1.686.312 - Venerando

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1.686.312 - Venerando
quotidiano comunista
Anno XXXVI n. 244
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Mercoledì 18 Ottobre 2006
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SPED. IN ABB. POST. - 45% ART.2 COMMA 20/BL 662/96 - ROMA ISSN 0025-2158
I muri americani
Un’altra Iwo Jima
1.686.312 €
La triplice barriera al confine sud,
le leggi antiterrorismo di Bush
e le elezioni del 7 novembre
Nel suo nuovo film, «Flags of Our
Fathers», Clint Eastwood riscrive la
storia della celebre battaglia
Dalla seconda volta di Locarno al chiostro
di Santa Chiara a Foggia
A PAGINA 2
3
La città
sotterranea
Sottoscrizione a quota:
14
Foto Andrea Sabbadini
Guglielmo Ragozzino
Q
ualcuna delle duecento persone che contano in Italia (o anche delle mille che credono di
contare) è mai scesa nella metropolitana di Roma? S’intende, non
per un tragitto finto, per un’inaugurazione, con la vettura pulita e le hostess sorridenti, ma in una prima mattina vera, una qualsiasi; o anche tra le
otto e le nove, evitando così l’alzataccia. Sarebbe un’esperienza senz’altro
utile, per capire il mondo che si muove, i giovani e gli anziani, il commercio, la scuola, i sistemi di famiglia, i segni complessivi del progresso, del ritardo, del ristagno e anche un bel po’
di globalizzazione. Un’esperienza
che comunque i nostri vip non faranno. Ai funerali si va con le auto di servizio.
Alle otto, alle nove del mattino nella metro di Roma molti e molte vorrebbero leggere, se non altro il giornale. Si tratta per lo più di un giornale
gratuito fatto per loro che si chiama
appunto Metro. Molte donne leggono libri, quelle poche che sono riuscite a sedersi. Se ci riescono, la loro giornata andrà meglio. Molti uomini le
guardano, pieni di curiosità. Lo spazio è così ridotto che non c’è problema per reggersi in piedi, sempre che
non ci siano brusche frenate o brusche accelerazioni. Non è l’inferno,
ma certo è molto scomodo, sporco,
degradante. Perché mai la parte più
viva della città debba essere tanto penalizzata, non è dato capire. A volte
sembra poi che l’unica manutenzione sia fatta dai graffitari che amano lasciare memoria di sé rendendo oscuri i vetri e illeggibili i nomi delle stazioni nei cartelli sulle pareti.
Sulla linea arancio, contrassegnata
dalla A - come dice con una punta di
orgoglio la società comunale che svolge il servizio - salgono in media quattrocentocinquanta mila utenti al giorno. Sulla linea blu, indicata con la B
sono trecento mila. E poi l’alfabeto, il
più corto tra quelli in uso in qualsiasi
capitale, è già finito. La metropolitana romana, così miserabile, così degradata è uno strumento essenziale
per vivere e spostarsi in una città infestata dalle auto e dalle moto che provocano un inquinamento crescente,
anche se i duecento vip e i loro adepti
fingono di non conoscerlo o lo curano con palliativi domenicali. I tempi
per allungare l’alfabeto, per avere
una terza linea metropolitana, si dilatano continuamente; e i problemi di
mobilità di abitanti e ospiti della città
crescono, come anche i sacrifici e i
tempi di percorrenza. Intanto il Comune, anche attraverso la società della metropolitana costruisce parcheggi sotterranei, e facendolo, non solo
spreca la capacità tecnica e finanziaria disponibile che non è eccelsa, ma
dà in prima persona un chiaro segnale in una direzione opposta: più auto,
più traffico individuale in città.
Sarebbe un errore farne un caso solo romano. In Italia, in centri grandi e
piccoli l’auto e la sua sorellina a due
ruote stanno definitivamente espropriando le persone dalle loro vite.
Strade come confini, ponti, cavalcavia, tunnel, autostrade a otto corsie,
sono la nuova geografia, molto invadente. Le nuove rotaie servono solo
per far correre i treni ad alta velocità,
inutili, come sanno tutti, per ridurre il
traffico delle automobili, quello vero,
che consiste in spostamenti brevi, di
cinquanta chilometri o poco più. O
per girare come anime perse in città,
alla ricerca di un parcheggio, in attesa che il Comune, che la società della
metropolitana gliene crei uno.
Intercettazioni
PAGINA
l6
Modifiche al decreto, anzi no
La doppia gaffe del governo
Finanziaria
PAGINA
l7
Università in sciopero
contro la «manovra killer»
Libano
A PAGINA
l10
Reportage dalla terra minata
dalle cluster bomb inesplose
Afghanistan
Scontro fra due treni sulla linea A
della metropolitana di Roma.
Muore una donna di 30 anni.
I feriti sono 235, di cui 6 gravi.
Nessun attentato, uno dei convogli
sarebbe passato con il rosso dopo
l’ok della sala controllo. E nella
città paralizzata scoppiano subito
le polemiche. C’è chi dice «meno
feste e più servizi». Veltroni:
«Inaccettabili strumentalizzazioni
PAGINE 4 E 5
politiche»
A PAGINA
l11
Torsello, proposto uno scambio
Primi passi del ritiro britannico
Corea del Nord
A PAGINA
l11
«Le sanzioni atto di guerra»
Gli Usa: no a un nuovo test
Lo svelamento di Romano Prodi
Giuliana Sgrena
Sarà l’aria spagnola, l’abbraccio con
Zapatero e l’intesa con Madrid sulle
questioni dell’immigrazione che ha
fatto fare al presidente del Consiglio
Romano Prodi un passo in più.
Intervistato dalla Reuters ha detto di
essere d’accordo con il ministro
britannico Straw sulla questione del
velo integrale (niqab) portato da alcune
donne musulmane. «Non potete coprire
il vostro viso… è senso comune, è
importante per la nostra società.
L’importante non è come siete vestite
ma se siete nascoste o no». E poi ha
aggiunto per essere più chiaro: «Gli
immigranti sono parte del nostro
futuro». L’affermazione, come è già
successo in Gran Bretagna, susciterà
reazioni non solo tra i musulmani ma
anche tra i politici di casa nostra. La
destra, soprattutto la Lega, appoggerà
la prima parte del discorso ma non la
seconda, il centro-sinistra sarà
d’accordo sulla seconda ma sulla prima
si scontrerà con i sostenitori del
relativismo culturale che riconoscono
nelle tradizioni più oscurantiste
l’identità dell’altro da salvaguardare.
Con una forma sottile di razzismo si
ritiene che i diritti universali siano
riservati all’occidente. L’altra faccia
della medaglia di chi vuole esportare la
democrazia con la guerra. E se la
richiesta di non portare il velo integrale
può apparire una insensibilità verso i
musulmani basta pensare che non si
tratta di imposizioni religiose ma di
tradizione: le nostre nonne non
portavano forse il fazzoletto in testa? E
chi della sinistra oserebbe resuscitare la
pena di morte in nome della
tradizione? E poi se ci si sente tanto in
colpa per privare i musulmani del
controllo sulle «loro» donne attraverso
il velo una via d’uscita può essere
l’accelerazione dei termini per
l’acquisizione della cittadinanza
italiana. Altrimenti saremo superati dai
turchi in Germania, dove un appello
dei progressisti della comunità islamica
invita le musulmane a togliersi il velo
come segno di emancipazione. In
Marocco e in Tunisia il velo è già
proibito nelle scuole e nei luoghi
pubblici. Ma il re marocchino
Mohammed VI è andato oltre togliendo
le immagini di donne velate dai libri di
testo, così come gli accenni al Corano
che imporrebbe l’uso del velo. Mentre
l’Europa resterà indietro con buona
pace di Tareq Ramadan che non a caso
ritiene che il futuro dell’islam sia in
Europa.
2
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
DIRETTORI mariuccia ciotta
gabriele polo
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l’opinione
Somalia, l’irresistibile
avanzata delle Corti
Hamdi Dahir Warsame, Shugri
Said Mohamed e Maurizio Calò
L
a cronaca somala di fine di settembre ha registrato la conquista, senza
colpo ferire, di Kismayo da parte delle Corti islamiche, che l'hanno così
sottratta all'influenza di Barre Hirrale, ministro della difesa del governo provvisorio di
Baidoa e presidente dell'Alleanza del Basso
Juba. All'indomani della presa di Kismayo si
erano diffuse notizie di manifestazioni ostili
agli islamisti, con bandiere della Somalia
bruciate e la morte di un tredicenne. Ma
fonti locali hanno spiegato che i tafferugli
erano nati da una tassa sul qat con cui si era
inteso limitare l'uso della droga più diffusa
del Corno d'Africa e che i «ribelli», molti
donne e ragazzi, non erano altri che coloro
che si mantengono col suo commercio.
La precisazione si coniuga con recenti notizie secondo cui l'Unione delle Corti islamiche ha completato l'organizzazione delle
istituzioni giudiziarie nelle zone sotto la sua
influenza istituendo, tra l'altro, un tribunale
per la restituzione agli aventi diritto dei beni
abusivamente occupati da terzi durante la
guerra civile. La notizia ha avuto un forte impatto, soprattutto tra i somali della diaspora, quelli cioè che si sono trasferiti all'estero
per la guerra civile lasciando ogni bene.
A Kismayo sono state nominate le autorità della regione del Basso Juba, tra cui il governatore ed il capo della polizia, il sindaco
della città e i direttori del porto e dell'aeroporto. Appare evidente che gli islamici stanno consolidando il potere in tutte le zone
controllate, restaurando le istituzioni locali
onde ripristinare la legalità. Il consenso popolare per le Corti sta inducendo esponenti
di rilievo delle istituzioni di Baidoa a passare dall'altra parte, come ha fatto Yusuf Mire
Serar, vicepresidente dell'Alleanza del Basso Juba e membro del parlamento provvisorio, che ha consegnato Kismayo senza spargimento di sangue.
Tale evoluzione si presta ad alcune riflessioni. Gli islamici sono sempre stati vicini alla popolazione, prestando assistenza e istruzione soprattutto ai più poveri. Si è trattato
di un'opera sostenuta dai paesi del Golfo e
mantenuta malgrado la presenza dei signori della guerra, sotto i quali anzi ha potuto
svilupparsi sino a ricevere l'investitura popolare che ha permesso la presa di Mogadiscio lo scorso 5 giugno.
Gli islamici sono oggi visti come gli unici
capaci di restaurare la normalità sotto istituzioni autorevoli. Anche la sharia, la terribile
legge islamica che prevede il taglio della mano al ladro, è sopportata quale unico baluardo contro gli abusi, dalle rapine agli stupri
che, da soli, più che una sentita religiosità,
giustificano l'adozione del jilbab, una sorta
di burqa.
Un simile rispetto mai hanno suscitato le
istituzioni provvisorie varate a Nairobi nel
2004 per volontà internazionale. Governo e
parlamento transitori sono visti come creature dei signori della guerra. Il rissoso clima
interno, fomentato da ancestrali odi tra
clan, ha determinato anche errori vistosi.
Temendo l'aggressione delle Corti, il governo provvisorio ha chiesto l'intervento dell'Etiopia le cui truppe, sostenute dagli Stati
uniti, hanno fatto ingresso a Baidoa promuovendo gli islamici a difensori dell'integrità del paese.
Al dilagante successo delle Corti non è di
ostacolo l'esclusione dalla vita politica delle
donne. Si tratta della violazione di una tradizione antica di partecipazione alle decisioni
più importanti, in famiglia come nello stato, e conferma quanto devastanti siano i
guasti prodotti dai warlord nelle consuetudini del paese, tali da rendere preferibile la
rinuncia a progrediti costumi rispetto al più
corrotto disordine.
Il crescente consenso per le Corti però
preoccupa la comunità internazionale, soprattutto i paesi vicini. Il Kenya ha allertato
l'esercito. L'Etiopia ha inviato truppe a Baidoa e minaccia uno scontro diretto con le
Corti. Le Nazioni unite hanno inviato nell’area François Fall, responsabile per il Corno d'Africa, per aumentare le probabilità di
successo all'incontro tra le Corti e il governo previsto a Khartoum il 30 ottobre.
Le Corti islamiche, dal canto loro, sono
abili nell'accreditarsi sagge e rassicuranti.
Hanno, infatti, invitato il presidente di transizione Yusuf a Mogadiscio e hanno dichiarato di non voler occupare Baidoa. Collaborano col Somaliland mirando alla riunificazione generale. Se si esclude una guerra interna, che la comunità internazionale non
auspica, le Corti riusciranno a conquistare
la simpatia dell'intera popolazione. A questo punto appare sempre più incredibile
che gli Stati uniti, consapevoli dell'importanza della Somalia nell'area del Golfo e dopo lo sterile sostegno ai signori della guerra,
si lascino sfuggire l'opportunità di aprire un
dialogo, per quanto sotterraneo, con le forze più moderate degli islamici.
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Locarno. Una nuova trasferta elvetica
per «salvare il mostro». Incontrando Ramonet
sottoscrizione
La seconda volta
del Kursaal
«Siamo tutti
del manifesto»
Gianni Beretta
N
ella sua seconda trasferta all’estero, nella
Svizzera italiana, il
«mostro» aveva almeno tre cose in comune con l’iniziativa promossa dall’Associazione di aiuto medico al Centro
America (Amca) che il 9 ottobre
scorso ha portato a Locarno Ignacio Ramonet, per parlare di America Latina che «rialza la testa».
Con l’Amca ha in comune il fatto che il suo storico fondatore,
l’oncologo nonché deputato socialista Franco Cavalli, sia stato
fra i pionieri (una quindicina di
anni fa) della diffusione del manifesto in Ticino (al prezzo di ritirare a proprie spese, per i primi sei
mesi sperimentali, le copie invendute in edicola). Con Ignacio Ramonet condivide invece da tempo la sinergia editoriale della versione italiana di Le Monde Diplomatique, di cui è direttore. Mentre con (e come) l’America latina
il manifesto patisce «quell’impagabile debito estero» che è poi il
fondamento primordiale della
nostra crisi.
Dopo un’introduzione di Cavalli per aggiornare sui progetti
di cooperazione sanitaria dell’Amca sia nell’istmo centroamericano che a Cuba, abbiamo doviziosamente informato dei guai
del manifesto, cifre alla mano, i
quasi trecento presenti al teatro
Kursaal; includendo i risultati incoraggianti della sottoscrizione e
quanto ci proponiamo per mettere in ordine i conti; ricordando
Le buone azioni
per salvare il mostro
L'AQUILA, 19 ottobre
ore 17.00, C/o la Comunità Montana
Amiternina Zona A via
Arcivescovado, 21 (p.zza Prefettura),
incontro con il manifesto: «Declino
industriale delle telecomunicazioni a
L'Aquila e riflessioni su
privatizzazioni e settori strategici
legati alle telecomunicazioni e
all'aerospazio». Partecipano: Laura
Spezia, segreteria naz. Fiom,
Francesco Piccioni, redazione il
manifesto. Coordina: Alfonso De
Amicis, segreteria FP Cgil provinciale
LOCARNO, 21 ottobre
ore 19.30 maccheronata di
solidarietà con il mostro (a 10
franchi) c/o la Cantina Canetti di
Locarno, in collaborazione con le
sezioni locali del Partito socialista e
del Partito del Lavoro; per il
manifesto sarà presente Gianni
Beretta. La serata proseguirà con il
concerto del gruppo
Insubres «Cantiamo l'Uguaglianza»
(duecento anni di canti socialisti,
anarchici, pacifisti).
MILANO - 21 ottobre
Leoncavallo SPA, Giornata del
raccolto ore 15.00-18.00 «Stop
precarietà ora!» Assemblea rete
regionale contro la precarietà in
preparazione alla manifestazione di
Roma del 4 novembre; ore 22.00
«Fare società, oltre la tenaglia di
mafia e legislazione proibizionista».
Partecipano: Daniele Farina,
deputato; Cecco Bellosi,
Coordinatore Comunità Il Gabbiano
(Como); Lorenzo Frigerio, Libera;
Irma Dioli, assessore Provincia di
Milano. Coordina: Angelo
Mastrandrea, giornalista de il
manifesto. Ore 23.30. Fratelli di
Soledad e al Baretto Vito War,
ore 1.00 Big Youth from Jamaica
(sound system show).
Ore 2.30 GoldenBass.
La serata è a sostegno della
campagna a favore de il manifesto
comunque che la medicina risolutiva per sradicare la nostra malattia sarebbe quella di «comprarci» tutti i giorni. Non era il momento di approfondire il dilemma di «come farci piacere di più»
per conquistarci tale fedeltà. Ma
il prossimo 21 ottobre, la maccheronata di solidarietà convocata
presso la cantina Canetti di Locarno (in collaborazione con le
sezioni locali del Partito socialista e del Partito del lavoro) sarà
dedicata esclusivamente al «mostro». E allora si potrà parlare di
tutto, accompagnati dalle note
del gruppo Insubres nel concerto «cantiamo l’uguaglianza» (duecento anni di canti socialisti,
anarchici, pacifisti).
Al Kursaal il responsabile per
l’informazione della Radio svizzera di lingua italiana, Roberto Antonini, ha dunque incalzato Ramonet (che arrivava da L’Avana
dove è appena uscito un suo libro-intervista a Fidel Castro) portandolo a dibattere dalle ultime
elezioni messicane («forse il subcomandante Marcos avrà sbagliato a osteggiare Lopez Obrador,
ma i voti degli zapatisti non
avrebbero comunque impedito
il broglio del vincitore Calderon»), a quelle in corso in Brasile
(«non mi sento di criticare Lula
che aveva anticipato già a Porto
Alegre che nel suo primo mandato avrebbe soprattutto cercato di
stabilizzare i dati macro-economici, per poi, nel secondo, dedicarsi al sociale»). Per Ramonet,
che è anche tra i promotori della
rete Attac e del forum di Porto
Alegre, «il miracolo» dei governi
di sinistra latinoamericani costituiscono un vero mal di testa per
George Bush junior, «particolarmente occupato a risolvere i pasticci che ha procurato in altre
aree del mondo». Ignacio ha comunque incentrato moltissimo
le sue riflessioni sull’«omologazione del mondo dell’informazione» e dei suoi «due pesi e due misure». Non fu notizia particolare
per nessuno per esempio che
«Menem privatizzasse di tutto,
portando l’Argentina nel baratro»; mentre «ci si stropiccia le vesti per un’unica nazionalizzazione (degli idrocarburi) di Morales
in Bolivia»; oppure del putiferio
montato su Chavez che incontra
Ahmadi-nejad, dimenticandosi
del fatto che prima si fosse riunito con re Juan Carlos, Blair e Berlusconi; o ancora del grande
scandalo sollevato dai media per
la crisi politica «arancione» in
Ucraina, mentre la recente ennesima frode elettorale consumata
in Messico non ha scomposto
pressoché alcuno. Per finire con
la prima condanna per «terrorismo di stato» inflitta nel 1986 dalla Corte internazionale dell’Aia
nei confronti degli Usa (per la posa di mine nei porti nicaraguensi
a opera della Cia), che non viene
mai evocata in tempi di lotta planetaria contro il terrorismo islamico. Insomma una bella chiacchierata che ha toccato pure le
tensioni di questi giorni in estremo oriente. All’uscita non è mancata la generosità dei partecipanti: per i progetti sanitari dell’Amca e per il manifesto, per il
quale, con la vendita di tutti gli
speciali per i 35 anni e l’Atlante
che avevamo con noi, sono stati
raccolti poco meno di 900 euro.
Manifestazione antirazzista a Roma
Foto Antonio Priston
In tanti nel piccolo gioiello del chiostro di Santa Chiara
In giro tra Foggia e Cerignola
Francesco Piccioni
C’
è sempre qualcosa di più nel Mezzogiorno. Un di più di soggettività in
compagni che vivono in situazioni
politicamente difficili, dove masse importanti di popolazione povera vivono tra disincanto, clientelismo taccagno, rassegnazione. L’impegno necessario a mettere in piedi un’iniziativa,
farla riuscire, tenere insieme gruppi diversi (le divisioni interne alla sinistra sono presenti e vive dappertutto), rasenta lo stoicismo.
A Foggia lo si percepisce già scendendo dal treno e girando per le strade intorno alla stazione.
Michele ci prende e ci porta in giro, indicando col
dito, ricordando, ricostruendo storie. Nel chiostro
di Santa Chiara, un piccolo gioiello, ci aspettano
davvero in tanti. Hanno fatto una «raccolta preventiva», militante, che ha messo insieme ben
2.300 euro. Un’enormità, tenuto conto che questa è già la seconda iniziativa per «salvare il mostro», e nella prima ne avevano raccolti 4.000.
Una città generosa, indubbiamente. Una città balzata ai dubbi onori delle cronache del lavoro per
lo scoop di Fabrizio Gatti su l’Espresso, tra caporalato, lavoro nero e immigrati schiavizzati (all’improvviso capisci a cosa serve il pullman polacco,
quello che fa spola tra qui e Varsavia, visto sul
piazzale della stazione). La città dove sabato 21 i
sindacati confederali saranno in piazza per una
manifestazione nazionale contro la piaga del lavoro nero e della relativa evasione fiscale, contributiva e chi più ne ha più ne metta.
Le domande corrono tra pubblico e «intratteni-
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tori». Somigliano a tutte le altre, e anche noi ne poniamo: «cos’è che vi spinge a comprarci? cos’è
che vi fa dire ’stavolta non vi compro più’?». Spiegare la crisi è facile, indicare un progetto o un programma per uscirne, un po’ meno. Ci si interroga
sulla legge per l’editoria e i tanti «furbetti» che prosciugano il flusso dei finanziamenti, ma anche sulla testatina «quotidiano comunista» («allontana
un certo pubblico oppure lo mantiene vicino?»).
Veniamo comunque promossi. Siamo «indispensabili» perché solo noi «diciamo cose di cui gli altri non parlano»; e perché solo noi «non nascondiamo le magagne e i cedimenti anche della sinistra». La fama di rompiscatole, insomma, ci aiuta
a vivere.
Rispetto ad altre iniziative stupisce il fatto che
si sia riusciti a raccogliere così tanti soldi promettendo soltanto un po’ di dibattito e «tarallucci e vino», che abbondano su un tavolo laterale. Poi Natalia Bonanise dà uno spettacolare saggio di danza del ventre e una compagnia di «artisti in libertà» – tra cui Nicola Priolo, allievo di Matteo Salvatore – fa arrivare altra gente, giovani soprattutto,
attirati dalla musica popolare che si sente fin dal
corso. Li accoglie l’ologramma del «Che», proiettato sull’unica parete liscia del chiostro.
La mattina di domenica Mimmo, storico attivista ambientalista, ci fa strada verso Cerignola, paese di Giuseppe Di Vittorio, il leader dei braccianti
che divenne un segretario della Cgil di statura
quasi mitica. La campagna è meno coltivata di
quanto si potrebbe, a conferma di una «passività»
imprenditoriale più tentata dagli «aiuti» (i finanziamenti europei o nazionali) che dalla produzione. «E pensare che qui cresce il meglio di tante cose...».
La chiacchierata avviene nella villa comunale,
con una presenza inattesa anche per gli organizzatori (giovani comunisti, Arci, Ass. Radici, Coop Pietra di scarto). C’è spazio per interrogarsi anche sulle ragioni ideali (ci sono ancora? e quanto?), sul
senso della parola «comunista», su Marx e il movimento no global, sul percorso storico di questo
giornale. Alla fine smettiamo solo perché la villa
chiude all’una e i vigili urbani ci fanno cortesemente capire che è ora di andarsene. Con 500 euro in più. Sabino, il motore dell’iniziativa, ci trascina infine al «Gorizia», che a dispetto del nome propone solo piatti tipici della zona. Antipasti e «assaggini» di primi piatti raggiungono ben presto il
risultato di sbarrare la strada ai «secondi». C’è
sempre qualcosa di più nel Mezzogiorno.
