Andrea Orsucci Biologia e `storia delle civiltà`: alcune nuove

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Andrea Orsucci Biologia e `storia delle civiltà`: alcune nuove
Andrea Orsucci
Biologia e ‘storia delle civiltà’: alcune nuove prospettive di ricerca
Il tema da svolgere – le relazioni tra ‘individualità biologica’ e ‘artificio’ – risulta
interessante da diversi punti di vista, dal momento che, per un verso, viene sempre più spesso
proposto da nuove ricerche sorte nel territorio di confine tra storiografia e scienze biologiche e, per
un altro verso, costringe a fare i conti con questioni largamente trascurate dall’indagine filosofica
del Novecento.
Vorrei quindi richiamare all’attenzione, nel corso del mio intervento, valutazioni e prese di
posizione non di rado affrontate separatamente: da un lato alcuni aspetti tra i più rappresentativi, a
proposito dell’argomento da discutere, della filosofia novecentesca; dall’altro, determinate analisi di
problemi e dati di fatto, spesso concreti e circoscritti ma esemplari nelle loro implicazioni più
generali, attraverso cui storici e biologi iniziano in questi anni a elaborare una ‘teoria della
complessità’ in grado di dar conto di innumerevoli e sotterranee interazioni tra storia delle civiltà ed
evoluzione naturale.
1.
Max Scheler, nella seconda metà degli anni ’20, contrappone l’uomo agli altri organismi
viventi, definendolo un «animale malato», il grande «dilettante della vita», destinato a rappresentare
l’eccezione e lo ‘scandalo’ nell’ordine della natura1. La specie umana, a suo giudizio, smentisce la
vulgata darwiniana: lo sviluppo delle facoltà intellettuali risulta, in questo caso, non da un graduale
e crescente adattamento, bensì da una singolare incapacità nell’adattarsi all’ambiente. L’incremento
dell’«artificio» compensa, in definitiva, le carenze dell’«individualità biologica». Scheler si serve,
nel precisare quest’idea, di un linguaggio figurato ma molto preciso: sul piano filogenetico, l’uomo
costituisce «in natura un vicolo cieco (eine Sackgasse), in quanto essere vitale», e le sue prerogative
scaturiscono da «una fatale carenza di evoluzione biologica».
Con considerazioni simili, d’altra parte, Scheler riprende tacitamente e rielabora le idee di
un paleontologo, H. Klaatsch, di cui già si era servito in un saggio del 1915, Zur Idee des
Menschen, al momento di collegare ‘scienza della natura’ e antropologia filosofica: «Non nuovo
adattamento ai rapporti vitali e lotta per l’esistenza, ma al contrario parziale conservazione dei più
antichi caratteri dei vertebrati, ad esempio della mano con cinque dita».
In quegli anni, nel periodo in cui più infuriava la ‘ribellione a Darwin’, il paleontologo H.
Klaatsch aveva cercato di far vedere come «l’uomo, in determinati aspetti della sua organizzazione
1
M. Scheler, Philosophische Weltanschauung (1929), in Späte Schriften (= Gesammelte Werke, Bd. 9), Francke, Bern
u. München 1976.
non rappresenti affatto il punto finale di lunghe catene evolutive, ma abbia al contrario
semplicemente conservato caratteristiche […] più ampiamente diffuse in epoca anteriore». Proprio
la struttura anatomica della mano – affermava Klaatsch – rappresenta un residuo arcaico, in cui
resta traccia della conformazione degli arti, ancora non specializzata, di molti mammiferi
dell’Eocene. In epoca successiva, in base alla ricostruzione del paleontologo, questi caratteri
anatomici ancora largamente ‘indifferenziati’ tendono a scomparire, dato che le mani di molti
antropoidi presentano sempre più «adattamenti speciali a determinati modi di vita, di movimento, di
nutrimento». In questo senso, nell’ottica di Klaatsch, le estremità degli arti risultano nei primati più
«evolute» e progredite, mentre nell’uomo conservano tratti più arretrati, ancora simili al modello
‘primitivo’ che precede le grandi ‘specializzazioni’ del Terziario.
L’immagine scheleriana dell’uomo come «dilettante della vita», strettamente legata agli
orientamenti ‘antidarwiniani’ dell’epoca, viene così svolta nell’ambito di una radicale separazione
tra ‘artificio’ (il contrassegno dell’«animale malato») ed individualità biologica.
