Lo spazio di incontro con l`altro: tra rischi e possibilità
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Lo spazio di incontro con l`altro: tra rischi e possibilità
Lo spazio di incontro con l’altro: tra rischi e possibilità Dott.ssa Angela Maria Nitti Ho avuto molta difficoltà a preparare la relazione per questo convegno. Uno dei motivi è legato alla mia paura di parlare di fronte a tante persone che non conosco e alla sensazione che a volte mi accompagna di non avere niente di interessante da dire. Un'altra ragione è legata al tema che ho scelto di trattare e che fa da sfondo ai lavori di questo convegno: la relazione d’aiuto. Un tema d’attualità e forse anche di moda e nello stesso tempo un tema con cui ogni operatore dell’aiuto si trova a confrontarsi quotidianamente. Ho scelto di partire dallo spazio di relazione con l’altro soffermandomi prima sui rischi che presenta raggruppandoli intorno ad una polarizzazione, per poi tentare di delineare una possibilità di relazione efficace e delle modalità per ottenerla. La relazione d’aiuto per sua natura porta con sé rischi e possibilità che limitano o favoriscono l’efficacia dell’aiuto stesso. L’operatore da un lato deve garantire una vicinanza emotiva che permetta al cliente di sentirsi accolto come persona e non giudicato, dall’altro deve mantenere un distacco che tuteli la propria individualità e quella dell’altro. I rischi a cui l’operatore dell’aiuto va incontro si polarizzano in due macro aree: • Area del Distacco, • Area della Confluenza All’area del Distacco fanno capo quelle situazioni in cui l’operatore per varie ragioni non riesce ad entrare in contatto con l’utente (ne è ad esempio spaventato o attratto) e pone una sorta di barriera emotiva tra sé e l’altro. Indicatori della presenza di una situazione relazionale distaccata possono essere: ⇒ L’eccessiva enfasi sul ruolo ricoperto (l’operatore utilizza il ruolo come una sorta di corazza); ⇒ Comportamenti e atteggiamenti di tipo autoritario; ⇒ La strutturazione dello spazio che enfatizza il distacco fisico tra operatore e cliente (ad es. presenza di scrivania) La sensazione che l’operatore vive può essere di un apparente disinteresse verso la persona a cui è rivolto l’aiuto o addirittura di fastidio. L’utente percepisce il distacco dell’operatore e pone a sua volta un muro, una barriera chiudendosi ulteriormente o reagendo aggressivamente contro l’operatore. L’utente si sente “trattato”, non percepisce vicinanza ma distacco. All’altro polo troviamo l’area della confluenza, cui corrispondono situazioni diametralmente opposte ma altrettanto inefficaci. L’operatore si fa risucchiare dalla persona che vuole aiutare e finisce per confondersi con essa. Sono situazioni in cui l’operatore “si porta il lavoro a casa” nel senso di rimanere dentro i problemi dell’altro e farli propri anche nei contesti della sua vita privata. Anche in queste situazioni ci sono una serie di indicatori che segnalano la presenza di confluenza: ⇒ Il linguaggio dell’operatore è spesso contraddistinto dal pronome “NOI” al posto dell’”IO” è del “TU”; ⇒ Vi è una eccessiva vicinanza fisica; ⇒ L’operatore tende ad incitare (ce la farai, vedrai che andrà tutto bene) o a dare consigli. L’utente si trova a dover far fronte al proprio disagio ma anche a rispondere alle aspettative di riuscita dell’operatore. La relazione è disonesta nella misura in cui l’interesse dell’operatore si sostituisce alla responsabilità personale del cliente. Entrambi questi gruppi di situazioni rendono l’aiuto inefficace. Sono quindi disfunzionali. Come mantenere allora il giusto distacco che permette di vedere l’altro e potergli essere d’aiuto senza diventare rigidamente distaccato? Come essere vicino all’utente, al suo disagio, alle sue difficoltà senza lasciarsi coinvolgere troppo? L’operatore riesce a fornire aiuto al cliente se entra empaticamente in relazione. Ho l’esigenza di chiarire il campo semantico a cui faccio riferimento nel parlare di empatia. Questo è infatti un termine molto usato e non sempre nella accezione che io intendo. Mi riferisco qui alla definizione di empatia fornita da Anna Ravenna, che considero una delle mie più importanti maestre. Anna Ravenna definisce l’empatia come “Capacità di mettersi nell’altra persona senza perdere la consapevolezza di sé stessi, com-prendere l’altro nel proprio mondo e costruire con lui un mondo comune, essendo sotto lo stesso orizzonte degli eventi.” L’empatia permette un vero e proprio dialogo, nel senso di comunicazione esistenziale. Un incontro tra l’io ed il tu che permette una realizzazione creativa e che potenzia ciascuna individualità. Accogliere il punto di vista dell’altro, il suo mondo, il suo orizzonte, non vuol dire accontentarsi di ciò che lui riesce a “vedere” dando per immutabili e rigidi i suoi limiti. Accogliere il punto di vista dell’altro vuol dire piuttosto partire da lì, accettare fenomenologicamente la realtà di quella persona in assenza di giudizio per poi offrire la propria competenza per aprire mondi possibili, costruire contesti nuovi, delineare altri orizzonti di senso. Nel passaggio da una posizione statica ad una dinamica emergono punti di vista altri e nuove consapevolezze. Qui inizia la reale possibilità per l’operatore di dare un aiuto efficace. Ma come trasformare questo costrutto teorico in una pratica operativa? Come può l’operatore accorgersi di essere in uno spazio di relazione empatico e non distaccato o confluente? L’operatore possiede una sorta bussola interna costituita dal complesso delle sue sensazioni, emozioni, sentimenti. Questa grande possibilità gli deriva dal fatto di essere egli stesso persona in relazione sotto lo stesso orizzonte degli eventi. L’esserci, la consapevolezza di sé è un potentissimo strumento che indirizza ed orienta l’agire dell’operatore. Qui entra forte il ruolo della formazione personale dell’operatore, il cui bagaglio di competenze non può limitarsi a sole conoscenze teoriche. Le competenze relazionali non possono essere apprese attraverso un manuale. È necessario un addestramento a stare in relazione prima con sé stessi e poi con l’altro in quanto soggetto da aiutare. È importante un addestramento che permetta di sbagliare, di sperimentare i propri limiti, di cadere nelle situazioni di rischio di cui parlavo prima, comprendendone le dinamiche e quindi di imparare. È proprio questo continuum di consapevolezza che permette di sentire il rischio e di proteggersi dalle polarità del distacco e della confluenza e di potenziare l’aiuto. In questo momento sento la mia difficoltà di spiegare con le parole in questa relazione qualcosa che credo possa essere appreso solo con la sperimentazione diretta. I workshop offriranno una possibilità di sperimentazione maggiore e mi auguro forniranno un ancoraggio empirico a quanto io ed i miei colleghi stiamo tentando di dire con le parole.