Venti artisti - Sergio Anderloni,
Davide Antolini, Maurizio Azzolini,
Andrea Cardone, Sergio Cristini,
Lynette Darlington, Marco Danielon,
Amaranta De Francisci, Francesco
Ferrara, Bertilla Ferro, Gianfranco
Gentile, Giuliana Magalini, Giovanni
Meloni, Mauro Nicolini, Maurizio
Paccagnella, Renzo Pastrello, Guido
Pigozzi, Silvano Taggetto, Gek
Tessaro, Tinto - hanno venduto le
loro opere alla festa provinciale della
festa dell’Unità di Verona e devoluto
al manifesto 3.500 euro
Lavoratrici e lavoratori di Finsiel e
TeleSistemiFerroviari 650 euro
Bellotto Emiliano 200 euro
Beltrani Paolo 50 euro
Benassi Annita 50 euro
Benedetti Irene 100 euro
Benedetti Roberta 10 euro
Benuzzi Valerio 50 euro
Benvenuti Marcella 300 euro
Berardi Mario 30 euro
Bergamaschini Bruno 100 euro
Bernacchia Sandra 400 euro
Bernardi Fabio 10 euro
Bernasconi Armando 50 euro
Bersotti M. e Chimenti D. 25 euro
Bertaccini Guido 20 euro
Bertero 40 euro
Bertoci Stefano 50 euro
Bertolina Annamaria 100 euro
Bertolini Davide 20 euro
Bertolotti Stefano 10 euro
Bertolucci Stefano 150 euro
Bertozzi Chiara 100 euro
Besenghi Alba 200 euro
Bettini Maurizio 115 euro
Bevicini Cecilia 25 euro
Bianchi Giorgio 75 euro
Bianchi Maria Adele 100 euro
Bianchi Patrizia 30 euro
Bianco Antonio 50 euro
Biasia Alma 300 euro
Biasin C. e Gotti Stefano 20 euro
Biasioli Umberta 50 euro
Bica Fausto e Miriam 50 euro
Bigazzi Viola 15 euro
Bigi Laura 100 euro
Bigini Ivano 50 euro
Biliotti 50 euro
Billet Nadia e Tania 25 euro
Binda Mario 40 euro
Biondi e Tonielli 300 euro
Biondi Marco 30 euro
Birra Felice e Claudia 100 euro
Bisi Marco 50 euro
Bizzotto Flavio 160 euro
Blasi Antonio 20 euro
Bletzo Francesco 50 euro
Bo Maria Elena 100 euro
Boasso Domenico 50 euro
Bodei Diego 50 euro
Bodica Luigi 25 euro
Boeri Mauro 150 euro
Boldini Milena 100 euro
Boldini Valeria 30 euro
Bologna Vincenza 25 euro
Bolognese Walter 50 euro
Bombardieri Ornella 30 euro
Bonacini Daniele 50 euro
Bonanni Denise 50 euro
Bonapace William 50 euro
Bonci Ilaria 50 euro
Boncompagni M., Rocchi P. 50 euro
Bondioli Massimo 50 euro
Boner Lina 100 euro
Bonera Michele 10 euro
Bonetti Anita 200 euro
Bonezzi Anna Grazia 100 euro
Bonfoco Aurora 150 euro
Boni Bruno 40 euro
Boni Giampaolo 100 euro
Boni Tiziana e Wan V. 50 euro
Bonini Fabio 100 euro
Bonini Patrizia 10 euro
Bonini Valentino 20 euro
Bonsante Mosetti 70 euro
Bonsi Renato 100 euro
Bonsignori Angelo 50 euro
Boothman Derek 500 euro
Borasi Domenico 50 euro
Bordi Eliana 20 euro
Bordin Cristiano 50 euro
Borghi M. Luisa 50 euro
Borghi Mauro 20 euro
Borrello Enrico 100 euro
Borrello Franco e moglie 30 euro
Bortoletti Daniele 70 euro
Bortolotti Arrigo 50 euro
Boscherini Brunetto 50 euro
Boselli Marco 50 euro
Bosio Giovanni e Piero 30 euro
Botter Giorgio 100 euro
Botticella Stefano 40 euro
Bovini Casciola Mirco 100 euro
Bovo Antonio 50 euro
Bovo Nadia 100 euro
Bozzo Michelle 50 euro
Bracci Gabriele 100 euro
Bragato Mara 20 euro
Braghiroli Rino 50 euro
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
la pagina
3
Usa verso le elezioni
Il 7 novembre si rinnova gran parte del parlamento
Il muro del sogno di Tijuana
dell marina. In fondo, come dicono i generali, «non
c’è terreno migliore di questo per preparare un’unità
alla guerra in Afghanistan». Dal 1997, sono stati
spesi in tecnologia 430 milioni di dollari per sorvegliare questo lato della
frontiera.
Dal lato americano quindi non è solo un muro, ma
un motore economico; crea occupazione sicura a salari alti, quando in America i nuovi posti di lavoro sono quasi tutti precari e mal pagati: un ragazzo che
si arruola nella Border Patron prende
60.000 dollari lordi l’anno (48.000 euro)
con gli straordinari. Con dieci anni di
anzianità si possono fare 100.000 dollari. C’è una lunga fila di aspiranti doganieri tra gli smobilitati dall’Iraq. E ci sono non solo gli agenti, ma gli addetti alle apparecchiature, i controllori, i produttori di nuovi software, i meccanici, i
piloti.
Dal lato messicano la «guerra ai clandestini» ha fatto strage. Nella sezione
che corre lungo l’autostrada che porta
all’aeroporto internazionale di Tijuana,
il muro metallico è adornato da una se-
L’infinita barriera in triplice linea costruita dagli
Stati uniti al confine sud non ferma gli immigrati, di
cui il paese ha comunque bisogno, ma è un fondale
scenografico per la demagogia razzista dei politici.
E serve come sito per testare armi e tecnologie militari
Marco d’Eramo Tijuana
A
prima vista (ma solo a prima vista) ti delude. Te lo aspettavi
più imponente, più terrificante, il muro che qui, appena a
sud di San Diego, separa gli Stati uniti
dal Messico, prototipo della muraglia
di milleduecento chilometri (sui 3.500
km di confine tra i due paesi) che la Camera dei rappresentanti statunitense
ha approvato (ma che il Senato deve ancora ratificare). Alto tra i due e i quattro
metri, è fatto di lamiera metallica sagomata, ricoperta di uno strato antiruggine; quella lamiera che nella seconda
guerra mondiale veniva stesa su terreni
paludosi o di terra molle per permettere agli aerei di decollare e atterrare.
La città di Tijuana, circa un milione e
mezzo di abitanti, ci si appoggia contro,
su per le colline, giù nei cañon, con le
baracche, le catapecchie, le case dai muri maestri fatti di pneumatici impilati,
ma anche le palazzine di uffici e studi
dentistici. Qualche locanda ci prospera
accanto, anche con nomi spiritosi, come La Pasadita (con riferimento al passaggio della frontiera). Era questo il muro che i coyotes (cioè i polleros, i passatori), facevano superare in tunnel sotterranei. Era questo metallo trasandato che,
secondo i politici americani, doveva
rendere impermeabile questo punto di
contatto immediato tra Primo e Terzo
mondo.
Uno degli artisti più famosi di Tijuana, Marco Ramirez «Erre» (ha costruito
un cavallo di Troia ligneo da mettere a
cavallo del muro per far infiltrare nella
cittadella Usa gli «invasori» chicanos),
mi porta su e giù lungo questo muro, fino all’Oceano Pacifico, dove la barriera
di metallo (che qui diventa una palizzata di acciaio) s’inoltra a dividere le acque: «Separare l’acqua sembra più innaturale, più perverso che separare la terra», mi fa notare.
Ma dietro il muro trasandato, ecco il
bastione tecnologico, separato da una
terra di nessuno di cinquanta metri, pattugliata dai fuoristrada della polizia di
frontiera, la Border Patrol. Questa seconda barriera non è un muro in senso
proprio, ma una serie di piloni di cemento grigio chiaro, ben più alti (6-7
metri), posti a una distanza di pochi
centimetri l’uno dall’altro, che permette di passare a gatti, topi e cani, ma non
agli umani. La barriera è sormontata da
un’elettrificata rete inclinata larga un
metro. I piloni sono infissi in profondità sotto terra per impedire i tunnel. Ma
quel che più conta sono le torri di vedetta, sottili guglie di acciaio alte una ventina di metri, dotate di potenti lampade
che illuminano a giorno la notte, telecamere mobili e un terrazzino circolare
ringhierato per la manutenzione o la
ronda. E una terza barriera è in costru-
3
zione.
Ho conosciuto Marcos Ramirez a
San Diego, a casa di Mike Davis, autore
del fondamentale libro su Los Angeles
Città di quarzo (ed. manifestolibri), che
ha scritto un interessante saggio su «La
Grande Muraglia del Capitale» in cui descrive bene il dispendiosissimo e in
gran parte vano tentativo americano di
chiudere la porta della frontiera sud. La
militarizzazione de la linea (così la chiamano i messicani) divenne visibile a tutti nel 1992 con l’Operation Hold the Line nel settore di El Paso (Texas), e soprattutto, nel 1994, con l’Operation Gatekeeper («Operazione guardiano») con
cui – dopo la «guerra alla droga», e prima della «guerra al terrorismo» – fu dichiarata «guerra ai clandestini».
Con l’appoggio del Pentagono, la guerra ai clandestini è
sempre più tecnologica e massiccia. I posti di controllo sono
ormai dotati di radar e telecamere ai raggi infrarossi. La regione di San Diego-Tijuana è
un laboratorio per il ministero
di Giustizia che qui ha il suo
Border Research and TehnoloGeorge Bush ha firmato ieri la nuova legge
gy Center, un laboratorio di ri«antiterrorismo» che copre le prigioni segrete
cerca che studia e sperimenta
della Cia e in sostanza autorizza la tortura
incessantemente per miglioradei sospetti. La legge è il frutto di una lunga
re i rivelatori di clandestini, retrattativa fra i partiti che ha consentito
ti di sensori sismici, magnetici,
l’approvazione del Congresso, dopo che le
tutti collegati via satellite ai
misure precedenti erano state bocciate dalla
centri di controllo. Il PentagoCorte suprema. «Quella di firmare una legge
no fornisce alla Border Patrol
in grado di salvare vite umane, è
elicotteri d’attacco Super Coun'occasione rara per un presidente. Io ho
bra e Black Hawk, aerei Awacs
avuto il privilegio questa mattina», ha detto
di sorveglianza radar, persino
Bush al momento della firma, attorniato da
droni (aerei a guida automatiagenti dell'intelligence e vertici militari.
ca di sorveglianza) e, quando
necessario, reparti d’élite, i
Rangers dell’esercito e i Seals
Stati uniti
Bush firma la nuova
legge «antiterrorismo»
rie infinita di croci che portano i nomi
dei messicani periti nel tentativo di oltrepassare il muro o attraversare il deserto. Così i morti lungo la frontiera sono passati da 61 nel 1995 a 261 nel
1998, a 373 nel 2004, a oltre 500 nel
2005. Nel frattempo i manager delle
maquilladoras e i professionisti transfrontalieri, grazie a documenti elettronici, attraversano il confine in corsie
preferenziali «Sentri» – Secure Electronic Network for Travelers Rapid Inspeciton.
Ma quanto è efficace questo muro, e
quanto lo sarà se (ma è improbabile) il
Senato approverà l’estensione di 1.200
km? Secondo dati del ministero della Sicurezza, meno dell’1% degli allarmi provocati dai sensori ha portato ad arresti.
I sensori sono attivati per lo più da vacche o da treni, creando una gigantesca
perdita di tempo. Altrettanto inefficaci
si sono dimostrati i sistemi radar usati
per individuare i tunnel sotto il muro. Il
più lungo tunnel conosciuto, 720 metri,
è stato scoperto a Tijuana alla fine di
gennaio: per una soffiata, non dalla tecnologia.
Ma la migliore prova dell’inefficacia
dei muri, delle cacce all’uomo nel deserto dell’Arizona, delle ronde volontarie
di americani xenofobi, sta nelle nude cifre dell’immigrazione clandestina: secondo le stime più accurate il numero
di clandestini negli Usa è più che triplicato, dai 3,5 milioni prima dell’Operation Gatekeeper agli 11,5 milioni di oggi.
Ma allora perché? Secondo Mike Davis, il muro non è altro che uno scenario teatrale della politica. L’economia
americana non può vivere senza immigrati – e lo sanno tutti, legislatori compresi – ma la demagogia richiede «fermezza e decisione nell’impedire che i
clandestini vengano a deturpare le nostre città». Sarà un fondale teatrale, ma
produce devastazioni non solo per le vite umane che cancella, ma anche per le
cicatrici che lascia nelle menti. Perché,
muro o non muro, il nord del Messico e
la California meridionale costituiscono
un’unità. Marcos Ramirez vive a Tijuana, ma ogni mattina porta i figli al liceo
a San Diego e due volte la settimana va
a Los Angeles a insegnare nel dipartimento d’arte dell’Università di California. Molti studenti americani che frequentano l’università a San Diego prendono casa a Tijuana perché gli affitti sono molto più bassi. Cinquantamila messicani traversano la frontiera ogni mattina. La battuta è che per gli americani il
Messico è come sposarsi, è facile entrarvi (si passa senza passaporto), ma è difficile uscirne (file anche di due ore e controlli accurati).
Ma forse il dettaglio più disperante –
a ricordare che essere vittima non vuol
sempre dire essere innocente – me lo
fornisce Marco Ramirez quando mi parla del razzismo del messicani («non è
perché gli americani sono razzisti verso
di noi che noi ne siamo vaccinati») e mi
racconta quel che devono sopportare i
clandestini dei paesi centroamericani,
Nicaragua, Salvador, Guatemala, che
prima di arrivare al muro di San Diego
o al deserto dell’Arizona devono riuscire a superare il confine sud del Messico:
«E lì ci sono i campi minati, altro che
muri. Per loro quella è la vera frontiera
pericolosa, questa è una passeggiata all’acqua di rose».
Un’auto della Border
Patrol sorveglia il
«muro» di lamiera del
confine col Messico,
fra San Luis in Arizona
e San Luis nello stato
di Sonora, nel maggio
scorso Foto Ap
Muraglie moderne
Le inutili difese
del privilegio bianco
Fu quando costruì il muro di Berlino che l’Unione sovietica
rivelò al mondo la fragilità del socialismo realizzato e
preannunciò la propria sconfitta: che è sistema è mai quello
che per trattenere i propri cittadini deve rinchiuderli con un
muro? Così quello della Germania est fu il primo e finora
unico regime nella storia abbattuto da una (biblica) domanda
di visti turistici. Per questo gioimmo in molti quando nel 1989
il muro fu abbattuto: non rimpiangemmo il breznevismo. Ma
mai avremmo immaginato che meno di vent’anni dopo i
muri, materiali e immateriali, sarebbero proliferati nel
mondo. C’è il muro che gli israeliani erigono in Palestina,
squarciando le città in due. C’è il muro che la fondamentalista
Arabia saudita vuole costruire al confine con l’Iraq per
impedire l’ingresso ai fondamentalisti di al Qaeda. C’è il muro
che gli americani hanno progettato di costruire tutto attorno a
Baghdad per combattere il terrorismo. C’è la barriera che
l’India sta costruendo al confine col Bangladesh per
respingere gli immigrati: «Fa spavento
pensare a orde di gente così povera da
rischiare la pelle per raggiungere quella
terra promessa che sono gli infami slums
di Calcutta» (Mike Davis). Il mondo
sembra preso da un’improvvisa passione
per muri, bastioni, recinti, staccionate
elettrificate, cavalli di Frisia, fili a lame di
rasoio, proprio mentre i cantori delle
magnifiche sorti e progressive intonano
inni alla mobilità e alla comunicazione,
alla potenziale ubiquità di ognuno di noi.
Ma le barriere, una materiale e due
immateriali, che fanno più impressione
sono quelle erette per difendere tre
roccaforti del capitale. C’è la Howard Line a proteggere
l’isola-continente Australia dagli immigrati che vorrebbero
sbarcare e che vengono respinti, affondati, imprigionati. C’è
poi la Fortezza Europa con la sua capillare sorveglianza dei
mari, i suoi centri di detenzione, gli avamposti nei paesi
dell’Africa e del Maghreb. C’è infine il muro fisico di 1200 km
che gli Stati uniti vogliono costruire lungo la frontiera
messicana e di cui esistono vasti spezzoni tra San Diego e
Tijuana e tra El Paso e Ciudad Juárez. Simili al Vallum
Adrianum, al Limes Porolissensis che il tardo impero romano
eresse nella futile illusione di difendersi dalle «orde
barbariche», queste tre barriere difensive si sono rafforzate
proprio mentre progredivano i trattati che liberalizzavano il
commercio internazionale. La «guerra ai clandestini» è stata
ufficialmente dichiarata e si è intensificata di pari passo con la
messa in atto del Wto a livello mondiale, e del Nafta a livello
nordamericano.Da 15 anni a questa parte, più vengono
eliminati gli ostacoli alla libera circolazione delle merci e del
capitale e più si creano barriere per imbrigliare la circolazione
degli umani. Non è un caso. È la libertà delle merci a creare le
condizioni di questi esodi umani. I capitali che vagano per il
pianeta alla ricerca dei posti in cui la forza lavoro è più a buon
mercato (notare il doppio senso della parola buono) sono il
vento che sospinge di qua e di là le masse umane in balia di
esso. Il capitale li scaccia dalle loro terre dove non possono
più vivere, e li chiama nelle proprie signorie dove non vuole
più pagare a tariffe sindacali i suoi indigeni. In fondo lo ha
sempre fatto: nell’800 la globalizzazione fece sì che il grano
americano e sudamericano, assai più a buon mercato,
mandasse in rovina i coltivatori europei che producevano su
terreni montagnosi o poco fertili, e che quindi, come i nostri
meridionali, emigrarono nella terra che li aveva forzati
all’esodo. Ma nell’800 non si costruivano i muri, perché il
capitale poteva ancora bearsi nell’illusione di controllare i
flussi e le loro conseguenze. Una miopia pagata con le
sommosse dei ghetti neri nell’America degli anni ’60 e con la
rivolta delle banlieues francesi, solo per citare due esempi. Il
capitale ha bisogno di immigrati e clandestini, ma li vuole
tenere fuori. Una volta le contraddizioni erano in seno al
popolo. Ora sembrano aver traslocato di campo. (M. d’E.)
Circolazioni
Più libertà
di movimento per
i capitali significa
più barriere
per gli umani
4
il manifesto
&
politica
mercoledì 18 ottobre 2006
società
Le reazioni
«Soldi e verità»
Migliore (Prc)
Investire in sicurezza
La Cgil
«No giudizi affrettati»
Bonelli (Verdi)
Roma penalizzata
«Esprimiamo il nostro cordoglio per
il tragico incidente e la nostra
vicinanza ai familiari delle vittime ed
ai feriti. Cresce l'esigenza per un
intervento serio sulla sicurezza nei
luoghi di lavoro e la necessità di
investimenti maggiori nei trasporti
per la tutela di tutti i pendolari che
ogni giorno sono sottoposti a disagi.
Ora sarà necessario fare chiarezza
sull'incidente ed accertare le
responsabilità di quanto accaduto».
Così Gennaro Migliore, presidente
del gruppo di Rifondazione
comunista alla Camera.
La Cgil di Roma e del Lazio, oltre a
esprimere cordoglio ai familiari
della vittima, auspica che «le
inchieste in corso facciano presto
luce sull'accaduto ed individuino
le vere cause del gravissimo
incidente, al fine di garantire la
sicurezza dei cittadini e dei
lavoratori. In questo difficile
momento per la città di Roma e
per i suoi cittadini, invitano tutti
ad evitare conclusioni affrettate,
che possono essere di pregiudizio
alla ricerca delle effettive cause
dell'incidente».
«È necessaria una forte iniziativa
per il trasporto pubblico di Roma a
partire da questa finanziaria,
perchè nei confronti della capitale
c'è una pesante discriminazione.
Roma è penalizzata rispetto ad
altre città, basti pensare che riceve
dal fondo nazionale per i trasporti
solo 79 euro procapite mentre
Milano ne riceve 270. Una
situazione che non è sostenibile e
che va modificata. Bisogna
intervenire subito». Così il
capogruppo dei Verdi alla Camera
Angelo Bonelli.
Senza festa
Il treno era stato autorizzato a partire con il rosso «permissivo» dalla centrale operativa
La doppia rete
metropolitana
Giallo sulle cause dello scontro
Roberto Silvestri
L
a tragedia cruenta della linea A ha
quasi interrotto ieri la Festa del cinema. Un minuto di silenzio prima
delle proiezioni. Sospeso, ovviamente, ogni festeggiamento rumoroso di
troppo... Certo. Ma senza una rete metropolitana e di servizi pubblici all’aria aperta
efficienti e funzionanti come a Londra e
New York, a Tokyo e Mosca, non si può fare un grande festival del cinema che sia la
festa di una grande città. Che la faccia muovere e spostare, socializzare sia di giorno
che di notte, e offra «cibo di classe» per consumatori, attivi, critici e curiosi e a loro volta nuovi produttori di immaginario. Certo,
la Metropolitana è un mezzo, come la cultura, per lo sviluppo, mai viceversa, si potrebbe dire parafrasando Sankara, profeta
inascoltato di un «partito democratico internazionalista» a venire. Perché senza moltiplicare le occasioni di comunicazione,
senza utilizzare energia e creatività «dal basso», non c’è alcuna crescita né dei bisogni
individuali né dei desideri collettivi. E un
servizio pubblico - come un festival - deperisce, non si bea, di privatizzazione.
Chi sa e vede cosa succede nel mondo (e
come funziona bene il «servizio pubblico»,
o i locali privatissimi della movida a Lisbona o Praga, a Capetown o Berlino) magari
poi esigerà gli stessi servizi e i piacevolissimi «altri luoghi», a Roma, in provincia e nel
Lazio. E che nessun sindaco si permetta di
«spegnere un’emozione» alle 2 di notte, in
nome della santità del lavoro, ammutolendo i locali notturni.
Questa è la forza imprenditoriale della
cultura. Ecco perché nel bilancio dello stato italiano la voce Cultura è a meno dell’1%
sul totale della spesa, un record negativo,
tra i tanti che contraddistinguono, tra le democrazie occidentali, quella da cui scappano più ricercatori, innovatori, cineasti e documentaristi davvero interessanti. Negli
Usa è almeno al 4% (roba da citarla in sede
Wto per concorrenza sleale).
L’anno prossimo, poi, meglio smettere
con suggestione da Br tipo «entrare in clandestinità»: i biglietti per entrare al cinema
della Festa se si mettono in vendita prima
agli sponsor e poi alla fondazione Musica
per Roma, come è successo quest’anno, finiscono tutti prima che la festa cominci, e
allora «no biglietto no party». Che poi ci siano troppe sale vuote e sia un rompicapo
scoprire dove si proiettano i film, è un difetto che la seconda edizione potrà superare
facilmente, magari mettendo un indice
analitico con sede e ora di proiezione alla fine del cataloghino portatile.
