Gli aeroplanini di carta

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Gli aeroplanini di carta
‹‹Dobbiamo finalmente renderci conto del fatto
che lo spirito, cioè l'unica cosa che il cristiano ama,
non è niente, ossia che lo spirito
è una menzogna››.
Max Stirner, L’unico e la sua proprietà
Non chiedetemi perché sono ateo. Lo sono e basta, convintissimo, come certi
religiosi che a furia di sperare in qualcosa, ci credono per davvero.
Sono ateo giacché non c’era altra alternativa che avesse un senso per la mia
fottuta coscienza. Nessuna. La prima fede mi fu imposta alla nascita, senza averne
potuto valutare l’effettiva opportunità: il cattolicesimo. Quel cazzo di cattolicesimo
che provocò nel tempo solo morti e disperazione, e non ci indicò mai concreti viatici
di salvezza. Ricordo ancora quando da bambino la mia povera madre, con un sorriso
ingenuo e premuroso, si avvicinava al lettino prima che mi addormentassi,
recitandomi a bassa voce, nel buio della stanza: ‹‹ Beati quelli che sono nel pianto,
perché saranno consolati1››. Cazzo, pensavo. Allora dovevo vivere proprio una vita di
merda, di lacrime, di privazioni, di angosce, di ingiustizie per lasciare un domani
questo corpo sfiancato con l’illusione, finalmente, di prendere quel treno rapidissimo
della mia felicità, oh sì! la mia felicità, ed esistere altrove, in un altro tempo, in un
altro spazio, ossia, in un posto di luce divina dove magari avrei rimpianto persino le
fiamme dell’inferno, come transfuga incazzato dalla società umana.
I Vangeli, poi, sono la testimonianza più diretta della corruzione delle prime
comunità cristiane. Dici vangelo, e dici menzogne. E se pensiamo a quelli che sono
ritenuti grandi spiriti: dici Paolo e dici logica di un rabbino cinico; dici Tertulliano e
dici misoginia di un santo diavolone2. E così per tanti altri ancora che hanno riempito
la loro pancia con la credulità delle masse. A volte, infatti, agli uomini basta dire che
in cielo ci sono gli angeli per pregarli con devozione e finanche immaginarseli, bell’e
buoni, naturalmente con facce umane, sentimenti umani, cazzi e vagine umani.
1
Vangelo secondo Matteo, 5, 4)
Basti ricordare: ‹‹Tu sei la porta del diavolo, tu sei la profanatrice dell'albero della vita, tu sei stata la prima a violare la
legge divina, tu sei colei che persuase Adamo, colui che il diavolo invece non riuscì a tentare. Tu che hai infranto
l'immagine di Dio, l'uomo, con tanta facilità. Per causa tua esiste la morte, anche il Figlio di Dio ha dovuto morire. E tu
hai in mente di adornarti con altro che non siano le tuniche che coprono la tua pelle?››
2
Dunque non ci si lasci ingannare: chi dispensa saggezza è scettico, come ci insegnò lo
stesso Zarathustra3.
La vita è una puttana e bisogna fotterla prima che lei possa fottere te: questo ho
pensato quando mi dissero che, se volevo comportarmi da bravo uomo di chiesa,
dovevo aspettare il matrimonio per bagnare proficuamente una bella donna. E poi
vedevi i preti, nel confessionale, a farsi carne debole, con vecchi e bambini,
indistintamente; e poi vedevi le suore, a sera, che pazientavano un piatto pieno di
carote novelle per essere felici alla bisogna. Decisi allora di abbandonare quel credo
tanto inaccettabile e repressivo, e mi avvicinai con molta cautela al Buddhismo. Era
divenuta quasi una moda da fighetti in quegli anni, inevitabile: passare da una fede
all’altra per trovare la via della Felicità. Tutti lo facevano prima o poi perché in
qualche modo tutte le religioni erano sbagliate. E nel momento in cui lo si capiva si
cercava un battello più comodo su cui raccomandarsi di non cadere a picco.
