Vacanze a Cercino libretto
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Vacanze a Cercino libretto
VACANZE A CERCINO Piccolo racconto di una vacanza Gabriele Lisca VACANZE A CERCINO Non appena varco la porta di casa, vengo assalito dalla più piccola delle mie due sorelle, che col volto raggiante mi annuncia - Ad agosto andiamo ancora in montagna -. - E si ritorna a Cercino - Gli fa eco con voce cantilenante l’altra sorella di tredici anni, che sentendosi già grande, non è contenta di passare un mese in un paesino di montagna con nessuna attrattiva. Entro in cucina ed affronto subito l’argomento con mia madre – Senti, io rimango a casa con la nonna, non ho nessuna voglia di passare le ferie pigiati in due locali senza servizi, con nessuna possibilità di muoverci se non a piedi. – Lei sa come la penso e come al solito, scarica la responsabilità - Tuo padre ha già pagato l’affitto per le stanze e comunque, non si fida lasciarti a casa da solo. La nonna non fa testo, perché te le concede tutte e ti lascia fare tutto quello che vuoi. Inoltre non sei solo, con noi viene la Pierina e l’Edoardo. – Inutile discutere, tanto non la spunterei. Però almeno una notizia buona l’ho avuta, non sarò appiedato: Pierina e Edoardo, che abitano nella nostra stessa palazzina, hanno due figli, Antonia la minore, e Carlo che mi è maggiore di un anno. Io che i diciotto li farò a dicembre, giro con il Garelli a rullo, ma lui, con la sua nuova fiammante Vespa GS, già da questa primavera mi scarrozza nei suoi vagabondaggi. Sono stanco, è dalle sei che sono in piedi, prima la corriera e la filovia tutte stipate di gente, poi una giornata nella calda tipografia, passata davanti ai 1 bancali per comporre tabelle e manifesti con interlinee e caratteri di piombo, infine il ritorno alle sette di sera, con le stesse situazioni di viaggio dell’andata. Devo recuperare energie. Allora riempio la vasca e mi ci ficco dentro. La ditta per cui mio padre lavora, ha preso l’appalto per la ristrutturazione dell’impianto di riscaldamento dell’ospedale di Gravedona, sull’alto lago di Como, così da diversi anni, durante la bella stagione, mio padre ci và in trasferta, lavorando dal lunedì al sabato. Per passare almeno un periodo dell’anno con la famiglia, al mese d’agosto, affitta dei locali a Cercino, nella casa di Giuseppe il guardaboschi. Piccolo paesino abbrancato al monte Sciesa ad un’altitudine di cinquecento metri, subito all’inizio della Valtellina, Cercino conta abitualmente un centinaio di abitanti, che durante il periodo estivo, raddoppiano con l’arrivo dei villeggianti, perlopiù famiglie con figli provenienti da Vittuone, il paese dove abito, e qualche sporadico gruppo di Milano. Mi ha raccontato l’amico Gaio che quando ci sono andati la prima volta, è stata un’avventura. Erano in cinque su tre motociclette, partiti da casa di mattino presto, hanno percorso abbastanza facilmente e godendo per la strada tortuosa che costeggia tutta la parte orientale del lago, nei centodieci chilometri per arrivare fino a Mantello di Cercino, la frazione a valle fatta da tre case. La salita però, dalla frazione al paesino, è stata complicata da uno stretto sentiero ancora sterrato, fatto di buche e con tornanti senza nessuna protezione verso valle. Appena arrivati nel paese, il primo 2 della fila ha accostato a lato e si è fermato in un piccolo spiazzo, ma quella che pareva erba secca si è rivelata una trappola ed è sprofondato nel letame. Subito soccorso dagli altri e tolto con la sua moto dalla buca, ha fortunatamente potuto lavarsi nella fontana, che si trovava poco più avanti sulla strada, e ha dovuto faticare molto per eliminare quei pestiferi effluvi. Fuori da una casa, un grosso animale scuro, ha attirato l’attenzione di Gaio che, un poco miope ma amante degli animali, dei cani in particolare, è andato per accarezzarlo. Come si è avvicinato, un potente grugnito lo ha accolto palesando che, quello che lui credeva un cane, era un cion, il tipico maiale valtellinese dal pelo scuro, ed era legato al muro tramite una catena fissata da un anello alle nari. Nelle case i bagni non esistevano e le latrine, piccoli