Vacanze a Cercino libretto

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Vacanze a Cercino libretto
VACANZE A CERCINO
Piccolo racconto di una vacanza
Gabriele Lisca
VACANZE A CERCINO
Non appena varco la porta di casa, vengo assalito
dalla più piccola delle mie due sorelle, che col volto
raggiante mi annuncia - Ad agosto andiamo ancora in
montagna -. - E si ritorna a Cercino - Gli fa eco con voce
cantilenante l’altra sorella di tredici anni, che sentendosi
già grande, non è contenta di passare un mese in un
paesino di montagna con nessuna attrattiva.
Entro in cucina ed affronto subito l’argomento con
mia madre – Senti, io rimango a casa con la nonna, non
ho nessuna voglia di passare le ferie pigiati in due locali
senza servizi, con nessuna possibilità di muoverci se non a
piedi. – Lei sa come la penso e come al solito, scarica la
responsabilità - Tuo padre ha già pagato l’affitto per le
stanze e comunque, non si fida lasciarti a casa da solo.
La nonna non fa testo, perché te le concede tutte e ti
lascia fare tutto quello che vuoi. Inoltre non sei solo, con
noi viene la Pierina e l’Edoardo. – Inutile discutere, tanto
non la spunterei. Però almeno una notizia buona l’ho
avuta, non sarò appiedato: Pierina e Edoardo, che
abitano nella nostra stessa palazzina, hanno due figli,
Antonia la minore, e Carlo che mi è maggiore di un
anno. Io che i diciotto li farò a dicembre, giro con il
Garelli a rullo, ma lui, con la sua nuova fiammante Vespa
GS, già da questa primavera mi scarrozza nei suoi
vagabondaggi.
Sono stanco, è dalle sei che sono in piedi, prima la
corriera e la filovia tutte stipate di gente, poi una
giornata nella calda tipografia, passata davanti ai
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bancali per comporre tabelle e manifesti con interlinee e
caratteri di piombo, infine il ritorno alle sette di sera, con
le stesse situazioni di viaggio dell’andata. Devo
recuperare energie. Allora riempio la vasca e mi ci ficco
dentro.
La ditta per cui mio padre lavora, ha preso l’appalto
per la ristrutturazione dell’impianto di riscaldamento
dell’ospedale di Gravedona, sull’alto lago di Como, così
da diversi anni, durante la bella stagione, mio padre ci
và in trasferta, lavorando dal lunedì al sabato. Per
passare almeno un periodo dell’anno con la famiglia, al
mese d’agosto, affitta dei locali a Cercino, nella casa di
Giuseppe il guardaboschi.
Piccolo paesino abbrancato al monte Sciesa ad
un’altitudine di cinquecento metri, subito all’inizio della
Valtellina, Cercino conta abitualmente un centinaio di
abitanti, che durante il periodo estivo, raddoppiano con
l’arrivo dei villeggianti, perlopiù famiglie con figli
provenienti da Vittuone, il paese dove abito, e qualche
sporadico gruppo di Milano.
Mi ha raccontato l’amico Gaio che quando ci sono
andati la prima volta, è stata un’avventura. Erano in
cinque su tre motociclette, partiti da casa di mattino
presto, hanno percorso abbastanza facilmente e
godendo per la strada tortuosa che costeggia tutta la
parte orientale del lago, nei centodieci chilometri per
arrivare fino a Mantello di Cercino, la frazione a valle
fatta da tre case. La salita però, dalla frazione al paesino,
è stata complicata da uno stretto sentiero ancora
sterrato, fatto di buche e con tornanti senza nessuna
protezione verso valle. Appena arrivati nel paese, il primo
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della fila ha accostato a lato e si è fermato in un piccolo
spiazzo, ma quella che pareva erba secca si è rivelata
una trappola ed è sprofondato nel letame. Subito
soccorso dagli altri e tolto con la sua moto dalla buca,
ha fortunatamente potuto lavarsi nella fontana, che si
trovava poco più avanti sulla strada, e ha dovuto
faticare molto per eliminare quei pestiferi effluvi. Fuori da
una casa, un grosso animale scuro, ha attirato
l’attenzione di Gaio che, un poco miope ma amante
degli animali, dei cani in particolare, è andato per
accarezzarlo. Come si è avvicinato, un potente grugnito
lo ha accolto palesando che, quello che lui credeva un
cane, era un cion, il tipico maiale valtellinese dal pelo
scuro, ed era legato al muro tramite una catena fissata
da un anello alle nari. Nelle case i bagni non esistevano e
le latrine, piccoli spazi angusti con un buco al centro,
ricavati nella parete della montagna, erano sui viottoli
ma raramente venivano usati, con discapito delle stalle o
della aperta campagna. Probabilmente non esistevano
ladri, oppure non vi era niente da rubare perchè le porte
delle case erano sempre spalancate, con cani, gatti e
tutto il pollame che circolavano tranquillamente per
tutta la casa.