Nello stesso periodo anche Heidegger, in particolare nel corso accademico del 1929-302
passa in rassegna alcuni significativi indirizzi della biologia del tempo, interessandosi del
‘neovitalismo’ di Hans Driesch, ma anche delle ricerche di Jakob von Uexküll rivolte a tratteggiare
un’«ecologia» delle forme organiche e a sottolineare «il significato essenziale della connessione
dell’unione dell’animale col suo ambiente».
In queste lezioni viene più volte ripresa – contro la nozione darwiniana di adattamento –
l’idea una piena corrispondenza tra ‘mondo interiore’ (Innenwelt) e ‘mondo-ambiente’ (Umwelt)
nella scala degli esseri viventi («L’organismo non è qualcosa a sé e in seguito si adatta»). La
medesima prospettiva riappare talvolta, in forma concisa, anche in testi successivi. Nel 1933-34
Heidegger ad esempio ricorda – tralasciando di citare von Uexküll – che in natura, ma non per
l’uomo, «l’ambiente è qualcosa di essenziale, che appartiene all’organismo»3. In seguito,
nell’ambito di una discussione di testi nietzscheani condotta nel 1938-39, Heidegger, stavolta
citando esplicitamente il biologo, propone una formulazione solo apparentemente paradossale:
«L’organismo non finisce con i confini del suo corpo»4.
Uexküll, un autore letto attentamente negli anni ’20 non solo da Heidegger ma anche da
Spengler, si proponeva di rovesciare un assunto basilare della dottrina di Darwin. A suo giudizio,
«non è la natura, come comunemente si dice, a costringere gli animali all’adattamento»; sono
2
M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit (lezioni del semestre invernale 192930), in Gesamtausgabe, Bd. 29-30, Klostermann, Frankfurt a. M. 1983.
3
M. Heidegger, Vom Wesen der Wahrheit (lezioni del semestre invernale 1933-34), in Sein und Wahrheit
(Gesamtausgabe , Bd. 36-37), Klostermann, Frankfurt a. M. 2001
4
M. Heidegger, Zur Auslegung von Nietzsches II.Unzeitgemässer Betrachtung (lezioni del semestre invernale 1938-39),
in Gesamtausgabe, Bd. 46, Klostermann, Frankfurt a. M. 2003
piuttosto gli organismi che selezionano e circoscrivono il proprio ambiente, un «mondo percettivo»
(Merkwelt) con cui finiscono per costituire un’«unità funzionale»5. I diversi esseri viventi non si
scontrano per affermarsi e predominare nello stesso milieu, come ritiene la darwiniana ‘lotta per
l’esistenza’, dato che agiscono all’interno di innumerevoli ‘mondi vitali’ tra loro indipendenti.
Sulle critiche di Uexküll a Darwin, che permettono di ribadire il distacco della specie umana
dal rimanente mondo organico, si era già soffermato Scheler, ben prima di Heidegger, nel suo
trattato di etica del 1913-16: i biologi ritengono erroneamente – si può leggere in quest’ultimo testo
– che l’evoluzione realizzi un adattamento crescente entro il medesimo ambiente, statico e
‘predefinito’, e non riescono a «vedere che […] le specie, in base alla loro organizzazione, si
ritagliano […] ambienti assolutamente diversi»6.
2.
Sia Scheler che Heidegger, nel trattare dei rapporti tra ‘artificio’ e ordine naturale,
prestano così ascolto a biologi che intendono mettere in discussione Darwin e scorgono nella sua
teoria una sorta di ‘monismo’ evolutivo, rigidamente definito dall’«adattamento» e incapace di dar
ragione, nell’«economia naturale», della pluralità dei percorsi e dei momenti di conflittualità o di
equilibrio instabile.
L’evoluzionismo, in gran parte del pensiero filosofico del Novecento, viene riletto, in
definitiva, attraverso l’ottica di Spencer, diventando parte integrante di una teoria che – per
richiamare un riferimento letterario, una pagina del Martin Eden di Jack London – in modo
sistematico «riduceva tutto all’unità […] e presentava un universo realizzato con tanta concretezza
da renderlo simile a quei modellini di nave che i marinai costruiscono all’interno delle bottiglie».
