Leggi i primi capitoli

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IL ROMANZO
È il 1938 e Naro è costretto a ripartire dall’Abissinia per non sprofondare nel buio:
deve lasciare Amina, la donna della sua vita, ma ha visto troppo e deve mettersi in
salvo. In una Roma fascistissima, la sete di giustizia e l’impeto da cronista di Naro
continueranno a prevalere sull’omertà imposta dal regime: scrivere una
sceneggiatura, allora, sembra essere l’unico modo per aggirare la censura e portare
alla luce le atrocità commesse dai soldati italiani nella colonia africana. Tra leggi
razziali, persecuzioni, torture e tradimenti, Naro lotterà per far valere il suo amore:
per la verità e per la sua donna.
L’AUTORE
Stefano Attiani è nato a Roma nel 1960, dopo aver studiato sceneggiatura e
collaborato ai testi di alcune sit com e serie tv ha deciso di dedicarsi alla narrativa. Ha
pubblicato i gialli Una scommessa per Watson e L’avventura del licantropo e il
racconto Il Diario Afgano.
Il sentiero del serpente
Shabbat goy
di
Stefano Attiani
© 2015 Libromania S.r.l.
Via Giovanni da Verrazzano 15, 28100 Novara (NO)
www.libromania.net
ISBN 978-88-98562-70-1
Prima edizione eBook febbraio 2015
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La storia, le vicende, i luoghi e i personaggi sono frutto di pura fantasia. Eventuali
riferimenti a fatti realmente accaduti e a persone realmente esistenti sono da ritenersi
puramente casuali.
Il sentiero del serpente
Shabbat goy
Non puoi controllare il vento ma puoi regolare la vela
Proverbio y iddish
–I–
Missione Comboniana di Socotà, Abissinia, maggio 1938
Il dottor Fumagalli, un brianzolo taciturno e incline al pessimismo, responsabile
dell’ambulatorio della missione, mi diede del pazzo per aver affrontato il viaggio in
simili condizioni: avevo rischiato la cecità. Secondo lui la suppurazione agli occhi era
dovuta all’uso eccessivo di chinino.
Mi disse che appena possibile sarei stato trasferito a Makallè o Addis Abeba, dove
mi avrebbero prestato cure più adeguate. Ero in viaggio da Axum a Lalibela, inviato
dal mio giornale, La Nuova Eritrea, ad indagare sui misteri dell’Arca dell’Alleanza
che si riteneva custodita in una delle chiese ipogee della “Gerusalemme d’Etiopia”.
Non scrissi mai quell’articolo.
Rimasi alla missione tre giorni. Tutto il tempo disteso a letto con gli occhi bendati,
senza mai poterli aprire. Un traballante ventilatore a pale ronzava appeso al soffitto
ed era l’unico rumore che proveniva dal villaggio, oltre ai colpi di tosse e agli
scatacchi dei miei compagni di degenza, tutti abissini. Calcolavo lo scorrere del
tempo ascoltando i rintocchi della campana della missione.
Accanto a me c’erano alcuni lungodegenti, di cui un paio con gli arti inferiori
amputati, ammirevoli per la rassegnazione con la quale accettavano la propria sorte.
Potevo solo fumare e ascoltare musica. C’era un fonografo nella stanza adiacente. In
seguito scoprii che era lo studio medico. Il repertorio lasciava a desiderare: marcette
militari, canzoni popolari e l’aria di qualche opera lirica come l’Aida, che gli altri
gradivano come lo stridere del gesso sulla lavagna.
Quando non ne potevo più delle marcette mi alzavo e, brancolando, entravo
nell’ufficio del dottore per cambiare disco. Mi ritrovai a suonare Faccetta nera. La
conoscevano tutti. Quando la canzone terminò mi chiesero il bis. Nessuno di loro
aveva il coraggio di entrare nello studio medico. Dopo qualche secondo la musica
cessò bruscamente.
“Chi l’ha autorizzata?” Mi rimproverò il dottor Fumagalli. “Quello è il mio
fonografo personale.”
“Mi scusi, credevo che...”
“Non mi sembra il caso di eccitare gli animi,” bofonchiò.
“Per un po’ di musica!... io credo invece che li rassereni. Guardi come sono tutti
euforici. Ho fatto qualcosa di messianico, ho ridato la voce ai muti, anche se ancora
non riesco a restituire la vista ai ciechi.”
Il dottore, tutto di un pezzo, non apprezzava il mio umorismo. Non so perché fossi
di così buon umore, a pensarci bene, ma tendevo a prendere le cose alla leggera. Ero
nel fiore degli anni, non ci pensavo nemmeno a restare cieco.
“Vuole metterci nei guai?” riprese a lagnarsi il Fumagalli. “Non lo sa che è
proibito suonare Faccetta nera? Non attiri l’attenzione, o li avremo tutti intorno. La
musica li attrae come il piffero di Hamelin.”
Di che piffero stava parlando? Degli informatori del Sim? O dei ratti? Che i ratti
africani fossero melomani era una novità. Quella sì che era una notizia! Avrei dovuto
telegrafarla immediatamente a quella gran testa di Stazzi (Minugi) del mio direttore.
“Non mi risulta che ci siano distaccamenti militari alla missione, dottore,” dissi
annaspando verso il letto.
Vedendomi brancolare si impietosì.
“Parlerò con il falegname della missione che le costruirà un bastone per
deambulare, per un po’ dovrà abituarcisi.”
“Non vedo l’ora!”
Niente, imperturbabile! Se avessi fatto il gesto di guardare l’orologio forse avrebbe
afferrato. Subito riprese a lagnarsi.
“Il paese è pieno di delatori, se lo vuol sapere.”
“Davvero!... non le sembra di esagerare? L’Abissinia è grande tre volte l’Italia.
Vorrebbe farmi credere che c’è un delatore a ogni crocicchio?”
“Socotà ha 18.000 abitanti, altro che crocicchio. Ora cerchi di riposare.”
“Non faccio altro.”
“E allora cerchi di stare zitto.”
Uscì sbattendo la porta.
***
Le suore della missione erano loquaci più o meno quanto il dottore, e ti
propinavano delle sbobbe come non ne avevo mai mangiate nemmeno nell’esercito.
A me, unico italiano ricoverato all’ospedale, non era riservato nessun trattamento di
favore.
C’erano anche alcune coadiuvanti abissine. Una in particolare, Amina, era molto
giovane e, almeno a giudicare dalla considerazione di cui godeva tra i suoi
connazionali, molto bella e rispettata.
Ogni tanto venivano gli scolari della missione a rimediare un po’ di cibo e
medicinali che poi contrabbandavano nei villaggi sulle ambe. Fingevano di avere un
parente ammalato per farsi regalare i medicinali. Oppure erborizzavano. La suora
dispensiera li ricompensava con una ciotola di riso bollito e una manciata di farina di
teff.