Anche quando noi ci siamo andati per la prima
volta, alcuni anni fa, abbiamo trovato persone che
vivevano ancora come prima della guerra, quasi tutti
dediti all’agricoltura o al pascolo delle mucche.
Pochissimi scendevano a valle per il lavoro in fabbrica e
molti facevano gli spalloni contrabbandando sigarette
dalla vicina Svizzera. Un minimo di reddito è arrivato col
turismo, affittando le stanze o svendendo le vecchie
case ormai vuote. Il signor Giuseppe con la famiglia,
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abitava nel piano terra della grande casa, tutta fatta in
sassi e legna, mentre i due piani superiori li affittava, se
pur molto spartanamente, già ammobiliati ai villeggianti.
Il bagno, posto sul pianerottolo, era stato costruito con la
collaborazione di tutti gli uomini presenti nella casa e con
la supervisione di mio padre idraulico, era uno dei pochi
dotato di turca e sciacquone in tutto il paese.
Il signor Lia è un uomo molto prosperoso, proprietario
della sola pensione del paese, dell’unico negozio di
salumeria con panetteria e di una delle osterie, il tutto
gestito con la collaborazione della moglie e due belle
figlie, inoltre possiede l’unica automobile abbastanza
capiente, con cui fa funzione di auto pubblica facendo
la spola con la stazione di Delebio. Oltre essere la
persona più importante del paese, possiede molte
qualità, tra queste: la bontà, un’umanità innata e la
puntualità. Come scendiamo dal treno sul marciapiede
della piccola stazione, ci viene incontro salutandoci con
calore, poi ci accompagna, aiutandoci coi bagagli, alla
grossa macchina nera. Fa salire la Pierina e Atonia
davanti, mentre mia madre, le mie sorelle ed io, sul sedile
posteriore. Mio padre con la Lambretta e Carlo con suo
padre in Vespa hanno fatto il percorso su strada
portandosi una buona parte di bagagli. Questo è
sicuramente l’ultimo anno che veniamo in treno, sono già
due mesi che abbiamo una Fiat 1100 modello 103 e la
lasciamo sotto il balcone di casa in attesa del nostro
conseguimento della patente. Mio padre, che potrebbe
averla già fatta, aspetta che lo mandino in un cantiere
vicino a casa, mentre io attendo di compiere i diciotto
anni per poter frequentare una scuola guida.
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I cinque chilometri di salita, per arrivare al paese,
sono un incubo, la stradina contiene a fatica
l’automobile del Lia, ad ogni tornante la sua abilità
d’autista è messa a dura prova con le diverse manovre
per completare ogni curva. Dai finestrini o si vede il
vuoto, oppure si sfiora la parete rocciosa della
montagna. Anche se siamo in agosto, teniamo i vetri
alzati per evitare che i pochi, ma lunghi steli secchi ci
sbattano sul volto, mentre per non guardare nel vuoto, a
turno teniamo gli occhi serrati.
Dopo una mezzora di percorso travagliato, arriviamo
davanti alla casa siamo accolti da una piccola folla
festante composta dai nostri famigliari, da alcuni
conoscenti e dalla famiglia del signor Giuseppe.
Salutiamo tutti e prendiamo possesso delle stanze al
piano superiore, quelle a sinistra per noi e quelle a destra
per Carlo e famiglia.
Per prima cosa, dopo aver depositato i bagagli,
Carlo ed io scendiamo per strada e ci rechiamo alla
parte alta del paese, dall’Amabile, il ritrovo abituale
della compagnia negli anni passati, per avere notizie del
posto da chi è già presente.
Ritroviamo i vecchi amici del paese, che ci
accolgono con calore offrendoci subito vino da bere –
Biiv, biiv. – Anche se è ancora mattino, guai a non bere,
viene considerata un’offesa.
Con rincrescimento, veniamo sapere che due del
gruppo, questo inverno, per sfuggire alla finanza, sono
finiti fuori strada e caduti in un burrone, lasciandoci la
pelle. Peccato, so che non erano dei delinquenti, ma
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solo dei ragazzi normali che facevano quello che
consideravano un lavoro con cui poter sopravvivere.
