accurata, costante e impegnata denuncia possa
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servire a quella maturazione collettiva delle coscienze che è l’unico argine possibile contro
il fenomeno».
L’8 gennaio 1980 Giulio Einaudi e io fummo assolti dal Tribunale di Torino con la formula
piena: «Il fatto non costituisce reato». In quei giorni i giovani comunisti della costa jonica
della Calabria stamparono e appiccicarono ai muri dei loro paesi un manifesto che diceva:
«Ogni tanto la prepotenza non vince».
Per me fu una medaglia al valore.
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RAZZISMO E IMMIGRAZIONE
Del 2/09/2015, pag. 4
Italia condannata: espulsioni illegali
La Corte di Strasburgo sulla detenzione di tre tunisini.Renzi: “Europa si
gioca faccia e dignità”
VLADIMIRO POLCHI
ROMA . Caos a Budapest, flusso incontrollato verso l’Austria, allarme nelle cancellerie
europee. Non si ferma l’emergenza migranti con l’arrivo a Vienna di oltre 3.600 profughi.
Cresce la tensione in Europa. Angela Merkel gioca in difesa e nega ogni
«corresponsabilità» nel caos ungherese. Ma fanno rumore i numeri dell’Oim
(Organizzazazione internazionale per le migrazioni): 351mila migranti hanno attraversato il
Mediterraneo da gennaio a oggi, 115mila quelli giunti in Italia e almeno 2.643 morti in
mare. Islandesi in prima linea nell’accoglienza: dopo che il governo di Reykjavik si era
limitato ad offrire ospitalità a massimo 50 rifugiati siriani, 12mila cittadini hanno aderito a
una petizione lanciata su Facebook, mettendo a disposizione le proprie case. Intanto, sul
fronte dell’accoglienza l’Italia viene bocciata a Strasburgo. La Corte europea dei diritti
dell’uomo ha condannato il nostro Paese per la detenzione «illegale» di tre migranti
tunisini nel Centro di prima accoglienza di Lampedusa. Il ricorso si riferisce a fatti avvenuti
nel settembre 2011, quando i tre erano stati prima trattenuti sull’isola e poi caricati su naviprigione a Palermo, in attesa del rimpatrio. Per Strasburgo la detenzione dei tre, fuggiti
dopo le rivolte della Primavera araba, era «irregolare». Il loro trattenimento «privo di base
legale» e pur tenendo conto «della crisi umanitaria» sull’isola, le condizioni della
detenzione «hanno leso la loro dignità», a causa del sovraffollamento e delle condizioni
igieniche della struttura. La Corte ha deciso che l’Italia dovrà versare a ciascuno dei tre
10mila euro per danni morali.
E mentre il Viminale annuncia l’attivazione di 20mila nuovi posti per i rifugiati sul territorio,
il premier Renzi dice: «Sui migranti l’Europa si gioca faccia e dignità». Fabio Bergamini,
sindaco leghista di Bondeno, comune ferrarese terremotato, provoca: «Aliquote Tasi e Imu
al massimo per chi ospita presunti profughi in case o strutture di sua proprietà.
Il gettito così prodotto lo destineremo a un fondo a disposizione dei terremotati. Chi vìola il
patto di solidarietà tra terremotati, vendendosi come un Giuda per 30 denari — prosegue il
sindaco del Carroccio — merita una batosta fiscale, con i soldi così ottenuti potremo dare
nuovi aiuti ai terremotati».
del 02/09/15, pag. 9
L’Italia avvisa l’Ue: più migranti da
redistribuire o non collaboriamo
ROMA I centri di smistamento chiesti dall’Europa non saranno aperti fino a che non si
fisseranno le quote di distribuzione dei profughi. L’Italia conferma la linea dura e in vista
del vertice del 14 settembre a Bruxelles mette a punto la strategia per ottenere «un
numero più alto di migranti da trasferire altrove rispetto ai 32 mila decisi a luglio». Il flop
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delle scorse settimane, con le promesse non mantenute nonostante l’impegno della
Commissione guidata da Jean-Claude Juncker — che prima aveva assicurato la
distribuzione obbligatoria di 40 mila profughi e poi ha ripiegato su quella volontaria di un
numero inferiore — convincono il governo a dettare in anticipo le condizioni. Per questo,
come è stato ribadito durante la riunione convocata a Palazzo Chigi ieri mattina dal
premier Matteo Renzi con i ministri dell’Interno Angelino Alfano, della Difesa Roberta
Pinotti e degli Esteri Paolo Gentiloni, «bisognerà battere tutti sullo stesso tasto: la
responsabilità deve marciare di pari passo con la solidarietà». E dunque «l’Italia rispetterà
le regole imposte soltanto se anche gli altri faranno la propria parte».
Gli «hotspot»
Il nodo da sciogliere rimane quello dei centri di smistamento, gli ormai famosi «hotspot»
dove far transitare i migranti che chiedono asilo. Bruxelles — forte anche di un’accusa
specifica mossa a luglio dalla cancelliera tedesca Angela Merkel— ha contestato al nostro
Paese di non seguire in maniera corretta le procedure per il fotosegnalamento di chi
sbarca sulle coste meridionali. In particolare di consentire a migliaia di stranieri di non
essere identificati e lasciandoli liberi di varcare le frontiere, soprattutto nei casi in cui era
evidente la volontà di raggiungere la Francia, l’Austria, la stessa Germania. Per questo il
governo ha accettato di allestire cinque centri con la presenza di commissioni composte
da 44 funzionari delle agenzie internazionali Frontex, Europol ed Easo. Le strutture di
Lampedusa, Trapani e Pozzallo, che dovranno contenere ognuna circa 500 persone, sono
già pronte. A novembre verranno completate anche quelle di Augusta e Taranto. Ma le
porte non saranno aperte «fino a che non sarà messo a punto l’intero pacchetto». Perché,
come ha spiegato Alfano due giorni fa «è inaccettabile affrontare subito l’intero carico di
responsabilità e ottenere a rate la solidarietà».
Le quote obbligatorie
Quando parla di solidarietà il titolare del Viminale si riferisce esplicitamente alla
distribuzione dei profughi. L’Italia mira a far salire il numero di chi dovrà andare altrove, ma
soprattutto a rendere obbligatorio per gli Stati accettare le quote sulla base di quanto
stabilito a luglio: Pil e indicatori sullo Stato sociale di ogni Paese. Un possibile
compromesso, che i tecnici della commissione europea stanno studiando in queste ore
prevede la concessione di «opt out» a tutti i membri come avviene adesso soltanto per
Regno Unito, Irlanda e Danimarca. Vuol dire che alcuni governi potranno chiamarsi fuori
dalla cooperazione internazionale e dunque non parteciperanno al programma di
assistenza legato all’immigrazione, ma non otterranno neanche il sostegno e i
finanziamenti previsti. Chi è dentro dovrà invece farsi carico degli stranieri in base ai criteri
che saranno fissati durante il prossimo vertice di metà settembre. L’incognita rimane
legata al numero di Stati che saranno coinvolti per stabilire se sia adeguato ad affrontare
una situazione che appare ogni giorno più drammatica vista l’entità dei flussi marittimi e
adesso anche di quelli terrestri.
Le sanzioni
Un vero e proprio esodo che qualche giorno fa aveva portato lo staff di Juncker a valutare
la possibilità di inserire anche l’Ungheria nell’elenco dei Paesi — al momento composto
solo da Italia e Grecia — che hanno finora sopportato il maggiore carico di migranti e
dunque avrebbero trasferito complessivamente 32 mila profughi altrove. Un’eventualità
che, alla luce di quanto accaduto ieri, con la scelta di bloccare i treni in entrata e utilizzare
l’esercito per fermare gli stranieri, non appare praticabile. Anzi, non è escluso che di fronte
a provvedimenti così drastici l’Europa decida addirittura di sanzionare i governi.
Asilo e rimpatri
Del resto l’obiettivo dell’Unione — soprattutto dopo le prese di posizione della Merkel che
ha invocato più volte in questi giorni una cooperazione internazionale più concreta — è
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quello di percorrere una strada comune che possa portare a risultati anche rispetto alle
politiche da intraprendere nei confronti dei Paesi d’origine. E dunque, come ha ribadito ieri
Pinotti, bisogna arrivare a «un diritto d’asilo comune ma allo stesso tempo anche a rimpatri
gestiti a livello europeo». L’Italia ha già avviato negoziati con alcuni governi africani, ma un
progetto gestito da Bruxelles potrebbe avere certamente maggiore efficacia anche per la
possibilità di concedere finanziamenti e benefici a chi accetta la riammissione dei propri
cittadini.
Fiorenza Sarzanini
Del 2/09/2015, pag. 6
Il personaggio
La cancelliera si impegna ad accogliere in Germania 800 mila rifugiati. E
l’Ungheria di Orbàn l’accusa apertamente: “Il caos dei migranti è tutta
colpa sua”
La nuova Merkel nel cuore dell’Europa divisa
BERNARDO VALLI
Stupisce anzitutto Angela Merkel, e poi la Germania che governa da dieci anni. La
ricordavo raffigurata sui giornali europei con in testa l’elmo chiodato, stile Bismarck. Era
l’incarnazione di un paese opulento che esigeva l’ austerità, il rigore necessario per
aggiustare i conti ma anche origine di disoccupazione e di povertà. Era la paladina di una
disciplina teutonica poco adatta al clima mediterraneo. Per questo era temuta, detestata e
insultata, in particolare nella Grecia indebitata. La sua immagine è mutata nello spazio di
un fine stagione, mentre gli occidentali rientravano dalle vacanze e sull’Unione europea,
che cominciava a respirare dopo una crisi economica di anni, si è abbattuta una nuova
calamità: la tragedia più grave dalla fine della Seconda guerra mondiale. La più
sconvolgente dalla nascita di una elaborata, generosa quanto incompleta, intesa in un
continente rissoso da secoli.