spazi angusti con un buco al centro, ricavati nella parete della montagna, erano sui viottoli ma raramente venivano usati, con discapito delle stalle o della aperta campagna. Probabilmente non esistevano ladri, oppure non vi era niente da rubare perchè le porte delle case erano sempre spalancate, con cani, gatti e tutto il pollame che circolavano tranquillamente per tutta la casa. Anche quando noi ci siamo andati per la prima volta, alcuni anni fa, abbiamo trovato persone che vivevano ancora come prima della guerra, quasi tutti dediti all’agricoltura o al pascolo delle mucche. Pochissimi scendevano a valle per il lavoro in fabbrica e molti facevano gli spalloni contrabbandando sigarette dalla vicina Svizzera. Un minimo di reddito è arrivato col turismo, affittando le stanze o svendendo le vecchie case ormai vuote. Il signor Giuseppe con la famiglia, 3 abitava nel piano terra della grande casa, tutta fatta in sassi e legna, mentre i due piani superiori li affittava, se pur molto spartanamente, già ammobiliati ai villeggianti. Il bagno, posto sul pianerottolo, era stato costruito con la collaborazione di tutti gli uomini presenti nella casa e con la supervisione di mio padre idraulico, era uno dei pochi dotato di turca e sciacquone in tutto il paese. Il signor Lia è un uomo molto prosperoso, proprietario della sola pensione del paese, dell’unico negozio di salumeria con panetteria e di una delle osterie, il tutto gestito con la collaborazione della moglie e due belle figlie, inoltre possiede l’unica automobile abbastanza capiente, con cui fa funzione di auto pubblica facendo la spola con la stazione di Delebio. Oltre essere la persona più importante del paese, possiede molte qualità, tra queste: la bontà, un’umanità innata e la puntualità. Come scendiamo dal treno sul marciapiede della piccola stazione, ci viene incontro salutandoci con calore, poi ci accompagna, aiutandoci coi bagagli, alla grossa macchina nera. Fa salire la Pierina e Atonia davanti, mentre mia madre, le mie sorelle ed io, sul sedile posteriore. Mio padre con la Lambretta e Carlo con suo padre in Vespa hanno fatto il percorso su strada portandosi una buona parte di bagagli. Questo è sicuramente l’ultimo anno che veniamo in treno, sono già due mesi che abbiamo una Fiat 1100 modello 103 e la lasciamo sotto il balcone di casa in attesa del nostro conseguimento della patente. Mio padre, che potrebbe averla già fatta, aspetta che lo mandino in un cantiere vicino a casa, mentre io attendo di compiere i diciotto anni per poter frequentare una scuola guida. 4 I cinque chilometri di salita, per arrivare al paese, sono un incubo, la stradina contiene a fatica l’automobile del Lia, ad ogni tornante la sua abilità d’autista è messa a dura prova con le diverse manovre per completare ogni curva. Dai finestrini o si vede il vuoto, oppure si sfiora la parete rocciosa della montagna. Anche se siamo in agosto, teniamo i vetri alzati per evitare che i pochi, ma lunghi steli secchi ci sbattano sul volto, mentre per non guardare nel vuoto, a turno teniamo gli occhi serrati. Dopo una mezzora di percorso travagliato, arriviamo davanti alla casa siamo accolti da una piccola folla festante composta dai nostri famigliari, da alcuni conoscenti e dalla famiglia del signor Giuseppe. Salutiamo tutti e prendiamo possesso delle stanze al piano superiore, quelle a sinistra per noi e quelle a destra per Carlo e famiglia. Per prima cosa, dopo aver depositato i bagagli, Carlo ed io scendiamo per strada e ci rechiamo alla parte alta del paese, dall’Amabile, il ritrovo abituale della compagnia negli anni passati, per avere notizie del posto da chi è già presente. Ritroviamo i vecchi amici del paese, che ci accolgono con calore offrendoci subito vino da bere – Biiv, biiv. – Anche se è ancora mattino, guai a non bere, viene considerata un’offesa. Con rincrescimento, veniamo sapere che due del gruppo, questo inverno, per sfuggire alla finanza, sono finiti fuori strada e caduti in un burrone, lasciandoci la pelle. Peccato, so che non erano dei delinquenti, ma 5 solo dei ragazzi normali che facevano quello che consideravano un lavoro con