Inutile raccontarvi che presto mi stufai anche della storiella di Mayadevi e del
suo parto indolore, del discorso di Benares, e di tutte quelle Verità che per me non
erano altro che assurde fantasticherie. Alla fine, dopo aver messo da parte le religioni
tradizionali, capii di essere io stesso Dio, unico, destinato a morire, ma pur sempre
Dio. E cambiai anche lavoro: realizzai il sogno che nutrivo fin da bambino, diventare
un pilota di aerei.
***
Nella penombra della stanzetta piena di giocattoli, orsacchiotti di peluche,
soldatini di plastica e macchinine colorate, il cuore cominciò a battergli forte, anzi
fortissimo, come un’emozione istantanea e nuova, quando la madre, i cui capelli
erano tenuti sulla collottola da uno spillone d’oro, dopo aver pieghettato con cura le
cocche di un foglio bianco di carta, ne fece un modesto ma dinamico aeroplano, e lo
lanciò a mezza altezza verso il nasino roseo del figlioletto. Fuori, intanto, la pioggia
cadeva pigramente sull’acciottolato, pressa di profumi dolci e autunnali,
sorprendendo quei pochi passanti che ancora non erano corsi a ripararsi sotto un tetto
ospitale. Come ogni anno, il primo fresco era arrivato agli inizi di ottobre.
‹‹Tuo padre tornerà in primavera, mio bravo bambino›› disse la madre,
stringendoselo a sé, ‹‹dobbiamo solo pregare Dio che anche stavolta non succeda
niente di cattivo lassù, in cielo, dove lui vola insieme agli angeli azzurri dai capelli
tutti d’oro››. Mentre l’aeroplanino di carta, sfasciandosi, finiva quel suo plastico e
libero planare sul pavimento gelato. E lì rimase.
***
3
Cfr. Nietzsche, L’anticristo.
Il freddo di quel pomeriggio m’irrigidiva le labbra come canne di bambù. Era
una di quelle bore che, quando soffiano, non lasciano che morte e desolazione. Lungo
il viale del cimitero costeggiato di cipressi e genziane, io e la mia compagna
camminavamo per portare dei fiori freschi alla tomba di mio padre, morto ormai da
tempo in un incidente aereo assieme a tutti i passeggeri. L’ultima volta che ci ero
andato fu per il suo funerale, cioè poche settimane prima che mia madre impazzisse
per il dolore. Il cielo, a guardarlo, sembrava tradire la mia stessa incertezza:
nell’opalescenza piana delle nuvolaglie, sparse qui e là, ravvedevo il colore dei miei
stessi occhi quando la mattina, per radermi la barba, mi fissavo a uno specchio e ci
vedevo lo spettro di ciò che non ero più, un bambino felice e spensierato; lucide di
lacrime quelle mie povere iridi, non volevano sgorgare proprio davanti alla donna che
amavo, di cui temevo il severo giudizio più di chiunque altro. Forse perché quando ci
innamoriamo di qualcuno, abbiamo paura di mostrarci veramente per quello che
siamo, e preferiamo rifugiarci dietro atteggiamenti che sappiamo essere compresi di
sicuro da parte di chi ci sta accanto in quel dato momento.
Mentre ci addentravamo nei viottoli deserti, avvertivo un forte senso di
malessere dovuto alle fotografie in bianco e nero di tutta la gente che era morta,
sepolta dall’oblio eterno, e contro cui quel vento gelido, nel torpore generale,
infieriva sbatacchiandovi incessantemente frasche ingiallite e steli di fiori ormai
laceri. Era come se ognuna di esse mi giudicasse con austerità giacché ero ancora
vivo e osavo disturbarli nel loro silenzio cimiteriale. La mia fidanzata invece era
serena, pacifica. Lo è sempre stata, lei. Credo che in fondo sia una questione di sesso.
Le donne infatti, solitamente, confidano troppo nella vita e nel futuro per farsi
suggestionare dalle ombre di un paesaggio lugubre.
Giunti al sepolcro paterno, notammo un’anziana dai lunghi capelli grigi e
raccolti sulla nuca da un fermaglio d’oro, col viso semicoperto da un ricamato velo
nero, mentre piangeva a dirotto, si disperava, strisciando carponi sulla lastra di
marmo. Lì per lì pensai che era demente. Poi, riflettendoci, nessun demente sarebbe
stato capace di tanto dolore, giacché esso nasce sempre da un processo ad alto
coefficiente di razionalità. Allora la ritenni semplicemente pazza, di quelle donne che
s’incontrano nei manicomi perché, avendo sofferto molto, hanno finalmente capito
che non c’è vita, e non c’è neppure futuro, ossia, ciò che molti uomini sensibili
avrebbero saputo già da un bel pezzo.