Detto questo che nessuno dica che la Regione, il Comune di Roma e la Provincia dovevano spendere meglio i suoi soldi. La Festa del Cinema non ha alcuna responsabilità, né diretta né indiretta, nel dramma della metropolitana di ieri (tranne per come
gli armadi della security trattano zingari e
autoriduttori).
Sono sempre irrisorie, ripetiamo, indegne di un paese promosso nel consiglio di
sicurezza Onu, le spese per la cultura sostenute annualmente anche dagli enti locali
(e autolesioniste nel post-industriale, quando la competizione sul «mercato immateriale» richiede aggiornamenti e competenze). E nel caso di Roma i 7 milioni di euro
spesi (anche per invitare Kidman e Scorsese e codazzi vari, aereo e grande albergo
compresi: il sistema sensorio dei grandi media è Moloch incontentabile) - mentre i 2,5
della camera di commercio hanno riempito grandi alberghi, vuoti, dicono le statistiche in questa settimana, il resto è degli
Sponsor - sono nulla e non intaccano le
spese di tipo strutturale (che hanno voci di
bilancio a parte).
Dunque la critica al Veltroni festivo, per
non essere qualunquista, aprioristica e strumentale, esige, a sinistra, l’abbandono di
ogni nostalgia quaresimale. Massenzio, però, va radicalizzato e riletto con gli occhi
del XXI secolo per non diventare un boomerang.
ni secondi se per qualche motivo il macchinista
tarda a compire l’operazione. E sempre a bordo
del treno esistono meccanismi di frenata automatici in grado di garantire la sicurezza anche nel caso il macchinista dovesse sentirsi male.
La situazione di semaforo rosso «permissivo» è
proprio quella incontrata da Tomei poco prima
che il suo treno si schiantasse contro quello fermo nella stazione di piazza Vittorio. «Nella maggior parte delle metropolitane, anche all’estero, ha spiegato ieri il direttore di esercizio della Met.
Ro, Gennaro Maranzano - in galleria c’è quasi
sempre il segnale di rosso permissivo». Una misura spiegata con l’esigenza di prevenire il panico
tra i passeggeri, che non amano restare fermi nelle gallerie. Tutto normale, dunque, e soprattutto
senza alcun pericolo né per i viaggiatori né per il
personale. Superata la stazione Manzoni, chiusa
per lavori, Tomei ha quindi incontrato un primo
segnale di rosso permissivo a 480 metri dalla stazione di piazza Vittorio e un secondo rosso permissivo a 120 metri dalla stessa stazione. Ma se
Tomei procedeva «a vista» e a una velocità di 15
chilometri orari, perché non si è accorto del treno fermo lungo la banchina? La risposta a questa
domanda potrebbe essere anche la risposta al
perché della tragedia.
Carlo Lania Roma
La verità sulla tragedia potrebbe essere nascosta
in 120 metri di binari. Per ora è solo un’ipotesi,
ma di sicuro uno dei punti su cui gli inquirenti
che indagano sull’incidente avvenuto ieri mattina nella metropolitana di Roma dovranno fare
chiarezza, riguarda proprio cosa potrebbe essere
accaduto lungo quei 120 metri che separano l’ultimo semaforo posto a fianco della linea dall’ingresso in stazione. Un lasso di spazio e di tempo
durante il quale Angelo Tomei, il macchinista
che si trovava alla guida del convoglio che poi ha
tamponato il treno fermo alla stazione di piazza
Vittorio, avrebbe interloquito con la centrale operativa chiedendo e ricevendo istruzioni.
La registrazione di quella conversazione è stata sequestrata ieri dalla polizia, ma da quanto si è
appreso Tomei avrebbe segnalato «un notevole
intasamento» del traffico, chiedendo se doveva
fermarsi oppure no. La risposta lo avrebbe autorizzato a proseguire il viaggio «a vista», procedendo a una velocità moderata. Una ricostruzione in
quanche modo confermata anche dal presidente
di Met.Ro, la società che gestisce la metropolitana di Roma, Stefano Bianchi, che ieri sera ha spiegato come il convoglio guidato da Tomei abbia incontrato nel suo viaggio
un semaforo indicante «rosso permissivo», una segnalazione
che,
contrariamente a
quanto si potrebbe
pensare, non obbliga il macchinista a
fermarsi bensì a
procedere
con
un’andatura non
superiore ai 15 chilometri orari. Inferiore, però, a
quella indicata sempre ieri dal ministro dei Trasporti Alessandro Bianchi quando, nell’audizione tenuta in parlamento, ha parlato di una velocità del convoglio «attorno ai 25-30 chilometri orari».
Una parola definitiva arriverà dall’analisi delle
scatole nere e dei computer della sala operativa,
insieme alle testimonianze raccolte ieri dal pm
Elisabetta Ceniccola a cui sono state affidate le indagini. Di certo fin dal primo minuto la dinamica
dell’incidente è risultata quantomeno strana non
solo a chi indaga, ma anche ai primi soccorritori
giunti in stazione. «Qualcosa di palesemente anomalo è accaduto, ma è ancora presto per poter
trarre conclusioni sulle cause. Aspettiamo l’esito
delle perizie e delle indagini della magistratura»,
spiegava ieri il Questore Marcello Fulvi. Una ad
una le possibili cause dell’incidente sono sfumate con il passare delle ore. Dalla prima ipotesi di
un attentato, fortunatamente subito accantonata, a possibili anomalie di servizio. Anche la possibilità di un’interruzione elettrica, segnalata da
molti passeggeri, è stata in seguito smentita sia
dalla società Met.Ro che dai vigili del fuoco. Esclusa, infine, anche l’ipotesi di un errore umano, almeno da parte del macchinista.
Per quanto in passato non siano mancate segnalazioni sulle carenze della due linee che compongono la metropolitana capitolina e sull’usura
di parte dei mezzi utilizzati, almeno sulla carta i
sistemi di sicurezza adottati lungo il tratto coinvolto nell’incidente risulterebbero più che adeguati. «E’ veramente difficile che un treno possa
scontrarsi lungo la linea», spiegavano ieri alcuni
macchinisti. Una parte della sicurezza è affidata
alle segnalazioni luminose, cinque in tutto, che
interagiscono con il convogli al loro passaggio. Oltre a due tipi di rosso (rosso «imperativo» che impone la fermata e rosso «permissivo» che consente di marciare a un massimo di 15 km/h) ci sono
due gialli (fisso: marcia regolare a un massimo di
50 km/h fino al segnale successivo e lampeggiante, che consente di viggiare a una velocità di 65
km/h) e un solo verde che indica il via libera con
una velocità massima di 80 km/h. Ogni volta che
il convoglio passa accanto a un semaforo il macchinista vede ripetuta la stessa segnalazione su
un display posto nella cabina di guida. A quel
punto adegua la velocità in base al segnale ricevuto, cosa che avviene automaticamente dopo alcu-
Sistemi di sicurezza
Il macchinista procedeva a una
velocità ridotta prima dell’impatto.
Escluso l’errore umano.
Il questore: «E’ successo qualcosa
di palesemente anomalo»
Tra le lamiere della
metropolitana dopo
l’incidente. Sotto,
scampati
all’incidente seduti
su sedie messe a
disposizione dai
negozi della piazza.
Foto Ap
Metro A: treni nuovi, linea vecchia
Mezzo milione di persone ogni giorno salgono
sui 19 km della prima metropolitana. Ma, nel
disastrato sistema dei trasporti su ferro della
capitale, il peggio è sul trenino Roma-Pantano
Eleonora Martini Roma
E pensare che – dicono i macchinisti – dei trentotto chilometri di rotaie che corrono nel
ventre di Roma, più quelle che
collegano en plein air la capitale con Pantano, Viterbo e Ostia
Lido, la linea arancione «non è
nemmeno il peggio che ti possa capitare». Il peggio è senza
dubbio la linea Roma-Pantano, sulla quale corrono «pezzi
di ferro vecchio e ogni giorno si
fa fatica a trovare le 19 vetture
che occorrono per effettuare le
257 corse richieste». Almeno
sui 19 chilometri della linea A,
che per la prima volta nella sua
storia ha subito un incidente
così grave, viaggiano 33 treni
nuovi di zecca, «gli spagnoli
Caf», sponsorizzati da Met.Ro.
come «il meglio in fatto di tec-
nologia e di comfort». E’ pur vero che, si stima, più di 500 mila
persone viaggino ogni giorno
sulla tratta più antica di Roma
– quella che collega la periferia
nord-ovest di Boccea all’estremo sud-est di Anagnina – grazie alle 560 corse giornaliere tra
le 27 stazioni effettuate a rotazione da 155 macchinisti. Ma
proprio in questi giorni il Comune di Roma – proprietario e
gestore della metropolitana sotterranea, mentre le «ferrovie
concesse», quelle suburbane,
sono gestite dalla regione Lazio
– ha incentivato il numero di
corse di 50 al giorno. «Col risultato che i macchinisti – dice Roberto Troia, responsabile di
Met.Ro per il Sult (Sindacato
unitario lavoratori trasporti) –
sono stressati perché hanno limiti troppo stretti e sono portati a sbagliare». Condizioni di la-
voro pesanti, ma che probabilmente saranno sgravate dagli
80 macchinisti appena assunti
(30 nelle sotterranee). «Il problema più grosso però è l’ambiente in cui si è costretti a lavorare nella metro A – aggiunge
Troia – l’aria che si respira, il
percorso difficile in galleria, i
turni massacranti con la vista
che si abbassa a forza di lavorare al buio, il rapporto impossibile con i Dct, i capostazioni».
E in effetti sono anni che si parla di inadeguatezza del sistema
di ventilazione della linea, mentre nel 2001 il direttore della
Protezione civile, Guido Bertolaso, denunciò, con una lettera
all’allora ministro dei trasporti
Pietro Lunardi e al sindaco di
Roma Veltroni, «i disagi e i pericoli per i passeggeri, i noti disservizi della metropolitana e
l’inadeguatezza delle stazioni
ai flussi dei passeggeri». In più,
nell’ultimo anno, sono state decine le corse soppresse per guasti delle vetture in tutto il sistema Met.Ro. Basti pensare che i
31 treni dismessi dalla linea A,
inaugurata nel 1980, corrono
oggi tutti sulla B e «viaggiano
dal 1989, senza mai essere stati
sottoposti a manutenzione straordinaria» come ha detto ieri a
Repubblica lo stesso presidente di Met.Ro, Stefano Bianchi.
Una metropolitana, quella di
Roma, che non può nemmeno
lontanamente competere con i
200 km delle 16 linee del metrò
parigino, o con i 408 della Tube
londinese, o con le 6 linee che
scorrono per 86,6 chilometri
nelle viscere di Barcellona, o
perfino con le moderne tre linee dell'Attikò Metrò che sfida
per 72 km le antichità di Atene.
Però qualcosa si sta muovendo: in attesa che si concludano
i lavori di realizzazione della
B1, che proseguirà per 4 km
verso nord-est, previsti per il
2010, e per la linea C, i cui lavori sono appena cominciati nell’agosto scorso, la Met.Ro ha
stanziato 94 milioni di euro per
un piano triennale di ammodernamento delle infrastrutture (tra cui la stazione Vittorio
Emanuele) e per la revisione
dei treni. «Spero che bastino –
ironizza Troia – almeno per i
pezzi di ricambio ormai introvabili».
mercoledì 18 ottobre 2006
il manifesto
&
politica
5
società
Le istituzioni
«Brava Roma»
Veltroni
«Come via Ventotene»
Delanoe
«Solidarietà, Walter»
Bianchi
«Soccorsi efficienti»
«Quella di via Ventotene
(l’esplosione di un palazzo nel
2001 per una fuga di gas causò
otto morti, ndr) e quella di oggi
sono le giornate più tristi per
Roma». Lo ha detto il sindaco
Walter Veltroni ieri sera lasciando
l'ospedale San Giovanni, dove ha
incontrato i feriti. Per Veltroni «la
città ha dato una dimostrazione,
attraverso i vigili del fuoco, la
polizia, i carabinieri, i vigili urbani,
la protezione civile e il 118, di
poter affrontare anche momenti
drammatici».
Il sindaco di Parigi Bertrand
Delanoe ha inviato al sindaco
Veltroni un messaggio subito dopo
l’incidente: «Apprendo - si legge nel
messaggio - con tristezza del lutto
che ha colpito la città di Roma a
causa del terribile incidente della
metropolitana, che ha inoltre fatto
numerosi feriti. In queste difficili
circostanze desidero ribadirti la mia
simpatia personale e la solidarietà
della città di Parigi. Ti sono grato di
voler trasmettere alle famiglie delle
vittime le mie sincere
condoglianze».
I soccorsi sono stati «rapidi ed
efficienti». Lo ha detto il ministro dei
Trasporti Alessandro Bianchi nel corso
dell'informativa alla Camera,
esprimendo il «plauso del governo»
per l'operato di vigili del fuoco, forze
dell'ordine, personale sanitario e della
protezione civile. La rapidità e la
professionalità dei soccorsi, ha
aggiunto il ministro, «hanno evitato
che nei momenti successivi
all'incidente si verificassero altre gravi
conseguenze che spesso possono
determinarsi quando ci sono
situazioni di panico».
La testimonianza
Roma Un treno in arrivo ne tampona un altro
fermo a piazza Vittorio: un morto e 235 feriti
Tra le stelle
di piazza Vittorio
Botto mortale
sulla metro A
Roberta Carlini Roma
Quando Charlie Chaplin scende dalla scaletta dell'aereo, noi crolliamo improvvisamente tutti a terra. Metropolitana di Roma Linea A direzione Battistini, una mattina di un giorno qualsiasi, la metro che va piano rallenta è quasi ferma e poi riparte: il tran tran dei lavori interminabili, l'altoparlante da un pezzo ha smesso anche di annunciarlo,
che «Manzoni» è chiusa per lavori. Piazza Vittorio, siamo fermi almeno da cinque minuti. Ma la
carrozza è nuova, pulita, ha la tv e non puzza anche se c'è molta gente - è appena salito un gruppo di adolescenti altissimi, che lingua sarà, danese, olandese, certo fanno casino come i romani…
Il monitor ci informa che le stelle tornano a Roma, si vedono quelle dei '50 in bianco e nero all'atterraggio (Ciampino, c'è scritto, né Fiumicino né
Malpensa) e poi quelle di oggi a colori, tutte già a
terra. Sean Connery non c'è ancora, lo spot era
precotto e le star di Roma 2006 già sul video sono
pochissime, rispetto a quelle antiche. Che ripartono: di nuovo anni '50, di nuovo oggi, di nuovo il
pay-off: le stelle tornano a Roma. Qualcosa non
va, non ci muoviamo, una signora legge in piedi
Pirandello e i ragazzi fanno ancora più casino, sarà pure la città delle stelle ma quando riparte un
ottimista seduto prepara la cartella, forse deve
scendere a Termini. Uffa Veltroni, pensa anche a
noi stelle sotterranee del quotidiano, ma pensa
che banalità che sto pensando… bum.
La frase resta monca in testa, siamo tutti per
terra al buio ci diamo le mani ci alziamo senza
parlare imbocchiamo le porte tutti a passo svelto
senza correre, dal fondo della banchina esce del
fumo, su per la scala mobile ferma, una massa
straniata verso l'uscita, pochi gridano o affrettano
il passo. Ai varchi, qualcuno sta male, qualcuno si
accascia; una ragazza in divisa ci prega di non fermarci, chi ce la fa esca da solo, dice, è l'unica indicazione che arriva ma va bene, camminiamo. Alla luce, chi sta bene già apre il telefonino: sto bene, c'è stato un incidente, no non è un attentato,
almeno non credo, ci ha tamponati un treno, un
guasto elettrico, madonna che botto, arrivo più
tardi, scusi da che parte per Termini? Poi dal sottosuolo sbucano gli altri, i meno fortunati, sono feriti leggeri e spaventati, il sangue macchia le camicie pulite, aspettiamo qui forse viene l'ambulanza, i negozi cinesi fitti fitti sono pieni di vestiti ma
una sedia neanche a pagarla. Chissà là sotto che
c'è. Chissà che ha visto quella ragazza che trema.
Pensiamo a Londra, a Madrid e abbiamo facce da
scampati. E' stato solo un tamponamento. E' stato solo un incidente, il più grave nella storia della
piccola metro di Roma. Il video delle stelle è spento.
Cinzia Gubbini Roma
«U
n botto enorme, tanto fumo,
la gente che è caduta per terra. E io che sono riuscita a tirarmi fuori non so come,
avrò scavalcato dieci persone». Poi quel pensiero fulmineo, che ha attraversato la mente
di chi, ieri mattina alle 9,35, si trovava a bordo dei due convogli che si sono scontrati a
Roma nella centralissima fermata della metropolitana di piazza Vittorio Emanuele: un
attentato. «Ho sentito qualcuno che lo gridava - racconta ancora Annarita, 26 anni, studentessa - e anche io ci ho pensato perché
vedevo tanto fumo. Ma in quei momenti, in
ogni caso, pensi solo a scappare».
Non era un attentato, ma «solo» un incidente. Un tamponamento per la precisione:
il treno in arrivo alla stazione Vittorio Emanuele - linea A, quella arancione - non si è
fermato e ha investito un altro treno, fermo
sulla banchina da qualche minuto con le
porte chiuse. La cabina del macchinista ha
sfondato l’ultimo vagone del convoglio in attesa di ripartire.
Poteva andare peggio, molto peggio. Dalle lamiere delle due locomotive che si sono
accartocciate una sull’altra è stato estratto
un corpo senza vita. La vittima è una ragazza di trent’anni, Alessandra Lisi, laureata in
Scienze statistiche e ricercatrice presso il
«Centro per i disturbi congeniti». Abitava a
Pontecorvo, in provincia di Frosinone, e tutte le mattine prendeva la metro. Praticamente (e miracolosamente) illeso, invece, il macchinista della locomotiva che ha tamponato
il treno. E’ Angelo Tomei, 32 anni, da cinque
assunto alla Met.ro. Ricoverato al Policlinico
Casilino, è un «codice verde». Solo lesioni
leggere, dunque. I medici hanno riferito che
è sotto choc e che per ora non riesce a ricordare nulla. Nel pomeriggio è stato sentito
dal magistrato che conduce le indagini, Elisabetta Ceniccola. Alla Procura di Roma è
stato aperto un fascicolo per disastro e omicidio colposi. Ma è ancora contro ignoti.
I primi feriti sono emersi dalle scale delle
entrate sotterranee della metro come fantasmi: «Abbiamo visto gente uscire coperta di
sangue, chi zoppicava, chi urlava, chi piangeva. Una scena terribile», racconta uno dei
farmacisti della Farmacia Longo, storico negozio delle logge di Piazza Vittorio. Sono loro tra i primi a scendere le scale per cercare
di portare aiuto, a offrire ghiaccio per tamponare le contusioni, a provare un primissimo
coordinamento dei soccorsi. Così, all’istante, sul marciapiede. Intanto arrivano le autoambulanze del 118, la protezione civile, i vigili del fuoco.
Piazza Vittorio si riempie, la popolazione
multietnica del quartiere si affolla lungo le
Al momento dell’incidente la banchina di piazza Vittorio è colma, ricordano i testimoni. Il cartello che annuncia l’arrivo dei treni segna un
minuto di attesa per il treno
seguente. Ma il convoglio
che verrà tamponato resta
fermo. All’improvviso si sente la botta, un rumore fortissimo. Un uomo che si trovava
nel primo vagone del treno
che ha tamponato racconta
di aver visto tutto: «Ero lì, praticamente dietro al macchinista. Vedevo questo treno fermo davanti a
noi e il nostro convoglio che continuava a
camminare. Istintivamente mi sono tirato
indietro, solo per questo ho evitato di finire
sotto alle lamiere». Un altro passeggero ricorda invece di aver sentito una frenata e
poi il treno ripartire a strappo: «Avevamo appena passato la stazione Manzoni (in ristrutturazione da un anno, ndr) ,lì il treno va sempre pianissimo e poi accelera di nuovo». Augusto Caratelli, presidente del Comitato per
la difesa dell’Esquilino (il quartiere di piazza
Vittorio) dice che chi aveva preso le corse
precedenti ha parlato di un improvviso calo
dell’elettricità, delle luci che all’improvviso
si sono spente per qualche minuto. Per tutto il pomeriggio, su internet, con telefonate
arrivate ai giornali, si sono rincorse testimonianze di una mattinata iniziata male sulla linea A, con strani rumori, improvvise frenate. Suggestione, o forse il segno di qualcosa
che davvero non andava.
Lo scontro, poi il fuggi fuggi
verso l’uscita, i feriti soccorsi
anche con gli autobus. Il
macchinista si salva, non ce la
fa una ragazza di Frosinone.
Grave una donna giapponese
transenne, viene allestito anche un piccolo
ospedale da campo. I vigili si infilano lungo
le scale e risalgono con persone immobilizzate sulle lettighe, i vestiti sporchi di sangue.
Chi riesce a camminare da solo viene caricato anche sugli autobus. E si moltiplicano le
voci sui morti. Almeno due, forse tre. Tutti
pensano al macchinista. Poi si parla di una
donna nigeriana, che invece risulta essere
solo ferita. Qualcuno chiede notizie di quella donna incinta, che si trovava sul secondo
convoglio. C’erano anche bambini. E i turisti, spaesati e in difficoltà con l’italiano.
La metropolitana, a quell’ora, è piena di
gente, come raccontano i numeri delle persone visitate negli ospedali romani: 235.
Centosedici sono state trattate o trasportate
dal 118. Alla fine i «codici rossi», cioè i pazienti più preoccupanti, risulteranno essere
solo cinque, ma nessuno in pericolo di vita.
La più grave è una donna giapponese, ricoverata all’ospedale San Giovanni.
Per Roma, comunque, una specie di «prova generale» dell’attentato sempre annunciato e mai - fortunatamente - arrivato. A cominciare dai soccorsi e dal «piano di difesa
civile», scattato dopo l’allarme, proprio quello che entrerebbe in funzione in caso di attentati. 28 le ambulanze convogliate su piazza Vittorio, 6 automediche, 350 persone impegnate sul posto. «E’ andato tutto alla grande. Le esercitazioni antiterrorismo del 2005
hanno dato i loro frutti», ha detto il prefetto
Achille Serra. Ma la «prova generale» ha
coinvolto anche i media di tutto il mondo,
che hanno puntato i riflettori sulla capitale
italiana. E la politica italiana: sul posto si sono precipitati, oltre al sindaco Walter Veltroni e ai rappresentanti delle istituzioni capitoline, il ministro dei Trasporti Alessandro
Bianchi e il deputato di An Gianni Alemanno, mentre nel pomeriggio il ministro della
Sanità Livia Turco ha fatto visita ai feriti e il
premier Romano Prodi si è recato all’obitorio per rendere omaggio alla salma di Alessandra Lisi. Incalcolabili i messaggi di solidarietà alla famiglia Lisi e a tutti i feriti: dal presidente della Camera Fausto Bertinotti al
presidente della Cei Camillo Ruini, dai sindaci di Milano e Bologna a quello di Parigi
Bertrand Delanoe. Due minuti di silenzio
nell’aula del Senato. La squadra della Roma
ha chiesto di poter giocare, stasera ad Atene,
con il lutto al braccio.
Nessuna bomba, per fortuna, Roma è salva. Ma la psicosi attentato ha portato, per
una volta, la giusta attenzione per le vittime
degli incidenti sulle linee di trasporto italiane.