cui poter sopravvivere. Buone notizie invece sul fronte ragazze, un gruppetto di milanesi, dai quindici ai diciotto anni, per tutto il mese sta in pensione dal Lia, e ciò che conta, sono molto socievoli. Ormai è mezzogiorno e ritorniamo verso casa, passando attraverso il prato per accorciare la strada, veniamo accolti dal festoso abbaiare di una palla di pelo scodinzolante, che ci corre incontro: è Scila, la vecchia cagnetta di Giuseppe che ci ha riconosciuti e ci fa le feste. Con la borsa a tracolla e la canna da pesca in mano, saltando sulle rocce, sono sceso per il sentiero che punta diritto verso valle, attraversando diverse volte la strada. In poco tempo sono giunto a Mantello e dopo pochi minuti eccomi gia qua in attesa, nascosto fra i cespugli dell’Adda, che un pesce mangi il grosso verme sull’amo. Li vedo belli grossi, passare nell’acqua trasparente e girare attorno alla mia lenza senza nessuna intenzione di abboccare. Mi godo il panorama, il Legnone che si erge di fronte con la fredda val Gerola appena a lato, chiusa e stretta da non giungervi mai il sole, Morbegno col suo tipico campanile, posto appena sotto la montagna e l’Adda che, anche con la poca acqua lasciata dai prelievi a monte, è sempre un bellissimo fiume torrentizio, fatto di anse e pieno di massi, con le gelide acque cristalline che riflettono tutti i colori della valle. Provo pescare in altri punti ma ottengo il medesimo risultato, poi pensando alla salita, mi riavvio verso casa. 6 - Domani si va giù al Mera, al punt del pas. Mi sono già procurato i vermi per tutti. – Luigi, un milanese, nuovo aggregato al gruppo è simpatico, anche se ha qualche anno in più è di compagnia, ma soprattutto è un pescatore ed ha una Bianchina. Allora domani finalmente si pesca. L’interno di una Bianchina non è il massimo per metterci quattro persone, con stivaloni da pesca, canne e attrezzature varie, comunque c’è entrato tutto e scendiamo a valle, poi dopo aver costeggiato il monte Scesa, entriamo nella Valchiavenna, ed al primo passaggio a livello attraversiamo la ferrovia e scendiamo verso la sponda del fiume. Il Mera nasce in Svizzera e formando alcuni laghetti, percorre alcune valli, poi rasentando la montagna si allarga formando il lago di Mezzola ed infine tra i canneti, si immette nel lago di Como. Il sentiero che porta al fiume è erboso, con molte chiazze d’acqua trasbordata dal piccolo fosso a lato. Per evitare di rimanere intrappolato in una delle pozze più grandi, Luigi accelera facendo sbandare il mezzo che scivolando finisce nel prato, diretto verso gli unici due alberi presenti nella zona, una brusca sterzata e ci ritroviamo con l’auto a cavallo della sponda, con le due ruote di desta in acqua e altre due sul sentiero. Cautamente scendiamo in acqua e ci diamo subito da fare per poterci togliere dai pasticci. La macchinetta non è pesante e facendola sussultare, lentamente riusciamo a spostarla. – Guarda chi arriva – Carlo timoroso si sposta a lato lasciando passare una grossa biscia che incurante 7 di noi, ondeggiando risale la corrente. Poveraccia, come giunge a tiro di Luigi, lui l’afferra per la coda e facendola roteare la spedisce in mezzo alle canne al di là del fosso. Una volta riportata l’auto sul sentiero, per evitare altri inconvenienti, Luigi decide di lasciarla dove si trova. Prese le attrezzature, ci avviamo a piedi verso la vicina zona di pesca. Entrati in acqua e disposti su una linea parallela alle canne distanti una decina di metri, cominciamo a lanciare il più vicino possibili ad esse. Dopo pochi secondi, i galleggianti inclinandosi partono verso la vegetazione, una ferrata e si recupera. Grossi e colorati Persici Sole e lucenti Scardole, vanno a riempire i nostri cestini di ferro. Continuiamo così per alcune ore, poi finite le esche e carichi di pesce ritorniamo alla macchina. Se all’andata eravamo stipati, con quattro grossi cestini gonfi di frenetico pesce, non ne parliamo, con manovre da contorsionisti siamo riusciti ad infilarci, senza rompere nessuna delle canne ne schiacciare qualcosa, percorrendo i pochi chilometri che ci separano dal paese senza incorrere in altri