‹‹Tu,tu!›› mi disse quella vecchia, indicandomi minacciosamente con l’indice
della mano sinistra, ‹‹tu dovrai essere giudicato al cospetto di Dio››. E si scagliò
contro di me sputandomi sul volto, prima di sparire nel labirinto del camposanto.
‹‹Dovremmo cambiare i fiori,›› barbugliò la mia donna. ‹‹Guarda come sono
secchi quelli dentro l’urna. Sarà una vita che nessuno passa da qui›› continuò, come
d’ammonimento.
Ed era vero. Una vita che io, come figlio, non passavo da lì.
Rimanemmo in perfetto silenzio per alcuni minuti. Minuti che mi parvero ore
interminabili. Ore che si perdevano nei secoli morti di quell’andito funereo.
‹‹Ho messo i fiori freschi,›› lei mi disse, poco dopo, ‹‹possiamo andare. Ma
prima fatti il segno della croce. Si deve, in segno di rispetto per i morti››.
E proprio non ci riuscii, nonostante lo sguardo fermo e greve della mia
compagna, voltando poi le spalle alla tomba come uno straniero qualunque. Ma,
pensavo, mio padre stesso non si sarebbe mai prodotto in quel rito di preghiera,
neppure per una donna, dacché era ateo alle radici. Del resto, scorgere una sola
scintilla di Dio in quell’inferno di morte sarebbe stata una mera parvenza. Non
potevo fingere quindi una fede a cui ormai non sentivo più d’appartenere.
‹‹Dài, adesso torniamo a casa››, mi disse, infine, sorridendomi, ‹‹non vorrai
mica che nostro figlio muoia di freddo nel mio pancione?››
***
I nostri rapporti d’amore sono sempre più radi e noiosi. Da quando abbiamo
avuto il bambino, ti sei chiuso in una sfera d’indifferenza che rischia di appesantire il
nostro matrimonio appena celebrato. E sarebbe davvero imperdonabile dopo tutte le
belle promesse che ho dovuto fare per convincerti a mettere piede in una chiesa.
Forse è questo il problema: che tu sia pervicacemente ateo come fu allora tuo padre.
Chi non crede in Dio, in una entità perfetta e superiore, è sempre fuori dai gangheri,
si annoia, giudica continuamente gli altri. Ti consiglierei invece di trovare la luce
divina con gli occhi dell’anima, unica, assoluta, che ridia un senso ai giorni preziosi
della tua vita.
Devi capire che in questo mondo puoi vivere in pace solo se cerchi, e, quando
cerchi, preoccupati d’interrogarti assiduamente, imparando da ogni singolo errore,
come il giovane indiano di Hesse, Siddharta. Solo così riuscirai a liberarti dalle
pastoie pericolose dell’ego, che ti fiaccano nottetempo la coscienza, e t’inducono
spesso a precipitare in burroni da cui poi non sarà più possibile risalire. Perdona chi ti
ha fatto del male. Ama chi ti ama perché a forza d’amare generosamente, non solo in
te stesso, ma anche nelle persone che ti circondano, sentirai vivo il cambiamento
morale.
E non pensare alla grande eguagliatrice, ora che sei solo a metà del tuo
pellegrinaggio. Sei divenuto uno scrittore di successo. Il tuo ultimo libro Cado dal
cielo ha venduto milioni di copie in tutto il mondo. Hai finalmente realizzato il sogno
che cullavi fin da bambino. Dovresti esserne grato a Dio, felice, ed invece leggo
spesso nei tuoi più recenti diari che vuoi lasciarci per sempre. Allora ti seguirò passo
passo, come tua fedele compagna, per distoglierti dal male che ti affligge. È un mio
dovere. Perché non ne parli mai con me? Ti farebbe bene liberarti attraverso l’uso
della parola. O, come ateo, covi forse grande timore di chi ha fede? Tu, speranza mia,
devi sapere che muori ogniqualvolta dici di volerti spegnere anzitempo, di porre fine
a quella che tu ritieni essere la sofferenza. Mentre è solo una afflizione dell’animo,
comune a tutti gli uomini. Tu, credimi, rinasceresti ogni giorno se solo comprendessi
che l’amore che ci lega è più forte di ciascun dubbio malvagio che prova a dividerci.