Sarebbe difficile ritrovare, nell’ambito della filosofia del secolo scorso, immagini più
articolate della prospettiva darwiniana. L’esigenza di una ‘diversa lettura’ di Darwin viene d’altra
parte tacitamente avanzata, sul piano dell’indagine specialistica, da alcune ricerche assai recenti,
come quelle di Jared Diamond e di John R. McNeill, che finiscono per mettere in discussione,
affrontando le trasformazioni ambientali del ventesimo secolo o la supremazia planetaria della
civiltà occidentale, le tradizionali separazioni tra ‘storia della civiltà’ e biologia, tra ‘natura’ ed
evoluzione culturale.
Qualche riferimento concreto – comunque collegato al piano delle interazioni tra
‘individualità biologica’ e ‘artificio’ – può servire, pur nella sua specificità, per introdurre
considerazioni più ampie. McNeill discute, nella sua monografia, di fenomeni naturali – ad esempio
il virus della peste bovina comparso in Africa dopo il 1890 – che attraverso le loro immediate
5
J. von Uexküll, Umwelt und Innenwelt der Tiere, Springer, Berlin 1909
M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1913-16), in Gesammelte Werk , Bd. 2,
Francke, Bern u. München 1954
6
conseguenze (lo sterminio del patrimonio zootecnico, la crisi delle tradizionali comunità pastorali)
finiscono per avere ripercussioni anche sul piano ‘artificiale’ della storia etico-politica e degli
orientamenti culturali, favorendo una rapida e sorprendente diffusione di fedi escatologiche
(cristianesimo, islamismo), nelle società africane del primo Novecento. In questo caso, d’altra parte,
lo stesso processo naturale, suggerisce ancora McNeill, si compie nel segno dell’artificialità e
risulta largamente ‘innaturale’, dato che il nuovo virus si propaga a partire dal bestiame introdotto
in Somalia dalle autorità italiane nel corso della campagna coloniale del 1889. Anche in altre
sezioni del suo lavoro, McNeill mostra quanto siano esili i confini tra biologia e ‘storia delle
civiltà’: «La storia ecologica del pianeta […] e la storia socio-economica dell’umanità acquistano
pienamente un senso solo se considerate unitariamente».
Per comprendere la ‘volontà di modernizzazione’ così pressante nel corso del ventesimo
secolo, occorre fare i conti, sostiene ancora McNeill, con imponenti e temerarie trasformazioni
dell’idrosfera («progetti grandiosi, obiettivi straordinari, tempi di realizzazione strettissimi»)
avvenute nei più diversi paesi: sconsiderati progetti idroelettrici, costruzioni di dighe immani,
ciclopici programmi di canalizzazione delle acque in base alle esigenze di irrigazione. Per imparare
a riconoscere la complessità (e quindi la fragilità ma anche la forza) degli ecosistemi, si deve
riflettere sui drammatici fallimenti degli sforzi rivolti a ‘razionalizzare’ il giuoco dei fattori
ambientali: il prosciugamento del lago d’Aral provoca la desertificazione di tutto il territorio
circostante; la costruzione della diga di Assuan riduce drasticamente la fertilità dell’intera regione e
determina sia il restringimento del delta del Nilo che l’impoverimento ittico e una crescente salinità
del Mediterraneo orientale.
McNeill, affrontando in questo modo le interazioni tra ordine naturale e artificio umano,
riconosce che «la storia del pianeta e la storia dei popoli rimangono strettamente connesse […].
Separate l’una dall’altra, risultano poco comprensibili». Anche Diamond, a proposito di problemi
diversi, giunge con la sua monografia del 1997 a conclusioni analoghe. La sua indagine si occupa
del dinamismo storico e delle capacità espansionistiche della civiltà occidentale – un classico
problema weberiano, riproposto stavolta a partire dai più sofisticati strumenti della biologia
contemporanea –
e vuol «cercar di capire come mai le storie dei continenti sono state così
diverse». L’egemonia planetaria dell’Occidente è da indagare, secondo Diamond, tenendo presente
il modo in cui sul piano della storia e dei rapporti tra culture diverse si rovescia l’ininterrotta
pressione di un complicato giuoco, tradizionalmente ignorato dalla Kulturgeschichte, che coinvolge
innumerevoli fattori ambientali. Nietzsche suggeriva di misurarsi con la società contemporanea
anche ricorrendo, come viene ribadito nella seconda dissertazione della Genealogia della morale, al
«metro della preistoria (la quale preistoria d’altra parte esiste in ogni epoca o è sempre di nuovo
possibile)». Diamond, che non cita Nietzsche, muove da un assunto analogo e si propone di far
vedere a qual punto le «moderne diversità tra i gruppi umani affondino le loro radici proprio nelle
epoche preistoriche» e nei primordiali caratteri biogeografici dei diversi ambienti. Il suo lavoro
mostra come le più recenti acquisizioni di discipline diverse – ecologia e genetica, paleontologia e
linguistica, epidemiologia e climatologia – possano servire allo storico per disegnare un quadro
complesso del processo d’incivilimento e dell’evoluzione delle tecniche e per mettere in luce
«l’importanza delle diversità ambientali nello sviluppo delle società umane». Occorre saper
comprendere, in questa prospettiva, che «i sistemi storici sono estremamente complessi, perché […]
caratterizzati da un numero enorme di variabili collegate». Nell’evoluzione del mondo
contemporaneo, sostiene quindi Diamond, continuano ad agire, con conseguenze tutt’altro che
trascurabili, «cause remote» legate a profondi rivolgimenti intervenuti in epoche preistoriche.