L’immagine di Angela Merkel è mutata rapidamente. Non le si rimprovera più il carattere
severo, caricaturato con l’elmo chiodato, ma un cuore troppo tenero. In un Parlamento
europeo, il rappresentante del governo meno democratico dell’Unione, quello ungherese,
l’ha accusata di essere all’origine del caos che regna nella stazione di Budapest, dove la
polizia stenta a contenere i profughi siriani ansiosi di raggiungere la Repubblica federale
tedesca. Angela Merkel si è infatti impegnata ad accogliere in Germania ottocentomila
rifugiati siriani. Una cifra esorbitante. Pari all’uno per cento della popolazione tedesca.
Quattro volte i profughi accolti nel 2014. Con questo impegno la cancelliera è diventata il
leader politico e morale d’Europa. Il ministro per l’integrazione di un land, lo stato-regione
del Baden–Wuerttenberg, ha spiegato che invece dei trecento profughi quotidiani ospitati
finora ne riceverà cinquecento, e quindi dovrà costruire un nuovo edificio al giorno. Non
tutti i paesi hanno la capacità di assimilazione tedesca che in alcuni decenni ha integrato
milioni di turchi. Né hanno bisogno di colmare un pesante deficit come la Germania, che
deve accogliere trecentomila immigrati per evitare un forte invecchiamento della
popolazione. L’Italia conosce del resto un fenomeno identico. Non fa figli. Né l’aspetto
economico è destinato contare. Nell’assegnare le quote si dovrebbe tener conto delle
condizioni finanziare e sociali dei paesi ospitanti. Ma l’Unione euro- pea, appena superata
la crisi greca, si è spaccata su una questione più profonda. I paesi del Nord non ci stanno.
L’Ungheria, la Republica ceca, la Slovacchia, le Repubbliche baltiche sono angosciate da
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ben altri problemi. Non sono i rigurgiti mediorientali, le guerre in Iraq, in Siria, in
Afghanistan, in Sudan che li preoccupano. Il Mediterraneo è lontano. La Russia è vicina.
Per Budapest, Varsavia, Bratislava, Vilnius, Riga l’Unione Europea è una conquista ma
anche un’affiliazione che si accompagna a quella con la Nato, e l’Alleanza atlantica,
dominata dalla superpotenza americana, è un’assicurazione contro il grande vicino, del
quale la cronica crisi ucraina dimostra la pericolosità. Inoltre l’idea di dover accogliere
decine di migliaia di arabi crea tensione. Se non addirittura panico. Per lo slovacco Robert
Fico come per l’ungherese Victor Orban trovare nelle strade di Bratislava e di Budapest
decine di migliaia di musulmani non è una prospettiva rassicurante. Se proprio devono
accogliere profughi che siano cristiani. Lo pensano anche a Varsavia. Ma contro quello
che assomiglia al razzismo, la cancelliera ha posto dei principi morali che nell’Europa del
Nord suonano come minacce. Dice Angela Merkel: per creare un fronte comune
sull’immigrazione bisogna richiamarsi ai valori europei al fine di incitare i partners
dell’Unione a dar prova di solidarietà di fronte al tragico arrivo dei profughi provenienti dai
paesi in guerra. I diritti civili universali erano fnora strettamente associati all’Europa e alla
sua storia. Se essa viene meno ai propri naturali, ribaditi doveri il legame si spezzerebbe e
l’Europa non sarebbe più quella che noi conosciamo.
Per rispondere a queste “minacce” di Angela Merkel i paesi del nord si riuniranno il 4
settembre a Varsavia. La cancelliera ha lanciato anche un avvertimento severo: se
l’Europa non riuscirà a suddividere con dignità i rifugiati la questione dello spazio di
Schengen (libera circolazione nell’Unione) sarà per molti rimessa all’ordine del giorno. E’
una vaga minaccia di chiudere le frontiere ai recalcitranti. La Germania, dura ma giusta, è
un paese forte che deve essere in grado di accogliere chi chiede aiuto. Questo dice la
cancelliera. In quanto all’estrema destra, che l’ha accusata di tradimento, non usufruirà di
nessuna tolleranza fino a che metterà in discussione la dignità degli uomini in cerca di
sicurezza.
Il sessanta per cento dei tedeschi sono pronti ad accogliere i rifugiati siriani, molti si sono
espressi con manifestazioni al momento degli arrivi. Mentre a Monaco di Baviera si
ricevavano con fiori e musiche i profughi a Budapest la polizia trattava come mandrie i
gruppi di uomini e donne che alla stazione cercavano di salire sui treni diretti in Germania.
Ma la divisione in Europa non è soltanto tra il Nord e ilSud. La Spagna non abbraccia del
tutto le idee di Angela Merkel. E’ scettica. L’Inghilterra mette in discussione la presenza sul
suo territorio di tanti stranieri (anche appartenenti ai paesi dell’Unione). La Francia, a
lungo tiepida, incerta, si è affiancata nelle dichiarazioni alla Germania. Ma l’insidia dei
movimenti populisti, anti immigrati, come quello di Marine Le Pen, pesa sulle posizioni dei
vari governi. Per ora Angela Merkel ha di fronte soltanto piccoli gruppi (neo nazisti). Ma la
tragedia dei migranti- rifugiati ha tempi lunghi. I primi, i migranti, sono spinti spesso da
ragioni economiche e potrebbero essere rimandati nei paesi d’origine, al contrario dei
rifugiati cacciati dalle guerre o dalle persecuzioni politiche.
del 02/09/15, pag. 3
Un’Europa modello Berlino
Crisi dei rifugiati. Le riunioni di susseguono a Bruxelles e a Berlino:
Orban dalla Commissione giovedi', mentre Merkel vede i Baltici,
indifferenti. Riunione dei ministri degli esteri dei 28 il 4 e a Praga si
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incontro il fronte del "no" alle quote (Polonia, Slovacchia, Repubblica
ceca) . Gli attacchi contro Schengen. I finanziamenti di Bruxelles
Anna Maria Merlo
PARIGI
La Commissione affina le proposte da presentare al vertice straordinario del 14 settembre
dei ministri degli Interni e della giustizia. Il 4 settembre, si incontrano in Lussemburgo i
ministri degli Esteri dei 28, mentre giovedi’ Angela Merkel, che ieri ha ricevuto lo spagnolo
Mariano Rajoy a Berlino, incontra i Baltici, che non si sentono coinvolti dalla crisi dei
migranti. Contemporaneamente, l’ungherese Viktor Orban sarà a Bruxelles, per una
riunione con la Commissione. Ma Polonia, Repubblica ceca e Slovacchia hanno
organizzato un mini-vertice a Praga il 4 settembre, per trovare una posizione comune da
opporre alla linea della Commissione e della Germania, che chiedono solidarietà nei
ricollocamenti dei rifugiati.
Le parole-chiave della comunicazione in Germania e Francia sono ormai “umanità” (per i
rifugiati che sfuggono dalle guerre) e “fermezza” verso i migranti economici, che non
trovano spazio nella Ue. Per convincere i più reticenti, la Commissione ha in mano l’arma
dei finanziamenti. Bruxelles ha stanziato 2,4 miliardi di euro supplementari entro il 2020
(complessivamente, i programmi per Asilo, immigrazione, interazione e il Fondo per la
sicurezza interna dispongono di circa 7 miliardi fino al 2020). Sono già stati approvati 23
programmi nazionali pluriannuali e altri 12 sono allo studio. Come verranno utilizzati questi
soldi? La Francia, per esempio, ha ottenuto 5,2 milioni per intervenire a Calais, uno dei
luoghi simbolici dei punti di blocco europei. Ma per trovare un rifugio momentaneo (una
nuova tendopoli) a meno della metà delle più di 3mila persone che vivono oggi in
condizioni più che precarie nella “giungla” in attesa di poter sfuggire ai controlli e passare
in Gran Bretagna, ci vorranno almeno 25 milioni di euro. La Germania ha stanziato 500
milioni supplementari quest’anno per far fronte alla previsione di accoglienza di 800mila
rifugiati. L’Italia, paese di frontiera, ha ottenuto un finanziamento di 313 milioni per
migliorare accoglienza e asilo, e altri 244 milioni per la sicurezza.
Una parte del denaro sbloccato dalla Commissione servirà per “rafforzare i programmi di
ritorno”, spiegano a Bruxelles. E un’altra parte a “rafforzare le frontiere esterne”. In questi
giorni, si parla molto di Schengen. Per Angela Merkel, che guida la campagna dell’Europa
“umanitaria” verso i rifugiati, Schengen, cioè la libera circolazione all’interno delle frontiere
della Ue (anche se non tutti i 28 aderiscono al trattato, che conta pero’ alcuni paesi non
Ue), è oggi a rischio. “Se non riusciamo a ripartire in modo giusto i rifugiati, è evidente che
la questione di Schengen sarà all’ordine del giorno”, ha ammonito Merkel. Già la Gran
Bretagna, che peraltro non è nello spazio di libera circolazione, critica Schengen e chiede
restrizioni. Il primo ministro francese, Manuel Valls, ha precisato lunedi’ a Calais che
“Schengen non è solo apertura delle frontiere interne, ma anche rafforzamento di quelle
esterne”. Valls ha evocato la presenza di un numero maggiore di agenti alle frontiere
esterne. Un modo meno “scandaloso”, secondo l’accusa del ministro degli esteri francese
Laurent Fabius all’Ungheria, del “muro” di filo spinato al confine con la Serbia, peraltro
inutile per bloccare gli spostamenti.