6
il manifesto
&
politica
mercoledì 18 ottobre 2006
società
Prodi: «Il velo non nasconda il volto»
Milano
Scuola «araba», Fioroni dà l’ok
Via libera del ministro Fioroni alla scuola «araba» di
via Ventura, chiusa giovedì scorso dal prefetto di
Milano. Ieri il direttore scolastico regionale ha ricevuto
dal consolato egiziano l'elenco dei libri di testo e
dall'associazione Insieme quello degli insegnanti.
«Compiuti questi ultimi adempimenti, il ministero sarà
in grado di rilasciare l'autorizzazione», ha detto
Fioroni. A questo punto, la palla torna al Comune di
Milano, a cui tocca dichiarare «a norma» i locali della
scuola bilingue. Piccole carenze nel piano antincendi,
«scoperte» dai vigili del fuoco dopo ben nove
sopralluoghi erano state la scusa per bloccare la
scuola. I lavori per mettere i locali a norma sono stati
fatti in 48 ore. Il nulla osta, puramente tecnico, di
Palazzo Marino dovrebbe quindi essere scontato. A
meno che la giunta Moratti ricorra a qualche altro
escamotage per impedire la ripresa delle lezioni. Fin
qui, la burocrazia è stata usata per mettere i bastoni
tra le ruote alla scuola «araba» e per giocare a
scaricabarile tra Comune e ministero. Un gioco «da
evitare», ha detto ieri con un po' di ritardo Fioroni.
Roma
«Se vuoi indossare il velo va bene, ma deve essere
possibile vederti. È un fatto di buon senso, credo, è
importante per la nostra società. Non si tratta di come ci si veste ma se ci si nasconde o meno». A buttarsi
nella mischia del dibattito che
da tempo infiamma l’Europa
è il presidente del consiglio Romano Prodi.
Il premier italiano, in una
lunga intervista all'agenzia
Reuters, chiarisce che non intende assolutamente impedire alle donne musulmane di rispettare le loro tradizioni, ma
ritiene che sia sufficiente applicare delle regole di
«buon senso». Da qui l'invito alle donne musulmane che vivono nel nostro paese a «non nascondersi, non coprirsi il volto». Messa in questi termini,
ben più moderati dai divieti francesi o dai diktat leghisti, anche alcune associazioni islamiche l’hanno
Giovani musulmani
«E’ una richiesta
comprensibile. Ma una
legge sarebbe sbagliata»
considerata di buonsenso. Sumaya Abdel, dell’associazione Giovani musulmani d’Italia, sembra tutt’altro che indignata: «Posso capire che in una cultura come quella occidentale l’espressione del viso
sia importante e si chieda quindi di evitare non il
velo, che copre solo la testa, ma il niqab o il burqua.
Credo che sia giusto rispettare questa richiesta che
può avere anche avere alla base esigenze di sicurezza. L’imporante è che non ci siano imposizioni per
legge, fare una legge sul velo significherebbe limitare le libertà dell’individuo».
Nel corso dell'intervista, Prodi ha affrontato anche la questione dei flussi di clandestini che sbarcano sulle coste italiane, chiedendo all'Unione Europea un controllo più rigido del Mediterraneo e ha
annunciato che saranno semplificate le procedure
di acquisizione della cittadinanza per gli immigrati
regolari. «Gli immigrati sono parte del nostro futuro», ha spiegato parlando del progetto del governo
di concedere la cittadinanza dopo 5 anni di residenza in Italia. «Il problema - ha aggiunto - è avere regole chiare, in modo che se si comportano adeguatamente, hanno rispettato la legge e sono buoni cittadini possono diventare a tutti gli effetti italiani».
Senato Il governo presenta tre emendamenti a sorpresa al dl. Poi va nel caos. E li ritira
Panico da intercettazioni
Andrea Fabozzi Roma
D
oveva essere una delle poche leggi
con la strada spianata, persino in senato. Sulla distruzione delle intercettazioni raccolte illecitamente, questione esplosa con lo scandalo degli «spioni»,
sulla carta la maggioranza può procedere con
l’accordo dell’opposizione. Un mese fa il governo aveva varato un decreto di urgenza, prima Prodi ne aveva parlato al telefono con Berlusconi. Ma ieri l’esecutivo è riuscito
a complicarsi la vita, proprio al senato. A sentire il sottosegretario alla giustizia Luigi Li Gotti le intenzioni erano buone. «C’erano alcuni emendamenti, in particolare uno del senatore
Castelli, che puntavano a recuperare
comunque il contenuto delle intercettazioni illegali. Il governo aveva fatto
un lavoro su questo, e così...». E così
nel dopopranzo Li Gotti ha calato sul
tavolo della commissione giustizia,
dove stava per concludersi il lavoro sul decreto, tre pesantissimi emendamenti. Contraddicendo ripetute promesse di «non intervento»
dell’esecutivo nella discussione del parlamento. E soprattutto trasformando completamente la legge, cancellando l’obbligo di distruzione immediata e rimandando il tutto a dopo
una sentenza definitiva di Cassazione (o a un
anno dopo l’archiviazione del procedimento).
Apriti cielo. Gli emendamenti del governo,
che Li Gotti spiega essere pronti da una decina
di giorni, riaprono i giochi in commissione.
Ma per il calendario stabilito dalla maggioranza la legge di conversione andava discussa subito dall’aula. Nel centrosinistra c’è chi, come
il presidente della commissione giustizia Salvi
(Ds) o il senatore Manzione (Margherita) apprezza la mossa, avendo apertamente criticato
il decreto originario del governo. La distruzione immediata, del resto, non piaceva nemmeno all’Associazione magistrati - i cui vertici
guarda caso hanno incontrato Prodi ieri mattina, ma per parlare di tutt’altro (finanziaria e tagli alle retribuzioni della categoria) - e anche il
Csm aveva avanzato rilievi del genere. In sostanza distruggendo l’intercettazione illegale
(ammesso che sia materialmente possibile
Proposta la conservazione
anche di quelle abusive.
Consensi trasversali. Marini
dice no: fuori tempo massimo
controllare ogni copia) si distrugge (senza il
controllo del giudice) anche la prova del reato
collegato a quella intercettazione. Nel corso
della discussione nelle commissioni giustizia e
affari costituzionali erano stati sollevati dubbi
di incostituzionalità (anche dai senatori del
centrodestra Centaro e Nitto Palma) perché
l’articolo 111 prevede che la prova si formi nel
dibattimento. Con la prova distrutta è un po’
difficile. Le proposte di modifica però, come
quella dell’ex guardasigilli Castelli, introducevano complicati meccanismi per tenere in vita
il testo della intercettazione illegale. Con i suoi
emendamenti il governo puntava invece a
«blindare» quei verbali abusivi introducendo
Un centro
intercettazioni. Foto
Tam tam
anche il controllo delle parti. Però sarebbe stato come riscrivere il decreto. «A questo punto
meglio rinunciare al decreto e prevedere un disegno di legge che regoli tutta la materia», dichiaravano infatti Giuseppe Di Lello e gli altri
senatori di Rifondazione in commissione giustizia, «perplessi» per gli emendamenti del governo. Poco dopo il ministro della giustizia Clemente Mastella chiamava al telefono il sottosegretario Li Gotti e lo autorizzava al dietrofront:
«ritiriamo gli emendamenti».
Ufficialmente per evitare di allungare i tempi di approvazione del provvedimento. Ma si
parla di una brusca telefonata del presidente
del senato Marini a Mastella: palazzo Mada-
Bruno Perini
La magistratura accende più di un faro sul caso
Telecom. Non si tratta dell’inchiesta sulle
intercettazioni telefoniche, che segue ormai un
proprio percorso, ma di indagini su ipotesi di
reati finanziari, denunciate da consumatori e
da associazioni di risparmiatori. Sono ben due
le procure che dedicano un fascicolo alla
vicenda.
La Procura di Roma procede per l'ipotesi di
reato di insider trading. I pm Stefano Rocco
Fava e Gustavo De Marinis, dopo aver ricevuto
una prima informativa dalla Consob, in base ad
accertamenti compiuti sul titolo Telecom,
hanno formalizzato l'ipotesi del reato di insider
trading in relazione al fascicolo aperto nei
giorni scorsi. Secondo informazioni filtrate ieri
la «curiosità» della magistratura romana è
strettamente legata al cosidetto piano Rovati e
allo scorporo di Tim da Telecom.
Nella fase più opaca della vicenda, quando
ancora Marco Tronchetti Provera non si era
dimesso, negli ambienti finanziari sono
circolati molti dossier su Telecom; uno di
questi era il piano Rovati, che conteneva
valutazioni quantitative su un possibile
scorporo e sull’ipotesi di cessione alla Cassa
Depositi e Prestiti. E’ possibile che in quei
giorni qualcuno abbia pensato bene di
utilizzare quelle ed altre informazioni riservate
per speculare sul titolo. Si tenga conto del fatto
che in quei giorni i titoli del gruppo di Tlc ha
subito oscillazioni anomale e secondo gli
inquirenti non è escluso che qualcuno ben
introdotto nella società ci abbia messo del suo
per trarre profitto dall’ondata speculativa.
L’inchiesta sulla vicenda Telecom della procura
di Roma si è già avvalsa di una prima relazione
della Consob dalla quale non risultava «nulla di
penalmente rilevante» sull'operazione. Ma
erano stati preannunciati sia da parte della
Consob che della stessa procura ulteriori
accertamenti.
In particolare, la procura ha delegato il
nucleo di polizia valutaria della guardia di
finanza a chiedere agli intermediari se ci siano
stati ordini di acquisto o vendita, con
conseguenti guadagni. Non è soltanto la
procura romana ad essere interessata al caso
Telecom. Anche i milanesi ci stanno dando un
occhio a seguito di segnalazioni provenienti dai
mercati finanziari. E come è noto, dopo le
notizie
Sismi
Abu Omar sarà rilasciato
dal carcere egiziano
Abu Omar, l'iman rapito a Milano nel
febbraio 2003 da un commando della Cia e
trasferito in Egitto, verrà rilasciato «tra
qualche giorno» dal carcere di Tora (Cairo).
Ad annunciare quella che potrebbe rivelarsi
una svolta di eccezionale importanza per le
indagini in corso in Italia, è stato il suo
legale, Montasser al Zayat, che è anche il
portavoce del gruppo radicale egiziano
Gamaa Al-Islamiyya. Hassan Mustafa Osama
Nasr, alias Abu Omar, era stato riarrestato a
luglio dopo un periodo di libertà
condizionata di tre settimane per motivi non
precisati dalle autorità egiziane. L'ex
Presidente del Consiglio Silvio Berlusconi ha
sempre negato di essere stato al corrente
dell'intenzione della Cia di rapire lo sceicco
egiziano. Le indagini svolte dalla
magistratura ha invece accertato la
collaborazione data agli agenti americani da
esponenti di primo piano dei servizi segreti
italiani.
Partito democratico
ma ha bisogno di chiudere col provvedimento
entro il 26 ottobre. Poi l’aula chiude per una
settimana, per il ponte di Ognissanti e le elezioni in Molise. «Un episodio anomalo che non
mi era mai capitato nella mia vita parlamentare», sorride amaro il presidente Salvi. Poi più
serio: «Abbiamo perso un giorno di lavoro».
L’aula resta convocata per oggi alle 11,30. La
commissione avrà due ore per esaurire gli
emendamenti: operazione non facile, è prevedibile uno slittamento. Anche perché la maggioranza avrà di nuovo lo stesso problema. Il
senatore Manzione annuncia infatti che ripresenterà, facendoli suoi, i tre emendamenti del
governo. Doveva essere una legge facile facile.
Telecom, la procura di Roma
indaga sull’insider trading
Movimenti anomali
I magistrati hanno aperto un
fascicolo sui movimenti anomali
che si sono verificati in Borsa sui
titoli Telecom. L’attenzione degli
inquirenti sul piano Rovati. Anche
la procura di Milano sta
raccogliendo notizie su Telecom
Se in Italia l’uscita di Prodi non ha suscitato grandi reazioni, in Gran Bretagna la polemica prosegue.
Il premier britannico Tony Blair ha espresso il proprio sostegno alle autorità scolastiche del distretto
di Kirklees (West Yorkshire) che hanno sospeso
un'insegnante islamica che aveva rifiutato di togliersi il velo che le copriva il viso, lasciando scoperti solo gli occhi. Le autorità scolastiche avevano affermato che l'indumento è «un segno di separazione». Secondo Blair, la questione deve essere regolata dalle autorità scolastiche: «Devono essere in grado di prendere una decisione del genere. Li sostengo per come hanno gestito la vicenda. Posso capire
perchè siano arrivati a quella decisione». Aishah Azmi, insegnante di sostegno alla Headfield Church
of England Junior School di Dewsbury, ha negato
di aver tenuto il velo davanti agli alunni (le autorità
della scuola sostengono che proprio questa abitudine non permetteva agli alunni di capire bene la docente), affermando di averlo portato solo in presenza di colleghi maschi. Per il premier, il velo che copre il viso «mette a disagio molte persone esterne alla comunità» islamica, ed è per questo che occorre
un dibattito.
inchieste su Antonveneta, quando si muovono
i magistrati di Milano, gli insider si devono
preoccupare. È stato affidato a tre magistrati il
fascicolo aperto a Milano sugli scorpori di
Telecom. L'indagine, allo stato, è ancora
conoscitiva , cioè a carico di ignoti e senza
ipotesi di reato. Ma ad occuparsene sono in tre:
Francesco Greco, (il magistrato delle grandi
inchieste economiche da Parmalat ad
Antonveneta), Carlo Nocerino e Laura Pedio.
Intanto ieri è tornato a parlare il garante.
L’Autorità per le garanzie nelle comunicazioni
aprirà un «tavolo separato» di confronto con gli
operatori telefonici sulla societarizzazione della
rete fissa di Telecom Italia, su cui la stessa
Authority e l’ex monopolista stanno lavorando.
Lo ha annunciato Corrado Calabrò,
intervenendo alla «Tavola rotonda con il
governo italiano» promossa da «Business
international». Calabrò ha premesso che
mentre «nel mobile il mercato è perfettamente
concorrente e gli operatori operano in
condizioni di parità», nel fisso «continua la
dominanza dell’incumbent». E «siccome non è
possibile spezzettare la rete -ha spiegato
Calabrò- abbiamo pensato dal modello inglese
della Ofcom che ha garantito parità di
condizioni».
Il modello di scorporo della rete fissa di
Telecom «non deve essere limitato all’ultimo
miglio, ma come in Gran Bretagna con l’ultimo
miglio vanno scorporate anche le centrali con
cui sono erogati i servizi, come quelli a banda
larga». Così ha detto l'amministratore delegato
di Vodafone Italia, Pietro Guindani,
intervenendo alla tavola rotonda organizzata
da Business International. Inoltre, ha aggiunto
Guindani, «bisogna considerare la separazione
della parte commerciale fissa dalla parte
commerciale mobile per impedire all’ex
monopolista di utilizzare la posizione
dominante sul fisso per rafforzarsi sul mobile».
Violante: «Ricorda troppo
la dc, meglio l’Ulivo»
In un intervista rilasciata alla stampa,
Luciano Violante non ha rinunciato a lanciare
un forte segnale sulla costruzione di un
nuovo partito: «Partito democratico è
un’espressione tiepida e indista. Ha più
significato politico la parola Ulivo che ha
dalla sua anche una lunga tradizione». Il
presidente della commissione Affari
costituzionali della Camera ha cercato poi di
stemperare le polemiche su una possibile
scissione interna, auspicata dalla Sinistra
Ds. Violante ha concluso infine paventando
lo spettro di una frammentazione eccessiva
del sistema politico.
&
Università e ricerca,
primo sciopero «politico»
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
politica
I sindacati di categoria di Cgil,
Cisl e Uil fermeranno le università
il 17 novembre e gli istituti il 20.
La protesta raggiungerà palazzo
Chigi, contro la «politica dei tagli»
società
Francesco Piccioni Roma
Tagli alle agenzie del fisco
N
el suo piccolo è una data storica: ieri
i tre sindacati confederali hanno dichiarato il primo sciopero contro la
finanziaria. Nei fatti, la critica politica più pesante che potessero esercitare. Protagoniste della svolta le categorie dell’università
e della ricerca, che più di altre avevano puntato – anche elettoralmente – sul governo di centrosinistra. Prodi, Nicolai, Mussi sembravano i
garanti di un programma incentrato sul «conoscere per crescere». Il 17 novembre si fermeranno per l’intera giornata le università, il 20 gli istituti di ricerca. Si prevedono manifestazioni a
Roma, con terminale a palazzo Chigi.
La delusione e la frustrazione sono palpabili
anche nelle parole usate dai segretari nazionali
di categoria di Cgil, Cisl e Uil, ne corso della
conferenza stampa di presentazione. Al centro
della protesta, nelle parole di Alberto Civica, segretario nazionale Uilpa, la «politica di tagli»
che «prosegue l’opera di killeraggio degli enti e
istituti pubblici di ricerca». Il quadro è impietoso. Nessun aumento della dotazione per la ricerca (di fatto una diminuzione, tenendo conto dell’inflazione); 94 milioni di euro in più per
l’università, ma il «decreto Bersani» di luglio
gliene aveva tolti 200 e quindi si va sotto i livelli
del 2006. In pratica: non si potranno fare accordi sui contratti di lavoro (clamoroso il caso dell’Ente spaziale, scaduto da 5 anni), tantomeno
si potranno regolarizzare i precari (15.000 solo
nella ricerca, nelle università non si riesce neppure a fare un censimento attendibile). E dire
che la ricerca, per sua natura, dovrebbe essere
il luogo meno esposto alle politiche «precarizzatrici». Formare un ricercatore, infatti, prevede almeno tre o quattro anni di lavoro (postlaurea); ma soprattutto una platea di ricercatori instabili destabilizza la stessa possibilità di
programmare l’attività degli istituti (chi trova
di meglio, infatti, se ne va). Fino al paradosso
per cui l’Italia, di fatto, sta finanziando una
buona fetta della ricerca statunitense. I 10.000
Gli statali si mobilitano, il 23 maxi assemblea
Se la ricerca si mobilita, e la scuola riflette sulla piazza, è in
subbuglio anche il pubblico impiego. Ieri è venuta fuori un’altra
«curiosità» della finanziaria, abbastanza paradossale. Il governo
ha infatti eliminato i fondi stanziati per i contratti integrativi
del ministero dell’Economia, e in particolare per i lavoratori delle
Agenzie delle entrate. Ovvero, di quelli che dovrebbero combattere
(finalmente) contro l’evasione fiscale. Il tutto, denunciano in un
comunicato le categorie del pubblico impiego di Cgil, Cisl e Uil, è
disposto dall’abrogazione del comma n˚165 dell'art. 3 della L.350,
comma che praticamente apportava risorse ai fondi di produttività
dei lavoratori, ovvero ai contratti integrativi del Ministero
dell'Economia e delle Agenzie Fiscali. Insomma, da un lato si
annuncia lotta dura all’evasione, dall’altro si mettono i lavoratori
nell’impossibilità di migliorare la loro produttività su questo fronte.
Il pubblico impiego - Fp Cgil, Fps Cisl e Uilpa - annunciano dunque
mobilitazione nei ministeri interessati e soprattutto confermano
la grande assemblea dei delegati (5 mila), il 23 ottobre a Roma.
Assemblea di docenti e
ricercatori alla Statale di
Milano. Foto Emblema
ricercatori trasferitisi negli Usa, infatti, sono costati allo stato italiano – per la formazione – almeno 250.000 euro a testa. Fatevi due conti...
Sotto accusa è tutta la politica in atto dal
1993 (dagli «accordi di luglio»), che privilegia i
trasferimenti alle imprese. Una strategia che
non ha pagato affatto, visto l’arretramento dell’Italia in tutte le classifiche dell’«innovazione».
Si cita un calcolo di Giavazzi, sul Corsera di alcuni giorni fa, che stimava in quasi 25 miliardi di euro – il 2% del Pil – i trasferimenti alle
Stefano Raiola
Ritorna la tassa di successione, ma diminuisce – da
cinque a tre anni – l’esenzione dal bollo per auto e
moto ecologiche. Sì all’aliquota unica sulle rendite
finanziarie, e apertura a rivedere le aliquote Irpef per
favorire le famiglie. Il testo della finanziaria è arrivato
ieri alla camera per l’esame tecnico della
commissione bilancio e già spuntano le prime
importanti modifiche. Con un aggiustamento del
Spallata,rinvio
a novembre
Silvio Berlusconi ancora
ci spera. «Dobbiamo
fare in modo che
cadano, il paese è
contro di loro» ha detto
ieri ai coordinatori
regionali di Forza Italia,
sfoderando la solita
valanga di sondaggi. E
per raggiungere
l’agognato obiettivo ha
delineato una tattica in
due tappe. La prima,
ovvero quando la
discussione sulla
finanziaria sarà alla
camera, prevede
gazebo, manifesti e
magari anche spot
televisi. Ma il bello
dovrebbe arrivare
quando la legge di
bilancio sbarcherà al
senato, dove come si sa
l’Unione non ha più la
maggioranza. Per allora
il cavaliere sogna una
grande manifestazione
di piazza. Nella
speranza che i suoi
alleati lo seguano.
imprese previsti anche da questa finanziaria.
Magari sparsi nei vari capitoli meno conosciuti (alle voci ministero della difesa, alle infrastrutture, ma anche da industria e ricerca). Il fatto è che l’impresa italiana – quasi
sempre «nana» – non solo non fa ricerca in
proprio, ma neppure assorbe le risorse umane formate dagli enti pubblici. Di fatto, da
quando lo «stato imprenditore» ha cominciato a ritirarsi dalla scena, per la ricerca italiana è cominciata la frana. Ma ormai, spiega-
no i sindacalisti, è che «la casa brucia». Non
c’è più spazio per aspettare «tempi migliori»:
o si interviene ora per invertire la tendenza,
oppure la ricerca italiana – anche universitaria – rischia di perdere una o due generazioni. Su un terreno in cui, se ci si ferma, non si
può ripartire «a comando». Non mancano le
«chicche». Come la trasformazione di alcuni
enti (con relativo cda) in istituti con il solo direttore (per risparmiare); o come il taglio del
50% degli adeguamenti automatici per il per-
sonale docente, precari compresi. Alcuni enti dovranno chiudere i battenti per crisi finanziaria (tra questi la «vasca navale», dove è stata progettata «Luna rossa»).
Ma, soprattutto, «a questa finanziaria manca
una mission chiara». Secondo Enrico Panini,
segretario generale della Flc-Cgil, infatti, «il
cuore della finanziaria dovrebbe essere l’investire in ricerca e università per recuperare
il terreno drammaticamente perso rispetto
agli altri paesi». E’ un segnale che dovrebbe
far riflettere. La Cgil si dichiara a questo punto «molto, molto inquieta». Era stata fin qui
individuata come l’unica parte sociale dispposta a difendere l’impianto attuale della legge finanziaria. Ora promette che, se all’incontro «tecnico» di giovedì non ci saranno risposte soddisfacenti, anche il comparto scuola
comincerà a mobilitarsi.