inconvenienti. Svuotiamo il pescato in un grosso mastello di lamiera. – Che bei pesci, e sono tanti, chi sa come cuocerli? – La gente di montagna non è usa al consumo di pesce. – Se qualcuno di voi li pulisce,ve li friggo io – Mi offro volontario, poi con Carlo, ci incamminiamo verso casa, dove poterci lavare. - Vai sempre in giro e non ti si vede mai, qua è peggio di un albergo! – Mia madre borbotta, ma ormai sono abituato e non ci faccio più caso. – Sono andato a pesca con gli amici. Ha proposito di albergo, questa sera non mangio a casa. – Ribadisco. Poi, mentre mi sto 8 lavando, lei continua l’interrogatorio per cercare di saperne di più, ma riesce solo ad ottenere vaghe risposte da parte mia. Dopo aver pranzato, vado su da Amabile per ritrovarmi con gli altri. Ci sono quasi tutti, e prima che riesca sedermi mi contornano, – Abbiamo trovato chi pulisce i pesci, ma cosa ti serve per cuocerli? Quanto tempo ci vorrà per cucinarli? Stasera saremo in molti da Gino, il vino non manca, ma quanto pane dobbiamo prendere? – La sfilza di domande fatte a raffica da più persone mi lascia senza fiato - Calma, bastano una grossa pentola e due chili di farina, per il pane invece, prendine quanto pensi di mangiarne e moltiplicalo per tutti gli altri. Io arrivo verso le sette e dopo mezzora si comincia a mangiare. – Mi sembra di essere un esperto cuoco che da le direttive, se sapessero che l’unica volta che ho cucinato pesce l’ho fritto in un piccolo pentolino all’aperto, mentre le poche nozioni che so è per aver osservato mia madre, allora non sarebbero così tanto entusiasti. E’ arrivato Carlo ed a un suo cenno, saluto tutti e mi avvicino – Senti, cambiamo aria e andiamo giù – propone, così montiamo in sella alla Vespa e affrontiamo cautamente la discesa. Passiamo parte del pomeriggio a girovagare per Morbegno, poi ci rechiamo a Colico per prenderci un grosso gelato sul lungolago. Sono quasi le sette quando arriviamo a casa, sono in ritardo. Di corsa entro in casa e prendo un golf – Io vado, sono in ritardo! – schivo i commenti di madre e figlie, ma proprio quando sto per uscire, arriva mio padre dal lavoro – Si può sapere dove vai a quest’ora? – gli spiego il mio programma e mentre lui guarda tristemente il piatto di minestra pronta in tavola, esco. 9 La casa di Gino è simile alle altre del paese, tutte di sassi compreso il tetto. Scendo giù nella cantina. L’ampio locale è ricavato in parte nella montagna, il resto fatto in pietra, il soffitto in legno è abbastanza alto con grosse travi di sostegno sagomate con l’ascia. Due tavolate con molte persone sedute e vocianti, sono messe al centro, mentre un altro tavolo con sopra un fornello a gas, è posto sotto un finestrella e mi attende. Verso abbondante olio nel pentolone di alluminio e mentre lo sposto sul fornello acceso, un applauso spontaneo riempie la cantina, “la gente ha fame”. Su di una larga pezza verso della farina, poi vi poso alcune manciate di pesce, prendo i lembi e scuoto. Butto un pezzetto di pane nell’olio e quando inizia a sfrigolare, vi poso i pesci. Alcuni minuti, una girata e sono pronti. Tutto questo nel silenzio d’attesa che si è creato. Con la schiumarola levo dalla pentola i pesci pronti, posandoli in una marmitta che viene portata subito in tavola. Un successo!!! Poi avanti a ripetere per molte altre volte gli stessi gesti, trenta chili di pesce da friggere sono tanti. Il pesce l’ho appena piluccato, ma di rosso e fresco vinello, che trovo nel bicchiere sempre pieno, ne sorseggio molto per cancellare dalla gola l’acre sapore dell’olio fritto. La mia performance di ieri sera, deve essere molto piaciuta, ricordo visite ad osterie e bottiglie di spumante stappate, poi un bicchiere di Fernet in mano ed una ringhiera dove mi sono sporto per liberarmi, delle braccia che mi sorreggevano nella discesa verso casa. Che sete, è tutta mattina che l’acqua delle fontane mi aiuta…molto. 