Buone notizie invece sul fronte ragazze, un gruppetto
di milanesi, dai quindici ai diciotto anni, per tutto il mese
sta in pensione dal Lia, e ciò che conta, sono molto
socievoli. Ormai è mezzogiorno e ritorniamo verso casa,
passando attraverso il prato per accorciare la strada,
veniamo accolti dal festoso abbaiare di una palla di pelo
scodinzolante, che ci corre incontro: è Scila, la vecchia
cagnetta di Giuseppe che ci ha riconosciuti e ci fa le
feste.
Con la borsa a tracolla e la canna da pesca in
mano, saltando sulle rocce, sono sceso per il sentiero che
punta diritto verso valle, attraversando diverse volte la
strada. In poco tempo sono giunto a Mantello e dopo
pochi minuti eccomi gia qua in attesa, nascosto fra i
cespugli dell’Adda, che un pesce mangi il grosso verme
sull’amo. Li vedo belli grossi, passare nell’acqua
trasparente e girare attorno alla mia lenza senza nessuna
intenzione di abboccare. Mi godo il panorama, il
Legnone che si erge di fronte con la fredda val Gerola
appena a lato, chiusa e stretta da non giungervi mai il
sole, Morbegno col suo tipico campanile, posto appena
sotto la montagna e l’Adda che, anche con la poca
acqua lasciata dai prelievi a monte, è sempre un
bellissimo fiume torrentizio, fatto di anse e pieno di massi,
con le gelide acque cristalline che riflettono tutti i colori
della valle. Provo pescare in altri punti ma ottengo il
medesimo risultato, poi pensando alla salita, mi riavvio
verso casa.
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- Domani si va giù al Mera, al punt del pas. Mi sono
già procurato i vermi per tutti. – Luigi, un milanese, nuovo
aggregato al gruppo è simpatico, anche se ha qualche
anno in più è di compagnia, ma soprattutto è un
pescatore ed ha una Bianchina. Allora domani
finalmente si pesca.
L’interno di una Bianchina non è il massimo per
metterci quattro persone, con stivaloni da pesca, canne
e attrezzature varie, comunque c’è entrato tutto e
scendiamo a valle, poi dopo aver costeggiato il monte
Scesa, entriamo nella Valchiavenna, ed al primo
passaggio a livello attraversiamo la ferrovia e scendiamo
verso la sponda del fiume.
Il Mera nasce in Svizzera e formando alcuni laghetti,
percorre alcune valli, poi rasentando la montagna si
allarga formando il lago di Mezzola ed infine tra i canneti,
si immette nel lago di Como.
Il sentiero che porta al fiume è erboso, con molte
chiazze d’acqua trasbordata dal piccolo fosso a lato. Per
evitare di rimanere intrappolato in una delle pozze più
grandi, Luigi accelera facendo sbandare il mezzo che
scivolando finisce nel prato, diretto verso gli unici due
alberi presenti nella zona, una brusca sterzata e ci
ritroviamo con l’auto a cavallo della sponda, con le due
ruote di desta in acqua e altre due sul sentiero.
Cautamente scendiamo in acqua e ci diamo subito da
fare per poterci togliere dai pasticci. La macchinetta non
è pesante e facendola sussultare, lentamente riusciamo
a spostarla. – Guarda chi arriva – Carlo timoroso si sposta
a lato lasciando passare una grossa biscia che incurante
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di noi, ondeggiando risale la corrente. Poveraccia, come
giunge a tiro di Luigi, lui l’afferra per la coda e facendola
roteare la spedisce in mezzo alle canne al di là del fosso.
Una volta riportata l’auto sul sentiero, per evitare altri
inconvenienti, Luigi decide di lasciarla dove si trova.
Prese le attrezzature, ci avviamo a piedi verso la vicina
zona di pesca. Entrati in acqua e disposti su una linea
parallela alle canne distanti una decina di metri,
cominciamo a lanciare il più vicino possibili ad esse.
Dopo pochi secondi, i galleggianti inclinandosi partono
verso la vegetazione, una ferrata e si recupera. Grossi e
colorati Persici Sole e lucenti Scardole, vanno a riempire i
nostri cestini di ferro. Continuiamo così per alcune ore,
poi finite le esche e carichi di pesce ritorniamo alla
macchina. Se all’andata eravamo stipati, con quattro
grossi cestini gonfi di frenetico pesce, non ne parliamo,
con manovre da contorsionisti siamo riusciti ad infilarci,
senza rompere nessuna delle canne ne schiacciare
qualcosa, percorrendo i pochi chilometri che ci
separano dal paese senza incorrere in altri inconvenienti.
Svuotiamo il pescato in un grosso mastello di lamiera. –
Che bei pesci, e sono tanti, chi sa come cuocerli? – La
gente di montagna non è usa al consumo di pesce. – Se
qualcuno di voi li pulisce,ve li friggo io – Mi offro
volontario, poi con Carlo, ci incamminiamo verso casa,
dove poterci lavare.