Li ascoltavo ridacchiare da dietro le vetrate dell’ambulatorio. Si era sparsa la voce
che c’era un italiano ricoverato alla missione. Ero una specie di attrazione turistica
per loro. Uno dei ragazzini bussò sul vetro per richiamare la mia attenzione. Cercò di
rifilarmi qualcosa: “Taliano, fumare? Sigarette Tre Stelle?” Gli feci segno di sì.
Il ragazzino sgattaiolò nella stanza e mi mise il pacchetto di sigarette in mano.
Allora presi dallo zaino da viaggio che tenevo appeso alla colonnina del letto, il
calzino in cui tenevo arrotolate le banconote. Ci tenevo anche alcuni rullini di
fotografie che testimoniavano gli abusi militari compiuti dall’esercito italiano durante
le operazioni in Africa Orientale. Avevo cominciato a scattarle quasi per gioco, come
ricordi di viaggio; dapprima sul campo di battaglia, successivamente durante i miei
reportage giornalistici in giro per l’AOI; e ora avevo messo insieme una quantità di
materiale “top secret”, di cui non sapevo che farmene. Me li portavo dietro come
souvenir.
“Quanto ti devo?” chiesi al ragazzino.
“Un tallero!”
Lo pagai. Il ragazzino arraffò la banconota, poi mi sussurrò all’orecchio: “Vuoi
shalamita?”
Non ero sicuro di aver capito bene. Shalamita in abissino significa sia prostituta che
fucile. Così risposi: “Bang-bang!”
Il ragazzino ridacchiò.
“No, bacio-bacio!” e schioccò un bacio, al che i ragazzini rimasti fuori
scoppiarono a ridere.
“Una prostituta!”
“Prostituta, sì.”
“Qui alla missione? Pensavo ci fossero solo suore!” il ragazzino rise.
“Ragazza bissina!” disse. “Lei vive in villaggio. Viene qui stanotte e fa amore per
10 talleri?”
“Non è la ragazza della missione, vero?”
“La ragazza della missione?”
“Quella giovane e carina che profuma di rosa selvatica.”
“Amina?”
“Come hai detto che si chiama?”
“Amina.”
“Credo di sì.”
“No lei non shalamita. Lei brava ragazza. Lei insegnante.”
“Vive qui alla missione?”
Prima che il ragazzino potesse rispondere, i suoi amici lo avvertirono dell’arrivo
delle suore.
“Devo andare. Ciao,” disse scappando fuori.
“Aspetta! Dove abita la ragazza?”
Non mi rispose, se la stava già dando a gambe. Subito dopo arrivarono le
infermiere con “il rancio”.
“Arriva la pappa,” scherzai. Il fatto di sapere come si chiamava la ragazza mi
aveva messo di buon umore.
“Beato lei che può mangiare un pasto caldo,” rispose l’infermiera, “pochi possono
permetterselo quaggiù. Fa da solo o la devo imboccare?”
“Faccio da solo, sorella. Appoggi pure sul comodino.”
Mi misi a sedere sul letto e con movenze da automa afferrai scodella e cucchiaio.
Prima di cominciare a nutrirmi assaggiai la brodaglia.
“Buon appetito!” augurai agli altri e cominciai a ingurgitare la sbobba.
Venni interrotto quasi subito.
“Così si sporca,” disse Amina. La riconobbi dal voluttuoso profumo di rose
selvatiche e dall’accento vellutato. Parlava un italiano molto buono; del resto lo
insegnava.
“Credo di essermi sporcato. Non ho ancora imparato a mangiare a occhi chiusi.
Sono cieco da poco.”
Lei non rise. Forse avrei dovuto farle il solletico.
“Lasci che l’aiuti.”
Si sedette accanto a me e prese a imboccarmi. Mi sembrò di tornare bambino. Fu
piacevole, lo ammetto. Mi era presa una voglia matta di sedurla, così per gioco. Che
altro potevo fare, giocare a moscacieca?
“Mi chiamo Naro. Buffo, vero?” Non disse nulla, era di poche parole, anche lei.
“Lei come si chiama?” Lo sapevo già il suo nome, ma volevo averne conferma, alle
volte il ragazzino si fosse confuso con la prostituta.
“Amina!”
“Che strano!”
“Cosa?”
“Il suo nome.”
“Cos’ha di strano?”
“In italiano è il palindromo di anima.” Ignorava il significato della parola. “Cioè,
anima letto al contrario. Ti faccio un esempio: Roma; se lo leggi al contrario diventa
‘amor’... Amina è un bel nome.”
Riprese a imboccarmi.
“Non saprei, è un nome etiope, non italiano.”
“Quanti anni hai?”
“Diciannove.”
“Dalla voce sembri più giovane. Te ne avrei dati massimo sedici... È un
complimento!”
“Grazie.”
“Parli l’italiano meglio di molti miei connazionali.”
“Lo insegno.”
“Alla missione?”
“Sì.”
“È qui che stai?... Che c’è, ho fatto una domanda indiscreta?”
Lei rise.
“Scusa, ho annuito. Dimenticavo che non puoi vedermi.”
“Neanche tu sei abituata, eh?”
Non disse nulla. Provai a sollevare la benda per sbirciare, ma lei me lo impedì.
“Meglio di no!”
Diedi sfoggio della mia cultura classica.
“Perché, sei come Medusa?”
“Chi è Medusa?”
“Un personaggio mitologico: Medusa rendeva cieco chiunque osasse guardarla.”
“Allora non guardare.”
“Va bene.” Risistemai la benda, un po’ di sguincio. Sembravo orbo.
“E poi tu non sei cieco, sei ammalato. Non sai che significa essere ciechi
veramente. Al mio villaggio l’iprite ha reso ciechi quasi tutti i bambini.”
“Io sono un giornalista, non un soldato,” sentii il bisogno di giustificarmi. “Non ho
sparato nemmeno un colpo sotto le armi. Nella vita civile sì, tanti, quasi tutti a salve!...
Era una battuta... Hai annuito?”
Rise. Era una risata un po’ trattenuta. Dovevano averle insegnato che non è buona
educazione lasciarsi andare: solo le donne di facili costumi ridono di gusto. Dovevo
portarla via da lì, altrimenti ne avrebbero fatto una conversa.
“Ce l’hai una famiglia?”
“Ho un nonno. È molto anziano. Vive sull’altipiano, non ha voluto seguirmi alla
missione.”
“Lo capisco: neanche mio nonno avrebbe mai abbandonato il suo pezzo di terra
vulcanica appestato dalle solfatare. Lo fece solo una volta in vita sua, per andare in
guerra. Non è più tornato!... Ci vai mai a trovarlo?”
“Quando posso. È cieco.”
“Anche lui? Tutti ciechi.”
“Sì, ma non ha bisogno di nessuno: è auto...”
“...sufficiente! Non come me!”
“Scusa, non volevo offenderti.”
“Non mi sono offeso. Non lo sai che tutti i maschi italiani sono viziati?”
“Sì, lo so.”
“Nel senso di...?”
“Che cosa?”