10 Stiamo organizzando un’altra battuta di pesca con Luigi, gli è piaciuta la serata gastronomica dell’altro giorno, ma è ancora arrabbiato perché, dopo aver pulito nel pomeriggio la Bianchina dal fango, ieri ha dovuto rilavarla, perchè qualche disgraziato, dal balcone dell’osteria, l’aveva tutta impiastricciata. “I veri amici si vedono nel momento del bisogno e sono molto solidali.” Dal giorno successivo in cui ho fatto il cuoco, succede una cosa strana, mi ritrovo dei pacchetti di sigarette nelle tasche senza mai averli comperati, immagino che sia un ringraziamento per il pescato e la cottura, però questa cosa non è che mi piaccia più di tanto. Girare da solo in vespa, non diverte Carlo, così decidiamo per un giretto tra le montagne. Dopo aver detto che non torniamo per mezzogiorno, qualche minuto prima delle dieci, partiamo puntando verso l’alta valle. La strada costeggia l’Adda per lunghi tratti, a volte scavalcandolo. Il tempo è caldo e non c’è traffico, Carlo guida tranquillo mentre facciamo delle osservazioni sul paesaggio, si viaggia proprio bene. Passiamo per paesini molto simili tra loro ed uguali a quelli che si intravedono abbarbicati sulle pendici. Giunti a Sondrio ci fermiamo per un caffé e decidere, con la cartina stradale, dove dirigersi: Passo dello Stelvio, si scende giù fino a Merano, poi si torna da Ponte di Legno ed è fatta. Sulla carta la strada sembra abbastanza corta per poterla fare prima di sera. Ripartiamo pimpanti. La strada ora sale leggermente fino a Tirano, e molto più decisa per arrivare a Bormio, poi su verso il Passo. 11 Una salita come questa non l’avevamo mai fatta. Un tornante dopo l’altro, appena la vespa riesce ad acquisire velocità per poter cambiare marcia, bisogna rallentare per curvare. L’aria si fa più fresca, ma impegnati come siamo in curve e contro-curve, non ce ne rendiamo conto. Finalmente siamo arrivati in cima, sentiamo il fresco della neve lì vicino. Una piccola sosta per guardare il panorama, masticando chewingum per sturarci le orecchie, poi giù per la discesa verso Merano. Altro che le curve di Monza, ora si fa molta fatica a contenere la velocità, però che bello. Se il versante valtellinese è aperto e solare, questo è molto diverso, lo percorriamo quasi sempre in ombra, le scarpate rocciose e umide abbondano, anche la strada è più stretta e tortuosa. Arrivati a valle gli spazi si ampliano e diventano morbidi, verdi e luminosi, più ci avviciniamo a Merano, più il cambiamento si accentua. Mentre la stiamo attraversando, abbiamo l’impressione d’essere in un’altra nazione e sul percorso verso Bolzano, lo stile delle case, la foggia degli abiti e l’idioma delle persone ne danno la conferma. Un cartello ci indica la strada del ritorno, la prendiamo e ricominciamo così a salire. Ormai sono diverse ore che siamo in viaggio e la stanchezza comincia a farsi sentire. Veramente, è Carlo lo stanco ed infreddolito, io riparato dietro a lui, sono solo affamato. Prima del passo della Mendola ci fermiamo in una piccola locanda, per ristorarci con panini e tè caldo. Dopo fumata una sigaretta e preso in prestito un giornale per proteggere lo stomaco dall’aria, ripartiamo. Il passo è abbastanza alto e con la vicinanza di alcune cime 12 innevate il freddo diventa molto pungente. A meta discesa Carlo si ferma – Guida tu, io sono troppo stanco e ho troppo freddo. Se continuo rischio di uscire. – Lui sa che non ho la patente e anche se ho provato qualche volta di nascosto la Lambretta di mio padre, non ho l’esperienza necessaria per portare un veicolo per queste strade impervie. – Lo sai cosa rischi? – gli chiedo. – Meglio te che io! – ribadisce. Ci rimettiamo in moto con me alla guida. All’inizio molto cautamente, seguendo diligentemente i suoi consigli, affronto il percorso con molta attenzione e concentrazione, tanto da non sentire più neppure il freddo, poi col passare dei chilometri acquisto una padronanza con la vespa, tanto da sentirla affine come il mio vecchio motorino. Non ci concediamo più pause, ci siamo resi conto di esserci allontanati troppo e di aver sbagliato i tempi di viaggio. Affrontiamo il passo del Tonale, poi giù e su, in un susseguirsi di salite e discese fino ad Edolo, infine passiamo per l’Aprica che ci appare come una nota moderna e stonata in quel paesaggio, ma non c’è tempo, per lo stradone scendiamo veloci verso valle e poi via, diritti fino a Sondrio. E’ quasi buio quando mi fermo poco prima di Morbegno, ho le braccia intorpidite e devo massaggiarle per riattivare la circolazione, cedo il manubrio a Carlo, è meglio non far sapere… - Lo sapevo che ce l’avremmo fatta, non ho mai avuto dubbi. – Carlo con un mezzo sorriso, si rimette alla guida. Non lo so se io avrei avuto il suo coraggio, scommettere su un inesperto la moto e quel che è peggio … la vita, comunque è andata. 