La civiltà, la scrittura e i primi ordinamenti statali si sono formati laddove, tra il
Mediterraneo e il Medio Oriente, determinate condizioni ambientali – la singolare disponibilità di
animali e piante spontanee domesticabili – avevano favorito l’agricoltura e l’aumento della
popolazione stanziale, permettendo quindi «l’esistenza di popoli socialmente stratificati, dotati di
istituzioni di governo complesse e centralizzate».
Evoluzione biologica e storia della civiltà tornano di nuovo a incontrarsi, come documenta
Diamond, agli albori del mondo moderno. La conquista delle Americhe può avvenire senza
resistenze, e in un arco ristretto di tempo, anche per il fatto che le popolazioni indigene non
disponevano di grandi mammiferi domesticabili, in un contesto ancora segnato dalle estinzioni di
massa del tardo Pleistocene. Una tale mancanza infatti comportava non solo ritardi nelle tecniche
agricole e subalternità ai cavalli dei conquistadores, ma anche assenza di difese nei confronti delle
malattie infettive introdotte dagli invasori europei, ormai immunizzati da millenni
grazie alla
tradizionale convivenza tra uomini e animali.
Per ricostruire «le vicende che determinarono i vincitori e i vinti della storia», Diamond
affronta gli intrecci tra «diversità ambientali» e processi d’incivilimento («economia, politica,
tecnologia, capacità militare») nei diversi continenti. Nel cercar di comprendere i motivi per cui
l’evoluzione della civiltà proceda trionfalmente in determinate aree geografiche, e mostri altrove
enormi difficoltà, la storiografia dovrà acquistar confidenza con discipline diverse, mettendo a
fuoco un «punto di vista biogeografico e culturale». Si tratta di riconoscere, tra l’altro, che nei
territori dell’area eurasiatica, estesa in larghezza, la diffusione delle innovazioni poteva avvenire
più velocemente che nelle Americhe o in Africa, continenti orientati nel senso della lunghezza e
quindi attraversati da barriere insuperabili («I cavalli non riuscirono mai a passare l’Equatore») e
assai più disomogenei in termini fisici e climatici: «L’orientamento dei continenti ha influenzato la
velocità di diffusione dell’agricoltura e dell’allevamento, della scrittura […] e di altre invenzioni».
3.
Sia Diamond che McNeill, in definitiva, mettono in rilievo, da punti di vista diversi,
l’ampiezza degli scambi, nel corso dell’incivilimento, tra ‘natura’ e ‘artificio. I loro studi intendono
promuovere l’elaborazione di una ‘teoria della complessità’, importante anche per i filosofi, che
sappia ‘descrivere’ e collegare quanto avviene a livello sia dell’evoluzione organica che della
Kulturgeschichte .
Lo storico delle idee che, per integrare e approfondire una simile prospettiva, si rivolga alla
filosofia novecentesca, troverà difficilmente motivi e indicazioni da seguire. Nel ripensare la
‘complessità’, sul piano della storia e della biologia, utili punti preliminari di riferimento possono
invece venir ricavati da alcune riflessioni ottocentesche che – curiosamente – hanno avuto minor
incidenza nei dibattiti filosofici del secolo successivo.
Nietzsche intende mettere in luce, in pagine che Heidegger non prenderà in considerazione,
la difficoltà a operare nette separazioni tra corporeità, istinti e ‘artificio’7. Nella «bestia ‘uomo’» –
si legge nella Genealogia della morale e in molti appunti scritti a partire dal 1884 – una rigida
coazione a formulare valutazioni e ‘giudizi intellettuali’ agisce, operando in profondità, anche a
livello del sistema nervoso e della sensibilità al dolore, dei processi percettivi e degli affetti: una
stessa pulsione, a seconda delle interpretazioni in cui viene costretta, può «essere utilizzata,
interpretata, riadattata in vista di propositi radicalmente diversi»8.