- Vai sempre in giro e non ti si vede mai, qua è
peggio di un albergo! – Mia madre borbotta, ma ormai
sono abituato e non ci faccio più caso. – Sono andato a
pesca con gli amici. Ha proposito di albergo, questa sera
non mangio a casa. – Ribadisco. Poi, mentre mi sto
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lavando, lei continua l’interrogatorio per cercare di
saperne di più, ma riesce solo ad ottenere vaghe risposte
da parte mia. Dopo aver pranzato, vado su da Amabile
per ritrovarmi con gli altri. Ci sono quasi tutti, e prima che
riesca sedermi mi contornano, – Abbiamo trovato chi
pulisce i pesci, ma cosa ti serve per cuocerli? Quanto
tempo ci vorrà per cucinarli? Stasera saremo in molti da
Gino, il vino non manca, ma quanto pane dobbiamo
prendere? – La sfilza di domande fatte a raffica da più
persone mi lascia senza fiato - Calma, bastano una
grossa pentola e due chili di farina, per il pane invece,
prendine quanto pensi di mangiarne e moltiplicalo per
tutti gli altri. Io arrivo verso le sette e dopo mezzora si
comincia a mangiare. – Mi sembra di essere un esperto
cuoco che da le direttive, se sapessero che l’unica volta
che ho cucinato pesce l’ho fritto in un piccolo pentolino
all’aperto, mentre le poche nozioni che so è per aver
osservato mia madre, allora non sarebbero così tanto
entusiasti.
E’ arrivato Carlo ed a un suo cenno, saluto tutti e mi
avvicino – Senti, cambiamo aria e andiamo giù –
propone, così montiamo in sella alla Vespa e affrontiamo
cautamente la discesa. Passiamo parte del pomeriggio a
girovagare per Morbegno, poi ci rechiamo a Colico per
prenderci un grosso gelato sul lungolago. Sono quasi le
sette quando arriviamo a casa, sono in ritardo. Di corsa
entro in casa e prendo un golf – Io vado, sono in ritardo!
– schivo i commenti di madre e figlie, ma proprio quando
sto per uscire, arriva mio padre dal lavoro – Si può sapere
dove vai a quest’ora? – gli spiego il mio programma e
mentre lui guarda tristemente il piatto di minestra pronta
in tavola, esco.
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La casa di Gino è simile alle altre del paese, tutte di
sassi compreso il tetto. Scendo giù nella cantina. L’ampio
locale è ricavato in parte nella montagna, il resto fatto in
pietra, il soffitto in legno è abbastanza alto con grosse
travi di sostegno sagomate con l’ascia. Due tavolate con
molte persone sedute e vocianti, sono messe al centro,
mentre un altro tavolo con sopra un fornello a gas, è
posto sotto un finestrella e mi attende.
Verso abbondante olio nel pentolone di alluminio e
mentre lo sposto sul fornello acceso, un applauso
spontaneo riempie la cantina, “la gente ha fame”. Su di
una larga pezza verso della farina, poi vi poso alcune
manciate di pesce, prendo i lembi e scuoto. Butto un
pezzetto di pane nell’olio e quando inizia a sfrigolare, vi
poso i pesci. Alcuni minuti, una girata e sono pronti. Tutto
questo nel silenzio d’attesa che si è creato. Con la
schiumarola levo dalla pentola i pesci pronti, posandoli in
una marmitta che viene portata subito in tavola. Un
successo!!! Poi avanti a ripetere per molte altre volte gli
stessi gesti, trenta chili di pesce da friggere sono tanti.
Il pesce l’ho appena piluccato, ma di rosso e fresco
vinello, che trovo nel bicchiere sempre pieno, ne
sorseggio molto per cancellare dalla gola l’acre sapore
dell’olio fritto.
La mia performance di ieri sera, deve essere molto
piaciuta, ricordo visite ad osterie e bottiglie di spumante
stappate, poi un bicchiere di Fernet in mano ed una
ringhiera dove mi sono sporto per liberarmi, delle braccia
che mi sorreggevano nella discesa verso casa. Che sete,
è tutta mattina che l’acqua delle fontane mi
aiuta…molto.
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Stiamo organizzando un’altra battuta di pesca con
Luigi, gli è piaciuta la serata gastronomica dell’altro
giorno, ma è ancora arrabbiato perché, dopo aver
pulito nel pomeriggio la Bianchina dal fango, ieri ha
dovuto rilavarla, perchè qualche disgraziato, dal
balcone dell’osteria, l’aveva tutta impiastricciata. “I veri
amici si vedono nel momento del bisogno e sono molto
solidali.”