13 A casa le spiegazioni non bastano mai, mentre salivamo abbiamo inventato bugie comuni per calmare le acque e in parte ci siamo riusciti. Mentre nei nostri letti noi recuperavamo forze, le nostre sorelle, questa mattina, hanno fatto da cassa di risonanza e ora Carlo, che non è un grande chiacchierone, qua dall’Amabile, si trova a dover rispondere alle domande curiose ed alle punzecchiature degli amici. Mentre sorseggio birra e gassosa, il gruppetto delle Milanesi, entra per i ghiaccioli. Portano tutte delle borse con all’interno degli asciugamani. Le antenne vibrano, così le lasciamo uscire, poi in tre sgusciamo fuori e le seguiamo. Mi spiace per Carlo, ma è troppo impegnato e non bisogna alzare troppa polvere per poter cogliere l’attimo. Teniamo la distanza fino alle ultime case poi ci uniamo al gruppo e seguendo il sentiero che corre in piano verso S Giovanni, in venti minuti arriviamo al torrente. L’acqua gelata e cristallina, scendendo dalle cime si è creata un percorso fatto di piccole cascate e pozze, fra rocce e sassi di tutte le dimensioni. Le ragazze si spogliano rimanendo in costume, mentre noi tolte le magliette, rimaniamo a torso nudo, poi tutti a cercare una roccia adatta per stenderci al sole. Dopo il pomeriggio passato a scherzare e a provarci, ma senza risultato, tornare a casa è quasi un sollievo. A volte certe attività possono risultare perfino stressanti. E’ passata una settimana e con Luigi siamo ritornati 14 a pescare sul Mera. Fortunatamente il sentiero questa volta è asciutto, così siamo arrivati con la macchina, vicino al punto di pesca. C’è una strana barca vicino la riva, costruita in modo artigianale, con larghe assi sul fondo inchiodate alle due laterali, ancora più larghe, a formare una specie di chiatta. Le fessure sono calafatate alla meglio e lasciano passare dell’acqua. Ci siamo messi a pescare ma dopo vari tentativi il risultato è deludente, i pochi pesci finiti nei cestini significano una sola cosa: bracconieri. Riposta la mia attrezzatura e gli stivali in macchina, cerco una pertica e la trovo li vicino, nascosta fra le canne, poi mentre gli altri sono ancora impegnati in vani tentativi, salgo sulla chiatta e con la pertica comincio a spingere. Lentamente la barca si sposta allontanandosi dalla sponda, cerco di tenerla a ridosso delle canne. Poco più avanti, dove queste si aprono, dei sugheri in fila mi svelano l’arcano: una rete. Mentre l’acqua sul fondo della chiatta mi bagna i piedi, con cautela agguanto la cordicina che lega i galleggianti e sollevo la rete facendola passare sopra la barca, poi tirandola la faccio scorrere. Di ritorno alla sponda tutti gli altri mi attorniano, - Tu sei tutto matto a salire su quella cosa li, non riesco a capire come mai non sei affondato – In effetti i dieci centimetri di acqua sul fondo danno loro ragione, ma le due grosse tinche ed il luccio che si dibattono li dentro, mi confortano. – Filiamo, non è igienico rimanere, rischiamo un colpo di roncola. – 15 Si ritorna alla montagna. – Cosa ci fai a casa così presto, cosa hai combinato? – che malfidata mia madre, pensa subito male. Ma le basta vedere la grossa tinca verde e gialla, perché un sorriso le si stampi in volto – Che bella, stasera la facciamo coi pomodori –. A volte, ci vuole poco per accontentarla. - Siamo passati vicino ma non abbiamo visto Ponte di Legno, andiamoci domani – A Carlo è ripresa la voglia di girare, ed io come lui, comincio ad annoiarmi delle giornate passate tra il sagrato e Amabile, decidiamo di raggiungere Ponte di Legno passando per l’Aprica, poi proseguire sul Gavia ed arrivare a Bormio, da lì, si ritorna a casa. Molti meno chilometri del giro precedente, inoltre ci sentiamo molto più