Non sarà facile per la Commissione far passare il 14 settembre la proposta di una
ripartizione permanente dei migranti, attraverso un sistema di quote, dopo aver già trovato
enormi ostacoli all’ipotesi, avanzata nel maggio scorso, di una ricollocazione di 40mila
persone, tra rifugiati nei paesi limitrofi della Siria e uomini e donne sbarcati in Italia e
Grecia. Anche la Francia, malgrado le dichiarazioni sulla volontà di armonizzazione del
diritto d’asilo con la Germania (per fare da modello all’insieme della Ue), resta reticente al
sistema di quote permanenti (o almeno, come la Spagna, chiede che venga tenuto conto
della percentuale di immigrati già presenti sul territorio).
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del 02/09/15, pag. 8
Il Viminale commissaria il centro di Mineo
Svolta per le inchieste sugli appalti. Dopo la Lega, anche M5S, Forza
Italia e «Avvenire» chiedono la chiusura
ROMA Il Viminale «commissaria» il Cara di Mineo. Dopo l’apertura delle inchieste sugli
appalti truccati per l’allestimento del centro in provincia di Catania dove vengono ospitati i
richiedenti asilo, il prefetto Mario Morcone decide di annullare la concessione al Consorzio
che gestisce la struttura.
Una scelta, concordata con il ministro dell’Interno Angelino Alfano, che serve a evitare
eventuali conseguenze più gravi come la chiusura, ma anche a lanciare un segnale
preciso sulla regolarità delle gare. E questo tenendo anche conto che il presidente
dell’autorità anticorruzione Raffaele Cantone ha già avviato la procedura per il
commissariamento dell’appalto da 100 milioni di euro. Proprio quello che, per ammissione
di Luca Odevaine — componente del tavolo del ministero dell’Interno per l’immigrazione e
di fatto delegato a occuparsi di Mineo — finito in carcere nell’ambito dell’inchiesta «Mafia
Capitale» della procura di Roma sugli affari delle cooperative di Salvatore Buzzi e
Massimo Carminati, era stato «pilotato». L’indagine è condotta dalla Procura di Catania e
tra gli indagati per turbativa d’asta c’è l’attuale sottosegretario all’Agricoltura ed esponente
del Ncd Giuseppe Castiglione, all’epoca presidente della Provincia.
La lettera inviata il 6 agosto al prefetto di Catania Guia Federico impone la linea. Scrive
Morcone: «Si concorda con le valutazioni del Gabinetto del ministro in merito
all’opportunità da parte di codesta prefettura, considerata la complessità e la delicatezza
della questione, di procedere al recesso anticipato per sopravvenute ragioni di interesse
pubblico. Questo Dipartimento non mancherà di fornire tutto il supporto necessario per
coadiuvare codesta prefettura nelle conseguenti onerose incombenze della gestione
diretta del centro, anche contribuendo all’adozione di un provvedimento ministeriale di
costituzione di un’apposita struttura di sostegno nella gestione stessa».
Attualmente all’interno del Cara di Mineo ci sono circa tremila migranti. Morcone tenta di
smorzare i toni della polemica dopo l’arresto del ragazzo accusato di aver ucciso i due
coniugi di Palagonia: «I delinquenti sono delinquenti, siano essi stranieri o italiani.
Aspettiamo gli accertamenti che sta facendo la polizia giudiziaria e il magistrato. La
vicenda mi sembra più complessa di come l’abbiamo percepita. In ogni caso chi ha
commesso quel delitto così efferato deve andare in galera e non uscire più, al di là della
sua nazionalità». Ma si amplia il fronte di chi propone la chiusura definitiva: dopo la Lega
di Matteo Salvini, il Movimento 5 Stelle, Forza Italia anche Avvenire , il quotidiano della
Conferenza episcopale, sollecita la serrata: «Ora stop alle isterie xenofobe. Ma Salvini ha
ragione, il Cara va chiuso. Le “anime belle” lo dicevano già nel 2011».
F.Sar.
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Del 2/09/2015, pag. 18
Tra i migranti di Mineo “Ora abbiamo paura e
non usciamo da qui”
DAL NOSTRO INVIATO
ANTONIO FRASCHILLA
MINEO. La strada solitamente brulicante di migranti che dal Cara escono verso i paesi
limitrofi è deserta. Ai bordi della statale che costeggia il Centro per richiedenti asilo più
grande d’Europa, oltre 3mila ospiti, solo qualche prostituta slava. E nessun tassista
abusivo.
Sotto un sole rovente solo qualche camionetta dell’esercito e militari armati che
costeggiano a piedi il recinto con il filo spinato dopo aver ricevuto l’ordine d’intensificare i
controlli. «Oggi dal Cara non sta uscendo quasi nessuno — dice il direttore Sebastiano
Maccarone — tra i migranti si è sparsa la voce delle tensioni a Palagonia. Qualcuno ha
visto in televisione gli animi accesi di alcuni in piazza e allora preferiscono starsene nel
residence. Hanno paura». Sulla strada che dal Cara sale verso Mineo s’intravede qualche
sparuto gruppetto di nigeriani in bici e un pachistano con la tunica. Si chiama Ahmad Ajad,
è arrivato in Sicilia a giugno. Non capisce l’italiano e in un inglese stentato dice:
«Omicidio? Non so nulla». Stamani alle sei si era presentato come sempre al bivio della
statale per andare a lavorare nei campi. Ma oggi nessun caporale: «Non so perché, ci
riprovo domani », dice. Il mondo sommerso che gira attorno al Cara-dormitorio si è
fermato. Gli sfruttatori non si fanno vedere perché temono controlli delle forze dell’ordine, i
migranti rimangono chiusi perché temono aggressioni, soprattutto dagli abitanti di
Palagonia. Tra i pochi a varcare la soglia del villaggio c’è Francis, che con una bicicletta
piccolissima per la sua statura si muove verso Mineo: «Faccio un giro ma non mi allontano
molto, ho sentito quello che è successo, io e i miei amici siamo sconvolti. Sto qui da più di
un anno, non ho avuto mai problemi. Ho partecipato a dei corsi di lingua italiana e
d’informatica a Mineo. Ma so già che le cose si metteranno male, se la prenderanno con
noi anche se non abbiamo fatto nulla». Dal Cara esce il pediatra che da anni lavora in
questo centro: «I ragazzi non vogliono farsi vedere in giro, hanno paura, in particolare le
mamme — dice Mario Leggio — si respira una brutta aria, speriamo passi questa
attenzione mediatica. A forza di parlare male del Cara si rischia di danneggiare i migranti
arrivati qui perché disperati».
Disperati e adesso anche impauriti per l’eco della rabbia che monta sulla collina di
Palagonia e nei paesi limitrofi. Un ragazzo magro e alto, anche lui pakistano, si presenta
all’uscita del Cara. I militari controllano il suo zaino e poi lo lasciano andare. Ad attenderlo,
appoggiato al guardrail, c’è Abir, venuto in bici da Caltagirone: «Dai, prendi la tua di bici e
andiamo a farci un giro», dice Abir. Ma il ragazzo del Cara gli fa cenno di no con la testa.
Non parla l’italiano, anche se qui da un anno, ma si fa capire lo stesso: «Mi ha detto che
non vuole essere picchiato — spiega Abir, che invece l’italiano lo parla benissimo e lavora
come elettricista nella zona — al Cara i nostri amici gli hanno detto che è meglio non
allontanarsi perché, anche se lui è pachistano, viene riconosciuto sempre come straniero
che dorme al Cara ed è meglio evitare». Tira una brutta aria da queste parti. E la conferma
arriva all’imbrunire, quando due ragazzi del Gambia vengono aggrediti e rapinati in una
vicina strada provinciale che conduce a Mineo. Sono stati avvicinati da tre giovani, armati
di pistola, che hanno intimato loro di consegnare i soldi che avevano e poi li hanno
insultati. Uno dei due migranti è riuscito a fuggire, l’altro è stato picchiato al torace e
medicato nel vicino ospedale di Caltagirone. I carabineiri in serata hanno fermato tre
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giovani sospettati di essere gli autori dell’aggresione. Il clima di odio sembra diffondersi
sempre più in questa piana tra gli aranceti, i campi di grano e un villaggio dove vivono
migranti che dovrebbero starci solo 35 giorni, il tempo per avere una riposta sulla richiesta
di asilo politico, e che invece finiscono per viverci anni. Un limbo nel quale rischiano di
rimanere sempre più chiusi, sempre più prigionieri.