Dal giorno successivo in cui ho fatto il cuoco,
succede una cosa strana, mi ritrovo dei pacchetti di
sigarette nelle tasche senza mai averli comperati,
immagino che sia un ringraziamento per il pescato e la
cottura, però questa cosa non è che mi piaccia più di
tanto.
Girare da solo in vespa, non diverte Carlo, così
decidiamo per un giretto tra le montagne. Dopo aver
detto che non torniamo per mezzogiorno, qualche
minuto prima delle dieci, partiamo puntando verso l’alta
valle. La strada costeggia l’Adda per lunghi tratti, a volte
scavalcandolo. Il tempo è caldo e non c’è traffico, Carlo
guida tranquillo mentre facciamo delle osservazioni sul
paesaggio, si viaggia proprio bene. Passiamo per paesini
molto simili tra loro ed uguali a quelli che si intravedono
abbarbicati sulle pendici. Giunti a Sondrio ci fermiamo
per un caffé e decidere, con la cartina stradale, dove
dirigersi: Passo dello Stelvio, si scende giù fino a Merano,
poi si torna da Ponte di Legno ed è fatta.
Sulla carta la strada sembra abbastanza corta per
poterla fare prima di sera. Ripartiamo pimpanti. La strada
ora sale leggermente fino a Tirano, e molto più decisa
per arrivare a Bormio, poi su verso il Passo.
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Una salita come questa non l’avevamo mai fatta. Un
tornante dopo l’altro, appena la vespa riesce ad
acquisire velocità per poter cambiare marcia, bisogna
rallentare per curvare. L’aria si fa più fresca, ma
impegnati come siamo in curve e contro-curve, non ce
ne rendiamo conto. Finalmente siamo arrivati in cima,
sentiamo il fresco della neve lì vicino. Una piccola sosta
per guardare il panorama, masticando chewingum per
sturarci le orecchie, poi giù per la discesa verso Merano.
Altro che le curve di Monza, ora si fa molta fatica a
contenere la velocità, però che bello. Se il versante
valtellinese è aperto e solare, questo è molto diverso, lo
percorriamo quasi sempre in ombra, le scarpate rocciose
e umide abbondano, anche la strada è più stretta e
tortuosa.
Arrivati a valle gli spazi si ampliano e diventano
morbidi, verdi e luminosi, più ci avviciniamo a Merano,
più il cambiamento si accentua. Mentre la stiamo
attraversando, abbiamo l’impressione d’essere in un’altra
nazione e sul percorso verso Bolzano, lo stile delle case, la
foggia degli abiti e l’idioma delle persone ne danno la
conferma. Un cartello ci indica la strada del ritorno, la
prendiamo e ricominciamo così a salire. Ormai sono
diverse ore che siamo in viaggio e la stanchezza
comincia a farsi sentire. Veramente, è Carlo lo stanco ed
infreddolito, io riparato dietro a lui, sono solo affamato.
Prima del passo della Mendola ci fermiamo in una
piccola locanda, per ristorarci con panini e tè caldo.
Dopo fumata una sigaretta e preso in prestito un giornale
per proteggere lo stomaco dall’aria, ripartiamo. Il passo è
abbastanza alto e con la vicinanza di alcune cime
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innevate il freddo diventa molto pungente. A meta
discesa Carlo si ferma – Guida tu, io sono troppo stanco
e ho troppo freddo. Se continuo rischio di uscire. – Lui sa
che non ho la patente e anche se ho provato qualche
volta di nascosto la Lambretta di mio padre, non ho
l’esperienza necessaria per portare un veicolo per queste
strade impervie. – Lo sai cosa rischi? – gli chiedo. – Meglio
te che io! – ribadisce. Ci rimettiamo in moto con me alla
guida.
All’inizio
molto
cautamente,
seguendo
diligentemente i suoi consigli, affronto il percorso con
molta attenzione e concentrazione, tanto da non sentire
più neppure il freddo, poi col passare dei chilometri
acquisto una padronanza con la vespa, tanto da sentirla
affine come il mio vecchio motorino. Non ci concediamo
più pause, ci siamo resi conto di esserci allontanati
troppo e di aver sbagliato i tempi di viaggio. Affrontiamo
il passo del Tonale, poi giù e su, in un susseguirsi di salite e
discese fino ad Edolo, infine passiamo per l’Aprica che ci
appare come una nota moderna e stonata in quel
paesaggio, ma non c’è tempo, per lo stradone
scendiamo veloci verso valle e poi via, diritti fino a
Sondrio.