“Hai conosciuto molti italiani?”
“No, tu sei il primo,” rise.
“Mi prendi in giro?”
“Ho conosciuto altri italiani, ma non nel senso che pensi tu.”
“Io non penso nulla... Hai un buon profumo Amina.”
“Grazie. Da quale parte d’Italia vieni, Naro?”
“Catania. Sai dov’è?”
“In Lombardia?”
Le sue conoscenze geografiche dell’Italia si fermavano a Roma e alla Lombardia.
In questo un ruolo doveva averlo avuto il dottore, e ciò mi confermò che tra i due
doveva esserci qualcosa. Ecco perché il dottore era così poco affabile con me,
rischiavo di rovinargli i piani. Voleva tenersi la bella moretta tutta per sé. Manco a
dirlo, la mia voglia di conquistare Amina raddoppiò.
“Si trova in Sicilia. È un’isola. Catania sta sul mare.”
“Il mare?”
“Sei mai stata al mare?”
“In Abissinia non c’è il mare.”
“Ti piacerebbe andarci?”
Spalancai la bocca per ingoiare un altro boccone, ma non entrò nulla.
“È finita,” disse Amina.
“Dimmelo, non lasciarmi a boccheggiare come un pesce.”
Un’altra breve risata.
“Te ne faccio portare dell’altra?”
“No, è immangiabile! Mi piaceva l’idea di essere imboccato da te.”
Rise più a lungo stavolta. Posò il piatto sul tavolino e mi pulì la bocca con il
tovagliolo.
“Non hai risposto alla mia domanda. Ti piacerebbe andare al mare?”
“Sì, certo.”
“Appena guarisco ti ci porto.”
“Non scherzare!”
“Non sto scherzando! Lo so che pensi: il solito italiano che fa promesse a tutte
quelle che incontra e appena ottiene ciò che vuole, ciao bella! Nel mio caso non vale,
giuro! Mica ho promesso di sposarti, solo di portarti al mare. Io sto ad Asmara. Non è
lontano dal Mar Rosso. In un’ora ci si arriva.”
Cambiò discorso.
“Che lavoro fai?”
“Te l’ho detto, sono un giornalista.”
“E che cosa scrivi?”
“Quello che capita. Sono qui per un servizio sulle bellezze archeologiche
dell’Etiopia. Ero diretto a Lalibela, a cercare tracce dell’Arca dell’Alleanza, quando
mi sono ammalato. Per fortuna, dico io.”
“Perché?”
“Altrimenti non ti avrei conosciuto,” ostentai il mio miglior sorriso, ma lei mi gelò:
“Si vede che ti sei limitato a vedere solo quello che volevi vedere. Questo rende
ciechi”.
“Che vuoi dire?”
“Niente. In ogni caso io devo lavorare.”
“Ci possiamo andare nel fine settimana al mare. Mica lavori la domenica?”
“Hai un aereo per caso?”
Aveva ragione, in due giorni non saremmo arrivati nemmeno a Gondar.
“Possiamo andare a Gibuti in treno.”
“Qui alla missione c’è sempre molto da fare. Quando non lavoro do una mano
all’ospedale. E poi le abissine non vanno al mare!”
“Non vedo perché!... Dai una mano anche ai lebbrosi?”
C’era un lebbrosario alla missione.
“Sono esseri umani anche loro,” rispose. “Non hanno colpa di quello che gli è
capitato.”
Dovevo sembrarle insopportabilmente borioso.
Tintinnò la campanella che richiamava gli scolari alla lezione. O era un lebbroso
che passava di lì?
“Devo andare,” disse alzandosi.
L’afferrai per un braccio.
“Aspetta!”
Lei si liberò. L’avevo offesa.
“È finita la ricreazione!” disse. A chi alludeva?
“Tornerai più tardi?”
“Forse.”
“Ho detto qualcosa che ti ha offeso? Se è così ti chiedo scusa, non volevo. Parlo
troppo, lo so.”
“Non è questo. Noi due non dovremmo avere rapporti, lo sai bene.”
“Cos’è questa stupidaggine! Chi ti ha messo in testa simili idee, il dottore?”
Me lo immaginavo oltre la trentina, tendente alla pinguedine, con una’incipiente
calvizie, dei baffetti curati, e soggetto a crisi di melanconia che mitigava ricorrendo
all’alcol.
“Ciao.”
“Allora ti aspetto!” Se ne andò. Ero felice come una Pasqua.
“Se sei riuscita a farmi mandare giù questa sbobba, vuol dire che sei la donna della
mia vita!”
Quasi arrivai a benedire la mia infezione agli occhi.
– II –
Il dottore, come promesso, mi rimediò un bastone da cieco, non proprio dritto, e
pieno di nodi. Ero costretto a impugnarlo come una torcia per non farmi venire i calli
alle mani. Mi esercitai a deambulare sul piazzale dell’ambulatorio. Le suore, in
particolare suor Cosima (la riconoscevo dall’alito sulfureo) mi spiegò come fare per
ottenere una buona esplorazione del terreno. Dovevo alternare il passo e l’oscillazione
del bastone: passo a destra, bastone a sinistra, e viceversa, una specie di passo
dell’oca. I primi tentativi furono tragicomici. Finivo regolarmente gambe all’aria, tra
lo scoppio di risa degli scolaretti che interrompevano la lezione per assistere ai miei
goffi tentativi di esplorazione; finché Amina non li richiamava all’ordine. A ogni
capitombolo un’imprecazione. Ne avevo un bel repertorio, con le suore che si
tappavano le orecchie per non ascoltare. In mezza giornata fui in grado di
deambulare, anche se lo stile lasciava a desiderare. Sembravo una gallina che
razzolasse l’aia. I ragazzini mi rifacevano il verso impunemente: “coccodè,
coccodè!”. Io stavo al gioco. Ero contento di offrirgli un minimo di svago. Mimavo
Charlot, ma loro col cavolo che lo conoscevano. Oppure fingevo di sollevare con il
bastone la veste alle suore, che scappavano da tutte le parti sacramentando. A volte
cadevo di proposito, perché sapevo che Amina mi stava osservando. Volevo
mettermi in mostra. Tutti mi stavano osservando, anche il dottore scommetto, l’unico,
c’era da supporlo, a cui la mia esibizione risultava sgradita. Alla fine ero ridotto uno
straccio e le suore dovettero strigliarmi come un cavallo prima di mettermi a letto.
Tentai di baciare Suor Cosima, ma fui respinto dal suo alito più che dalla sua volontà.
***
Nonostante il dispendio di energie, la sera non riuscii a chiudere occhio. Non avevo
altra distrazione che andare a sedermi in veranda a fumare una Tre Stelle. Avessi
almeno avuto una birra ghiacciata! Si stava avvicinando la stagione delle piogge.