Nietzsche quindi inizia a investigare, aprendo un discorso sulla ‘complessità’, le intricate
relazioni che si stabiliscono tra il piano degli impulsi e dei processi organici e la ‘storia della
cultura’.
Darwin fornisce d’altro canto, a un diverso livello, ulteriori apporti a una ‘teoria della
complessità’. L’origine delle specie presenta, fin dalla prima edizione, un’articolata riflessione
intorno all’equilibrio instabile degli ecosistemi, che risultano da innumerevoli «complessi e
imprevisti […] rapporti tra gli esseri viventi» dello stesso territorio, e di conseguenza possono venir
alterati anche dalla «causa più insignificante». Non quindi un’idea rigida e univoca di ‘ambiente’,
quanto piuttosto la descrizione di innumerevoli catene di interazioni («siamo troppo ignoranti nei
confronti dell’economia di un qualunque essere vivente»), che risultano mutevoli e incerte nei loro
intrecci. La diffusione di equini e bovini in Paraguay dipende – secondo l’esempio paradigmatico
segnalato da Darwin – anche dalle aggrovigliate vicende che regolano le relazioni tra «certi uccelli
insettivori», gli insetti parassiti di cui si nutrono e la vegetazione spontanea.
7
A. Orsucci, La genealogia della morale di Nietzsche. Introduzione alla lettura, Carocci, Roma 2001, cap. 4.
Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, in Kritische Studienausgabe, Deutscher Tanschenbuch Verlag u. de Gruyter,
München, Berlin, New York 1988, Bd. VI; tr. it. Genealogia della morale, in Opere complete, Adelphi, Milano, II, 13.
8
Quest’insistenza sulla mirabile «rete di rapporti complessi», sull’«infinita complessità delle
relazioni di tutti gli esseri viventi tra di loro», costituisce un lato ‘antiriduzionistico’ e marcatamente
‘antispenceriano’ del pensiero di Darwin, ma anche un retaggio singolarmente trascurato nelle
recezioni ‘filosofiche’ della sua dottrina.
Per ogni organismo, l’ambiente non coincide con la relativa stabilità delle «condizioni
fisiche», ma con il mutevole e intricato insieme dei «rapporti fra organismo e organismo». Per tale
motivo
– a differenza di quanto sembra affermare la vulgata darwiniana contro cui i ‘filosofi’
prendono più volte partito – in «regioni […] quasi identiche» possono manifestarsi nel corso del
tempo «condizioni di vita infinitamente diverse», dato che il «numero quasi infinito di azioni e
razioni organiche» ben difficilmente darà luogo, anche ripetendosi, a risultati analoghi.
Dai testi di Diamond e di McNeill, iscritti in campi di ricerca destinati ad ampliarsi a
dismisura nei prossimi anni, si può anche ricavare l’indiretto invito, a proposito delle ‘teorie della
complessità’ e degli ‘scambi’ tra natura e ‘artificio’, a leggere di nuovo Darwin e Nietzsche,
partendo stavolta da problemi che qualche decennio addietro era più difficile mettere a fuoco.
Riferimenti bibliografici
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M. Heidegger, Die Grundbegriffe der Metaphysik. Welt-Endlichkeit-Einsamkeit (lezioni del
semestre invernale 1929-30), in Gesamtausgabe, Bd. 29-30, Klostermann, Frankfurt a. M.
1983
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Wahrheit ( Gesamtausgabe , Bd. 36-37), Klostermann, Frankfurt a. M. 2001
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F. Nietzsche, Zur Genealogie der Moral, in Kritische Studienausgabe, Deutscher Tanschenbuch
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morale, in Opere complete, Adelphi, Milano
M. Scheler, Zur Idee des Menschen (1915), in Vom Umsturz der Werte (= Gesammelte Werke, Bd.
3), Francke, Bern u. München 1972
M. Scheler, Philosophische Weltanschauung (1929), in Späte Schriften (= Gesammelte Werke, Bd.
9), Francke, Bern u. München 1976
M. Scheler, Der Formalismus in der Ethik und die materiale Wertethik (1913-16), in Gesammelte
Werk , Bd. 2, Francke, Bern u. München 1954
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