Scambio di tasse, tra successione e incentivi per le moto
Da Visco aperture
sulla rimodulazione
delle aliquote Irpef;
ma anche
l’estensione della
tassazione sulle
rendite finanziarie
(al 20%) agli affitti
Cdl
7
decreto fiscale collegato alla manovra viene
reintrodotta l’imposta per chi eredita immobili o
capitali superiori a un milione di euro; stesso
trattamento sarà applicato per le successioni. La
soglia di esenzione di un milione di euro sarà valida
solo per coniuge e figli, ma non per i parenti più
lontani. Gli eredi diretti, infatti, pagheranno il 4% sulla
parte eccedente il milione, mentre agli altri toccherà
un’aliquota che va dal 6 all’8% (a seconda del grado di
parentela) su tutto il valore. Confermata la tassa fissa
del 20% sulle rendite finanziarie, che – come ha
specificato il viceministro dell’economia, Vincenzo
Visco – non sarà retroattiva: non riguarderà cioè i
redditi maturati nel passato. L’aliquota andrebbe
applicata anche sugli affitti ma lo stesso Visco ha
ammesso l’esistenza di problemi «tecnici» per
l’attuazione del provvedimento. «Bisogna inventare
meccanismi per far emergere – ha ammesso Visco –
perché mettere semplicemente la tassa potrebbe
portare ad una riduzione del gettito». La questione è
all’esame di una commissione che avrebbe indicato
tra le ipotesi anche quella di poter dedurre dalle tasse
il pagamento dell’Ici.
La questione dell’evasione fiscale rimane cruciale
per la buona riuscita della manovra: secondo fonti del
ministero dell’economia oltre 200 miliardi sfuggono
alle casse dello stato (tra il 14,8 e il 16,7% del Pil). La
metà dell’evasione deriverebbe dal lavoro nero,
mentre 93 miliardi sarebbero imputabili a
sottodichiarazioni di fatturato. E’ per questo che si
rendono necessari controlli e sanzioni che, secondo
Visco, «non sono opposti a dialogo e fiducia, ma sono
due facce della stessa medaglia. Il fisco deve essere di
sostegno al contribuente, ma anche inflessibile se
necessario».
Marcia indietro invece sull’esenzione dal
pagamento del bollo per moto e auto euro 4 prevista
dalla finanziaria. La maggioranza ha concordato
infatti di presentare un emendamento che riduce tale
tipo di agevolazione dirottando le risorse (160 milioni)
ad un fondo per il trasporto pubblico. Tuttavia il
partito del ministro Pecoraro Scanio, che aveva
direttamente promosso la soppressione della norma,
ha ritenuto «assolutamente insufficiente» la cifra di
160 milioni di euro e hanno proposto così di dirottare
metà dei fondi inizialmente destinati alla ricerca e
innovazione militare (4,4 miliardi in tre anni) al
trasporto pubblico.
Le imprese alzano la «soglia»
Sul trasferimento del tfr
all’Inps Confindustria fa la
faccia dura e alza il prezzo:
«devono essere esentate le
imprese con meno di 100
dipendenti». Gli autonomi
chiedono «tolleranza» sugli
studi di settore
Roma
Le imprese sono davvero ingorde. Sul
trasferimento all’Inps del 50% del tfr
«inoptato», pesantemente contestato da
Confindustria perché sarebbe «mortale
per le piccole imprese», il ministro dello
sviluppo, Pierluigi Bersani aveva provato
a proporre una mediazione: fissiamo
una soglia numerica di dipendenti al di
sotto della quale l’impresa sarebbe esentata dal versare il tfr al fondo dell’Inps.
Nella mattinata di ieri l’ex sindacalista cislino Sergio D’Antoni, ora viceministro
proprio di Bersani, si era spinto ancora
più in là: la soglia potrebbe essere individuata intorno ai «30-40 dipendenti», e
quel «trasferimento deve valere per un
anno solo, per dare il segnale che a noi
sta a cuore la previdenza integrativa».
Niente da fare. Gli stati maggiori di
Confindustria, riuniti a Roma per la Consulta dell’associazione, stabilivano che
«non bastava». Il niet arrivava da fonte
autorevole: la soglia dei 30-40 è «un livello assolutamente inadeguato», addirittura «metterebbe un’altra barriera alla crescita, perché un’azienda con 41 addetti
avrebbe tutto l’interesse a scendere a
39» (un argomento «circolare» già proposto ai tempi del referendum sull’art. 18).
Pininfarina non ha voluto stabilire
quale fosse la «soglia» accettabile, ma altri importanti esponenti dell’industria
l’hanno fatto per lui. «100 dipendenti»,
ha ipotizzato sia Benito Benedini (ex presidente di Assolombarda), sia e soprattutto protesta, che raggiungerà Guidalberto
Guidi, presidente de IlSole24ore e da
sempre tra i leaders degli industriali italiani. Persino il più «dialogante» tra gli
imprenditori, il presidente della Bnl Luigi Abete, ha suggerito che «bisogna trovare il modo per escludere le aziende con
meno di 100 addetti». Nessuno di loro
ha però spiegato perché le aziende con
101 dipendenti non dovrebbero trovare
«conveniente» scendere a 99.
Pretendere è naturalmente molto facile, ma c’è da rispettare il vincolo stabilito
da Tommaso Padoa Schioppa: alla fine
il rendimento previsto da una certa misura va comunque rispettato. Sarebbe
perciò allo studio, da parte dei tecnici di
via XX settembre, un’alternativa. In pratica una «franchigia», oltre la quale scatterebbe il criterio del numero di dipenden-
ti. Per rispettare i saldi attivi attesi, però,
sarà necessario compensare i vantaggi
conferiti alle piccole e medie imprese (se
scatterà la soglia dei «100») con penalizzazioni maggiori a carico delle imprese
più grandi. In questo caso l’«inoptato» di
queste imprese che finirà nel fondo Inps
potrebbe essere superiore al 50%.
La partita è dunque assai complessa,
anche perché Confindustria non considera affatto la posizione di sindacati come la Cisl che, per bocca di Raffaele Bonanni, ha chiesto che «tutta la questione
del tfr venga rimossa, perché è stata fatta
scalcando il sindacato». L’obiettivo, in
questo caso, è favorire lo scivolamento
del tfr – che, ricordiamo, è «salario differito», di proprietà esclusiva del singolo lavoratore – verso i fondi pensione «negoziali» (cogestiti da sindacati e imprese).
Altro soggetto in campo sono infine
«autonomi, commercianti e artigiani»,
che hanno fatto fuoco e fiamme contro
il «decreto Bersani», ma ora cercano un
compromesso onorevole su tfr e contributi previdenziali. In un incontro svoltosi ieri – presenti Padoa Schioppa, Enrico
Letta, Vincenzo Visco e Roberto Pinza –
hanno ottenuto garanzie su una «ricalibratura robusta» della soglia di esenzione relativamente al tfr, mentre continuano a premere perché ci siano «meno automatismi per gli studi di settore». In pratica «più tolleranza» per le piccole imprese che dovessero dichiarare meno del
Fr. Pi.
previsto. E del credibile.
Pagheranno invece di più i le due ruote più
inquinanti: lo stabilisce un emendamento del governo
con cui viene fissata una nuova tabella di sovrattasse
per motocicli sopra i 50cc di cilindrata.
Un emendamento della commissione esteri della
Camera cancella invece la possibilità di
rifinanziamento automatico delle missioni militari
all’estero. «Era una delle richieste fondamentali da
parte del Pdci di modifica della finanziaria – ha
commentato il responsabile esteri del partito, Iacopo
Venier – e continueremo a batterci perché non sia
limitato il ruolo del parlamento in questa
delicatissima questione». Della pioggia di
emendamenti presentati al decreto fiscale quasi cento
sino stati dichiarati inammissibili. Tuttavia sono
troppi quelli che restano rispetta al poco tempo a
disposizione per la discussione, visto che la legge si
dovrà votare entro la fine dell’anno. Si profila dunque,
secondo fonti di maggioranza e di governo, il ricorso
alla fiducia sul decreto fiscale. Dopo le valutazioni di
ieri sull’ammissibilità, sono ancora oltre mille gli
emendamenti ancora in commissione. A questi
vanno aggiunti poi gli eventuali subemendamenti
presentati dall’opposizione.
8
il manifesto
&
capitale
mercoledì 18 ottobre 2006
lavoro
Alitalia, Cimoli non si dimette
Prodi incontra l’ad di Alitalia che domani
presenta il suo piano industriale. Cambio ai
vertici? «Ai nomi pensiamo dopo», dice il
premier. Il Nord sempre in guerra con Rutelli
Manuela Cartosio
E’
durato un’ora e mezza il faccia
faccia tra Romano Prodi e l’amministratore delegato dell’Alitalia
Giancarlo Cimoli. Al termine Palazzo Chigi ha diffuso una nota di due righe,
inversamente proporzionale al mare di parole consumate in una settima sull’Alitalia
alla canna del gas, con annessa querelle
Malpensa-Fiumicino. «Nel corso dell’incontro sono stati esaminati la situazione dell’azienda e le opzioni strategiche che si prospettano, anche nel campo delle alleanze».
Dunque, il coriaceo Cimoli non si è dimesso. In mattina il sollecito più esplicito perchè si facesse da parte era venuto dal ministro del lavoro Cesare Damiano. Un cambio al vertice della compagnia di bandiera?
«Una soluzione possibile».
Secondo voci (pilotate?) Cimoli potrebbe
essere «promosso» presidente di Alitalia e
«affiancato» da un nuovo amministratore
delegato, Antonio Basile, da sei mesi al vertice di Aeroporti di Roma. La soluzione eviterebbe di pagare la lauta liquidazione a Cimoli (ma cosa saranno mai 8 milioni di euro per un’azienda che ne perde 211 in sei
mesi) è però ri-scatenerebbe l’ira trasversale dei «nordici» contro il «partito di Fiumicino». Sui movimenti al vertice di Alitalia si capirà qualcosa dal consiglio di amministrazione di domani, convocato da Cimoli per
presentare il suo piano industriale
2007-2009.
Francesco Rutelli, istigatore della rinnova-
Areoporto di Fiumicino
ta diatriba Malpensa-Fiumicino, ieri era a
Milano. Il posto giusto per diffondersi in
spiegazioni rassicuranti. Diatriba «vecchia,
figlia di un altro mondo, quando non c’erano le compagnie low cost», dice il vicepremier. La logica degli hub è superata, basta
guerre di campanile, si torni ai collegamenti
point to point. Rutelli comunque ha ripetuto che il vero nemico di Malpensa non è Fiumicino, sono Linate e Orio al Serio e ha ribadito che va cercato a Est un partner per Alitalia. Sulla sorte dell’azienda il ministro dei
Beni culturali, con delega al turismo, è stato
drastico: il piano che il governo proporrà entro gennaio «sarà l’ultima chiamata» per la
Foto Andrea Sabbadini
compagnia di bandiera. O si salva o fallisce.
Il ministro dei trasporti Alessandro Bianchi schizza tre ipotesi per il futuro di Alitalia:
lasciare che le cose si trascinino e portare i libri in tribunale, svenderla a prezzo d’incanto, provare a farla ridiventare un vettore significativo. Essendo ovvio che un ministro
dica che il governo punta sulla terza, la sostanza della dichiarazione di Bianchi è la
bocciatura dell’alleanza con Air France o
con un pesce altrettanto grosso. Con un’Alitalia così debole e in condizioni di «totale subalternità», sarebbe «un’annessione di fatto». Con questi chiari di luna, aggiunge il ministro, evitiamo «nell’immediato» la lite tra
Malpensa e Fiumicino. Il problema esiste,
«ma non vorrei diventasse il gioco di società
preferito».
Anche il segretario dei Ds Piero Fassino
cerca di sedare la «guerra campanilistica»
tra Roma e Milano: «Perché i due scali non
siano in conflitto tra loro e funzionino, occorre ci siano rotte, linee aeree e voli». Quindi, il primo problema è far uscire Alitalia da
«una crisi drammatica». Poi si discuterà di
come coniugare la vocazione nord e centro
europea di Malpensa e quella mediterranea
di Fiumicino. Per il diessino lombardo Antonio Panzeri, invece, la scelta tra i due hub va
fatta ora. Ovviamente a favore di Malpensa.
In piazza per salvare la produzione di maioliche
I dipendenti delle
ceramiche Bisazza
in piazza contro la
chiusura del sito di
Spilimbergo. Sono
a rischio 140 posti
di lavoro. L’azienda
è florida e non è
affatto in perdita,
ma è tentata dalla
«via indiana»:
delocalizzare a Est
Orsola Casagrande Vicenza
Hanno bloccato le statali 11 e 256,
cioè le vie più trafficate per e da
Vicenza. I 300 lavoratori della Bisazza
di Alte (in provincia di Vicenza)
hanno aderito compatti alla richiesta
di solidarietà dei colleghi dello
stabilimento di Spilimbergo che
l'azienda ha annunciato la settimana
scorsa di voler chiudere. La Bisazza è
un marchio storico nei mosaici per
bagni. Da anni ormai serve una fetta
di mercato alta e ha conquistato
prestigio. E' soprattutto un nome
riconosciuto a livello internazionale.
Nata nel 1956 per volontà di Renato
Bisazza ad Alte con la produzione in
serie di vetricolor, oggi conta 890
dipendenti, cinque show-room
monomarca - a Milano, Berlino,
Mosca, New York e Londra - e
quattro stabilimenti produttivi. Ha
nove filiali in Francia, Germania,
Gran Bretagna, Spagna, Russia, Stati
Uniti, Australia, Cina e India, e una
rete composta da oltre quattromila
distributori. E l'azienda va bene.
«E' un'azienda sana - conferma
Fabrizio Nicoletti della Filcem di
Vicenza - che lavora e produce».
L'annuncio della chiusura dello
stabilimento di Spilimbergo non
giunge però come un fulmine a ciel
sereno. «Purtroppo - aggiunge
Nicoletti - è da un anno che
riceviamo segnali poco simpatici
dall'azienda». I vertici hanno
comunicato ai sindacati la decisione
di chiudere sostenendo che le
tecnologie in uso a Spilimbergo sono
ormai superate e che gli investimenti
richiesti per ammodernarle
sarebbero troppo consistenti.
L'azienda poi sostiene di dover
dirottare in misura sempre maggiore
risorse verso la costruzione e il
mantenimento della sua immagine:
puntando a fasce alte di mercato, la
Bisazza deve spendere molto per
mantenere il suo nome tra l'elite dei
marchi. In un settore, quello del
mosaico da bagno, non facilissimo.
Così i vertici aziendali hanno detto di
avere un surplus di produzione e
quindi di aver bisogno di rallentare i
ritmi di produzione e ridimensionare
organici. «Il prodotto che lavora la
Bisazza - dice Nicoletti - è un
prodotto di per sé povero, parliamo
di vetro. Il successo del prodotto sta
nella capacità dell'azienda di
renderlo un marchio famoso e
conosciuto».
Nel gruppo Bisazza, oltre allo
stabilimento centrale di Alte
(trecento dipendenti di cui più della
metà impiegati, visto che a Vicenza ci
sono la sede amministrativa e quella
commerciale), ci sono quello di
Spilimbergo (140 dipendenti), uno
più piccolo a Bergamo, e poi c'è lo
stabilimento aperto in India. Qui
lavorano trecento dipendenti. Ed è
evidente che l'azienda,
delocalizzando, ha anche cominciato
a pensare al decentramento di molte
attività produttive. Anche se il
prodotto, come sottolineano ad Alte,
non è qualitativamente come quello
«Stop precarietà ora» si organizza
Polemica sul «governo amico»
Antonio Sciotto
La macchina di «Stop precarietà ora» è avviata e il
4 novembre, alle 14,30 in Piazza della Repubblica,
potrebbero raccogliersi migliaia e migliaia di persone. Una prova per il movimento, dal sindacato alle
associazioni, ai partiti, impegnati nell’organizzazione. Ma non mancano le polemiche: il problema
chiave è il rapporto con il governo, non nascondendosi che diversi mesi sono passati dall’assemblea
dell’8 luglio al Brancaccio, e in mezzo c’è la finanziaria. Promossa - seppure con alcune riserve - dalla Cgil e (ovviamente) da Rifondazione, partito al
governo. Ma Rifondazione comunista e gran parte
della Cgil scenderanno anche in piazza, stanno organizzando «opposizione», perlomeno sui punti
della piattaforma (abrogazione della legge 30, della
riforma Moratti, della Bossi-Fini, chiusura dei cpt).
Ieri un annuncio a pagamento sul manifesto, di
una parte dei Disobbedienti, ha creato una polemica: scendete in piazza ma in realtà siete al governo,
è tutta scena e se sarà così noi non ci saremo.
Luca Casarini spiega che «l’8 luglio si incalzava
un governo appena formato, mentre oggi delle
scelte sono state fatte e sono tutte contro le fasce
più deboli e i migranti: a questo punto non si può
stare in piazza senza dire chiaramente che la nostra controparte è il governo Prodi, perché sta facendo politiche neoliberiste. Perché non chiudono i cpt? Perché votano il prelievo del Dna per tutti
i fermati? Perché tagliano la scuola pubblica? Si
può votare la finanziaria in Parlamento e nello stes-
Assemblee e incontri in tutta
Italia per preparare il 4
novembre. I Disobbedienti
minacciano di uscire. La replica:
«Piattaforma condivisa, non sarà
un corteo di concertazione»
so tempo scendere in piazza? Secondo noi no». Casarini è polemico soprattutto con il Prc: «Dopo il
governo amico - spiega - adesso si vorrebbe la piazza amica, che faccia da sponda nel paese».
Per Maurizio Zipponi, responsabile lavoro Prc,
«non è affatto contraddittorio essere parte della
maggioranza e lavorare per migliorare le cose anche partendo dalla mobilitazione. Anzi, non si possono spostare i rapporti di forza senza mobilitazione. Facciamo un esempio: grazie alla pressione della sinistra radicale oggi 520 mila immigrati hanno
una risposta, sono regolarizzati, mentre Berlusconi li escludeva dai flussi. So bene che non è l’abrogazione della Bossi-Fini, che non è la chiusura dei
cpt, ma tutti sappiamo che se hai un risultato buono poi parti da quello per avere ancora di più: ora
stiamo lavorando per rimettere al centro il tempo
indeterminato, nelle istituzioni e anche nella società civile. Molti di noi che oggi sono al Parlamento
hanno storie di attivisti alle spalle. E i sindacalisti,
gli ambientalisti, i pacifisti vogliono soprattutto risultati: solo gridare non serve, bisogna proporre».
Per la Fiom parla la segretaria nazionale France-
sca Re David: «Noi ci crediamo e stiamo facendo il
massimo sforzo per esserci, ed essere numerosi. Il
problema non è avere posizioni differenti, come in
effetti ci sono, sul governo o sulla finanziaria, ma è
quello di condividere una piattaforma che resta attualissima. Siamo tutti per l’abrogazione delle leggi 30, Moratti e Bossi-Fini, e non si può bloccare
tutto perché la vediamo diversamente sulla finanziaria. Se la pensassimo allo stesso modo su ogni
cosa, sarebbe davvero una strana democrazia».
Giorgio Cremaschi, della Rete 28 aprile Cgil, spiega che «la coerenza del movimento si misura sulle
battaglie concrete, ed è sbagliato fare un processo
alle intenzioni. Quella piattaforma è quantomai attuale perché il governo ha dimostrato di non voler
cancellare le leggi 30. Moratti e Bossi Fini. Su questi punti è chiaramente una nostra controparte. Bastino pochi esempi: la circolare Damiano sui call
center, che istituzionalizza i cocoprò, il decreto proposto da Amato sugli immigrati, o il fatto che non
si vogliono chiudere i cpt. E allora che faccio, siccome ci sono idee differenti sulla finanziaria non vado in piazza? Al contrario: la forza di Genova era
stare insieme partendo da posizioni diverse».
Piero Bernocchi, dei Cobas, spiega che «i Disobbedienti, più che attaccare dovrebbero partecipare: alla manifestazione no Tav e no Ponte loro erano in piazza, e dal palco hanno parlato esponenti
del governo. Il 4 novembre invece non parlerà nessuno del governo, mentre dal palco ci sarà chi attacca la finanziaria "ammazza-precari" e la circolare Damiano. Quella manifestazione è tutto tranne
che concertativa e questo lo diremo chiaramente».
italiano, è chiaro che i risparmi in
India sono maggiori.
Ieri i lavoratori di Alte hanno
manifestato chiassosi per le vie di
Vicenza, dimostrando solidarietà ai
compagni di Spilimbergo e
chiedendo all'azienda di ritornare sui
suoi passi. Le organizzazioni
sindacali friulane hanno già
incontrato le istituzioni, il sindaco, la
regione, ma adesso chiedono
all'azienda almeno di recedere da
una decisione così drastica come la
chiusura, optando magari per una
ristrutturazione progressiva. In realtà
però i margini di manovra sembrano
assai limitati. A casa rimarranno 140
lavoratori per i quali difficile è una
ricollocazione, come sempre in
questi casi. La cosa che fa più rabbia,
e l'hanno ripetuto i lavoratori ieri con
i loro slogan e i loro cartelli, è che
l'azienda va bene. Il prodotto vende,
non è in crisi. Ma di fronte alla
«necessità di rimanere competitivi» i
datori di lavoro, hanno detto ieri i
dipendenti, sono disposti a tutto.
notizie
Usa
Prezzi alla produzione in calo
a settembre dell’1,3%
I dati diffusi ieri dal Dipartimento del
lavoro, indicano una diminuzione dei
prezzi alla produzione dell’1,3% a
settembre. Gli analisti prevedevano un
calo dello 0,7%. Ad agosto i prezzi,
invece erano aumentati dello 0,1%. Il
calo di settembre è quello più
significativo dall’aprile del 2003. Il dato
risente della diminuzione dei prezzi del
settore energetico, con una perdita
dell’8,4%, grazie alla diminuzione del
prezzo della benzina del 22,2%. Il costo
del carburanti è sceso del 18,5%. Infatti
l’indice ’corè per il mese di settembre
(calcolato al netto dei prodotti energetici
e alimentari) ha segnato un aumento
dello 0,6%, contro la crescita su base
annua del 1,2%. L’aumento più
significativo si registra nel settore auto
con un +2,8%, incremento maggiore dal
1990. Ieri, la Federal Reserve ha diffuso
il dato che riguarda la produzione
industriale, che nel mese di settembre
ha registrato una perdita dello 0,6%. La
diminuzione più mancata da settembre
del 2005. Invece su base annua, la
produzione industriale è aumentata del
5,6% e il livello di utilizzo degli impianti
è incrementata del 2,8%. Tra i vari
settori la produzione manifatturiera è
calata dello 0,3%, mentre quella
mineraria è salita dello 0,7%. La
produzione delle utility ha fatto registrare
una diminuzione del 4,4%.
Roma
Urbe all’asta: inizia il presidio
dei vigilantes a Montecitorio
Questa mattina, davanti al parlamento,
si sono riuniti gli oltre 900 lavoratori
dell’Ancr-Istituto Vigilanza Urbe, per
protestare «contro la precarizzazione e la
cessione dell’istituto». Lo sciopero è
stato organizzato dal RdB-CUB,
sindacato che aderisce alla
confederazione unitaria di base.
lavoratori hanno iniziato il presidio
davanti a Montecitorio, che verrà
ripetuto oggi dalle 8 alle 14, mentre il
19 ottobre, si svolgerà lo sciopero e la
manifestazione conclusiva davanti al
Parlamento. I dipendenti protestano
contro la decisione dell’Ancr «di aver
messo all’asta lo storico istituto» di
vigilanza Urbe, «senza aver mai
dichiarato lo stato di crisi dell’azienda».
Inoltre i sindacati ricordano che «gli
stipendi di settembre sono stati decurtati
dell’85%». Nel frattempo, gli onorevoli
Burgio e Bonelli, hanno presentato
un’interrogazione parlamentare, che
verrà discussa davanti alla Commissione
lavoro, proprio il giorno della
manifestazione conclusiva davanti al
Parlamento.