L’aria era ferma e densa. Ti si appiccicava addosso come gelatina. Mi sventolavo
con il fazzoletto e tenevo a bada gli sciami di zanzare che infestavano la missione. La
fregatura era che non potevo prendere il chinino. Potevo scegliere tra la cecità e la
malaria. Come scoprii in seguito, il dottor Fumagalli aveva completamente sbagliato
la diagnosi, ma azzeccato la cura. Infondo a me andava bene così.
A un certo punto ascoltai dei passi felpati.
“È lei dottore?”
Non ricevetti risposta. Che fosse venuto a strangolarmi? Dubitavo che si trattasse di
uno dei padri comboniani, che erano soliti andare a letto con le galline. Doveva
essere uno dei degenti indigeni, perché camminava scalzo, cosa abituale tra gli
abissini. Offrii una sigaretta al mio silenzioso compagno. Esitò prima di prenderla, e
quando si decise a farlo quasi la ghermì.
“Come ti chiami?” gli chiesi.
“Johannef.” Parlava in modo strano, credo avesse un’afta o qualcosa del genere.
“Naro,” dissi porgendogli la mano che però lui evitò accuratamente di stringere.
Poco male. Gli abissini sono diffidenti di natura. Hanno preso troppe fregature da
noi italiani: con una mano li ricompensiamo e con l’altra li bastoniamo. Botte da orbi
se solo mancano di salutarti con deferenza. So di generali che si fanno baciare i piedi
dagli attendenti ascari per darsi lustro.
“Caldo, eh!” esclamai.
“Fì!”
“Che ti è capitato?” Non rispose. “Non sei di grande compagnia... ti è piaciuta la
mia esibizione di oggi?”
Lui fece per ridere ma finì per tossire; poi scatacchiò.
All’improvviso risuonò nel piazzale un urlo che mi fece gelare il sangue.
“Johannes!! Quante volte devo dirti che non devi lasciare il tuo padiglione per
nessun motivo? Tornatene immediatamente dentro.”
Il poveraccio si voltò e ritornò nel suo reparto (ignoravo quale fosse), col suo
incedere incerto. Era il dottore, al solito di umor nero.
“Ha deciso di suicidarsi?” mi rimproverò.
“Dottore, si può sapere perché è sempre così apprensivo, lei?” Sbottai. “Io faccio
del mio meglio per cercare di tirare su il morale a questi disgraziati, e lei rovina tutto
con il suo allarmismo fuori luogo. È un ospedale o un campo di concentramento,
questo?... Io e quell’uomo ci stavamo rilassando. Gli ho offerto una sigaretta. Che
male c’è?”
“Buon per lei che non gli abbia offerto un tiro! Sa con chi stava parlando?”
“Con Johannes. Cos’è, un disertore?”
“Magari, almeno avrebbe una speranza di sopravvivere: è un lebbroso!... nella
baracca isolata in fondo al piazzale c’è il padiglione dei lebbrosi. Nessuno, se non il
personale medico può avere contatti con loro.”
Mantenni i nervi saldi, ma devo dire che solo l’idea di essere stato a tu per tu con
un lebbroso mi fece rabbrividire. Ero convinto che andassero ancora in giro fasciati
dalla testa ai piedi e con i campanelli alle caviglie. Ecco a cosa si riferiva il dottore
quando sosteneva che “la musica li incanta”.
“Come facevo a saperlo?”
“Non le avevo forse detto di evitare di andarsene in giro per la missione?”
“Credevo non ci fosse nessuno. Sono uscito a prendere una boccata d’aria. Dentro
si soffoca.”
“Torni a letto e non si muova per nessun motivo,” disse allontanandosi. Odiava
quel posto, che c’era andato a fare? Era solo un “insabbiato”.
“Domani partirà per Addis Abeba,” aggiunse poi, quasi fosse una liberazione. Non
ne voleva proprio sapere di me.
“Sul serio!” la notizia mi restituì il buon umore. “A che ora?”
“Presto. Buonanotte.”
“Buonanotte a lei.”
Gettai la cicca a terra.
“Se Dio vuole, domani scappo da quest’inferno!”
– III –
Quando arrivò l’autocolonna della croce rossa, mi feci trovare pronto con lo zaino
in spalla. Prima però volevo salutare Amina. Non volevo partire senza prima averle
dato un bacio d’addio. Ma quando chiesi di lei alle suore mi dissero che aveva lasciato
la missione alle prime luci del giorno. In compenso ero circondato dai suoi scolari
che mi tiravano da tutte le parti reclamando una mia esibizione alla Ridolini.
“Doro! Doro!” gallina, urlavano. Volevano che gli facessi l’imitazione della
gallina.
Ne avevo punto voglia. Ero troppo deluso per il mancato saluto ad Amina, ma loro
insistevano. Così gliela feci per togliermeli di torno.
Mi incurvai, protesi il collo e zampettai sollevando una gamba alla volta. Ridevano
come matti. Ma ciò che li fece sbellicare, fu allorché raccolsi un sasso, lo nascosi tra
le cosce e lo lasciai cadere come se avessi fatto un uovo; poi mi piegai fin quasi a
terra per annusarlo. A quel punto afferrai il sasso e roteai il pugno in aria come se
volessi scagliarlo, allora i marmocchi fuggirono da tutte le parti. In questo modo mi
liberai di loro.
A Suor Cosima che mi applaudiva convinta chiesi dopo aver lasciato cadere il
sasso a terra: “Dov’è andata Amina?”
Lei non lo sapeva, ma probabilmente il dottore sì. Andai a chiederglielo,
facendomi strada con il bastone. Bussai alla porta del suo studio.
“Avanti!” Entrai. “Ah, è lei? Ancora qui? Non doveva partire?”
“Sono in procinto. Prima volevo salutarla e ringraziarla per il suo aiuto. Sono stato
un paziente un po’ impa... indisciplinato.”
“Non si preoccupi. Mi dispiace di non aver potuto fare di più per lei, ma qui alla
missione non abbiamo medicinali adatti alla cura della sua malattia, solo palliativi. Ad
Addis Abeba sapranno come curarla.”
“Avete fatto abbastanza,” dissi.
“Allora addio.”
“Dottore!”
“Sì?”
“Che ne è di Amina? Suor Cosima mi ha detto che ha lasciato la missione.”
“Suo nonno è moribondo, è accorsa al suo capezzale.”
“Non era il caso di accompagnarla? Forse si poteva fare qualcosa per il vecchio.”
“Non ha voluto. Su queste cose gli abissini se la sbrigano da soli. Non c’è il
trattamento sanitario obbligatorio in questo paese. Amina sta a cuore anche a me,
signor Rubino.” Da come lo disse ebbi la certezza che non si trattava solo di affetto.
“Gliela saluterò quando tornerà.”
“Ecco, io... vorrei scriverle due righe. Ho provato a farlo, ma non c’è verso...”
“Vuole che gliela scriva io!?”
“Gliene sarei molto grato.”
Il dottore sbuffò. Prese carta e penna.
“Detti.”
“Cara Amina. Scusa se parto senza salutarti, ma non posso trattenermi ancora. So
che sei tornata al villaggio perché tuo nonno sta male. Spero non sia niente di grave.