esperti. – Se succede qualcosa, almeno telefonate. – Le facce preoccupate, le ripetute raccomandazioni ed il numero del Lia in tasca, sono il saluto che accompagna la partenza per il nuovo giro. Il tempo è piacevole, non si vede una nuvola in cielo ed il traffico è scarso. Una meraviglia. Dopo Sondrio raggiungiamo senza problemi l’Aprica e proseguiamo verso Edolo. Mentre percorriamo la quindicina di chilometri che li separano, il cielo si fa cupo e si alza un vento gelido. Ci risiamo. Arrivati ad Edolo, Carlo decide di proseguire per il percorso fissato, ma dopo pochi minuti incrociamo un’Ape con tracce di neve nel cassonetto. – Fermati, gira, seguilo! – urlo nelle orecchie di Carlo che comprende la mia preoccupazione e seguendo l’indicazione, raggiunge il piccolo motocarro. – Hanno chiuso per neve quasi tutti i passi. Per la Valtellina vi rimane solo l’Aprica, ma se questa tormenta che arriva da est riesce a raggiungervi mentre vi trovate ancora in alto, rischiate brutto – Le notizie che ci dà 16 l’autista dell’ape non sono confortanti, l’unica cosa che ci rimane da fare è dirigerci verso quote più basse e verso sud, così da poter schivare il maltempo che sta avvolgendo la montagna. Prendiamo per Lovere, giù verso il lago d’Iseo, sotto una sbrusina che forma una leggera foschia e rende tutto viscido. Poi da Lovere verso Bergamo. La strada è lunga, sembra non finire mai. Il giubbino di finto camoscio è ormai inzuppato, ed il freddo ci penetra nelle ossa, ma resistiamo. Finalmente siamo a Bergamo. Memore delle raccomandazioni, ci fermiamo in un Bar e chiamo al telefono il Lia – Per favore, dica alle famiglie che stanno da Giuseppe il guardaboschi, che i loro figli per schivare il maltempo, vanno a casa, se fa bello ritornano su domani per mezzogiorno. – Col cuore in pace e dopo una cioccolata calda, ripartiamo sotto una pioggia diventata insistente. Solo una cinquantina di chilometri ci separano da casa, tutti di autostrada, e tutti sotto la pioggia. Ci fermiamo sotto un ponte per mettere i portafogli nel bauletto della Vespa e per scambiarci il posto. Lo scooter sembra un piccolo motoscafo, con noi sopra curvi, alla ricerca di un riparo immaginario. L’autostrada è libera, tranne poche macchine e un enorme motociclista, con casco e occhiali, tutto avvolto in una cerata nera, su di una Guzzi che ancor prima che ci raggiunga, riconosciamo dal caratteristico rumore, pom..pom ..pom. Alternandoci alla guida passiamo Milano, poi finalmente il casello di Arluno. Sentiamo aria di casa. Un dubbio mi assale, speriamo che la nonna non sia uscita. 17 Anche se è un pomeriggio d’agosto, il cielo basso e buio, la pioggia battente e l’aria fredda, rendono tutto come in una brutta sera d’autunno. Quando suono il campanello di casa e sul pianerottolo compare la nonna, un macigno mi si leva d’addosso. - Fermi li! Prima di entrare dovete togliervi tutti i vestiti – La nonna è perentoria, poi entra in casa ed esce con due teli, mentre si sente l’acqua calda che riempie la vasca. Prima uno poi l’altro prendiamo calore dall’acqua calda e ci mettiamo dei miei vestiti asciutti (Carlo è buffo con tutto più corto di una spanna). La nonna, che non è e non sarà mai una cuoca, ci prepara una minestra scialba ma bollente, condita dai: - Ma siete matti a fare queste cose, lui non ha testa, ma tu Carlo che sei più grande, perchè ti fai coinvolgere nelle sue pazzie -. Un pezzo di salame, poi subito a letto… Quelli delle mie sorelle. Come i vestiti anche il letto gli và corto! Al mattino la buriana è passata, allora di nuovo in viaggio per tornare alle montagne. Con la settimana di Ferragosto anche mio padre si è messo in ferie, ed ha coinvolto me, Carlo e suo padre Edoardo in alcune gite in moto. Noi con la Lambretta e loro con la Vespa, abbiamo risalito le valli Chiavenna e S. Giacomo fino al passo dello Spluga col suo lago, il giorno successivo ci siamo rifatti la salita dello Stelvio, tornando però, dopo una sosta , per la medesima strada. Soddisfatto questo suo sfizio si è poi dedicato all’altra parte della famiglia, lasciandoci finalmente in pace. Le osterie di Cercino sono tre: il Lia che si