Germania
Airbus taglia mille posti
Via gli interinali
Airbus, controllata di Eads, ha
annunciato che «non prolungherà alcuni
contratti con società di lavoro interinale»
in Germania, il che porterà a tagli di
mille posti su un totale di 7.300 nel
Paese.Tali iniziative, che mirano a una
«maggiore flessibilizzazione»,
coinvolgeranno tutti i sette siti del
gruppo in Germania, dove Airbus
impiega in totale 22 mila addetti.
Pile Sony difettose
Ben 8 milioni al ritiro
Chissà se la ventilata decisione di
Toshiba di chiedere un risarcimento alla Sony per il danno alla
propria immagine e al marchio
procurato dai richiami a catena
delle scorse settimane per la storia ormai famosa delle batterie al
litio difettose, produrrà a sua volta una reazione a catena da parte
dei colossi dell’informatica.
Dopo il sasso
Infiammabili
lanciato da ToshiUno dopo l’altro
ba, in casa Sony i big dell’alta
a questo punto tecnologia
una certa preocordinano
cupazione serpegla restituzione.
gia. E a ragione.
Ultime Toshiba
Non era bastata a
e Fujitsu
rassicurare i propri partner, evidentemente, la
clamorosa decisione annunciata qualche tempo
fa dal colosso nipponico che parlava di ritiro globale dal mercato
di tutte le batterie incriminate,
con successive sostituzioni delle
stesse, il cui costo sarebbe stato
interamente sostenuto dalla stessa Sony.
Una dichiarazione d’intenti,
seppur supportata in euro, evi-
dentemente non sufficiente. Nei
giorni scorsi intanto anche la
Sharp, ultima in ordine cronologico, aveva aderito al programma
di ritiro di Sony col richiamo di
28mila batterie, tutte vendute in
Giappone, mentre la Fujitsu ha
annunciato di aver aggiunto altri
51mila richiami di notebook ai
precedenti 287 mila. E se a questo, notizie dell’ultima ora, aggiungiamo l’annuncio a Tokio di
una ulteriore campagna di richiamo in casa Sony per oltre 60 mila
notebook della popolare serie Vaio arriviamo ad un totale di circa
8 milioni di batterie ricaricabili da
sostituire in tutto il mondo.
Punto e non a capo, visti i continui aggiustamenti ormai quasi
giornalieri. E per restare ai numeri in rosso, in particolare quelli
che circolavano ieri mattina sulla
stampa giapponese, c’è da registrare finora una perdita di circa
130 miliardi di yen (879 milioni di
euro) per la società giapponese.
Perdita da addebitare principalmente alla questione delle batterie difettose ma anche ai ritardi
nella produzione e commercializzazione di Playstation 3).
P. Cor.
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
&
politica
9
società
«Basta con Ruini»
Il cardinale Camillo
Ruini.
Foto Ap
Bioetica, difesa della vita e uso
dei fondi. Tra i cattolici di base
monta la fronda contro il
cardinale a capo della Cei.
Alla testa il direttore di Nigrizia
Mimmo de Cillis*
Via Ruini. Niente soldi alle banche armate. Ricordarsi della vita
umana anche durante le guerre
e non solo quando si parla di embrioni. Circola una lunga lista di
cahiers de doléances fra i 2.700
delegato del Convegno ecclesiale in corso a Verona. Una serie di
lamentele che giungono da persone, associazioni, movimenti e
che fermentano alla base della
chiesa italica. Sono pensieri generalmente condivisi, desideri
spesso inespressi, per un senso
antico di obbedienza alle gerarchie o per clericalismo, ovvero
per la sottomissione del laicato
alle scelte, insindacabili, di chierici e prelati. «Ma nella chiesa italiana si avverte fortemente, dalla
base, l’esigenza di un profondo
rinnovamento», nota Carmine
Curci, missionario comboniano,
direttore del settimanale Nigrizia. Un tipo coraggioso, come i
suoi predecessori Alex Zanotelli
e Pier Maria Mazzola che le hanno «cantate» ai vertici della Conferenza episcopale, pagando di
persona con l’allontanamento
dalla direzione della rivista. Questa volta Curci invoca «il coraggio di cambiare», chiedendo a
chiare lettere le dimissioni del
cardinale Camillo Ruini, da 15
anni inchiodato alla poltrona di
presidente dei vescovi italiani.
Come segnale di rinnovamento,
di una nuova stagione.
«Ci si chiede – fra l’altro, nota
Curci – se non è tempo che i vescovi italiani chiedano al papa di
poter scegliere il loro presidente.
È l’unica conferenza episcopale
al mondo il cui presidente non è
eletto dai vescovi ma dal Vaticano». Secondo padre Carmine
«gli stessi vescovi condividono
questo desiderio», che darebbe
maggiore autonomia alla chiesa
italiana. Nel chiedere un «cambio radicale», il missionario nota
anche che, nella fase preparatoria del convegno veronese, sono
mancate «tutte quelle persone e
gruppi scomodi che sono stati allontanati dalla chiesa ufficiale.
Eppure questi esclusi sono una
grande ricchezza della chiesa italiana, perché a contatto costante
con le periferie della società».
Altro capitolo che suonerà stonato agli orecchi dei papaveri
della Cei è quello sull’impiego
dell’ingente flusso di denaro gestito dalla chiesa italiana. La
«Campagna banche armate»,
lanciata dalle riviste Mosaico di
Pace, Missione Oggi e Nigrizia, e
condivisa da una serie di associazioni, chiede «uno stile di vita
nuovo, una comunità nuova, alternativa» anche nella gestione
del denaro: che almeno non finisca in istituti bancari che fanno
investimenti moralmente discutibili, come finanziare il commercio di armi. A chiedere poi un «discernimento a tutto campo» è
Pax Christi che, in un documento elaborato per il convegno di
Verona, sottolinea uno dei cronici mali della chiesa italiana: quello di alzare la voce per difendere
gli embrioni e di tacere quando
si tratta di vittime delle guerre.
Il movimento afferma: «Oggi,
quando si affrontano i temi della
vita e della famiglia, in particolare della bioetica, spuntano due
schieramenti contrapposti, che
dividono il mondo in bene e male, in buoni e cattivi.
Da una parte c’è chi ripropone costantemente i diritti dell’embrione, il superamento della
legge 194, il rifiuto dei patti di solidarietà civile, quasi ossessionato dalla sessualità e dalla bioetica. Quasi indifferente al fatto
che al mondo ogni sei secondi
muore un bambino per fame,
ogni minuto muore una donna
per parto, mentre si spendono cifre spaventose per sviluppare il
sistema della guerra». Pax Christi ricorda che »nessuno può credere a chi si accalora per difendere il diritto alla vita degli embrioni ma non sembra interessato alla vita delle persone nate sempre e ovunque».
* Lettera22
notizie
Appello
Stati uniti
Difendiamo i precari
a processo per gli «espropri»
Via libera a carne e latte
da animali clonati
Arrivano la carne e il latte clonati sulle
tavole degli americani. Dieci anni dopo la
creazione della pecora Dolly le autorità
sanitarie americane hanno deciso di dare
luce verde alla vendita di carne e latticini
provenienti dal bestiame clonato. «Il nostro
giudizio è che il cibo proveniente da
animali clonati offre le stesse garanzie per
la salute pubblica del cibo che già
consumiamo», ha affermato Stephen
Sundlof, capo della medicina veterinaria
della Food and drug administration, che da
tre anni sta studiando il problema.
Secondo il quotidiano Washington Post il
via libera ufficiale della Fda, ormai deciso,
dovrebbe essere annunciato entro la fine
dell'anno. Numerose compagnie americane
stanno sviluppando da tempo l’industria
degli animali clonati in attesa di invadere
in modo massiccio il mercato non appena
ricevuta l’autorizzazione. Ma una petizione
è già stata presentata alla Fda dal «Centro
per la sicurezza alimentare» perché la
concessione di licenze per la vendita di
carne clonata sia regolata dalle stesse
restrizioni che regolano le vendite dei
medicinali: ogni diverso prodotto deve
ottenere la sua licenza.
Islanda
Il governo riprende la caccia
commerciale alle balene
Il governo islandese ha deciso di
riprendere la caccia commerciale alla
balena, diventando così il secondo paese
dopo la Norvegia a praticarla. «Questa
ripresa non minaccia le specie in pericolo»,
afferma in un comunicato il governo
islandese, che nel 1990 aveva vietato la
caccia alla balena. La decisione è arrivata
a quattro mesi dalla risoluzione della
Commissione baleniera internazionale che
giudicava «non più necessaria d'ora in
avanti» la moratoria sulla caccia.
Spagna
La ’ndrangheta non si arrende:
bruciata l’auto all’esponente Ds,
molotov contro il presidente della
provincia di Crotone
Francesco Paolillo Reggio Calabria
«Sindaco vattene». Vibo Valentia è tappezzata di manifesti di Forza Italia che invitano il primo cittadino, il diessino Franco
Sammarco, a lasciare. Prima degli azzurri,
però, sono stati An e la Cdl più in generale
a conquistare i muri contro quel primo cittadino accusato dal centrodestra locale di
avere gestito «allegramente» i fondi destinati agli alluvionati del tre luglio scorso. Una
sciagura che fece cinque morti e piegò un
intero territorio. Ad oggi il sindaco Sammarco è sempre al suo posto ma con
un’automobile in meno. Ignoti, due notti
fa, hanno cosparso di benzina la sua Opel
Corsa, parcheggiata sotto casa, e l’hanno
data in pasto alle fiamme. L’ultimo affronto della ‘ndrangheta ad amministratori
pubblici calabresi si è consumato lo stesso
giorno in cui Locri celebrava il primo anniversario dell’uccisione di Franco Fortugno,
il vicepresidente del consiglio regionale finito a colpi di pistola in un seggio per le Primarie dell’Unione.
In Calabria i fiori per i morti ammazzati
non fanno in tempo ad appassire che i
clan tornano a gonfiare il petto. Da queste
parti il clima è teso. In meno di una settima-
Offensiva delle ’ndrine,
sindaco di Vibo nel mirino
na, contro la criminalità la regione ha accolto il premier Romano Prodi, il suo vice,
Francesco Rutelli, vari ministri della Repubblica ed il procuratore nazionale antimafia
Piero Grasso. In tre giorni, le ‘ndrine hanno
ordinato l’incendio, a colpi di molotov, del
portone del presidente della Provincia di
Crotone, Sergio Iritale, anch’egli esponente della Quercia, e la distruzione della macchina del sindaco di Vibo. Insomma, la mafia si fa beffa degli impegni della politica.
Mostra i muscoli e quella spocchia che per
lei è un punto di forza. Roba, però, da non
intimidire il primo cittadino vibonese.
Franco Sammarco non molla anche se, dice, «siamo arrivati alla barbarie». Si sentiva
nel mirino da tempo. E il centrodestra non
l’ha aiutato: «Sta conducendo una campagna denigratoria che non solo distorce la realtà, ma trama anche di notte con manifesti insulsi che incitano alla violenza». Un
concetto ripreso pure dal governatore della Calabria, Agazio Loiero, che diffida dall’
«innescare campagne di odio». «E’ pericoloso – afferma - Un episodio così potrebbe
anche esserne il frutto indesiderato e magari non perseguito».
Franco Sammarco è sindaco dall’aprile
2005. Il 65% dei vibonesi lo preferì a Valerio
Grillo. In poco più di un anno, tuttavia, il
suo governo è stato attraversato da turbolenze inaspettate come, subito dopo le Politiche, la nascita del Partito democratico
meridionale, il movimento del presidente
della Regione Loiero. Al nuovo soggetto
hanno aderito, nell’assemblea cittadina,
nove consiglieri (quasi la metà degli eletti)
ed un ex assessore, Antonino Diffinà. Da
sette mesi, qui, l’Unione ha il suo bel da fare anche col Pdm che, una volta uscito dalla giunta, ha garantito l’appoggio esterno.
Insomma, il terreno sul quale il sindaco si
trova a lavorare è abbastanza tortuoso. Da
una parte sette mesi di tribolazione col proprio schieramento, dall’altra l’inasprirsi dello scontro con l’opposizione. Adesso, gli occhi della ‘ndrangheta puntati addosso. Al
gesto criminale è subito seguita una cascata di solidarietà. Dai Ds è arrivato l’abbraccio del segretario nazionale Piero Fassino,
del senatore Nuccio Iovene, del presidente
del consiglio regionale Peppe Bova, dell’assessore dell’esecutivo Loiero Nicola Adamo e del segretario regionale Carlo Guccione. Vicinanza al sindaco l’ha manifestata
pure la Margherita. Fra i dielle, spiccano le
parole della parlamentare Maria Grazia laganà, vedova di Franco Fortugno. Da lei
l’ennesimo appello: «E’ il momento di reagire».
Lesbiche ed entrambe
mamme, storica sentenza
Madre 1 e madre 2, vale a dire
entrambe mamme. Con questa
semplice operazione una giudice di
Algeciras, nel sud della Spagna, ha
corretto la discriminazione contenuta
nella legge sulla fecondazione assistita
approvata nel marzo scorso dal
Parlamento spagnolo. La norma
prevede che se una coppia
eterosessuale, sposati o conviventi,
ricorre alla riproduzione assistita con
lo sperma di un donante, il padre
diventa tale con il semplice
riconoscimento del figlio. Se invece si
tratta di una coppia gay, il coniuge
deve procedere all'adozione del
bambino partorito dalla sua metà per
vedersi riconosciuto come genitore.
«Per me vuol dire che mi considerano
meno madre e le procedure sono
lunghe e complesse», si lamenta
Antonia, sposata con Maria Angeles.
Due settimane fa Maria Angeles ha
partorito un bebé e lunedì entrambe
sono andate dal giudice di Prima
istanza di Algeciras per registrare il
neonato nel Libro di Famiglia, ma
senza molte speranze: la legge dice
che non possono. Ed invece la giudice
capisce le loro motivazioni e le annota
entrambe come madri. Ora il ministero
della salute si dice disposto a
cambiare la norma, mentre quello di
giustizia dice che bisogna mantenere
la legalità. Ma nel governo Zapatero e
non solo si è aperta la partita.
A. D'Arg.
Rete per il reddito sociale i per i diritti
Nella nostra democrazia italica uno strano
rapporto riguarda i fatti e le parole. Capita così
di apprendere che la Finanziaria colpisce i
ricchi e redistribuisce ai poveri o, piuttosto, che
la precarietà è il male del secolo alla cui cura
tutti si devono dedicare con attenzione,
generosità e premura. Succede anche che oggi
prenda avvio un maxi-processo che vede
coinvolti 105, tra attivisti e giovani precari, il
cui tema è, nè più nè meno, quello della
precarietà e di una redistribuzione equa delle
risorse e della ricchezza. Uno strano
cortocircuito dunque: ciò che in un processo,
dal sapore caricaturale d’altri tempi, diviene
«rapina pluriaggravata» (un reato che prevede
pene dai 6 ai 20 anni), nell’alveo solido delle
istituzioni acquista giustezza e rilevanza
morale. Di cosa parla, infatti, questo processo?
Parla in primo luogo di una grande giornata di
lotta alla precarietà e per un reddito garantito
che si è svolta a Roma il 6 novembre del 2004.
40 mila precari hanno portato la loro gioia e le
loro parole d’ordine per un nuovo welfare nel
centro della città. Collettivi di base di lavoratori
atipici, centri sociali, studenti universitari,
occupanti di case, sindacati di base. Reddito
garantito, questa la formula complessa attorno
alla quale far convergere diritti di cittadinanza
e nuovo welfare, servizi e accesso alla
formazione, diritto alla casa e autogestione.
Proprio la questione del reddito garantito e
della critica al carovita sono state al centro non
solo della manifestazione, ma anche delle
azioni di denuncia che si sono svolte durante
la giornata presso il centro commerciale
Panorama e la libreria Feltrinelli. Lo stesso
cortocircuito tra fatti e parole di cui parlavamo
sopra ha spinto una stampa assetata di scoop
o semplicemente forcaiola e accecata dai
risentimenti a sfoderare il vecchio
armamentario linguistico degli anni ’70:
l’«esproprio proletario» e lo spettro degli anni
bui della repubblica, gli anni della violenza
politica, gli anni dell’illegalità diffusa. Si
potrebbe discutere a lungo dell’uso - sempre
elastico con il potere, sempre rigido con i
movimenti - che in questo paese si fa del
perimetro della legalità. Ma ciò che ci sta più a
cuore, in questo momento, è riparlare dei fatti
e dei temi della giornata del 6 novembre. In
primo luogo sgomberando il campo
dall’accusa che viene mossa: le azioni di
denuncia del carovita e del copyright che si
sono tenute in quella giornata sono state
azioni pubbliche e pacifiche. Qualcuno ha mai
visto compiere rapine in modo pacifico, senza
travisamento del volto, alla presenza di
operatori dell’informazione e forze dell’ordine?
È evidente che tra i fatti e le parole la distanza è
incolmabile e stigmatizzare come rapina la
giornata del 6 novembre significa voler
rimuovere il nocciolo tematico che quella
giornata porta con se: nuove condizioni di
giustizia sociale vanno determinate e tutto
questo non può essere fatto senza prendere sul
serio la richiesta di reddito avanzata dai
precari. Quest’opera di rimozione, inoltre, ha
un carattere ancora più grave se, al di fuori
delle aule di tribunale, la politica di governo
non smette di parlare del danno della
precarietà e della necessità di costruire nuovi
diritti per chi diritti non ne ha. Tutto ciò, infine,
è ancora più insopportabile se, in tempo di
indulto, 12 attivisti e precari sono ancora
costretti (dal 24 giugno) all’obbligo di firma.
Riteniamo, dunque, indispensabile ricostruire
un discorso pubblico forte attorno alla
precarietà e all’esigenza di un reddito
garantito, a partire dalla difesa dei 105 precari
coinvolti nel processo che prenderà inizio (con
l’udienza preliminare) questa mattina presso il
Tribunale di Roma a piazzale Clodio. Nella
consapevolezza che è necessario, al fianco
delle intensificazione delle lotte per una nuova
giustizia sociale, la costituzione di un nuovo
garantismo che parli di amnistia e
depenalizzazione dei reati sociali.
10
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
internazionale
Approvata definitivamente dal senato la
missione Unifil. Ma l’Unione si spacca sulla
«costituzionalità» dell’intervento militare
in Iraq. No di Verdi-Pdci e Prc, sì dell’Ulivo.
In finanziaria resta il miliardo di euro
per tutte le missioni all’estero da proporogare
con decreto annuale e non più semestrale.
Si tratta ancora sul comitato di monitoraggio
Matteo Bartocci Roma
R
umorosamente al senato e più silenziosamente nelle varie commissioni che
alla camera stanno esaminando la legge finanziaria, il centrosinistra torna a
dividersi sul futuro delle missioni militari all’estero. Il senato ha approvato definitivamente
la missione Unifil in Libano (272 sì, 15 no e 2
astenuti) ma poco prima del voto la maggioranza si è divisa sull’ordine del giorno presentato
da An che legittima di fatto la presenza italiana
in Iraq anche se a un passo dal ritiro: contrari
Verdi-Pdci e Lega, astenuto il Prc. Astensione allarmata sempre di Rifondazione in commissione difesa a Montecitorio sull’aumento a 1,7 miliardi delle spese per armamenti previste nel bilancio 2007 e unanimità molto guardinga in
commissione esteri sul controverso fondo di un
miliardo per tutte le missioni militari all’estero.
Sono tutti segnali che, pur lontano dai grandi
riflettori e segnati da qualche tatticismo, dimostrano il disagio dell’ala pacifista dell’Unione
sulle scelte strategiche di fondo della politica
estera del governo Prodi. La fedeltà alle strategie
atlantiche e statunitensi adottata dall’Ulivo (correntone incluso) mette nell’angolo le sinistre
parlamentari e il movimento pacifista che pure
hanno puntato sul governo dell’Unione per
una politica alternativa al centrodestra.
Con il no delle sinistre (l’astensione a palazzo
Madama equivale al voto contrario) il senato ha
approvato l’ordine del giorno Fini-Storace che
esprime apprezzamento per le forze armate im-
Unione, sì al Libano
«ni» all’Afghanistan
pegnate in tutte le missioni, Iraq compreso, nel
rispetto dei valori espressi dall’articolo 11 della
Costituzione. Una scelta avallata all’epoca da
Carlo Azeglio Ciampi e riproposta a mo’ di trappola dalla Cdl nell’ultima discussione alla camera. In quell’occasione Massimo D’Alema aderì a
nome del governo senza nemmeno far votare
l’aula, al senato almeno è stato concesso di votare e di marcare i doverosi distinguo.
Divergenze strategiche registrate anche in
commissione difesa a Montecitorio, dove i deputati del Prc (Deiana, Cannavò e Duranti) si sono astenuti sulla parte della finanziaria che por-
ta lo stanziamento per il rinnovamento tecnologico della Difesa a 1,7 miliardi di euro.
Più soddisfacente invece l’intesa raggiunta in
commissione esteri. E’ stato approvato all’unanimità lo stralcio di tutti i commi (ai limiti della
costituzionalità) dell’articolo 188 sul «fondo per
le missioni all’estero» lasciando solo la sua istituzione pari a 1 miliardo di euro all’anno. Una cifra in linea con gli stanziamenti precedenti (circa 490 milioni ogni sei mesi). «Il fondo per le
missioni è una decisione di serietà e di trasparenza - avverte il capogruppo del Prc alla camera Gennaro Migliore - perché con la Cdl le mis-
Kalaway, un
gruppo di
soldati del
Battaglione
San Marco in
marcia nel sud
del Libano Foto
Ap
sioni venivano finanziate pescando in modo
creativo dall’8 per mille (Prodi invece ha usato
per Unifil il maggiore gettito fiscale, ndr), ed è
un accordo soddisfacente perché anche se con
un decreto annuale e non più semestrale abbiamo evitato che fosse il governo e non il parlamento ad avere l’ultima parola sulle missioni
militari». «Un buon compromesso», conferma
Luciano Pettinari della sinistra Ds. Alla fine il relatore in commissione, il Ds Valdo Spini, è soddisfatto: «Aver chiuso all’unanimità è un successo della maggioranza, ora però il governo deve
fare chiarezza sui fondi per la cooperazione che
anche se sono stati aumentati rischiano di essere cancellati dal debito di 150 milioni che il governo Berlusconi non ha mai versato all’Onu
per il fondo globale per la lotta alla malaria, alla
fame e alla tubercolosi». L’intesa raggiunta ieri,
ovviamente, presenta ombre e non convince
del tutto i cosiddetti «dissidenti»: «Il decreto annuale è un motivo in più per votare no alla missione in Afghanistan», avverte Salvatore Cannavò del Prc, che però riconosce favorevolmente
l’avvio del fondo ad hoc.
Resta infine ancora aperta la questione sul famigerato «monitoraggio» delle missioni, approvato in estate ma ancora mai partito. Nella maggioranza si lavora su due comitati delle commissioni esteri e difesa che lavoreranno in modo
congiunto per valutare l’evolversi della situazione e ascoltare Ong e società civile. E’ evidente
che il precipitare della guerra in Afghanistan rende questo strumento necessario anche se non
ancora sufficiente per l’agognata «exit strategy»
da Kabul.