Del 2/09/2015, pag. 2-3
Ungheria
Al grido di “Germania, Germania” a migliaia hanno cercato di salire sui
treni. Ma gli agenti di Orbán sono stati inflessibili per fermare uomini,
donne e bambini. In molti avevano regolari biglietti comprati con i
sacrifici di una vita
Tra i dannati nella stazione di Budapest sotto
i lacrimogeni
ANDREA TARQUINI
BUDAPEST
L’ODORE di pochi lacrimogeni aleggia appena nell’aria qui a Bàross Tèr, la splendida
piazza che ti evoca l’Austria-Ungheria di Robert Musil e Stefan Zweig. Adesso Keleti
Palyaudvàr, la monumentale stazione est, è vuotata dei migranti — “clandestini” o négerek
li chiamano qui — pazienza se di tasca loro avevano già in tasca il biglietto per la
Germania terra promessa, pagato 100 euro a testa e incassato dalle ferrovie ungheresi,
una fortuna. «Germania, Germania, viva Angela Merkel », gridano i “dannati della Terra”.
Il blitz è scattato nel mattino: centinaia di agenti della Rendorség, la polizia statale, li
hanno buttati tutti fuori. Poche ore dopo, parlava un portavoce del governo: «Non ci
pieghiamo ai diktat dei governi di sinistra come quello tedesco». Non importa che Angela
Merkel non sia di sinistra, né che abbia appena dichiarato guerra agli xenofobi. Budapest
sfida l’Europa di “Angie”, lo vedi in strada, costruendo l’Europa dei nuovi Muri.
Il blitz della Rendorség è scattato il mattino presto, mi dicono gli ufficiali della polizia,
gentilissimi e freddi, alla stazione est il cui frontale con la Vittoria alata evoca i sogni
passati degli Imperi multiculturali, «quelli in fondo migliori dell’ossessione odierna degli
Stati nazionali », mi sussurra Agnès Heller accompagnandomi. Azione decisa, ma senza
violenza troppo brutale: tutti fuori da Keleti Palyaudvàr, spinti con durezza. «Adesso
saliranno sui treni soli i viaggiatori europei », annunciano più tardi gli altoparlanti».
«Quella donna al potere ci può salvare, qui sono cattivi», mi dice Mounira, esule siriana,
appena buttata fuori dalla stazione. «Per carità, i poliziotti di qui sono stati cortesi, ma noi il
biglietto per la Germania lo avevamo in tasca, che diritto hanno di non farci salire sui treni?
». Mahmoud, il marito, consola i figli, li porta a giocare sullo scivolo del giardino-giochi
d’infanzia di fronte a Keleti Palyaudvàr, i poliziotti sorridono. «I bambini sono carini,
purtroppo abbiamo ricevuto l’ordine di buttarli tutti fuori dalla stazione, anche loro»,
mormora un sergente della polizia.
«Merkel, Merkel, Deutschland, Deutschland!», si leva ripetuto il grido dei dannati della
terra. «La promessa della cancelliera di accogliere i perse- guitati l’abbiamo in tasca, il
biglietto costato anni di risparmi anche», dice Abdel, giovane single. A un passo da lui, sui
bei giardini di piazza Baross — piazza-gioiello della Budapest austroungarica — e
ovunque altrove nella città strapiena di migranti, ci sono solo bivacchi: famiglie, donne sole
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con carrozzine rotte e rovinate, gruppi di giovani, vecchi. «Ero professore ad Aleppo, la
guerra civile mi ha distrutto la vita», mi confida in un ottimo francese accademico un
anziano signore siriano.
A sera, qui a Baross, i migliaia di dannati della terra hanno deciso di non mollare. Sono
venuti almeno in duemila, hanno organizzato una manifestazione pacifica per chiedere di
partire. Slogan gridati forte, «Merkel, Merkel, Germania, Germania », e ognuno alza la
mano destra che stringe il biglietto ferroviario già acquistato per arrivare nella Repubblica
federale. Duemila in piazza, in faccia a loro almeno un migliaio di agenti con l’uniforme blu
antisommossa e il berretto che ricorda molto da vicino quello delle truppe di Horthy, il
principale alleato di Hitler nell’Operazione Barbarossa, l’attacco all’Urss.
Niente violenze o brutalità poliziesche, bisogna dirlo. Lo vedi su piazza Baross, o nei
sottopassaggi della metropolitana dove i migranti si sono rifugiati a centinaia. Poliziotti
calmi, si mischiano agli splendidi giovani delle Ong ungheresi che vengono là prendendosi
licenze dalle lezioni universitarie, e portano pannolini, latte in polvere o giocattoli per i
bimbi: «Offriamo anche assistenza legale per partire», mi dice la splendida Ildikò.
Traffico impazzito attorno all’incrocio di Baross Tér, e adesso arriva la sera. Finita la
manifestazione, molti dei dannati della terra espulsi da Keleti Palyaudvàr dormiranno
all’aperto. Nei giardini attorno all’enorme stazione, o altrove nel centro della capitale
magiara. In una folle prova di forza il governo ha preso l’abitudine di diffamarli pur di
attaccare Angela Merkel e Jean-Claude Juncker — così mi dice una fonte diplomatica Ue
— però la gente del posto a volte li aiuta. Porta loro da mangiare, o giocatttoletti usati per i
bambini. E persino i poliziotti in tuta blu antisommossa inviati in corsa da Orbàn a
sgomberare sorridono. «Sono giovani famiglie come la mia», sussurra Istvàn, sottufficiale
dei Komondor, i corpi scelti della polizia, «se arrivano qui è un’emergenza tremenda per
noi, eppure vedendoli provo empatia e compassione ».
«Basta con la repressione, vogliamo partire, abbiamo pagato i biglietti con nostro sangue
e i nostri ultimi risparmi», scandiscono — sopra il piano sotterraneo della metro dove
ascoltavo l’agente speciale Istvàn — duemila migranti in corteo. Centinaia di poliziotti li
fronteggiano, atmosfera calma ma tesa mentre tra i giardini giovani mamme velate
allattano i neonati, e gruppi di ragazzi siriani adocchiano timidi le splendide ungheresi di
fine estate. In piazza Baross i giovani disperati del mondo delle guerre e i giovani in
uniforme blu della Rendorség cercano di capirsi. Certo, venti auto quindici camion e
cinque pullman della polizia ti dicono subito davanti agli occhi da che parte sta il rapporto
di forza.
Ma la stangata viene dai piani alti del potere, contro Angela Merkel prima ancora che
contro quei poveracci nei giardinetti davanti alla stazione: «L’esistenza dell’Europa
cristiana è minacciata», ha gridato in Parlamento Antal Rogan, capogruppo parlamentare
della Fidesz, il partito dell’autocrate Orbàn, e ha aggiunto: «Cittadini, volete forse che i
vostri figli crescano in un Califfato unito europeo? Io no, spieghiamolo alla cancelliera
Merkel». In piazza, la giovane Marha, studentessa fuggita da Aleppo distrutta dai Mig di
Assad, lo sente in tv onlinefine e commenta: «Siamo migliaia, perseguitati, la Germania ci
accetta, se loro qui ci bloccano dove dobbiamo andare?»
del 02/09/15, pag. 1/4
La marcia delle donne e degli uomini scalzi
***
È arrivato il momento di decidere da che parte stare.
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È vero che non ci sono soluzioni semplici e che ogni cosa in questo mondo è sempre più
complessa.
Ma per affrontare i cambiamenti epocali della storia è necessario avere una posizione,
sapere quali sono le priorità per poter prendere delle scelte.
Noi stiamo dalla parte degli uomini scalzi.
Di chi ha bisogno di mettere il proprio corpo in pericolo per poter sperare di vivere o di
sopravvivere.
E’ difficile poterlo capire se non hai mai dovuto viverlo.
Ma la migrazione assoluta richiede esattamente questo: spogliarsi completamente della
propria identità per poter sperare di trovarne un’altra. Abbandonare tutto, mettere il proprio
corpo e quello dei tuoi figli dentro ad una barca, ad un tir, ad un tunnel e sperare che arrivi
integro al di là, in un ignoto che ti respinge, ma di cui tu hai bisogno.
Sono questi gli uomini scalzi del 21°secolo e noi stiamo con loro.
Le loro ragioni possono essere coperte da decine di infamie, paure, minacce, ma è incivile
e disumano non ascoltarle.
La Marcia degli Uomini Scalzi parte da queste ragioni e inizia un lungo cammino di civiltà.
E’ l’inizio di un percorso di cambiamento che chiede a tutti gli uomini e le donne del mondo
globale di capire che non è in alcun modo accettabile fermare e respingere chi è vittima di
ingiustizie militari, religiose o economiche che siano. Non è pensabile fermare chi scappa
dalle ingiustizie, al contrario aiutarli significa lottare contro quelle ingiustizie.
Dare asilo a chi scappa dalle guerre, significa ripudiare la guerra e costruire la pace.
Dare rifugio a chi scappa dalle discriminazioni religiose, etniche o di genere, significa
lottare per i diritti e le libertà di tutte e tutti.
Dare accoglienza a chi fugge dalla povertà, significa non accettare le sempre crescenti
disuguaglianze economiche e promuovere una maggiore redistribuzione delle ricchezze.
Venerdì 11 settembre lanciamo da Venezia la Marcia delle Donne e degli Uomini Scalzi.
In centinaia cammineremo scalzi fino al cuore della Mostra Internazionale di Arte
Cinematografica.
Ma invitiamo tutti ad organizzarne in altre città d’Italia e d’Europa.
Per chiedere con forza i primi tre necessari cambiamenti delle politiche migratorie europee
e globali:
1. certezza di corridoi umanitari sicuri per vittime di guerre, catastrofi e dittature
2. accoglienza degna e rispettosa per tutti
3. chiusura e smantellamento di tutti i luoghi di concentrazione e detenzione dei migranti
4. Creare un vero sistema unico di asilo in Europa superando il regolamento di Dublino
Perché la storia appartenga alle donne e agli uomini scalzi e al nostro camminare insieme.