E’ quasi buio quando mi fermo poco prima di
Morbegno, ho le braccia intorpidite e devo massaggiarle
per riattivare la circolazione, cedo il manubrio a Carlo, è
meglio non far sapere… - Lo sapevo che ce l’avremmo
fatta, non ho mai avuto dubbi. – Carlo con un mezzo
sorriso, si rimette alla guida. Non lo so se io avrei avuto il
suo coraggio, scommettere su un inesperto la moto e
quel che è peggio … la vita, comunque è andata.
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A casa le spiegazioni non bastano mai, mentre
salivamo abbiamo inventato bugie comuni per calmare
le acque e in parte ci siamo riusciti.
Mentre nei nostri letti noi recuperavamo forze, le
nostre sorelle, questa mattina, hanno fatto da cassa di
risonanza e ora Carlo, che non è un grande
chiacchierone, qua dall’Amabile, si trova a dover
rispondere alle domande curiose ed alle punzecchiature
degli amici.
Mentre sorseggio birra e gassosa, il gruppetto delle
Milanesi, entra per i ghiaccioli. Portano tutte delle borse
con all’interno degli asciugamani. Le antenne vibrano,
così le lasciamo uscire, poi in tre sgusciamo fuori e le
seguiamo. Mi spiace per Carlo, ma è troppo impegnato
e non bisogna alzare troppa polvere per poter cogliere
l’attimo.
Teniamo la distanza fino alle ultime case poi ci
uniamo al gruppo e seguendo il sentiero che corre in
piano verso S Giovanni, in venti minuti arriviamo al
torrente. L’acqua gelata e cristallina, scendendo dalle
cime si è creata un percorso fatto di piccole cascate e
pozze, fra rocce e sassi di tutte le dimensioni.
Le ragazze si spogliano rimanendo in costume,
mentre noi tolte le magliette, rimaniamo a torso nudo,
poi tutti a cercare una roccia adatta per stenderci al
sole. Dopo il pomeriggio passato a scherzare e a
provarci, ma senza risultato, tornare a casa è quasi un
sollievo. A volte certe attività possono risultare perfino
stressanti.
E’ passata una settimana e con Luigi siamo ritornati
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a pescare sul Mera. Fortunatamente il sentiero questa
volta è asciutto, così siamo arrivati con la macchina,
vicino al punto di pesca. C’è una strana barca vicino la
riva, costruita in modo artigianale, con larghe assi sul
fondo inchiodate alle due laterali, ancora più larghe, a
formare una specie di chiatta. Le fessure sono calafatate
alla meglio e lasciano passare dell’acqua.
Ci siamo messi a pescare ma dopo vari tentativi il
risultato è deludente, i pochi pesci finiti nei cestini
significano una sola cosa: bracconieri.
Riposta la mia attrezzatura e gli stivali in macchina,
cerco una pertica e la trovo li vicino, nascosta fra le
canne, poi mentre gli altri sono ancora impegnati in vani
tentativi, salgo sulla chiatta e con la pertica comincio a
spingere.
Lentamente la barca si sposta allontanandosi dalla
sponda, cerco di tenerla a ridosso delle canne. Poco più
avanti, dove queste si aprono, dei sugheri in fila mi
svelano l’arcano: una rete. Mentre l’acqua sul fondo
della chiatta mi bagna i piedi, con cautela agguanto la
cordicina che lega i galleggianti e sollevo la rete
facendola passare sopra la barca, poi tirandola la faccio
scorrere.
Di ritorno alla sponda tutti gli altri mi attorniano, - Tu
sei tutto matto a salire su quella cosa li, non riesco a
capire come mai non sei affondato – In effetti i dieci
centimetri di acqua sul fondo danno loro ragione, ma le
due grosse tinche ed il luccio che si dibattono li dentro,
mi confortano. – Filiamo, non è igienico rimanere,
rischiamo un colpo di roncola. –
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Si ritorna alla montagna. – Cosa ci fai a casa così
presto, cosa hai combinato? – che malfidata mia madre,
pensa subito male. Ma le basta vedere la grossa tinca
verde e gialla, perché un sorriso le si stampi in volto – Che
bella, stasera la facciamo coi pomodori –. A volte, ci
vuole poco per accontentarla.