«Regole d’ingaggio da occupanti»
Stefano Chiarini
L’annuncio, alcuni giorni fa, delle regole di ingaggio «rinforzate» dell’Unifil, che secondo un manuale dei servizi spagnoli distribuito al contingente
iberico in Libano, potranno procedere in prima persona contro la resistenza libanese a sud del fiume Litani e
non più limitarsi a sostenere l’esercito di Beirut, rischia di porre fine alla
luna di miele tra le truppe Onu, la popolazione sciita del sud, la resistenza
e l’esercito libanese.
A poche ore da una prima, dura
presa di posizione contro le truppe
multinazionali dell’ayatollah Hussein
Fadlallah - il più influente esponente
religioso sciita, in passato considerato la guida spirituale degli Hezbollah
- secondo il quale le forze dell’Unifil
II sarebbero state inviate nel sud del
Libano solamente per proteggere
Israele, ieri è sceso in campo con una
conferenza stampa il generale (in
pensione) Amin Hoteit, rappresentante non ufficiale dei settori «nazionali» e «patriottici», in gran parte sciiti, ma non solo, maggioritari nelle for-
ze armate della repubblica dei cedri.
L’autorevole esponente dell’establishment politico-militare libanese - incaricato nel 2000 di verificare il ritiro
israeliano e di negoziare con l’Onu la
linea di confine tra il Libano e Israele
- ha sostenuto che le regole di ingaggio rese note dall’Unifil, al di là della
volontà politica dei singoli governi,
trasformeranno con il tempo i contingenti multinazionali nel Libano del
sud in truppe occupanti e questo «farà di nuovo esplodere la situazione».
Nel corso della conferenza stampa è
stato inoltre reso noto un memorandum inviato al Segretario generale
dell’Onu nel quale si chiede all’Unifil
di attenersi alla lettera della risoluzione 1701 sul «cessate il fuoco» e a non
proporre progetti - come il controllo
delle acque territoriali, della frontiera
con la Siria, degli aeroporti, dello spazio aereo - che porrebbero il Libano
sotto una sorta di nuovo mandato coloniale internazionale. In particolare
- ha sostenuto il generale Hoteit mentre la risoluzione 1701 stabilisce
che la missione Unifil ha il compito
di sostenere l’esercito libanese e di
monitorare il cessate il fuoco, le rego-
le di ingaggio invece sembrerebbero
autorizzare i contingenti multinazionali ad usare direttamente la forza,
nel caso l’esercito libanese non possa
o non voglia farlo, per impedire che
nel Libano del Sud vengano portate
avanti «attività ostili». Secondo Hoteit
il riferimento alla necessità di reprimere ogni «atto ostile» lascerebbe
troppi margini di discrezionalità e darebbe il via libera allo scioglimento di
riunioni, a perquisizioni di uffici e automezzi e, in caso di rifiuto o di resistenza, ad arrestare persone e ad aprire il fuoco. Se ciò dovesse avvenire ha ammonito il generale - potrebbe
esplodere non solo il Libano del sud
ma tutto il paese. Al generale Hoteit e
ad Hussein Fadlallah ha risposto ieri
indirettamente il premier italiano Romano Prodi in un’intervista esclusiva
al quotidiano progressista «As Safir» -
ma senza entrare nel merito delle regole di ingaggio: «Le forze dell'Unifil
sono in Libano - ha sostenuto Prodi per mantenere la pace e non certo
per intromettersi nei complicati affari
politici libanesi». Il premier italiano
non ha escluso che «potranno verificarsi degli incidenti isolati» ma, ha ripetuto cercando di convincere i suoi
scettici interlocutori, «la missione delle nostre truppe è di pace».
Monito all’Unifil
del generale Hoteit
espressione dei
settori «nazionali»,
in gran parte sciiti,
dell’esercito libanese:
Non interferite con
la resistenza o il
Libano esploderà.
Prodi ad «As Safir»:
E’ missione di pace
Nei villaggi del sud, dove l’incubo
delle cluster bomb durerà anni
Migliaia d’ordigni micidiali
Un milione di bombe a grappolo
sul Libano, già una ventina
di morti, agricoltura danneggiata.
E Israele non fornisce all’Onu
le mappe delle zone più colpite
Michele Giorgio Inviato a Deir Qanun
L
a sigla di colore rosso su un mattone sistemato a pochi centimetri da una scatoletta nera è inquietante. «CB», cluster
bomb, bomba a grappolo. Due parole
che sono diventate un incubo per decine di migliaia di libanesi che vivono nel sud del paese e
che continueranno ad esserlo per anni. «Avevo
sentito durante un programma televisivo che
dobbiamo stare attenti a dove mettiamo i piedi, perché i nostri terreni sono pieni di queste
cluster bomb sganciate dagli israeliani sul Libano (durante la guerra della scorsa estate, ndr)
ma non mi aspettavo di trovarne una proprio
nel mio giardino», racconta Hassan Remlawi,
di Deir Qanun, indicando il mattone con la
scritta «CB». «Qualche giorno fa, mentre ero seduto davanti casa, ho visto vicino all’albero un
oggetto strano. Ho telefonato a mio fratello che
mi ha detto di tenermi a distanza di sicurezza,
perché probabilmente era una di quelle dannate bombe. Aveva ragione». Da allora Hassam
Remlavi e la sua famiglia vivono nel timore che
l’ordigno esploda all’improvviso, magari a cau-
sa del passaggio di un gatto o di un altro animale. Gli artificieri della «Mag» - un’organizzazione non governativa britannica che si occupa di
sminamento in Libano del sud - hanno promesso che arriveranno al più presto. Ma sino a
quel momento la famiglia Remlawi vivrà nell’ansia.
Gli specialisti della Mag vengono da vari paesi, in gran parte sono ex militari divenuti pacifisti, che hanno deciso di impegnarsi per salvare
vite umane in Libano del sud. «È una corsa contro il tempo, perché ogni volta che scopriamo e
facciamo brillare uno di questi ordigni sparsi
dagli israeliani vuol dire che un essere umano,
soprattutto un bambino, ha un pericolo in meno dal quale guardarsi», dice Alain, francese,
giunto a Deir Qanun nelle scorse settimane, dopo aver trascorso 12 anni nello sminamento
marino per conto di una società privata.
Chiuso nella sua tuta da lavoro protettiva,
con la visiera del casco abbassata sul volto,
Alain passa le giornate assieme ai suoi colleghi
alla ricerca delle cluster bomb. «Sappiamo dove
sono le concentrazioni maggiori di questi ordigni oppure ci chiamano gli abitanti - spiega -,
per il momento ci stiamo impegnando nella bonifica di edifici e giardini pubblici, strade e case, i luoghi più popolati e frequentati. Questo lavoro richiederà anni, ma non ci perdiamo d’animo». Il cauto ottimismo di Alain non basta a
placare la paura in decine di villaggi. Nel Libano meridionale infatti potrebbero trovarsi almeno un milione di bombe a grappolo israeliane e
sino ad oggi lo Stato ebraico non ha acconsentito a fornire all’Onu informazioni dettagliate sulle incursioni nelle quali sono state utilizzate
queste armi insidiose e letali. Dal cessate il fuo-
notizie
Russia/1
La polizia attacca un corteo
per la Politkovskaja
Botte e feriti a Nazran, capoluogo della
repubblica caucasica di Inguscezia,
quando alcune decine di persone hanno
tentato di tenere una manifestazione di
protesta contro l’uccisione della
giornalista Anna Politkovskaja, che
aveva dedicato gli ultimi anni del suo
lavoro alla denuncia dei misfatti
compiuti dagli uomini di Putin in
Cecenia e proprio in Inguscezia. La
polizia ha attaccato furiosamente i
manifestanti, ferendone diversi. Una
giovane attivista dell’Associazione per i
diritti umani Memorial ha avuto il naso
fratturato. Motivo dell’attacco, «nello
statuto dell’Associazione non è previsto
che organizzi manifestazioni in strada».
Russia/2
Immigrato georgiano muore
mentre viene deportato
Un immigrato «irregolare» georgiano è
morto ieri mentre veniva caricato su un
aereo per essere deportato, insieme ad
altri 160, da Mosca a Tbilisi. L’uomo era
detenuto da cinque giorni, nel quadro
delle continue retate antigeorgiane in
corso in Russia, e aveva inutilmente
chiesto l’intervento di un medico. In
queste ore la Ue sta decidendo se e
come condannare Mosca per le
repressioni «etniche» contro i georgiani.
Iran
L’Unione europea: «Pronti
ad appoggiare sanzioni»
L’Unione europea appoggerà «sanzioni
limitate» contro Tehran. Dopo il rifiuto di
sospendere l’attività di arricchimento
dell’uranio, i ministri degli esteri dei 25 si
sono detti pronti a sostenere sanzioni del
Consiglio di sicurezza. Allo stesso tempo,
hanno ribadito che la porta dei negoziati
resta aperta ed esortato l’Iran a mostrare
segnali positivi. «La palla sta nel campo di
Teheran e sta a loro agire», ha dichiarato il
commissario Ue per la relazioni esterne
Benita Ferrero Waldner.
Eritrea
1500 soldati invadono
la zona cuscinetto
Circa 1.500 soldati eritrei, coperti da una
dozzina di mezzi blindati, sono penetrati
della zona cuscinetto di frontiera con
l'Etiopia, larga 25 km. lungo tutti i circa
1.000 di confine tra i due paesi. Lo
denuncia oggi in un comunicato l'Onu, i
cui soldati sono i soli che possono
pattugliare la zona di sicurezza. Per l'Onu,
si tratta di una fragrante violazione degli
accordi di pace di Algeri del 2.000. La
prima reazione di Addis Abeba era stata
abbastanza dura, ma poi in serata un
messaggio del premier ed uomo forte
Meles Zenavi ha stemperato la tensione.
«Non risponderemo militarmente - ha detto
- a queste provocazioni minori». L'Eritrea,
invece, ha avuto una singolare reazione.
Innanzitutto ha rivendicato che trattandosi
di territorio eritreo può operarvi a
piacimento. Poi ha sostenuto che in
quell'area è tempo di raccolta, e che i
soldati erano andati a dare una mano.
*Errata corrige Per una dimenticanza,
nella foto del calendario di Gabriele
Torsello pubblicata ieri a pagina 10 non è
stato indicato il nome dell’autore, che è
Salvatore Bello. Ce ne scusiamo con lui e
con i lettori
Una delle migliaia di bombe a grappolo (cluster
bombs) sganciate dall’aviazione israeliana
sul Libano Foto Ap
co del 14 agosto fino ad oggi gli ordigni hanno
causato la morte di 20 persone, fra cui due bambini, e il ferimento di altre 120. Ad oltre 200mila
sfollati è stato sconsigliato di rientrare subito
nelle proprie abitazioni, perché sono a rischio.
«Al momento sono stati identificati 770 siti sui
quali sono state sganciate bombe a grappolo, e
sono stati eliminati 30mila ordigni», ci dice accogliendoci nel suo ufficio di Tiro Dalia Farran,
portavoce dell’Unmacc, l’agenzia dell’Onu che
dal 2000 si occupa dello sminamento del Libano del sud. «Abbiamo dovuto interrompere il lavoro ordinario perché siamo in emergenza.
Pensate che dal 2000 a oggi 30 libanesi sono stati uccisi delle mine antiuomo e ora in appena
due mesi sono morte già 20 persone a causa
delle bombe a grappolo - prosegue, sottolineando che oltre al milione di cluster bomb - in Libano del sud restano ancora 400mila mine antiuomo».
Le bombe a grappolo non sono proibite dalle leggi di guerra, sebbene la Convenzione di Gi-
nevra ne sottolinei i rischi per la popolazione civile. Impiegabili sia dall’artiglieria che dall’aviazione, sono progettate per dividersi in volo.
«Un proiettile di artiglieria è in grado di disperdere 88 cluster bomb in un’area di 20 km, un
missile sganciato da un aereo ne sparge 644 in
50 km», continua Dalia Farran, mostrandoci
una mappa del Libano del sud con una miriade di punti di colore rosso indicanti altrettante
località dove sono state individuate le bombe.
«Quando un essere umano finisce su uno di
questi ordigni nel migliore dei casi perde un arto, altrimenti muore dilaniato». I bambini sono
i più esposti al pericolo e proprio per tutelare i
più piccoli e più in generale i civili, l’Unmacc
ha più volte sollecitato Israele a fornire le mappe militari con l’indicazione delle aree dove sono state sganciate le bombe. «Ma da Tel Aviv
non abbiamo ancora ricevuto risposte. Pensate
solo di recente Israele ci ha fornito le informazioni su dove si trovano parte delle mine antiuomo. E non è da sottovalutare il fatto che gran
parte delle cluster bomb siano state sganciate
nelle ultime ore della guerra (della scorsa estate) prima che entrasse in vigore il cessate il fuoco con Hezbollah», conclude Farran. Alcuni
sminatori che in passato sono stati impegnati
in Kosovo, Sudan, Kuwait, Iraq, Bosnia e Afghanistan, hanno riferito di non aver mai operato
in un’area tanto «contaminata» come il Libano
del sud.
Per questa ragione gran parte delle attività
agricole si sono dovute fermare. «Abbiamo già
perduto la stagione del tabacco e ora perderemo quella della raccolta delle olive», dice
Maher A-Surawi, un contadino di Yanur «ma
non possiamo fare diversamente, abbiamo paura e tra quei pochi di noi che si sono avventurati nei campi, alcuni hanno perduto la vita».
Un disastro per l’intero Libano del sud che dipende per il 70% dall’agricoltura ma anche per
migliaia di manovali palestinesi dei campi profughi che vivono con la raccolta della frutta,
uno dei pochi lavori che sono autorizzati a svolgere. Resta in silenzio la comunità internazionale che pure ha condannato con forza Hezbollah per gli oltre mila katiusha sparati contro i
centri abitati (dove hanno fatto più di 30 morti
civili). Le cluster bomb nei villaggi sudlibanesi
invece non generano sdegno.
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
11
internazionale
Pio d’Emilia Tokyo
La Corea del Nord: colpiremo senza pietà chiunque ci attacchi
C
Ecuador
«Sanzioni atto di guerra»
Cambio di scenario:
ora è in testa Correa
he il Giappone si senta
minacciato, o comunque gli faccia gioco far
finta di esserlo, non v’è
dubbio. E grazie alle provvidenziali «soffiate» di non meglio precisate fonti Usa, i mass media cominciano fin dall’alba a parlare di un
nuovo, immediato esperimento
nucleare nordcoreano. È una bufala, d’accordo, ma intanto cresce
la tensione, e diminuisce l’attenzione dell’opinione pubblica verso i nuovi strappi che il governo si
appresta ad infliggere all’oramai
lacerata Costituzione.
C’è un articolo che vieta espressamente di condurre operazioni
militari - ivi comprese semplici
ispezioni - senza una previa dichiarazione di stato d’emergenza? Poco male, spiega in Parlamento il ministro degli Esteri Taro Aso, per aggirare il problema e
non perdere troppo tempo compiremo le ispezioni (che Cina e Russia raccomandano di condurre a
campione e con estrema prudenza) in nome e per conto degli Stati
Uniti, cui siamo legato da un trattato di sicurezza. Non ha spiegato, Aso, se le ispezioni - che Pyong
Yang avverte, minacciosa, verranno considerate atti di guerra - avverranno con i marinai in divisa
militare Usa e se dovranno parlare in inglese. Pyongyang ieri ha anche minacciato di colpire «senza
pietà» qualsiasi paese attenti alla
propria sovranità, ha riferito
l’agenzia di stampa governativa
Kcna.
Nel frattempo, mercantili e pescherecci nordcoreani sono spariti dall’orizzonte, e così i loro prelibati carichi di granchi, ricci di mare, e molluschi vari di cui i giapponesi vanno ghiotti, specie in questa stagione. Saltano di gioia i produttori locali, subito pronti a sfruttare la situazione dando la stura ai
prezzi, si disperano centinaia di
piccole aziende familiari che rischiano di fallire, visto che al governo non salta minimamente in
testa di prevedere qualche forma
di indennizzo.
E sempre più preoccupante,
con la possibilità che possa esplodere in episodi di violenza, è la situazione in cui vivono gli oltre
700 mila coreani residenti in Giappone, la maggior parte dei quali
per ragioni spesso più culturali
che politiche sostiene da sempre
- anche attraverso sostanziose rimesse di denaro - il regime di
Pyong Yang. «Percepiamo un progressivo atteggiamento di ingiustificata intimidazione - ha dichiarato ieri Nam Sung U, numero due
dell’associazione Chongryon, che
riunisce la maggioranza dei coreani residenti in Giappone - e que-
Una parata di regime a Pyongyang. Sotto: un soldato britannico in Afghanistan
sto nonostante la nostra condanna nei confronti del test nucleare
sia stata totale e immediata».
In attesa che arrivi la Rice - pare che il segretario di stato Usa abbia spostato di un giorno la visita
per evitare di incontrare nello stesso albergo di Tokyo il miliardario
anti Bush George Soros, che da alcuni giorni batte l’Estremo Oriente denunciando la deriva Usa e au-
Foto Ap
spicando che la Cina riesca a contenere la «crescente minaccia
americana alla pace e all’armonia
del mondo» - la regione è teatro,
oltre che di prove tecniche di collasso (la Cina, prudente nell’applicazione delle sanzioni, ha cominciato ad elevare un muro di filo
spinato al confine nordorientale,
dove potrebbero riversarsi milioni di profughi nordcoreani), di un
intenso via vai diplomatico bilaterale (il premier giapponese Abe
ha telefonato persino a Prodi, congratulandosi per l’elezione dell’Italia al Consiglio di Sicurezza) in attesa del vertice a tre previsto giovedì a Seoul tra Stati Uniti, Giappone e Corea del Sud, fortemente voluto dal Giappone. Appare sempre più chiaro, infatti, che è proprio la Corea del Sud l’anello debole, e decisivo, sul quale si stanno appuntando le pressioni dei
due blocchi. Quello «moderato»
rappresentato da Cina e Russia, e
quello più intransigente, rappresentato da Stati Uniti e Giappone.
Da un lato, un’interpretazione
«non solo punitiva» delle sanzioni, da implementare con prudenza e mantenendo aperti tutti i canali della diplomazia per riportare Pyong Yang al tavolo della trattativa. Dall’altro si cerca, evidentemente, lo scontro. In mezzo, da
tutti i punti di vista, la Corea del
Sud, un paese che dopo anni di feroce dittatura militare si è conquistato la democrazia e che aveva
cercato e trovato, attraverso la
sunshine policy, la dottrina del
confronto «illuminato» la via del
dialogo con Pyong Yang.
Afghanistan meridionale, i sequestratori del fotoreporter italiano chiedono uno scambio
Le truppe britanniche negoziano
con i capi tribali e si ritirano
Gabriele Torsello
Ultimatum dei rapitori
E' arrivata alle 20:30 locali la telefonata con la
quale i rapitori hanno lanciato un ultimatum per la
liberazione del fotoreporter Gabriele Torsello rapito il
12 ottobre scorso. I sequestratori, che hanno
contattato nuovamente l'ospedale di Emergency a
Lashkargah, hanno chiesto che entro la fine del
Ramadan, cioè domenica notte, Abdul Rahman
venga riportato in patria. La richiesta dei rapitori,
che da giorni si ripete con lo stesso schema
(telefonata del fotoreporter e successivo colloquio
sulla trattativa) è considerata credibile sia dalla
Farnesina che dall’intelligence italiana. Entrambe le
istituzioni confermano che quello avviato tramite
l’ospedale di Emergency è attualmente l’unico
canale di trattativa. L’afghano Rahman, convertitosi
al cristianesimo, era stato processato e condannato
a morte da un tribunale talebano. L’Italia, che
nell’ambito della missione Nato si occupa proprio
della riorganizzazione della giustizia, decise di
portarlo in salvo nel nostro paese a marzo scorso.
Secondo il sito di Peacereporter durante la
telefonata il responsabile dell'ospedale di
Emergency, Rahmatullah Hanefi, avrebbe parlato per
pochi istanti direttamente con Gabriele: «Ieri aveva
detto di star bene - ha spiegato - oggi è ovviamente
preoccupato». L'ultimatum rappresenta un'inversione
di tendenza sulle previsioni ottimistiche riguardanti
le trattative. Per i rappresentanti del governo italiano
che gestiscono la trattativa l'identità politica del
gruppo dei rapitori continua a rimanere poco chiara.
Nonostante le smentite dell’Afghanistan Islamic
press la richiesta di ieri sembra avere l’imprimatur
dei principali gruppi talebani.
Ma.Fo.
Le forze britanniche della Nato in Afghanistan hanno cominciato a ritirarsi dal distretto di Musa Qala, nella
provincia meridionale di Helmand,
teatro nell’estate di sanguinose battaglie con i ribelli Taliban. Operazioni
militari continuano altrove: ad esempio nella vicina provincia di Uruzgan, dove ieri aerei da guerra degli
Stati uniti hanno ucciso un gruppo
di ribelli tra cui il loro comandante.
Il ritiro dei britannici da Musa Qala è senza precedenti. E’ un «ridispiegamento tattico», ha spiegato ieri ai
giornalisti il comandante delle truppe Nato in Afghanistan, il generale
(britannico) David Richards, secondo cui il termine «ritiro» è improprio:
le forze internazionali lasciano Musa
Qala, ha spiegato, perché la sicurezza è notevolmente migliorata dopo
la tregua negoziata all’inizio di settembre tra le forze internazionali e i
capi tribali del distretto. Quello che il
generale Richardson chiama «ridispiegamento» può essere visto però
come una ritirata (ad esempio dal governo di Kabul, che non ha controllo
reale sul territorio in particolare nel
sud). E d’altra parte la natura di quella tregua negoziata è sotto scrutinio.
L’accordo che ora permette alle
truppe Nato di «ridispiegarsi» - in altri termini, permette ai miitari britannici di ridimensionare il loro impegno - è stato negoziato dall’ex comandante delle forze britanniche in
Afghanistan, brigadiere Ed Butler, e
Tutto
il mese in
diplò
da un alto funzionario del Foreign Office
con i capi tribali del distretto. Il ministero
della difesa di Londra
ha categoricamente smentito che ci
sia stata una trattativa con i Taleban.
L’accordo però era che le truppe Nato (cioè britanniche) accettavano di
ritirarsi se i capi tribali garantivano
che i Taleban mettevano fine ai loro
attacchi. E così è avvenuto: nelle ultime cinque settimane la zona è stata
ampiamente tranquilla. Così le truppe Nato si sono gradualmente ritirate, anche dalla città capoluogo, su richiesta dei capi tribali - che, dicevano, sono ormai in grado di garantire
la pace. «Non c’è più bisogno che
stiamo là», ha detto ieri il generale Richards ai giornalisti, a Kabul: «Ci riserviamo il diritto di ribilanciare le
nostre truppe ridispiegandole la se
la situazione militare lo richiederà».
In tutto, 120 soldati sono stati ritirati
da Musa Qala, riferisce l’agenzia Afp
citando dunzionari della Isaf (la Forza internazionale di assistenza alla sicurezza in Afghanistan, che ormai
coincide con la Nato). La sicurezza
del distretto ora è affidata a una milizia locale e una forza di polizia reclutata in loco e stipendiata dal governatore della provincia di Helmand.