Primi firmatari
Lucia Annunziata, Don Vinicio Albanesi, Gianfranco Bettin, Marco Bellocchio, Don Albino
Bizzotto, Elio Germano, Gad Lerner, Giulio Marcon, Valerio Mastandrea, Grazia Naletto,
Giusi Nicolini, Marco Paolini, Costanza Quatriglio, Norma Rangeri, Roberto Saviano,
Andrea Segre, Toni Servillo, Sergio Staino, Jasmine Trinca, Daniele Vicari, Don Armando
Zappolini
Per adesioni: [email protected]
Appuntamento per la manifestazione di Venezia
11 settembre, ore 17.00, Piazza Santa Maria Elisabetta al Lido di Venezia
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DIRITTI CIVILI E LAICITA’
del 02/09/15, pag. 10
Unioni civili, il governo rischia grosso: subito
in aula per scavalcare Alfano
Mossa di Palazzo Chigi per evitare i 1.500 emendamenti in Commissione
Sulle unioni civili comincia la battaglia. All’interno della stessa maggioranza. Oggi si
riunisce la commissione Giustizia del Senato per iniziare a votare i 1.500 emendamenti
presentati dall’opposizione, ma anche da Area popolare, al ddl di Monica Cirinnà. Che nei
giorni scorsi ha avuto la preziosa sponda di Matteo Renzi. “Le unioni civili si faranno. Ci
sono i numeri per una forzatura, ma io spero si trovare un accordo”, ha detto il premier
domenica in un’intervista al Corriere. L’ostruzionismo di Ncd, però, spaventa il Pd. Tanto
che l’ultima tentazione dei dem è quella di saltare il voto in commissione e andare
direttamente in Aula. Mossa possibile, però, solo con il benestare del presidente della
commissione, l’azzurro Francesco Nitto Palma.
La vicenda è frastagliata e si presta a diverse letture. Se il Pd non trova l’accordo con
Alfano dovrà andare a caccia di un’altra maggioranza. Che però, con Sel e Movimento
Cinque Stelle, sui numeri sembra garantita. Resta però da vedere che incrinature politiche
comporterebbe per il governo il passaggio di una legge così importante con una
maggioranza diversa da quella che lo sostiene. “Per quanto mi riguarda non voterò più
alcun provvedimento di questo esecutivo”, avverte Carlo Giovanardi, che però parla a
titolo personale. Più sfumata è invece la posizione del vertice del suo partito. Con Alfano
che addirittura ha concesso libertà di coscienza. “Questa è una legge che non fa parte del
programma di governo. Non c’è un vincolo di maggioranza. Un’eventuale discrasia non
provocherà una crisi. Io sto lavorando per trovare una sintesi”, osserva il capogruppo di
Ncd in Senato, Renato Schifani.
La tentazione di andare subito in Aula può essere letta in due modi: da una parte come
strumento di pressione verso Alfano per dimostrare che Renzi, se vuole, può forzare e
andare a prendersi i voti in Aula; dall’altra potrebbe essere anche un segnale di
debolezza, perché quando si scavalla la commissione occorre mettere in conto anche i
rischi di non trovarli, poi, i voti. “Se il Pd va direttamente in Aula significa che ha già un
accordo con Sel e grillini. Altrimenti non avrebbe alcun senso”, racconta una fonte del Pd a
Palazzo Madama.
Poi c’è sempre lo scoglio Nitto Palma. Che però potrebbe avallare l’iniziativa. Innanzitutto
perché sul tema anche Forza Italia è divisa. Poi perché, in vista del cambio dei presidenti
di commissione, acquisterebbe un bel credito nei confronti del partito renziano. Al di là
delle tattiche, però, resta il contenuto. Per Ncd tre sono le parti da modificare del
provvedimento: la reversibilità delle pensioni, la stepchild adoction, ovvero la possibilità
per uno dei due partner di adottare l’eventuale figlio avuto in precedenza dall’altro, e la
possibilità di adottare, che nella legge non c’è ma che, secondo i centristi, non può essere
esclusa.
“Questo provvedimento va chiuso. Bisogna rispettare l’impegno della data del 15 ottobre
fissata per il via libera del Senato”, avverte Cirinnà, facendo capire di essere disponibile a
ben poche modifiche. E comunque non di sostanza. Ma se parte di Area popolare, come
Sacconi, Binetti, Formigoni e Giovanardi, sono sul piede di guerra (“il Pd non ha vinto le
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elezioni e ora sta al 25 per cento, un po’ poco per questa riforma: se governa è solo grazie
ai nostri voti”, sottolinea quest’ultimo), un’altra fetta del partito, quella più governativa,
come Dorina Bianchi, Cicchitto e Lorenzin, sembra invece disposta a votare il testo così
com’è.
Mentre Schifani, Quagliariello e lo stesso Alfano stanno cercando di trovare un accordo,
giocando di sponda con i cattolici del Pd, coi quali il dialogo è aperto. “Se il governo e il
Parlamento decideranno di procedere, mi auguro che si assumano la responsabilità di fare
una legge chiara, perché altrimenti mi sento libero di votare come la mia coscienza mi
detta”, osserva il dem Beppe Fioroni. Insomma, come sempre nelle partite il cui esito non
è scontato, un po’ si fa la voce grossa e un po’ si tratta. Anche se in realtà Ap ha già fatto
capire che non sarebbe un dramma se il provvedimento passasse con una maggioranza
diversa. Dal loro punto di vista, la faccia sarebbe salva.
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INFORMAZIONE
Del 2/09/2015, pag. 15
Servizio pubblico. Oggi in programma il cda
Rai, le deleghe al presidente contro il ddl votato in Senato
La questione delle deleghe del Consiglio di amministrazione al presidente torna di
attualità, dopo aver contrassegnato l’attività del cda Rai il cui mandato è scaduto il 30
maggio di quest’anno. Bisogna però fare i conti con il disegno di legge approvato dal
Senato e pronto ad essere discusso in commissione alla Camera.
Il Cda uscente, nel luglio 2012, su invito dell’azionista, il Ministero dell’Economia e delle
Finanze, delegava al presidente Anna Maria Tarantola, secondo l’articolo 26 dello Statuto
Rai, sia l’approvazione di atti aziendali, sia la nomina di dirigenti di primo e secondo livello
non editoriali.
Il Presidente, su proposta del direttore generale, approvava direttamente, senza
approvazione in cda, tutti i contratti che, anche per una durata pluriennale, comportavano
una spesa da 2,5 fino a dieci milioni di euro, con un rendiconto trimestrale al cda da parte
del presidente. Secondo: il Presidente nominava direttamente, su proposta del direttore
generale, i dirigenti delle direzioni non editoriali. Per quelle editoriali (di canale, genere e
testata, radiofoniche e televisive, compreso il palinsesto, il marketing e le Teche) la
nomina dei direttori restava di competenza del consiglio di amministrazione.
L’obiettivo dichiarato dalla delibera era quello di garantire una funzionale ed efficiente
operatività alla gestione degli organi di governo della Rai: il direttore generale propone, il
presidente approva.
La questione torna ora a proporsi. Sarà forse discussa nel consiglio di oggi, il primo dopo
la pausa estiva, l’eventualità di concedere una delega analoga alla presidente Monica
Maggioni (nessuna delega può invece essere affidata dal cda al direttore generale).
Il problema è il testo del disegno di legge approvato dal Senato prima della pausa estiva
va in tutt’altra direzione. È l’amministratore delegato a nominare i dirigenti di primo e
secondo livello, acquisendo solo per i direttori di rete, canale e testata il parere
obbligatorio del consiglio di amministrazione (mentre l’approvazione dei contratti di importo
superiore ai dieci milioni è stata soppressa dall’Aula del Senato). L’attuale vertice è stato
nominato con la legge Gasparri, ma un emendamento del Governo ha introdotto nel testo
approvato in Senato una precisa direttiva: sino al primo rinnovo del cda successivo
all’approvazione della legge, al direttore generale della Rai vanno le competenze
dell’amministratore delegato, compresa la nomina dei dirigenti non editoriali.
Che senso ha delegare al presidente poteri che andranno prima o poi al direttore generale
(al quale non possono essere delegati)? O si pensa che il disegno di legge o non sarà mai
approvato o sarà modificato alla Camera? Se il cda darà la delega al presidente sarebbe
un segnale in questa direzione, altrimenti si continuerà con i poteri fissati dalla Gasparri.
Sino all’approvazione della nuova legge.
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CULTURA E SPETTACOLO
Del 2/09/2015, pag. 1-38
Da oggi la kermesse veneziana
Apre, fuori concorso, “Everest” con Jake
Gyllenhaal e Josh Brolin
Tra sogno e realtà
Le grandi storie di ieri e di oggi invadono la Mostra
CONCITA DE GREGORIO
VENEZIA
CASINÒ DI Venezia, giorno di vigilia. I Fantasmi di Mario Monicelli accolgono i primi
arrivati alla Mostra del cinema, edizione numero 72. Grandi foto dal set di Brancaleone ,
Casanova 70 , I compagni trasformate in opere d’arte dal tratto di Chiara Rapaccini, di
Monicelli compagna di vita. Totò, Anna Magnani, Mastroianni parlano con le parole dei
fumetti. Vivi nelle gigantesche foto, nell’ironia delle frasi ridenti. Il confine fra realtà e sogno
è subito labile, questo è il benvenuto alla Mostra. Quello che c’è stato e quello che c’è.