- Siamo passati vicino ma non abbiamo visto Ponte
di Legno, andiamoci domani – A Carlo è ripresa la voglia
di girare, ed io come lui, comincio ad annoiarmi delle
giornate passate tra il sagrato e Amabile, decidiamo di
raggiungere Ponte di Legno passando per l’Aprica, poi
proseguire sul Gavia ed arrivare a Bormio, da lì, si ritorna
a casa. Molti meno chilometri del giro precedente, inoltre
ci sentiamo molto più esperti. – Se succede qualcosa,
almeno telefonate. – Le facce preoccupate, le ripetute
raccomandazioni ed il numero del Lia in tasca, sono il
saluto che accompagna la partenza per il nuovo giro. Il
tempo è piacevole, non si vede una nuvola in cielo ed il
traffico è scarso. Una meraviglia. Dopo Sondrio
raggiungiamo senza problemi l’Aprica e proseguiamo
verso Edolo. Mentre percorriamo la quindicina di
chilometri che li separano, il cielo si fa cupo e si alza un
vento gelido. Ci risiamo. Arrivati ad Edolo, Carlo decide
di proseguire per il percorso fissato, ma dopo pochi
minuti incrociamo un’Ape con tracce di neve nel
cassonetto. – Fermati, gira, seguilo! – urlo nelle orecchie
di Carlo che comprende la mia preoccupazione e
seguendo l’indicazione, raggiunge il piccolo motocarro.
– Hanno chiuso per neve quasi tutti i passi. Per la
Valtellina vi rimane solo l’Aprica, ma se questa tormenta
che arriva da est riesce a raggiungervi mentre vi trovate
ancora in alto, rischiate brutto – Le notizie che ci dà
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l’autista dell’ape non sono confortanti, l’unica cosa che
ci rimane da fare è dirigerci verso quote più basse e
verso sud, così da poter schivare il maltempo che sta
avvolgendo la montagna.
Prendiamo per Lovere, giù verso il lago d’Iseo, sotto
una sbrusina che forma una leggera foschia e rende
tutto viscido. Poi da Lovere verso Bergamo. La strada è
lunga, sembra non finire mai. Il giubbino di finto camoscio
è ormai inzuppato, ed il freddo ci penetra nelle ossa, ma
resistiamo. Finalmente siamo a Bergamo. Memore delle
raccomandazioni, ci fermiamo in un Bar e chiamo al
telefono il Lia – Per favore, dica alle famiglie che stanno
da Giuseppe il guardaboschi, che i loro figli per schivare il
maltempo, vanno a casa, se fa bello ritornano su domani
per mezzogiorno. – Col cuore in pace e dopo una
cioccolata calda, ripartiamo sotto una pioggia diventata
insistente.
Solo una cinquantina di chilometri ci separano da
casa, tutti di autostrada, e tutti sotto la pioggia. Ci
fermiamo sotto un ponte per mettere i portafogli nel
bauletto della Vespa e per scambiarci il posto. Lo scooter
sembra un piccolo motoscafo, con noi sopra curvi, alla
ricerca di un riparo immaginario. L’autostrada è libera,
tranne poche macchine e un enorme motociclista, con
casco e occhiali, tutto avvolto in una cerata nera, su di
una Guzzi che ancor prima che ci raggiunga,
riconosciamo dal caratteristico rumore, pom..pom ..pom.
Alternandoci alla guida passiamo Milano, poi
finalmente il casello di Arluno. Sentiamo aria di casa. Un
dubbio mi assale, speriamo che la nonna non sia uscita.
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Anche se è un pomeriggio d’agosto, il cielo basso e
buio, la pioggia battente e l’aria fredda, rendono tutto
come in una brutta sera d’autunno. Quando suono il
campanello di casa e sul pianerottolo compare la
nonna, un macigno mi si leva d’addosso.
- Fermi li! Prima di entrare dovete togliervi tutti i vestiti – La
nonna è perentoria, poi entra in casa ed esce con due
teli, mentre si sente l’acqua calda che riempie la vasca.
Prima uno poi l’altro prendiamo calore dall’acqua calda
e ci mettiamo dei miei vestiti asciutti (Carlo è buffo con
tutto più corto di una spanna). La nonna, che non è e
non sarà mai una cuoca, ci prepara una minestra scialba
ma bollente, condita dai: - Ma siete matti a fare queste
cose, lui non ha testa, ma tu Carlo che sei più grande,
perchè ti fai coinvolgere nelle sue pazzie -. Un pezzo di
salame, poi subito a letto… Quelli delle mie sorelle. Come
i vestiti anche il letto gli và corto! Al mattino la buriana è
passata, allora di nuovo in viaggio per tornare alle
montagne.
Con la settimana di Ferragosto anche mio padre si è
messo in ferie, ed ha coinvolto me, Carlo e suo padre
Edoardo in alcune gite in moto. Noi con la Lambretta e
loro con la Vespa, abbiamo risalito le valli Chiavenna e S.
Giacomo fino al passo dello Spluga col suo lago, il giorno
successivo ci siamo rifatti la salita dello Stelvio, tornando
però, dopo una sosta , per la medesima strada.
Soddisfatto questo suo sfizio si è poi dedicato all’altra
parte della famiglia, lasciandoci finalmente in pace.