Vado a curarmi ad Addis Abeba. Non so quanto tempo starò via. Appena sarò guarito
tornerò alla missione e manterrò la mia promessa.” Il dottore ebbe un’esitazione.
Immaginai che si stesse chiedendo di cosa si trattasse: sì, Amina non gli era
indifferente, ed era crudele da parte mia chiedergli di farmi da tramite; ma non me
ne importava. Quella ragazza di cui conoscevo solo il nome, la voce e l’odore mi
aveva toccato il cuore e volevo rivederla a tutti i costi. Che il dottore mi odiasse pure.
“Ti farò avere presto mie notizie. Naro.”
Il dottore terminò di scrivere.
“Vuole firmarla?”
“Sì.”
Mi avvicinai alla scrivania e ci appoggiai il bastone contro. Il dottore mi mise la
penna in mano e la indirizzò sul foglio. Una volta firmato, restituii la penna al dottore
e gli strinsi la mano.
“Grazie.”
“Ora vada, o la lasceranno a piedi. Buona fortuna.”
“Altrettanto a lei.” Afferrai di nuovo il bastone, mi voltai per uscire, poi ristetti.
“Non avrebbe una sua foto?”
“Quale foto? Di Amina?” Annuii. “No, mi dispiace.”
Stava mentendo. Era stato gentile con me, ma non al punto da incoraggiarmi a
coltivare una speranza verso Amina, l’oggetto, neanche tanto segreto, del suo amore.
Forse pensava che ero il solito soldato che promette amore eterno alla prima bellezza
indigena che incontra, salvo poi dimenticarsene al primo bordello in cui si imbatte.
Ma non era così. Ripensandoci avrebbe anche potuto non consegnare la lettera ad
Amina; tuttavia mi fidai della sua onestà: era solo un insabbiato, dopotutto.
Fui caricato insieme agli altri feriti raccolti in tutta la regione su uno dei camion
della Croce Rossa, e attraverso un viaggio poco confortevole che sapeva tanto di
viaggio della speranza, trasferito ad Addis Abeba dove arrivai alcune ore dopo, con il
fisico e il morale a pezzi.
– IV –
Al nuovo ospedale Luigi Razza di Addis Abeba rimasi dieci giorni.
L’oftalmologo, il dottor Vannini, un toscano tutto lavoro e partito, effettuò una serie
di analisi e mi diagnosticò l’oncocercosi, la cosiddetta cecità fluviale, causata dalle
larve delle mosche nere che proliferano nei corsi d’acqua. L’abuso di chinino,
individuato dal dottor Fumagalli come concausa della mia cecità, non c’entrava
assolutamente niente.
Vannini mi curò con endovenose di un composto equivalente alla suramina di sua
preparazione, e antibiotici.
“La suramina la trova solo nella capitale,” mi informò, quasi a mettere le mani
avanti.
“Perché, dove siamo?”
“Intendo la Capitale dell’Impero: Roma!”
“Ah!... sta dicendo, dottore, che devo farmi curare in Italia?”
“Sarebbe meglio. Nella Capitale riceverebbe cure adeguate. In questa landa più di
tanto non possiamo fare.”
“Quando dovrei partire?”
“Subito. Oggi stesso. Non si scherza con questo genere di malattie. Potrebbe
comprometterle irrimediabilmente la vista.”
“Posso rimandare la partenza di qualche giorno?”
“A suo rischio e pericolo...”
“Due o tre giorni al massimo. Mi creda, è importante.”
“Così importante da rischiare la cecità?”
“Sì.”
In realtà no, ma ero convinto che il dottore stesse esagerando i rischi.
“Sta a lei decidere. La vista è sua.”
“Grazie.”
Mi ronzava un’idea per la testa. Volevo rivedere Amina prima di partire per
Roma. Prima però dovevo trovarla e convincerla a venire ad Addis Abeba, il tutto
all’insaputa del dottor Fumagalli. Pensai di rivolgermi a Tesfay e, la guida ahmara
che mi aveva accompagnato nel viaggio a Lalibela e che mi aveva condotto alla
missione dopo che mi ero ammalato. Ma come facevo a rintracciarlo?
Chi conoscevo ad Addis Abeba? Sfortunatamente nessuno. O meglio sì, uno lo
conoscevo, sempre che si trovasse ancora in città: Carmine Trafficante, un
contrabbandiere italo-americano con cui avevo effettuato il viaggio in camion da
Asmara ad Axum. Solo lui poteva aiutarmi. C’era un unico posto in cui trovarlo: la
Maison di Madame Brunette, il più famoso bordello della capitale. Carmine era suo
ospite fisso.
L’ideale sarebbe stato andarci di persona. Ma come facevo? L’unica era chiedere
un favore a qualcuno.
Uno degli infermieri faceva al caso. Semprini si chiamava, un romagnolo
taciturno. Lo invitai a fumare una sigaretta sul ballatoio dell’ospedale. Gli chiesi
com’era la vita nella capitale Abissina, in particolare quali tipo di distrazioni poteva
offrire a un giovane come me. Mi rispose metà in italiano, metà in dialetto: “Il
Cinema Italia! A fè dei gran film!... ci ho visto S(c)ipione l’Africano, con il Ninchi, il
Giachetti e l’Isa Miranda! Sorbole, che femmina!”
“Intendevo qualcosa di più... eccitante.” Cominciai a fare una serie di smorfie, ma
lui col cavolo che capiva. E dicevano che era sveglio. “Insomma, qualcosa di più...
come posso dire? Sollazzevole!?”
“Mi hanno parlato molto bene di Madame Brunette,” tagliai corto.
Finalmente capì.
“Ah, il burdell!”
“Che vuoi? Un cieco al cinema rischia di annoiarsi.”
Semprini scoppiò a ridere.
“Scusa, fradèl!”
“Tu ci sei mai stato?”
“Al burdell!?... forse... una volta, ma non mi son trattenuto molto!... Ho saputo che
agli invalidi applicano uno sconto.”
Carino! E meno male che non si era trattenuto molto. Gli dissi la verità.
“Ti posso chiedere un favore?”
Si mise sulla difensiva.
“A me?”
“Dovresti cercarmi una persona.”
“Una putanasa?”
“Che putanasa! Parlo di Carmine, il mio compagno di viaggio. Te ne ho parlato.”
“A me!?... Sì, mi pare...”
Non sembrava entusiasta della prospettiva. Preferiva di gran lunga la “putanasa”.
Non mi sembrava così sveglio come dicevano, a dire la verità.
“Dovresti fare un salto al bordello. Sicuramente lo trovi lì.”
“Di’ un po’, perché lo cerchi? Ti deve dei soldi?”
“Niente soldi!... Mi serve il suo aiuto per una certa faccenda; ma senza di te non
saprei come rintracciarlo... naturalmente ti pagherei il disturbo.”
Fece la parte.
“Se decido di aiutarti è mica per denaro...”