Quello che è vero nella realtà e quello che vive nell’immaginazione, nel ricordo, nel sogno.
Il grande cinema di ieri accoglie, nelle foto dipinte che si muovono in aria, il cinema di oggi:
benvenuti, vi stavamo aspettando. Labile il confine del tempo, labile ogni giorno di più
quello dei generi. Prima ancora di iniziare la Mostra di quest’anno dice che il confine
tradizionale fra cinema e documentario (come quello tra cinema per la tv e per le sale) ha
perso senso: il cinema è – tutto – racconto della realtà. Il documentario d’autore è cinema.
Parlano di quel che accade nel mondo - quel che succede e non si vede, o se si vede non
si capisce – alcuni fra i lavori più attesi. I bambini soldato in Nigeria e quelli contesi nel
mondo. I minatori cinesi, altri fantasmi di un medioevo proprio oggi proprio qui, tempo
senza tempo. L’odissea nella malasanità in Messico, l’eterna battaglia fra lavoro e salute
nei cantieri italiani, il potere del denaro che rende popolare ciò che non ha valore,
ovunque. È per domani l’anteprima mondiale di Beasts of no nation di Cary Fukunaga,
regista consegnato al successo planetario dalla prima serie di True detective , Hbo.
Interessante che sia Netflix a produrre il suo film: imprevedibili e assai temuti dai monopoli
nostrani gli effetti dell’irruzione del gigante della rete sui mercati indigeni. Netflix
distribuisce contemporaneamente al cinema e in streaming, per dire. Immediata minaccia
di boicottaggio dei circuiti cinematografici secondo il principio per cui quel che funziona
meglio di quel che c’è si combatte, si tiene fuori con le barricate. Fukunaga racconta,
basandosi sul romanzo nigeriano di Uzodinma Iweala, la vicenda di un bambino
addestrato da un signore della guerra a diventare soldato. Immediata associazione con le
immagini dei piccoli boia diffuse dalla propaganda dell’Isis. Ma già in Cambogia, molti anni
fa. Solo che ora ovunque ci sia guerra, appunto, e con assai maggiore pubblicità mediatica
reclutativa. Racconta l’inferno dei minatori cinesi Behemoth del cinese Zhao Liang,
previsto con sintonia apocalittica per l’11 settembre. Leggendaria creatura biblica: sotto il
sole, la celestiale bellezza delle distese erbose sarà presto consumata dalla polvere delle
miniere… Si consuma in un’odissea urbana la vita della protagonista del film di Rodrigo
Plá, messicano capofila di una nutrita schiera di sudamericani: molti sono i film che
arrivano dall’America Latina, da terzo a primo mondo secondo i punti di vista, motore di
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racconti. Un’odissea nel mondo della sanità e delle assicurazioni su cui così tanto, non
lontano da lì, si è giocata e si gioca la parabola politica di Obama.
Prima ancora che tutto questo abbia inizio si è proiettato ieri in un cinema del Lido il bel
film di Stefano Chiantini, giovane regista abruzzese ( L’amore non basta , Isole ). Ospitato
dalle Giornate degli autori ma fuori selezione il suo Storie sospese racconta la storia della
frana di Ripoli, paese dell’appennino bolognese, durante i lavori per la variante di valico fra
Firenze e Bologna. Una piccola grande storia di conflitto fra sicurezza e lavoro, salute e
lavoro, vita e lavoro. Come a Taranto, come dappertutto. Le case si muovono, dicono gli
abitanti del paese. Lo dicevano anche a Barletta prima del crollo. Le parole tornano, i
cartelli si somigliano. No tav, no ponte, no tunnel. Un racconto senza finzione. Nelle sale
italiane domani. Sarà molto interessante la storia di un bambino conteso fra due continenti
da genitori in lite raccontata da Vincenzo Marra in La prima luce , interprete Riccardo
Scamarcio. Continenti, migranti. Frederick Wiseman, fuori concorso, racconta in un film la
comunità degli immigrati a New York, In Jackson Heights . I fratelli gemelli Gianluca e
Massimiliano De Serio, fuori concorso, raccontano in un documentario la più grande
baraccopoli d’Europa sugli argini del fiume Stura, Torino. Il platz, altri fantasmi. Oggi si
apre con Everest di Baltasar Kormákur, fuori concorso. Cento anni fa nasceva Mario
Monicelli, buona visione maestro.
del 02/09/15, pag. 12
Appuntamento al Lido nonostante tutto
Mostra 2015. Pochi miglioramenti, ma a Venezia non si rinuncia
Cristina Piccino
VENEZIA
Che c’è di nuovo al Lido? risuona nel vagone strapieno di festivalieri del treno
destinazione Venezia. Cosa vuoi che ci sia sospira qualcuno in risposta. Già. Di nuovo
infatti a un primo sguardo c’è poco e nulla, il Lido è sempre lo stesso, lento, pigro,
vampiro, immutabile da quando era il luogo per eccellenza della «villeggiatura» e dei
sospiri languidi di innamoramenti mortalmente proibiti. Daranno da mangiare i ristoranti
dopo le 22, visto che le proiezioni finiscono tardi? Si saranno decisi a aprire finalmente dei
punti ristoro (temporary) dove si mangi bene magari persino bio invece di riempire di salse
incerte i soliti panini accendi gastrite? Avranno aperto dei posti confortevoli e carini dove
hai voglia di sederti e chiacchierare? E via dicendo per rimanere alle piccole cose, non
quelle sostanziali, che direte: ma cosa c’entrano con la Mostra?
Nulla con la selezione certo, molto con l’immagine invece perché per rimanere ai grandi
festival europei se Berlino è una metropoli, Cannes è comunque una cittadina, qui al Lido
invece si ha l’impressione che il tempo si sia fermato insieme al Palazzo che non c’è, e se
questo prima aveva un fascino adesso forse ne ha meno. O almeno da sé non basta più.
Oggi si comincia, Venezia 72 apre con Everest del regista islandese ma ormai
hollywoodiano Baltasar Kormakur, la storia di una sfida su cui la Mostra gioca il suo primo
passo, sempre importante specie se poi si considerano i successi plurioscarizzati dei due
ultimi anni (Gravity, Birdman).E sono cominciate già le solite piccole polemiche, anche
queste piuttosto immutabili. Il cinema italiano: ce ne è troppo, o troppo poco, e poi non
vince mai o quasi. E il cinema americano, quello che non c’è più di quello che è presente.
Certo sarebbe bello avere Zemeckis o Spielberg come ai tempi dei Predatori dell’Arca
perduta – direttore della Mostra era Carlo Lizzani omaggiato il 3 con il film a lui dedicato di
Cristina Torelli, Roberto Torelli, Paolo Luciani — ma sono passati più di trent’anni e il
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mercato globale è un altro. Le major non hanno bisogno dei festival europei specie se le
date di uscita in Europa sono lontane da quelle dei festival (Cannes compreso), sono nate
nuove realtà – The Walk di Zemeckis andrà al New York Film Festival, qui esce il 22
(faranno un’anteprima a Roma? Chissà) e la prima veneziana alla distribuzione
probabilmente costava troppo rispetto alla sua funzionalità. Il punto è che bisognerebbe
interrogarsi sull’intero sistema cinematografico (e di politica culturale) del nostro Paese, di
cui la Mostra è parte, così come appartiene a quel mercato globale che appunto ha
cambiato le sue regole. In risposta la selezione veneziana ha rischiato scommettendo su
molte opere prima, una strada diversa e possibile, tutta da verificare.
Un’ultima cosa: nonostante le lamentele quel treno era pieno perché poi a Venezia non si
rinuncia, anche per pochi giorni, passerella obbligata per tutto quanto ruota nel bene e nel
male intorno al cinema in Italia.
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SCUOLA
Del 2/09/2015, pag. 21
La protesta. Per anni hanno lavorato come supplenti assicurando l’apertura di nidi e
scuole dell’infanzia comunali. Sono 10.000 in tutta Italia e, se hanno superato i 36
mesi di servizio, ora rischiano di restare senza lavoro
“Noi maestre fuori dagli asili” la battaglia
delle precarie
SARA GRATTOGGI
PER anni hanno lavorato come supplenti annuali o giornaliere, assicurando l’apertura dei
nidi e delle scuole d’infanzia comunali. Ma ora rischiano di rimanere tagliate fuori, senza
più nemmeno un lavoro precario. Sono circa 10 mila in tutta Italia le educatrici e le
insegnanti di nidi e materne comunali che hanno superato i 36 mesi di servizio e che per
questo rischiano di restare disoccupate. Cinquemila solo a Roma, dove in questi giorni
hanno dato vita a una mobilitazione permanente, con proteste e presidi anche notturni in
tenda fuori dal Campidoglio. Una sentenza della Corte di giustizia europea del novembre
2014 aveva sancito, infatti, che anche il personale scolastico, dopo 36 mesi di contratti,
andasse stabilizzato e che non si potessero reiterare oltre i contratti a tempo determinato.