trova nella parte bassa del paese e verso Cino, l’Amabile che sta 18 nella parte superiore e con l’Isaia quasi di fronte sull’alto lato della ripida stradina in pietra con bassi e lunghi gradini. Stando qua, seduto all’esterno del nostro ritrovo abituale, annoiato dai nostri soliti discorsi inconcludenti, ho intravisto l’acquisto di questo anno dell’Isaia: una rossa. Non una rossa dipinta, ma una bella ragazza dai lunghi capelli rosso naturale, con tanto di lentiggini e con la pelle chiarissima – una meraviglia -. L’esclamazione che mi è sfuggita è stata subito raccolta da Sandro, uno degli amici locali – è mia cugina, è venuta a fare la stagione. Se vuoi questa sera te la faccio conoscere -. Capita molto raramente che gli indigeni facciano conoscere delle ragazze, tanto meno se sono belle, ai milanes. Loro però, mi considerano come uno del paese, forse perché sono un ragazzo di paese e senza puzza sotto il naso ho cominciato a frequentarli, ormai da diversi anni, accettando e condividendo i loro comportamenti e le loro esperienze. Poi c’è anche una cosa molto importante da considerare: lunedì ricomincio a lavorare e lui lo sa! Sandro e io siamo su dall’Elia e sorseggiamo tranquillamente birra e gassosa. La rossa è abbastanza impegnata, però negli attimi di pausa, si ferma da noi per chiacchierare e anche un poco civettare. E’ una bella ragazza e provo piacere quando guarda verso di me e sorride, mentre si muove svelta tra i tavoli. Il locale è molto ampio, con i tavoli attorno, tutti occupati da gente del luogo. Un juke-box nuovo fiammante fa mostra di se in uno spazio lasciato libero 19 per gli eventuali balli. Il nostro tavolino è vicino al bancone, sul fondo del locale, posizione ideale per il mio scopo di questa sera. Uno strano silenzio cala nel locale, poi una canzone, distolgo lo sguardo dalla rossa, che al momento mi sta accanto, per osservare il tizio in piedi di fronte al tavolo. Capelli impomatati, giubbino in pelle e blue-jeans, abbastanza robusto. Dietro a lui altri tre ragazzotti tutti sui venti anni, con i vestiti della stessa foggia. - Dai, vieni a ballare – dice alla ragazza con tono arrogante. Lei mi guarda poi muove la testa in diniego. Una fila di improperi contro di me e tutti i milanesi parte dal tizio incavolato, mentre con le due mani appoggiate al tavolo si protende verso di me. Sono troppo sorpreso per essere spaventato, ma mi riprendo subito, però mentre mi alzo dalla sedia, delle forti braccia mi costringono seduto, – lascia perdere, è troppo grande per te, so io come fare – un armadio mi passa accanto, ed a schiaffoni comincia a far spostare l’energumeno e soci, poi aiutato da altri avventori, tra le urla li costringe ad uscire dal locale. La ragazza mi dice che quello è suo fratello e che i bulli sono gli eterni rivali di Cino, paesino che si trova a due soli chilometri di distanza. Sono passate due ore e mentre stiamo seduti su di un muretto, arrivano, tramite amici e passanti, notizie della guerra che involontariamente ho scatenato. I quattro inseguiti, sono corsi alle moto lasciate sulla strada bassa, ed a tutta birra sono andati per cercare rinforzi. Mossa prevista dai Cercinesi che in buon numero li hanno aspettati nascosti dietro le mura del cimitero, poi una volta passati li hanno seguiti. Quando quelli di Cino 20 hanno lasciato le moto per sorprendere il gruppetto rimasto dei locali, gliele hanno nascoste, poi prima che iniziasse lo scontro sono riusciti a raggiungerli e allora …. botte da orbi. Ma non è finita così. I poveracci sono dovuti scappare appiedati ma poi, sono ritornati per recuperare le loro moto e allora altra razione di legnate. Sto viaggiando seduto sul lungo sedile della Vespa dietro Carlo, per la strada che costeggia il bel lago di Como, immerso in quella malinconia che ti rimane alla fine delle ferie, quando la sua voce mi scuote – In tre settimane avremmo potuto divertici di più invece di starcene sempre in quel paese sperduto. Con la Svizzera li vicino, potevamo andarci almeno per fornirci di sigarette. – Non me la sento di contraddirlo – Hai pienamente ragione, potevamo fare molto, ma molto di più -. AGL 21