“Lo so! Ma sai com’è? Se entri in un bordello, anche senza trattenerti, per non dare
nell’occhio è meglio se consumi qualcosa. E a quanto ne so, Madame Brunette è
molto cara. Vuoi una sigaretta?”
Gli porsi una Tre Stelle avvolta in una banconota da 100 Lire. Lui la intascò svelto
e disse: “Che devo fare?”
“Trovi Carmine e me lo porti.”
“E basta?”
“E basta!”
“E se non ci riesco?”
Scrollai le spalle.
“Fatti una bella... bevuta in mio onore.”
Semprini scoppiò a ridere.
“Affare fatto, fradèl.”
–V–
Semprini fece quanto gli avevo chiesto. Quella sera stessa si recò al bordello di
Madame Brunette, trovò Carmine e gli disse di venire all’ospedale il mattino dopo.
Carmine fu puntuale, anche se non proprio mattiniero. Mi accolse con: “Così
conciato sembri una mummia, paisà!”
“Che piacere rivederti!”
Ci abbracciammo.
“Perché non sei trasuto pure tu allo brothel? Ci sta, Suzette, una francese arrivata
fresca fresca da Marsiglia con due zizze accussì!”
“Vuoi dire Susette?”
“Yeah! La conosci?”
“No.” Come facevo a spiegargli la differenza tra Susette e Suzette? Andai al
dunque. “Ascolta Carmine, ti ho fatto venire qui perché mi serve il tuo aiuto. Ti
avverto, non accetto rifiuti.”
La cosa gli suonava losca e quindi lo intrigava.
“Di che si tratta, boss?” mi chiamava boss.
Gli dissi il piano. Accettò immediatamente, soprattutto perché comportava dei
rischi.
“Tu vieni con me, right?”
“No, io ti aspetto in albergo. Non posso assentarmi dall’ospedale troppo a lungo,
noterebbero la mia assenza. Ci penserà Semprini a portarmi a destinazione quando
sarà il momento.”
“Okay , va bene.”
Ci stringemmo la mano.
“Ti sono debitore. Come si dice stai attento in inglese?”
“Watch out!”
“Ecco, watch out!”
“Tranquillo, boss! Dalle mia parti si dice: se ti ferma uno sbirro, prima di aprire il
finestrino scoreggia. Do y ou know what I mean, right? Aggia travagliato co’ Alfonso
Capone...” eccetera eccetera. Si vantava di aver fatto parte della banda di Al Capone
durante il proibizionismo. Secondo me le sparava grosse. A modo suo era un
brav’uomo, però. Ovunque ci fosse qualche traffico lui si precipitava.
Contrabbandava di tutto, dal caffè all’avorio.
Il piano prevedeva che Carmine si recasse alla “teccera” nei pressi di Socotà,
dove avevo incontrato Tesfay e la prima volta, con una lettera per lui e una per
Amina. Tesfay e avrebbe consegnato ad Amina la missiva, nella quale la invitavo a
farsi trovare all’incrocio per Addis Abeba il dato giorno alla data ora, dove Carmine
sarebbe passato a prenderla con il camion per portarla nella capitale. Doveva solo
farsi trovare pronta.
C’erano molte incognite sulla riuscita del piano. Prima, Carmine avrebbe potuto
non rintracciare Tesfay e. Seconda, Tesfay e avrebbe potuto rifiutare l’incarico – ma
dipendeva dalla giusta somma di denaro, e comunque mi fidavo di lui. Terza, Amina
avrebbe potuto non presentarsi all’appuntamento. Ma ero convinto che Amina avesse
tanta voglia quanto me di incontrarci.
Sarebbe stato più semplice mandare Carmine direttamente alla missione, ma
temevo che il dottor Fumagalli si sarebbe insospettito vedendo arrivare un camionista
italo-americano che chiedeva di Amina.
A preoccuparmi maggiormente era proprio Carmine. Temevo la sua reazione una
volta che si fosse trovato solo con Amina, che se ne sarebbe approfittato insomma.
Non aveva una grande considerazione delle “morette”, che per lui erano tutte
puttane. Infatti quando gli esposi il piano mi chiese se per caso mi ero bevuto il
cervello. Espormi a un rischio del genere per una “faccetta nera”. Ma lo convinsi che
Amina era speciale e valeva addirittura la pena morire per lei. E dire che fino a quel
momento non sapevo ancora che aspetto avesse!
– VI –
Da due giorni aspettavo impazientemente che Semprini mi avvertisse che Amina
era arrivata sana e salva. Lei e Carmine erano in ritardo sulla tabella di marcia.
Temevo gli fosse capitato qualcosa, magari un incidente stradale, oppure che li
avessero assaliti i predoni – non era inusuale – lungo una delle piste e Amina fosse
stata rapita e venduta come schiava; o che avesse dato buca a Carmine, il quale poi
aveva proseguito per Gondar senza tornare indietro ad avvertirmi. Non avrei mai
saputo la verità.
Perfino il dottor Vannini notò il mio nervosismo durante la visita giornaliera di
controllo. Mentre mi versava il collirio negli occhi mi rimproverò: “Se continua a
muoversi l’accecherò!”
“Mi scusi, dottore. Non ne posso più di stare senza fare niente. Lei crede che
sarebbe un’imprudenza passare mezza giornata in città? Mi aiuterebbe a distrarmi. Mi
creda, ne ho davvero bisogno. Non sono abituato a starmene in panciolle.”
Temevo mi sarebbe arrivato un ceffone, invece Vannini si dimostrò comprensivo.
“Che genere di distrazione?”
“Oh, niente di particolare. Una birra con un po’ di musica. Mi basta questo.”
“Niente alcol, sta assumendo antibiotici.”
“D’accordo, allora tè.”
“Come pensa di lasciare l’ospedale? Chi l’accompagnerebbe?”
Gli diedi una versione di comodo.
“Le dirò, dottore, se ne occuperebbe Semprini. Siamo già d’accordo.”
“Semprini?”
“Fuori dell’orario di lavoro, s’intende!”
“Voglio sperarlo!”
“Andrà tutto bene, si fidi.”
“L’avviso, signor Rubino, se dovesse succederle qualcosa io declinerei ogni
responsabilità. Direi che è stata un’iniziativa sua e di quel buono a nulla di Semprini,
senza consultarmi. Non mi faccia pentire della mia generosità.”
“Le do la mia parola, dottore.”
Non la smettevo più di ringraziarlo, quasi arrivai a baciargli le mani. Era un
fascista convinto, è vero, ma anche un bravo medico e una persona di buon cuore.
Non tutti erano delle canaglie come il mio padrino.
Finalmente il terzo giorno Semprini mi raggiunse in camera e mentre mi
sistemava le lenzuola mi sussurrò: “Il treno è fermo alla stazione”.
“?”
“Carmine mi ha detto di dirti così.”
“Sì, ho capito. Chiama un taxi, intanto mi cambio.”
Stavo dando fondo a tutti i miei risparmi.