Ma se per gli insegnanti statali, con il Jobs act e la Buona Scuola, si è fatta una deroga,
quelli comunali ne sono rimasti fuori. In un vuoto normativo — interpretato a volte in
maniera diversa dai vari comuni — che rischia di diventare un limbo. Assumere subito tutti
i precari a tempo indeterminato, con il Patto di stabilità e il blocco del turnover, per gli enti
locali è spesso impossibile. Così, «contro quello che era lo spirito della sentenza» notano i
sindacati, i precari storici in alcune città sono rimasti — almeno per ora — senza lavoro. E
gli asili senza maestre. Se a Napoli, spiega Federico Bozzanca (Cgil), «il problema
riguarda un centinaio di insegnanti», a L’Aquila il 7 settembre potrà riaprire solo uno dei tre
nidi comunali, mentre (se non si troverà una soluzione prima) non si esclude di
“esternalizzare” temporaneamente il servizio negli altri due, affidandoli a cooperative.
Mentre a Roma — dopo la pubblicazione dieci giorni fa di un bando per riempire i posti
vacanti che escludeva le educatrici in servizio da più di 36 mesi, seguita dalla sospensione
dell’iter per affidare le supplenze — ieri il servizio negli asili è ripartito solo con gli
insegnanti di ruolo, a orario ridotto. Con turno unico fino alle 14.30 e l’inserimento dei più
piccoli posticipato in alcune strutture fino a 15 giorni, fra le proteste dei genitori che ora
minacciano di non pagare parte della retta se i disagi dovessero protrarsi. Nel pomeriggio,
invece, migliaia di maestre si sono riunite in Campidoglio per un’assemblea indetta dalle
Rsu, con il coordinatore Giancarlo Cosentino che non ha escluso un possibile sciopero
perché «questa vicenda sta diventando un vero e proprio allarme sociale». Per il
vicesindaco di Roma, Marco Causi, e l’assessore alla Scuola, Marco Rossi Doria,
«bisogna risolvere l’ingiustificabile disparità normativa fra Stato e comuni. Siamo a fianco
delle insegnanti e per questo stiamo lavorando con l’Anci». «Abbiamo chiesto al governo
una deroga simile a quella valida per gli insegnanti statali — spiega il vicepresidente
dell’Anci, Umberto Di Primio — Servirebbe una norma o un atto della presidenza del
Consiglio, confortato però dal parere positivo di tutti i ministeri interessati, da quello del
Lavoro a quello della Funzione pubblica. Si sono impegnati a darci una risposta entro fine
settimana».
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del 02/09/15, pag. 4
Assegnate diecimila cattedre
Ma mancano i prof di sostegno
Gli insegnanti della Fascia B hanno scoperto la destinazione, molti
dovranno trasferirsi Resta la grana dei diplomati delle scuole magistrali
che vanno inseriti nelle graduatorie
Carlo Gravina
Ilario Lombardo
Questa mattina circa 10 mila insegnanti avranno già conosciuto il proprio destino. Sono
coloro che rientrano nella Fase B, che assegna i posti residuali dell’organico di diritto su
base nazionale. A mezzanotte e un minuto, aprendo la posta, avranno trovato la mail
contente la sentenza prodotta dall’algoritmo usato dal Miur e sapranno dove sono finiti. Se
in una provincia del Nord, come temevano la maggioranza dei precari del Sud, o più vicino
a casa. Gli aspiranti docenti avranno poi dieci giorni di tempo, per accettare la proposta.
Se rifiutano, saranno fuori e non resterà loro che il concorso. Intanto, in attesa che altri 55
mila docenti vengano assunti nella Fase C, attraverso il potenziamento dell’organico a
novembre, in queste ore la riforma comincia il suo faticoso cammino in aula. Ieri è partito
l’anno scolastico, ma il 15 settembre, quando torneranno in classe, i ragazzi troveranno
una scuola che assomiglia ancora a quella dell’anno precedente. Con qualche problema
da risolvere.
Diplomati magistrali
L’ultima grana è arrivata dal Consiglio di Stato che ha accettato il ricorso presentato da 2
mila diplomati magistrali, e ha emesso un’ordinanza che obbliga il ministero a reintegrarli
nelle graduatorie a esaurimento, da cui erano stati esclusi. Il governo minimizza: «Non
cambia nulla», e offre la possibilità di un inserimento in coda. Gli insegnanti, invece,
chiedono di essere ammessi al piano di assunzioni in corso. Ma questa è soltanto una
delle tante spine che potrebbero arrivare dalle magistrature di diverso livello prese
d’assalto dai ricorsi. Un altro sarebbe pronto per la presunta mancata trasparenza delle
procedure nelle fasi B e C, in quanto non sarebbero stati comunicati gli esatti posti
disponibili per classe di concorso.
Precari storici negli asili
Ieri davanti al Campidoglio erano accampate decine di precarie. Sono alcune delle
«esodate» dei nidi e delle scuole dell’infanzia, incappate nell’effetto paradossale di una
sentenza della Corte di Giustizia europea che avrebbe dovuto tutelarle, e invece le riduce
senza lavoro e stipendio. Strasburgo ha condannato l’Italia e stabilito che non si possono
coprire le carenze di organico con il personale precario. E così educatrici con 36 mesi di
contratti alle spalle non potranno partecipare al bando del Comune per le nuove
supplenze. Per un singolare cortocircuito burocratico, la riforma prevede una deroga per le
scuole statali, ma non per quelle comunali. Roma è il primo caso e, calcolano i sindacati,
coinvolge circa 5 mila precari storici. Potrebbero essere il doppio in tutta Italia.
«Un’intollerabile ineguaglianza», la definisce l’assessore capitolino ed ex ministro Marco
Rossi Doria, chiedendo, d’accordo con l’Anci, l’intervento del governo.
Posti vacanti
Il Miur deve fare i conti anche con un altro problema: la mancanza di docenti di sostegno e
di matematica. Specialmente per le scuole medie. Due fattori che andranno a erodere il
numero complessivo delle assunzioni previste. Inoltre, delle 71.643 domande pervenute,
circa 15 mila sono state inoltrate da professori della scuola per l’infanzia che però, nella
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fascia da 3 a 6 anni, non mette a disposizione neanche una cattedra. Per trovare i
professori che mancano, specialmente sulle classi di concorso scoperte, il Miur dovrà
aumentare i posti che saranno assegnanti, entro fine anno, nel nuovo concorso.
Le supplenze
Per mitigare temporaneamente gli effetti dell’esodo dei docenti, specialmente in direzione
Sud-Nord, il Miur ha stabilito che chi otterrà una supplenza potrà svolgere l’anno
scolastico nel luogo in cui ha accettato la proposta e rinviare al prossimo anno il
trasferimento nella sede in cui è stata prevista l’assunzione.
È stato perciò deciso di anticipare all’8 di settembre la scadenza per l’assegnazione delle
supplenze. Un’opzione che se da un lato consente al precario di rinviare
temporaneamente il trasferimento lontano da casa, e casomai sperare nel maxi piano di
mobilità previsto per l’anno scolastico 2016/2017, dall’altro contribuisce a procrastinare per
altri 365 giorni una situazione di assoluta incertezza. Perché se infatti non si libererà
alcuna cattedra, al docente non resterà altra scelta che fare la valigia.
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ECONOMIA E LAVORO
del 02/09/15, pag. 6
Riaperto l’ufficio propaganda
Istat. L’istituto di statistica rivede al rialzo il Pil (+0,6%) e attesta la
crescita degli occupati (+0,8%). E' l’effetto della legge Fornero che
obbliga al lavoro gli over 50 e penalizza i lavoratori più giovani e maturi
dai 15 ai 49 anni. Il ritratto di un paese sempre più disuguale (Nord/Sud,
giovani/anziani). Il presidente di Confindustria Squinzi svela l'arcano:
«Non è merito nostro ma è dovuto solo al dimezzamento del prezzo del
petrolio a rafforzamento del dollaro e al Qe». Prospettive incoraggianti
per il presidente del Consiglio: «Settembre inizia con numeri buoni,
Italia nel gruppo di testa Ue». Il paese è alla ricerca della «maglia rosa»
Roberto Ciccarelli
Sostiene Matteo Renzi che la revisione della crescita del Pil nel secondo trimestre 2015
(dallo 0,2 allo 0,3 mensile e dallo 0,5 allo 0,6 annuo) operata ieri dall’Istat sia una buona
notizia. Così come sarebbe buona la stima per cui la crescita degli occupati (+ 0,8% e di
180 mila unità in un anno) è trainata dagli ultracinquantenni (+5,8%), trattenuti al lavoro
dall’inasprimento dei requisiti imposti dalla riforma Fornero a dispetto dei più giovani
dall’età compresa tra i 15 e i 34 anni (-2,2%) e 35–49 anni (-1,1%). Questa diseguaglianza
generazionale, ormai dolente e strutturata, è accompagnata da quella territoriale: sebbene
a livello nazionale il tasso di disoccupazione sia sceso al 12,1% (a giugno era al 12,5, ai
minimi dal 2013), mentre quello di occupazione sia salito al 56,3% (+0,1% sul mese e
+0,7% rispetto allo stesso mese dell’anno scorso), a Sud la disoccupazione è del 20,2%, a
Nord del 7,9%. I dati di ieri confermano inoltre che per il quinto anno consecutivo aumenta
il lavoro a termine, il part-time involontario (7 casi su 10). Questa è la fotografia di un
mercato del lavoro sempre più diseguale, chiuso ai più giovani, mentre il lavoro è sempre
più incerto per i più anziani.