Non dimenticarti che sei padre di uno splendido bambino. Se lui ti vede triste e
irreligioso, imparerà anch’egli col tempo ad essere triste e irreligioso, esattamente
come te. E questo non sarebbe proprio giusto, sai, perché il primo dovere di un
capofamiglia è d’indicare ai figli le possibili vie per essere felici. Tu, col tuo acuto
pessimismo, non fai altro che spargere semi di morte per chi ancora si trova in
viaggio nel deserto a ricercare l’acqua vitale della salvezza. Sapessi come sarebbe
felice di giocare con te, nostro figlio. L’altra sera gli ho insegnato a costruire piccoli
aeroplanini di carta. Adesso sono il suo passatempo preferito. Gli ricordano che è
davvero facile volare, anche solo per poco, quando si crede che ciò sia possibile. E
vedergli quel sorriso radioso — sono certa — mentre li lancia nel vuoto,
t’insegnerebbe molte cose, prima fra tutte: gioire nuovamente come un bambino.
***
S’era appena fatta una doccia rigenerante, e la sua pelle bianca e finissima, su
cui scivolavano ancora fresche gocce d’acqua, odorava di rinnovate rose primaverili.
Con la semplice eppure composita nudità del corpo, di fronte allo sguardo intimidito
del suo uomo, nel silenzio rivelatore della camera, lei poneva pian piano nuovi
accenti al desiderio di far rivivere nella coppia le notti dei primi anni di
fidanzamento. In una catarsi di carne e spirito, i due si unirono allora felicemente,
senza più freni, paure o pudori, gemendo a tono e sorridendosi a vicenda proprio
come una volta, tra le attorcigliate lenzuola bianche.
Improvvisamente però si sentirono dei piccoli passi provenire dal corridoio. La
porta della stanza, scricchiolando, fu aperta a metà.
‹‹Piccolo, mio?›› disse lei ancora ansimante, mentre si nascondeva per quanto
possibile sotto le coperte. ‹‹Che ci fai qui? Corri a dormire!››.
Era suo figlio, di otto anni. Egli, pallido e confuso, con le gambine frementi,
dinoccolate, come avesse appena visto il mostro dei suoi incubi peggiori, stringeva
nella mano destra, fino a farne una inutile pallottola, uno di quegli aeroplanini di
carta che aveva modellato insieme alla madre, qualche giorno prima. Per alcuni
lunghissimi secondi, il padre, sconvolto, lo fissò occhi negli occhi senza proferire
parola, sudando copiosamente sulla fronte proprio come accadeva quando, la mattina,
per radersi la barba, si guardava a uno specchio. Silenzio. Dopodiché il bimbo, forse
senza neppure volerlo, per innocenza, lasciò che il suo amato aeroplanino di carta,
oramai irriconoscibile, cadesse lentamente a terra, in mezzo alle grigie polveri del
tessellato.
***
Sapevamo quasi tutti dei suoi problemi, ma mai fino a immaginare che un
giorno si sarebbe spinto al suicidio. Lo conoscevamo nel condominio come un uomo
dabbene: parlava poco, e solo se interpellato, manteneva sempre la parola data ogni
volta che si offriva per farci un favore. Aveva però un terribile difetto: era ateo, e
neanche la moglie, poverina, nonostante i numerosi sforzi, è mai riuscita a ricondurlo
sulla retta via.
Lo notammo per l’ultima volta al parco, circa cinque ore prima che morisse. Si
vedeva chiaramente che aveva perso la ragione. Pensate che non faceva altro che
lanciare in alto aeroplanini di carta. Poi li raccoglieva dall’erbetta verde, e sorrideva
come se quel ridicolo gioco per bambini lo divertisse oltremodo.
Di lui, non ricorderemo tanto i suoi scritti, quanto quel sorriso un po’ tirato che
ci donava quando gli chiedevamo se stesse bene in famiglia.