Indossai camicia e pantaloni puliti, presi la mia Agfa a soffietto, con la quale
intendevo chiedere a Semprini di scattare una fotografia ad Amina per avere un suo
ricordo, c’infilai un rullino nuovo – quello sapevo farlo anche alla cieca – e l’avvolsi
nella giacca per non dare nell’occhio. Insieme a Semprini mi recai in taxi
all’appuntamento con Carmine, che aveva fissato una stanza in un tugurio dalle parti
della stazione. Mentre ci dirigevamo alla pensione porsi a Semprini la macchina
fotografica.
“La sai usare?”
“Un po’.”
“Tienila tu. Ti chiederò di scattare qualche foto ad Amina.”
“Che tipo di foto?”
“Pornografiche!... Foto ritratto, Semprini! Voglio conservare un suo ricordo. Se
gliele scatto io vengono mosse.”
Semprini scoppiò a ridere.
“Hai ragione, soccia!”
***
Che la pensione fosse una spelonca me ne accorsi dalla puzza appena ci misi
piede. Carmine mi aspettava seduto con una birra in mano.
“Lei dov’è?” gli chiesi, senza nemmeno salutarlo.
“Su in camera!”
“Perché ci avete messo così tanto? Ci sono stati problemi?”
“Ti va una birra?”
“No.”
“Tanto paghi tu, boss.”
“Ti ho detto che non la voglio. Senti se Semprini ne vuole una.”
Il romagnolo se ne stava per conto suo. Avevo notato un certo nervosismo in lui.
Forse temeva che qualcosa andasse storto. Io non ero meno nervoso, del resto. Ma il
mio era un altro tipo di nervosismo, somigliava più alla smania. Mi sembrava di aver
organizzato una “fuitina”. Speravo solo che non terminasse a pistolettate come dalle
mie parti.
“Relax, boss!” m’invitò Carmine. “Che c’è, non sei mai andato con una
sciarmutta?”
“Amina non è una sciarmutta, come devo dirtelo?... Dammi un sorso di birra.” Mi
porse la bottiglia, e in barba al divieto del dottore di assumere alcolici le diedi una
lunga sorsata.
“Vacci piano!” fece Carmine riprendendosi la birra.
Era teg, la birra abissina. Faceva vomitare, ma Carmine mandava giù tutto.
“Com’è?” chiesi al mio compare.
“La birra?”
“Amina!” Gli spiegai imbarazzato: “Ti confesso una cosa: non l’ho mai vista in
faccia!”
Carmine scoppiò a ridere. Pensava che scherzassi.
“C’mon, y ou’re kiddin’!”
“Dico sul serio. Quando sono arrivato alla missione già non ci vedevo più.”
S’incazzò di brutto. Temevo mi mollasse un cazzotto. Tutta quella fatica per portare
ad Addis Abeba un’abissina di cui nemmeno conoscevo l’aspetto. Invece scoppiò a
ridere. Non la smetteva più. Al termine fece un paio di apprezzamenti.
“Son of a bitch! Asshole!... e che ha di speciale? Ce l’ha di traverso?... vuoi sapere
com’è, boss? Una che non potrebbe mai vivere nel Minnesota!”
“Perché? È molto magra? Patirebbe il freddo?”
“Qua’ freddo, boss! Non tiene ‘e zizze!... ah, ah, ah!”
“Vuoi dire che ha poco seno?”
“È piatta come il Ponte di Broccolino!... Lo sai qual è la maggiore città del
Minnesota, boss?” Scossi la testa. “Minneapolis! Tutti i siciliani che aggia conosciuto
in America volevano andarci ad abitare. Li ha fatti scappare il freddo... Ah, ah, ah!”
In quel momento non ero in vena di scherzi.
“Veramente, Carmine. Che aspetto ha?”
Rispose seriamente.
“Milk&coffee, boss!”
“Vuoi dire che è mulatta?”
“Mulatta, right!”
“Sei sicuro?”
“Sure!”
Era un’ottima notizia. Sotto sotto preferivo le mulatte alle nere. Mi lamentai con lui
dell’albergo.
“Non hai badato a spese!”
S’incazzò di nuovo. Gli americani con i soldi non scherzano. Spendono solo se ne
vale la pena, non scialacquano come noi. Evidentemente per Amina non ne valeva la
pena; almeno secondo lui.
“Dove la dovevo portare, boss, al Grand Hotel? Nemmeno la facevano entrare.”
Aveva ragione, nella maggior parte degli hotel della capitale Amina non sarebbe
stata accettata come cliente. “Sali da lei. Non starci troppo, che devo ripartire tonight.
Ho un grosso carico per Gondar.”
Non gli chiesi di dirmi di cosa si trattava. Era meglio se non lo sapevo.
Semprini mi pose il braccio e mi accompagnò al piano. Era teso come una corda
di violino.
“Che hai? Perché sei così teso?”
“Non vorrei che ti succedesse qualcosa. Ci andrei di mezzo io.”
“Perché dovrebbe succedermi qualcosa?”
“Chi può dirlo!”
Mi condusse fino alla soglia della stanza.
“Aspetto sotto,” disse tornando indietro.
Rimasi qualche secondo davanti alla porta cercando di ascoltare i suoni che
provenivano dall’interno, ma da dentro non ne proveniva nessuno. Forse Amina si era
addormentata. Presi un bel respiro e bussai.
“Chi è?”
Riconobbi il suono dolce della sua voce.
“Naro.”
La porta si aprì e fui assalito dal suo intenso profumo di rose selvatiche.
“Ciao.”
“Ciao.”
Mi prese per mano e mi portò all’interno della stanza, che era molto piccola.
“Grazie per essere venuta,” le dissi.
“Speravo di rivederti. Ma pensavo: ‘Sei un’illusa, Amina!’”
“Perché dici così? E la lettera?”
“Quale lettera?”
“Quella che ti ho scritto prima di lasciare la missione? Il dottore non te l’ha data?”
“No.”
Figlio di puttana! Che essere meschino! Tradire la fiducia di un cieco! Ero stato un
ingenuo a fidarmi di lui.
Ero impacciato, non sapevo cosa dire. Mai stato bravo in queste situazioni. D’altra
parte la stanza era così piccola che potevamo solo stare in piedi o seduti sul letto.
Prese lei l’iniziativa. Ci sedemmo sul bordo del letto, mani nelle mani.
“Adoro il tuo profumo!” le dissi.
“Per qualcuno è troppo forte.”
Certo, il dottore! Che ne capisce quello! È abituato allo iodio e alla canfora.
Tenevo le mani appoggiate sul suo grembo. Notai che indossava la tenuta da
insegnante, gonna e camicetta.
“Hai la divisa?”
“Non potevo indossare il futa. Non mi avrebbero fatto entrare.”
“Chiara come sei ti avrebbero scambiato per italiana.”
“Come fai a saperlo?” Mi passò una mano davanti agli occhi. “Ci vedi di nuovo?”