Tanto basta per soddisfare il presidente del consiglio che ieri, in un video-messaggio antigufi, ha collocato nel «gruppo di testa dei paesi Ue» un paese dove il mercato del lavoro è
sempre più precario e diseguale a livello generazionale e territoriale (a sud cresce
l’occupazione, ma resta stabile la disoccupazione rispetto al Nord) «Settembre inizia con
numeri buoni – ha detto Renzi — ma io non mi accontento: voglio un’Italia che sia la guida
dell’Europa, punto di riferimento dell’economia europea e mondiale». Insomma manca
poco alla conquista della «maglia rosa», basta credere nella danza dei numeri azionata
immancabilmente da Palazzo Chigi. A Renzi ha fatto eco il ministro dell’Economia
Piercarlo Padoan che in un epitaffio su twitter ha celebrato il ravvicinamento del Pil alla
stima dello 0,7% preventivata nel Def. Soddisfazioni aritmetiche celebrate dal ministro del
lavoro Giuliano Poletti che, da par suo, ha confermato la natura diseguale della crescita
occupazionale: riguarda esclusivamente il lavoro dipendente, e per nulla quello autonomo
a partita Iva. Non poteva mancare l’ideologia: per Poletti il Jobs Act avrebbe messo in
moto «la riduzione della precarietà».
Al di là del solfeggio propagandistico di rito, le stime dell’Istat attestano uno scenario
diverso. La crescita in atto non è prodotta da nuova occupazione, ma dalla trasformazione
dei vecchi contratti precari in quelli nuovi «a tutele crescenti» Sull’aumento di 44 mila
occupati in un mese e 235 mila in un anno influiscono soprattutto i contratti a termine
(+3,3%), il part-time involontario (sette casi su dieci) e solo in minima parte i dipendenti a
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tempo indeterminato (+0,7%) sostenuti dagli ingenti esoneri contributivi previsti a corredo
del Jobs Act. Un dato assai modesto che conferma un aspetto culturale decisivo del
governo Renzi, interessato al lavoro dipendente e a premiare l’impresa con sussidi a
pioggia. In questo bilancio non bisogna nemmeno trascurare il boom del lavoro stagionale
“a tagliando”, il voucher nel commercio e nel turismo che riguarda in parte preponderante i
giovani ai quali è sempre più riservato il lavoro non qualificato e usa e getta, come uno
scontrino. Nel primo semestre del 2015 sono stati venduti quasi 50 milioni di tagliandi dal
valore nominale di 10 euro, +74,7% rispetto al 2014 e record soprattutto a Sud.
Un altro filo della verità lo ha tirato il numero uno di Confindustria Giorgio Squinzi che si è
augurato una stabilizzazione dei dati che oscillano di mese in mese e impediscono di
parlare di una “ripresa vera”. Se, e quando si consoliderà, Squinzi sembra convinto — a
ragione — che non cambierà il crescente divario economico tra Nord e Sud. Poi l’analisi
va più a fondo e Squinzi sostiene impietoso: «La crescita del Pil dello 0,3% non basta,
anche perché non è merito nostro ma è dovuto solo al dimezzamento del prezzo del
petrolio a rafforzamento del dollaro e al Qe». Quanto ai rimedi, Squinzi resta allineato sul
continuare a«fare le riforme». Dopo averne smontato le ricette torna d’accordo con Renzi.
«Siamo al colmo di un presidente del Consiglio che vanta i risultati già raggiunti e superati
da Monti prima e da Letta poi, e di un presidente di Confindustria che si domanda come
mai la crescita sia così bassa – commenta la segretaria Cgil Susanna Camusso — Se
tornassero coi piedi per terra e la smettessero con la propaganda il Paese potrebbe
cogliere le opportunità che sembrano prospettarsi».«Non so con chi ce l’ha Camusso —
ha risposto seccato Renzi — è l’ ultimo dei miei problemi. Se fossi segretario di un
sindacato sarei contento che c’è più lavoro stabile». Un gergo che non ammette repliche,
né approfondimenti. La crescita è diseguale? Non si discute: va tutto bene. Punto e a
capo.
«I toni propagandistici usati dal governo e dalla maggioranza stridono con la realtà che
vivono i cittadini italiani quotidianamente», afferma Arturo Scotto (Sel). «Non possiamo
rallegrarci dei cinquantenni che tornano ad avere una chance grazie al Jobs act, come li
definisce in maniera truffaldina Renzi — sostiene Gianluca Castaldi (M5S) — perché in
realtà sono lavoratori over 50 incastrati dalla riforma Fornero, sono l’unica fascia d’età in
cui l’occupazione è in aumento».
del 02/09/15, pag. 7
Diktat Ue, la stabilità traballa
Conti pubblici. «L’Italia segua le indicazioni: meno tasse sul lavoro, non
sconti sulla casa». Ma Renzi non può smentirsi dopo aver promesso la
misura più popolare con un occhio ai sondaggi. Caccia a trenta miliardi.
La prudenza di Padoan dopo i moniti di Bruxelles. Che non sono finiti:
«La flessibilità è già stata usata»
Andrea Colombo
ROMA
Nulla di ufficiale. Solo bisbigli consegnati a chi di dovere, ma il messaggio che parte da
Bruxelles è lo stesso chiarissimo. Ai guardiani del rigore l’idea renziana di eliminare la
tassa sulla prima casa non piace nemmeno un po’. Non va nella direzione da noi indicata,
segnalano le anonime «fonti europee». Si potrebbe forse aggiungere che la trovata ricorda
troppo da vicino quelle berlusconiane che l’Europa detestava.
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Va da sé che, prima di emettere giudizi ufficiali il tribunale europeo del rigore aspetta
«dettagli». Non c’è però bisogno di nessun dettaglio per ricordare che «il Consiglio ha
raccomandato che l’Italia sposti sugli immobili e in consumi il carico fiscale che grava su
lavoro e capitali». Completa il poco confortante quadro una minaccia precisa. L’Italia ha
già beneficiato della flessibilità con la finanziaria dello scorso anno, e in cambio qualche
progresso nel cammino delle riforme ordinate, pardon indicate, dalla Ue c’è effettivamente
stato. Ora però: «È essenziale che non si perda lo slancio. E naturalmente ci aspettiamo
che l’Italia rispetti tutte le indicazioni del Consiglio. Comprese quelle sulla politica
tributaria». Più esplicito di così…
Forse parlare di macigno sulla traiettoria impostata da palazzo Chigi sarebbe esagerato.
Ma di certo trattasi di un grattacapo serio. La legge di stabilità dovrò essere pronta e
consegnata agli esaminatori di Bruxelles il 15 di ottobre, ma per l’aggiornamento del Def,
prerequisito essenziale, i tempi sono più stretti. Va presentato per il 20 di settembre, e i
soldi da trovare sono tanti. Forse 25 miliardi, più probabilmente 30: ne mancano all’appello
almeno 15. Ieri Renzi, più che mai deciso a risollevare le sorti della sua declinante
popolarità eliminando la tassa più odiata dagli italiani, ha incontrato a palazzo Chigi l’assai
più dubbioso titolare dell’Economia, Pier Carlo Padoan. Argomento unico del summit, dove
trovare quella quindicina e forse più di miliardi.
I dati Istat di ieri confortano, la congiuntura è tutto sommato favorevole. Ma la quadratura
del cerchio rimane ardua. L’idea di Renzi, il prestigiatore, è semplice: aggiungere ai tagli
che dovrebbero fruttare una decina di miliardi, quelli che vanno sotto la dizione spending
review a carico di ministeri, sanità, Pa, partecipate ecc, una serie di decurtazioni su fondi
promessi ma non stanziati, come ad esempio prorogare il bonus fiscale per le assunzioni a
tempo indeterminato ma portando da tre a due anni e poi, nel 2017, a un solo anno. Ma
per giocare con i conti in questo modo è indispensabile che la Ue accetti di chiudere tutti e
due gli occhi. Senza ulteriori concessioni in termini di flessibilità, quei miliardi non verranno
trovati.
Lo ammette fra le righe, ma neppure troppo, il presidente della commissione bilancio della
camera Francesco Boccia: «Credo che la manovra sarà di 30 miliardi. Il contesto europeo
consentirà al nostro governo di ottenere margini aggiuntivi». Ottimismo d’ordinanza. La
partita sarebbe comunque difficile, data la proverbiale scarsa propensione europea ad
allargare i margini di flessibilità. Lo scontro sul taglio della Tasi rischia di renderla
impossibile. Si capisce dunque facilmente perché Padoan sia così gelido quando si arriva
al capitolo dolente della tassa sulla casa.
Solo che quel passo Renzi non può più evitarlo. In un certo senso, l’uomo è prigioniero
della sua stessa strategia comunicativa, tutta centrata sulla moltiplicazione degli annunci,
dunque sull’aggiungere sempre nuova carne al fuoco, perché perdere la rincorsa vorrebbe
dire permettere al popolo votante di emettere un giudizio sui risultati ottenuti, o più
precisamente non ottenuti, invece che sulla sommatoria di impegni mirabolanti. Il calo di
popolarità, poi, gli impone di correre ai ripari con una mossa già più volte sperimentata, e
sempre con successo, dal predecessore di Arcore. Però giocare con i conti e con l’Europa
è sempre un doppio azzardo. Più che sul campo delle riforme istituzionali, sul quale tutti gli
occhi saranno puntati a tempo pieno, la sfida d’autunno è sul fronte, meno vistoso ma più
accidentato della legge di stabilità. Posta in gioco, il suo stesso futuro politico.
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