Le osterie di Cercino sono tre: il Lia che si trova nella
parte bassa del paese e verso Cino, l’Amabile che sta
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nella parte superiore e con l’Isaia quasi di fronte sull’alto
lato della ripida stradina in pietra con bassi e lunghi
gradini.
Stando qua, seduto all’esterno del nostro ritrovo abituale,
annoiato dai nostri soliti discorsi inconcludenti, ho
intravisto l’acquisto di questo anno dell’Isaia: una rossa.
Non una rossa dipinta, ma una bella ragazza dai lunghi
capelli rosso naturale, con tanto di lentiggini e con la
pelle chiarissima – una meraviglia -. L’esclamazione che
mi è sfuggita è stata subito raccolta da Sandro, uno degli
amici locali – è mia cugina, è venuta a fare la stagione.
Se vuoi questa sera te la faccio conoscere -.
Capita molto raramente che gli indigeni facciano
conoscere delle ragazze, tanto meno se sono belle, ai
milanes. Loro però, mi considerano come uno del paese,
forse perché sono un ragazzo di paese e senza puzza
sotto il naso ho cominciato a frequentarli, ormai da
diversi anni, accettando e condividendo i loro
comportamenti e le loro esperienze. Poi c’è anche una
cosa molto importante da considerare: lunedì ricomincio
a lavorare e lui lo sa!
Sandro e io siamo su dall’Elia e sorseggiamo
tranquillamente birra e gassosa. La rossa è abbastanza
impegnata, però negli attimi di pausa, si ferma da noi per
chiacchierare e anche un poco civettare. E’ una bella
ragazza e provo piacere quando guarda verso di me e
sorride, mentre si muove svelta tra i tavoli.
Il locale è molto ampio, con i tavoli attorno, tutti
occupati da gente del luogo. Un juke-box nuovo
fiammante fa mostra di se in uno spazio lasciato libero
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per gli eventuali balli. Il nostro tavolino è vicino al
bancone, sul fondo del locale, posizione ideale per il mio
scopo di questa sera.
Uno strano silenzio cala nel locale, poi una canzone,
distolgo lo sguardo dalla rossa, che al momento mi sta
accanto, per osservare il tizio in piedi di fronte al tavolo.
Capelli impomatati, giubbino in pelle e blue-jeans,
abbastanza robusto. Dietro a lui altri tre ragazzotti tutti sui
venti anni, con i vestiti della stessa foggia.
- Dai, vieni a ballare – dice alla ragazza con tono
arrogante. Lei mi guarda poi muove la testa in diniego.
Una fila di improperi contro di me e tutti i milanesi parte
dal tizio incavolato, mentre con le due mani appoggiate
al tavolo si protende verso di me. Sono troppo sorpreso
per essere spaventato, ma mi riprendo subito, però
mentre mi alzo dalla sedia, delle forti braccia mi
costringono seduto, – lascia perdere, è troppo grande
per te, so io come fare – un armadio mi passa accanto,
ed a schiaffoni comincia a far spostare l’energumeno e
soci, poi aiutato da altri avventori, tra le urla li costringe
ad uscire dal locale. La ragazza mi dice che quello è suo
fratello e che i bulli sono gli eterni rivali di Cino, paesino
che si trova a due soli chilometri di distanza.
Sono passate due ore e mentre stiamo seduti su di
un muretto, arrivano, tramite amici e passanti, notizie
della guerra che involontariamente ho scatenato.
I quattro inseguiti, sono corsi alle moto lasciate sulla
strada bassa, ed a tutta birra sono andati per cercare
rinforzi. Mossa prevista dai Cercinesi che in buon numero
li hanno aspettati nascosti dietro le mura del cimitero, poi
una volta passati li hanno seguiti. Quando quelli di Cino
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hanno lasciato le moto per sorprendere il gruppetto
rimasto dei locali, gliele hanno nascoste, poi prima che
iniziasse lo scontro sono riusciti a raggiungerli e allora ….
botte da orbi. Ma non è finita così. I poveracci sono
dovuti scappare appiedati ma poi, sono ritornati per
recuperare le loro moto e allora altra razione di legnate.
Sto viaggiando seduto sul lungo sedile della Vespa
dietro Carlo, per la strada che costeggia il bel lago di
Como, immerso in quella malinconia che ti rimane alla
fine delle ferie, quando la sua voce mi scuote – In tre
settimane avremmo potuto divertici di più invece di
starcene sempre in quel paese sperduto. Con la Svizzera
li vicino, potevamo andarci almeno per fornirci di
sigarette. – Non me la sento di contraddirlo – Hai
pienamente ragione, potevamo fare molto, ma molto di
più -.
AGL
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