“L’ho capito dal profumo della tua pelle,” risposi. Le odorai un braccio. “L’odore
delle nere è inconfondibile.”
In pratica le stavo dicendo che le nere puzzano. Mi diede un buffetto.
“Bugiardo, te lo ha detto Carmine!...” Mi tenne il broncio per un po’, poi disse: “E
se fossi nera?”
“Non cambierebbe niente. Quello che ho fatto per te non l’ho mai fatto per
nessuna. Nemmeno in Italia.”
Credo che arrossisse. Cominciai ad accarezzarla.
“Com’è andato il viaggio?”
“Ho dormito tutto il tempo.”
“Carmine si è comportato bene?”
“Sì. Anche se ogni tanto sollevava la tenda della cuccetta per osservarmi.”
“Ma si è comportato bene?” ribadii preoccupato.
“Sì. Se avesse provato a toccarmi gli avrei cavato gli occhi.”
Però, che carattere! Stupenda. Continuammo a chiacchierare, anche se il tempo
stringeva.
“Hai avuto problemi con il dottore?”
“Un po’. Gli ho detto che tornavo al villaggio per il matrimonio di una cugina.
Voleva farmi accompagnare da uno dei miei studenti, ma io l’ho convinto che non
era giusto far perdere dei giorni di scuola al ragazzo.”
“Sei stata in gamba. Come sta Suor Cosima?”
“Ha sempre molto da fare. Le sei rimasto nel cuore.”
“Aleggio nella missione, come il suo alito!”
Scoppiò a ridere. Quando il suono della sua risata scemò, rimanemmo qualche
secondo in silenzio; quindi le chiesi: “Posso accarezzarti i capelli?”
Lo feci senza attendere la sua risposta. Erano profumati di olio di eucalipto. Non
avevano quel disgustoso odore di burro rancido delle donne abissine. Era una ragazza
di buone maniere che non aveva nulla da invidiare alle nostre. Accarezzandole le
braccia nude sentii che aveva la pelle liscia e morbida, con una leggera peluria.
Gliele bacia. Poi le sciolsi i capelli. Le arrivavano a metà schiena. Erano crespi. Mi
dava l’impressione che fossero ramati. Le sfiorai le labbra con la bocca.
Lei si irrigidì.
“Posso darti un bacio?” le chiesi.
Mi lasciò fare. Ci demmo un bacio un po’ impacciato. Il secondo fu meglio, ma
solo il terzo assomigliò a un vero e proprio bacio da innamorati. Morivo dalla voglia di
averla. La sua pelle liscia e il suo profumo voluttuoso m’incendiavano i lombi; tuttavia
non mi sentivo a mio agio con lei così sottomessa. Cominciai a sbottonarle la
camicetta e fu come spogliare un manichino della Rinascente.
“Che cos’hai?” le chiesi. “Non mi vuoi?”
“Non è niente.”
“Sto correndo troppo?”
“Correresti troppo comunque.”
Mi sorse un dubbio. Fino a quel momento avevo dato per scontato che lei avesse
fatto le sue esperienze. Di solito le abissine sono molto precoci in fatti di rapporti
sessuali. I soliti pregiudizi degli occidentali.
“È la prima volta?”
“Che mi chiedono il permesso sì.”
Mi sentivo un idiota.
“Ti chiedo scusa. Non giudicarmi male. Vorrei stare con te tutto il giorno, ma
purtroppo Carmine deve ripartire e tu devi tornare alla missione con lui... ma non
devi sentirti obbligata. Possiamo restare qui a chiacchierare se ti fa piacere...”
“Tu sei diverso, Naro, mi piaci. C’è qualcosa in te...”
“Che cosa?”
“Non saprei. Sei... dolce.”
“Lui no, invece?”
“Chi?”
“Il dottore?”
“Il dottore non mi ha mai toccata.”
Non so perché, ma me lo aspettavo. Presi l’iniziativa e cominciai a baciarle il collo
e il petto.
“Perché non resti con me? Potremmo andarcene ad Asmara.”
“Le abissine non sono ben viste dalle asmarine, si sentono superiori a noi.”
“Fesserie! Chi te lo ha detto?”
“È così Naro. Tu non puoi capire.”
Aveva ragione. In realtà non ne sapevo niente delle donne abissine. Dall’alto della
mia superiorità culturale pensavo di aver capito tutto di quella gente e invece non
avevo capito un bel niente.
“Va bene, allora resteremo ad Addis Abeba.”
Faceva un po’ la ritrosa.
“Lui verrebbe a riprendermi.”
“Che... ci provi!” le dissi mentre continuavo a baciarla.
Mi respinse.
“No. Devo tornare alla missione, non posso abbandonare i miei studenti.”
Smisi di baciarla.
“Aspetteremo che finisca l’anno.”
“Sarai molto lontano a quel tempo.”
Ero deluso. Non voleva fidarsi di me. Già mi ero rassegnato a perderla, quando
sentii le sue mani su di me. Mi fece sdraiare e cominciò a spogliarmi, dapprima la
camicia, poi i pantaloni, infine le mutande e i calzini. Sembrava pratica, ma poi
riflettei che come si spoglia un uomo doveva saperlo fin troppo bene, visto che dava
una mano in ospedale. Quindi cominciò a spogliarsi lei e fu il momento più eccitante,
perché dai bottoni della camicetta che si aprivano, alla gonna che cadeva ai suoi piedi
frusciando e alle mutandine che si sfilavano a poco a poco, immaginai tutte le
promesse di quei gesti meglio che se li avessi visti con gli occhi. È il ricordo più bello
che ho di lei.
Si coricò al mio fianco. Mi voltai verso di lei e ripresi a baciarla: gli occhi, il naso,
la bocca, poi il collo snello e i seni, piccoli e sodi – e non piatti, come diceva Carmine,
che era abituato alle prostitute maggiorate –, dalle grandi areole che leccai tutte. E i
capezzoli turgidi e dolci come datteri. Questa volta non oppose resistenza.
Mi afferrò le spalle e allacciò le gambe attorno ai miei fianchi. Ero eccitatissimo.
Lei mi voleva e anche io la volevo. Girandomi su un fianco, mi sporsi a cercare
tastoni i pantaloni sul pavimento, ma non riuscii a trovarli. Lei mi chiese: “Che cosa
cerchi?”
“I pantaloni,” le risposi imbarazzato.
Mi vergognavo di dirle che stavo cercando il profilattico che tenevo infilato nel
portafoglio. Sembrava non capire che cosa stessi facendo. Quel particolare mi
confermò che non era mai stata con un bianco, altrimenti lo avrebbe saputo. Per
quanto ne so, infatti, gli uomini abissini non prendono precauzioni.
“Vuoi che ti aiuto?” mi chiese allentando la stretta delle gambe.
“Non importa!”
Rinunciai a prendere il portafoglio. Temevo potesse equivocare e credere che
volessi pagarla, come una volgare prostituta. Sarebbe stato davvero il colmo.