E’ la prima volta che la Nato abbandona un distretto in seguito a un
accordo con i capi locali, e ieri a Kabul i portavoce della forza internazionale dicevano che la cosa potrebbe
servire da modello. Quando il Pakistan ha negoziato un accordo con i
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Onu
Bush e Chavez
si bloccano a vicenda
capi tribali del Nord Waziristan, territorio semiautonomi sotto la sovranità pakistana, la cosa è stata molto criticata in Afghanistan (e negli Usa) come un «trattare con i Taleban», cioè
con il nemico (e Islamabad si è difesa dicendo che, al contrario, l’accordo era con i capi tribali precisamente per isolare i Taleban). Per questo
ora i dirigenti britannici si sono preoccupati di chiarire che loro hanno
trattato con i capi tribali e non con i
ribelli. Ma l’ambiguità è notevole: i
comandanti della Nato non avranno
negoziato direttamente con i comandanti Taleban, ma alla fine erano
proprio loro la parte in causa.
L’impegno militare britannico in
Afghanistan - e in Iraq - continuano
a tenere il governo di Londra sulle
spine. Ieri il brigadiere Butler, che ha
da poco lasciato il comando del contingente in Afghanistan, ha dichiarato che la decisione di stornare le forze per la guerra in Iraq sarà costata
all’occidente «anni di impegno militare in Afghanistan».
E’ il secondo alto ufficiale che critica la politica di Blair sull’Iraq in meno di una settimana: il comandante
in capo dell’esercito generale Richard Dannat aveva detto la settimana scorsa che la presenza delle truppe del Regno unito in Iraq ormai è
un elemento che peggiora la violenza.
ALTA FINANZA
Gli apprendisti stregoni
di Gabriel Kolko
FRANCIA
Da diritto a elemosina, l'Rmi
di Noelle Burgi
EUROPA
Fa gola l'industria delle armi
di Luc Mampaey
CAOS E STRATEGIA
Le cinque guerre asimmetriche
di Marwan Bishara
in edicola!*
Nel giro di 24 ore in Ecuador, dove domenica si è
votato per presidente e deputati, la scena è cambiata.
Dopo il 51% dei voti scrutinati con il conteggio
manuale il Tribunale supremo elettorale ha
«scoperto» che il candidato progressista Rafael Correa
ha raggiunto e superato il miliardario bananero e
filo-americano Alvaro Noboa: 25.2% contro 25%. Un
bel ribaltone se si considera che domenica notte,
quando il sistema di conteggio rapido appaltato alla
compagnia brasiliana «e-Vote» aveva appurato già il
70% dei voti prima di collassare misteriosamente, il
risultato era 26.6% per Noboa e 22.5% per Correa.
Correa aveva subito gridato ai brogli scontrandosi
con il capo degli osservatori internazionali, l’ex
ministro argentino Rafael Bielsa, e il segretario
dell’Organizzazione degli stati americani, il cileno
José Miguel Insulza, a cui sembrava che domenica
fosse tutto filato liscio. Anche il socialdemocratico
Leon Roldos si è ritrovato davanti, sia pur di poco
(15.9-15.2%) al populista di destra Gilmar Gutierrez, il
fatello del deposto presidente Lucio.
Lunedì seguaci di Correa avevano inscenato una
manifestazione di protesta davanti alla sede di Quito
del Tribunale elettorale e ieri, dopo l’annuncio dei
nuovi risultati, il Fenocin, il fronte che raggruppa
indios, campesinos e neri, ha annunciato una
mobilitazione nazionale per chiedere «che vengano
riaperte le urne e contati i voti uno a uno» perché è
evidente che «la frode c’è stata». In caso contrario
chiederà «una nuova elezione». I risultati definitivi
sono attesi per oggi. Mentre lunedì i buoni del tesoro
ecuadoriani erano schizzati in alto alla notizia della
vittoria relativa del bananero «pro-mercato», ieri è
accaduto il contrario perché gli investitori si sono
precipitati a vendere.Il ballottaggio resta fissato per il
26 novembre. E resta difficile per Correa. Ma arrivarci
dopo aver vinto il primo turno è tutta un’altra cosa.
STATI UNITI
C'è una destra pacifista
Jeremy Brecher e Brendan Smith
Niente da fare. La situazione non si sblocca al Palazzo
di vetro dell’Onu dove da lunedì sono in corso le
votazioni per attribuire il seggio latino-americano in
Consiglio di sicurezza per il biennio 2007-2009. Dieci
votazioni il primo giorno non hanno consentito di
superare la impasse fra il ticket Usa-Guatemala da un
lato e il Venezuela di Chavez dall’altro. Il Guatemala,
ossia gli Stati uniti, ha «sorpreso» attestandosi oltre i 100
voti e sempre davanti al Venezuela, fermo fra i 70-80
voti. C’è stato un momento, lunedì, in cui sembrava
potesse esserci il sorpasso quando, alla sesto round, i
due paesi hanno chiuso sul 93 pari. Ma l’allarme ha
fatto scattare il segretario di stato Rice e l’ambasciatore
Bolton che hanno moltiplicato i «contatti» e il
«pressing» per richiamare all’ordine i riottosi. Così le
distanze si sono ristabilite e sono state confermate ieri.
Nelle prime 7 votazioni Guatemala fra 104 e 112 voti,
Venezuela fra 76 e 78. Tutto da rifare (con l’Italia,
astenuta, sempre alla finestra in attesa degli sviluppi:
una posizione «saggia» secondo il ministro D’Alema
che ha negato ieri ogni tipo di «pressing» e confermato
di «non poter sostenere la candidatura di Chavez per le
sue posizioni politiche»).
L’ambasciatore venezuelano all’Onu, Arias Calderon
ha ribadito che il suo paese «non si ritirerà». Se il
Venezuela non vuol ritirarsi, il Guatemala non può.
Almeno fino a quando il gruppo dei paesi dell’America
latina e Caraibi non avranno trovato un terzo candidato
«di consenso» che sia gradito anche agli americani. E
allora getteranno a mare il Guatemala a cui, a parte
ogni altra considerazione poltico-etica, il fatto di essere
«il candidato Usa» non giova. Il ministro degli esteri
cileno Alejandro Foxley, democristiano, è attivissimo
nell’organizzare incontri fra i latini per cercare il nome
buono e dice che «stanno spuntanto nuovi paesi». In
realtà sono i soliti: Uruguay, Messico, Perù, Costa Rica,
Repubblica dominicana.
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1956
Il pianto di Budapest
di Roger Martelli
PAKISTAN
Il Baluchistan si ribella
di Selig S. Harrison
PERÙ
Lo specchio dell'America latina
di Maurice Lemoine
CINA
Di fronte all'Occidente
di François Jullien
*Le Monde diplomatique/il manifesto resta in edicola per l’intero mese.
È acquistabile sempre e soltanto abbinato a il manifesto: 2 euro nel giorno
di uscita, 2,10 euro negli altri giorni, 3,00 euro il sabato quando c’è anche Alias.
12
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
Da cosa acquista importanza la nostra indagine, dal
momento che sembra soltanto distruggere tutto ciò che
è interessante, cioè grande e importante? Wittgenstein
Tra biologia e cultura
un incontro rimandato
Si chiude con questi interventi
il dibattito centrato sulla necessità
di superare la tradizionale scissione
tra scienze della natura e scienze
umane, di nuovo attuale nonostante
risalga a Galileo e Machiavelli
Ora che il tradizionale campo
di indagine della filosofia, ossia
la mente, le emozioni e la ragione,
viene studiato dalle neuroscienze,
torna a riproporsi la domanda
sull’utilità di perimetrare i saperi
Non si può realmente tematizzare
una prospettiva unitaria dell’essere
umano senza mettere in conto che le
capacità generiche (le disposizioni
che dipendono dal funzionamento di
un sistema biocognitivo determinato) abbiano incidenza anche sul piano del contenuto degli stati mentali.
Pur non determinando direttamente
i contenuti delle credenze è legittimo
sostenere che la biologia agisca da
«vincolo» ai contenuti possibili.
Nella prospettiva «epidemiologica» proposta da Dan Sperber nel libro Il contagio delle Idee (Feltrinelli,
1999) studiare la natura della credenza religiosa (così come la natura di
ogni altra credenza culturale) significa analizzare i processi che regolano
la formazione e la trasmissione (il
contagio) di tali credenze in una determinata comunità. Tutte le credenze nascono nella mente individuale
di qualcuno: perché una volta trasmesse alcune (piuttosto che altre)
«attecchiscono» nella testa di altri individui al punto da diventare patrimonio condiviso da trasmettere alle generazioni future? Perché alcune credenze sono più contagiose di altre?
Francesco Ferretti
G
iugno e luglio 1959: la rivista
«Encounter» pubblica in
due puntate il resoconto
della relazione – che ha per
tema la scissione tra la cultura umanista e quella scientifica – tenuta qualche mese prima da Charles Snow all’Università di Cambridge. L’idea di
Snow che il muro di incomunicabilità tra «scienziati» e «umanisti» rappresenti un pericolo gravissimo per la società occidentale apre in quegli anni
un acceso dibattito. La situazione
non è cambiata di molto: la disputa
tra le due fazioni in campo continua
ad alimentare la riflessione contemporanea sul tema della natura umana, tanto che ha avviato anche su queste pagine un dibattito, inaugurato
da un articolo di Mario De Caro (4 ottobre) e proseguito con una risposta
di Massimo De Carolis (8 ottobre).
Il dibattito è riferibile al contrasto
tra due opposte tradizioni teoriche:
quella, riconducibile a Galilei, i cui
fautori sostengono che lo studio degli
umani deve avvenire adottando le
stesse metodologie che caratterizzano l’analisi di qualsiasi altra entità naturale; e quella, riferibile a Machiavelli, che sottolinea come il carattere storico-politico dell’animale umano abbia proprietà che le scienze della natura non sono in grado di indagare.
Il fatto che il dibattito attuale non
si discosti molto da queste due posizioni mostra la difficoltà dar vita a un
modello realmente unitario dell’essere umano. Per quale motivo? E, soprattutto, quali strategie alternative
mettere in atto per affrontare il problema?
Un errore concettuale condiviso
Tanto per cominciare, entrambi i modelli teorici soffrono il tentativo di annullare una delle entità in gioco a favore dell’altra. Da questo punto di vista lo stesso errore concettuale è imputabile sia alla sociobiologia, che
spiega le pratiche sociali riferendole
alle esigenze di replicazione dei geni;
sia, per motivi speculari, a chi tenta di
dare conto della biologia degli umani
cercando di piegarla alle leggi della
storia e della cultura: come Clifford
Geertz che in Interpretazione di culture (Il Mulino, 1998), sostiene che «il
cervello umano è completamente dipendente dalle risorse culturali per il
suo stesso funzionamento». Né la proposta di Machiavelli, né quella di Galileo, prese da sole, sono capaci di dar
conto di una prospettiva realmente
unitaria della natura umana. Ciò di
cui si ha bisogno è un paradigma sintetico cui fare riferimento: cosa fare
per dar corpo a questa esigenza?
Nella dichiarazione di intenti, la
strada da percorrere appare scontata:
una prospettiva unitaria deve dar con-
Installazione
di Antony Gormley
to del fatto che gli umani sono il prodotto congiunto della biologia e della
storia culturale. Sembra una banalità,
più che una semplice ipotesi di buon
senso: chi potrebbe mai mettere in discussione un’affermazione di questo
tipo? Dal punto di vista esplicativo tuttavia la situazione è molto più complicata di quanto la dichiarazione di intenti lasci presupporre. Non è affatto
chiaro, in effetti, come «mettere in relazione» i due termini del problema:
dare conto di come biologia e cultura
possano davvero convergere nell’essere umano è una cosa assai difficile
da giustificare.
Prendiamo il caso della naturalizzazione della credenza religiosa. In Breaking the Spell. Religion as a Natural
Phenomenon (Viking, New York
2006), Daniel Dennett sostiene che i
sistemi sociali i cui membri credono
in uno o più agenti soprannaturali
possono essere adeguatamente compresi in termini evolutivi. Un caso
esemplare è quello degli sciamani: le
pratiche curative cui essi sottopongo-
no gli individui del gruppo sociale
funzionano per l’effetto placebo determinato dal contesto religioso e
questo rappresenta un vantaggio
adattivo per i credenti. Che ricerche
del genere possano essere importanti
per chiarire alcuni aspetti delle credenze religiose non è controverso; ad
essere in discussione – diceva De Caro nel suo articolo – è l’idea che un approccio di questo tipo possa «dare
esaustivamente conto della fenomenologia religiosa o perlomeno dei
suoi aspetti più rilevanti».
Utilizzando gli argomenti di Bernard Williams, egli afferma che non
c’è ragione di credere che il mondo
umano possa essere compreso soltanto con le modalità delle scienze naturali – ad esempio con lo strumentario della teoria dell’evoluzione. Per il
semplice motivo che ciò che «una
spiegazione in termini evolutivi può
riuscire a fare è soltanto di dare conto
della capacità peculiarmente umana
di elaborare pratiche culturali: ma essa non può spiegare senso, contenu-
to e natura di tali pratiche».
De Caro è dunque disposto a riconoscere un nesso di dipendenza tra
la biologia degli umani (il fatto che abbiano un cervello di un certo tipo, ad
esempio) e una generica capacità di
elaborazione delle credenze religiose;
ciò che non è disposto a sostenere è
che una capacità del genere possa
avere ripercussioni sul piano del contenuto delle singole credenze religiose. Certo la biologia non può «esaurire» il contenuto delle pratiche religiose (se questo fosse il caso il Cristianesimo o il Buddismo dovrebbero trasmettersi per via genetica). E tuttavia
una prospettiva che non riconosce
un ruolo causale della costituzione
biologica degli individui sul piano dei
contenuti delle credenze è una prospettiva troppo debole per dar conto
di una reale unificazione dell’essere
umano. La critica al biodeterminismo è giusta, ma il prezzo da pagare
non può essere l’idea che il contenuto delle credenze sia del tutto svincolato dalla biologia degli individui.
Tra rappresentazioni e pratiche
Senza entrare nel merito delle risposte di Sperber a tali domande, il punto da sottolineare è che domande di
questo tipo chiamano in causa il contenuto delle credenze – meglio: chiamano in causa la relazione tra il contenuto delle credenze e l’apparato
percettivo, concettuale e inferenziale
della cognizione umana. Se, almeno
sul piano metodologico, una proposta del genere merita di essere presa
in considerazione, allora non è possibile sostenere che lo studio della psicologia evoluzionista può dar conto
soltanto delle capacità in astratto della mente umana ma non del significato degli specifici stati mentali che essa elabora e produce.
Più vicino a una prospettiva di reale unificazione dell’essere umano è
Massimo De Carolis che, nella sua replica all’articolo di De Caro, si sofferma sui motivi alla base dell’opposizione tra filosofia scientifica e filosofia come disciplina storica. La sua idea è
che in entrambi gli approcci prevalga
un atteggiamento centrato sugli
aspetti concettuali e simbolici propri
alla natura umana. Tale atteggiamento è comune ad entrambe le fazioni
in lotta: nella tradizione continentale
l’ermeneutica rappresenta il caso
esemplare di un modello di filosofia
incentrato sul primato accordato ai
modelli epistemici, ai simboli e alle
ideologie, un modello «in cui le pratiche materiali svolgono un ruolo a dir
poco ancillare».
Un discorso analogo vale a proposito del tentativo messo in atto dalle
scienze cognitive. Riferendosi a Dan
Sperber, De Carolis sostiene che il car-
dine della sua proposta è l’idea di
una realtà «ridotta ad elementi simbolici: rappresentazioni, idee, credenze,
quasi mai pratiche materiali di intervento sul mondo reale». Il vizio di fondo di un’impostazione di questo tipo
è la prevalenza accordata agli aspetti
simbolici a discapito degli aspetti performativi tipici delle pratiche di costruzione del mondo che caratterizzano gli esseri umani.
Da questo punto di vista, il modello di Dan Sperber si rivela essere
«un’impostazione sorprendentemente antiquata, visto che da decenni la
ricerca antropologica insiste sul valore performativo della prassi rituale,
sulla sua capacità di costruire la realtà sociale, a prescindere da ciò in cui
si crede o non si crede». Ma questo
non è, a mio parere, un giudizio condivisibile, perché non credo sia possibile dare una spiegazione della prassi
umana che possa davvero prescindere da ciò che gli umani credono o
non credono. De Carolis ha ragione a
sottolineare che lo studio della natura umana deve rivolgersi agli umani
in carne e ossa, non a un qualche loro simulacro idealizzato. E ha ragione
anche nel sostenere che le pratiche
umane devono essere analizzate tenendo conto del carattere performativo che ne rappresenta un tratto peculiare. Quello che non convince di una
simile concezione – che incorre in un
errore speculare a quello del primato
della ragione sull’agire effettivo – è
l’idea che l’agire sul mondo possa essere guadagnato soltanto negando gli
aspetti concettuali della natura umana: se le rappresentazioni senza le
pratiche effettive sono vuote, le pratiche effettive senza le rappresentazioni sono cieche.
Verso una terza via
Il problema di una prospettiva sintetica dell’essere umano è capire come riuscire a tenere insieme i processi costruttivi con quelli simbolici. Da
questo punto di vista le accuse mosse
a Sperber mi sembrano ingenerose:
se gli argomenti che De Carolis porta
a favore della sua tesi valgono infatti
per alcuni rappresentanti della scienza cognitiva (come Noam Chomsky,
che considera la comunicazione in riferimento al parlante-ascoltatore idealizzato) gli stessi argomenti non possono valere per chi, come Sperber, è
seriamente impegnato nel tentativo
di mantenere insieme gli aspetti performativi e quelli rappresentazionali
dell’agire umano. Al di là dei meriti
specifici che si è disposti a riconoscere alla sua proposta, la «pragmatica
cognitiva» cui Sperber fa riferimento
incarna a pieno titolo il tentativo di
una terza via alla trappola scissionista delle due culture. Una strada che
mi sembra valga la pena percorrere
se si ha a cuore il problema dell’unificazione della natura umana.
Quel che fa la differenza tra cervelli e persone
Felice Cimatti
Torna ancora, nel dibattito che si domanda se
la riflessione filosofica sia intrinsecamente
storica o debba considerarsi una impresa
contigua alle scienze naturali, il problema del
compito della filosofia. Un meteorologo non si
chiede quale sia il suo compito, come non se lo
chiede il biochimico, e tanto meno lo psicologo
sperimentale. Tutti hanno un oggetto di
indagine. Il filosofo non sembra averne uno, o
almeno, non sembra più averne uno.
Soprattutto ora che il suo tradizionalmente
fertile campo di indagine – la mente le emozioni
e la ragione – viene studiato da scienze molto
agguerrite, ossia le neuroscienze. Ora sappiamo
– per riprendere l’esempio discusso su queste
pagine da Mario De Caro che riferendosi
all’ultimo libro di Daniel Dennett ha avviato a
questa discussione (il 4 ottobre) – quali aree
cerebrali si attivano quando preghiamo, e alcuni
ipotizzano anche una spiegazione evolutiva
dell’esperienza del sacro, la sua presunta
funzione biologica. Quando arrivano le scienze,
si sente ripetere sempre più spesso, la filosofia
ceda il passo. E quel tempo pare finalmente
arrivato. Il caso del sacro è complicato, però.
Immaginiamo un esperimento come questo, di
fatto già realizzato o realizzabile.
Una donna sta pregando, con il capo
ripiegato sul petto e gli occhi chiusi,
inginocchiata di fronte all’altare del Cristo. Un
macchinario molto potente registra in diretta
tutta la sua attività cerebrale; su uno schermo
possiamo vedere come in un film quello che
succede nel cervello della devota, fino al livello
dei singoli neuroni. Dopo che ha smesso di
pregare le mostriamo il film che registra la sua
attività cerebrale durante la preghiera. Il valore
di questa registrazione è indubbio, si tratterebbe
di uno straordinario risultato scientifico, ora
sapremmo un mucchio di cose sul cervello di
una persona che prega. Ma lo scienziato sarebbe
legittimato a dirle: «questa è la tua esperienza
religiosa»? Naturalmente no, perché il valore
umano di quell’esperienza – per chi l’ha provata
– non sta in quelle immagini, ma nelle eventuali
spiegazioni che la donna vorrà darci del suo
pregare, oppure nelle sue azioni dopo avere
pregato, o anche nel suo ostinato silenzio di
fronte a domande così indiscrete. Ciò che è in
questione, qui, non è la strana idea secondo cui
nella vita degli esseri umani ci sarebbero
esperienze ineffabili, di cui dovrebbe occuparsi
la filosofia o la poesia. Qui il lavoro del filosofo
ha a che fare con i modi in cui lo scienziato
descrive il suo stesso esperimento; ha a che fare
con i modi del tutto inconsapevoli in cui usiamo
il linguaggio. Quando lo scienziato dice,
riferendosi al cervello della donna in preghiera,
«questa è l’esperienza religiosa», il filosofo
dovrebbe ricordargli che c’è una bella differenza
fra un cervello e una persona. E non si tratta di
una differenza metafisica. Al contrario, è una
differenza affatto terra terra. Il filosofo non devo
certo dire allo scienziato cosa studiare e tanto
meno come lo debba studiare. Però lo può
aiutare a non fare confusione. Così l’eventuale
funzione evolutiva della religione non mi dice
nulla sul valore che per quella donna può avere
il pregare (e viceversa). In questo senso non
esiste un oggetto che sia specificamente de l
filosofo, il quale soprattutto deve evitare il rischio
di credersi uno scienziato. O meglio, un oggetto
c’è, il campo del linguaggio. Il filosofo non ci
dice come stanno le cose, ci ricorda, semmai,
che le descriviamo in modo tale da tralasciare
altre possibili descrizioni di quelle stesse cose.
Detto altrimenti, il filosofo lotta contro le
immagini totalitarie, che si pretendono
universali e definitive, si occupa della libertà dei
nostri pensieri quando si arenano nei soliti sterili
luoghi comuni in cui naufragano anche le
nostre azioni. Come scrive Wittgenstein, «da che
cosa acquista importanza la nostra indagine, dal
momento che sembra soltanto distruggere tutto
ciò che è interessante, cioè grande e importante?
(Sembra distruggere, per così dire, tutti gli edifici,
lasciandosi dietro soltanto rottami e calcinacci.)
Ma quelli che distruggiamo sono soltanto edifici
di cartapesta, e distruggendoli sgombriamo il
terreno del linguaggio sul quale essi sorgevano».
È la libertà dei pensieri, allora, la
preoccupazione del filosofo.
mercoledì 18 ottobre 2006
il manifesto
13
cultura
Algerini a Parigi,
un massacro dimenticato
Il 17 ottobre 1961 una pacifica
manifestazione di protesta venne
repressa nel sangue. Olivier La
Cour Grandmaison, presidente
dell’associazione «Contre l’oubli»,
denuncia il revisionismo francese
Filippo Del Lucchese
P
ochi scatti in bianco e nero, strappati all’indifferenza o alla colpevole ostilità della Ville Lumière dal fotografo Elie Kagan. E naturalmente le testimonianze degli algerini, dei manifestanti, di chi è sfuggito
alla repressione brutale e assassina. Questo è tutto ciò che
rimane, nella memoria, del 17 ottobre 1961. In piena guerra d’Algeria, a pochi mesi dall’indipendenza, il Front de Libération National aveva convocato una manifestazione
contro il duro coprifuoco razzista imposto agli algerini residenti in Francia. Mentre intellettuali come Frantz Fanon,
di fronte alle tiepide risposte della sinistra, denunciavano
la violenza e la tortura come mezzi di ordinaria amministrazione della guerra coloniale, la manifestazione di Parigi diventava l’occasione per la vendetta da parte del governo francese. Se ne incaricarono il prefetto Papon e i suoi
gardiens de la paix, responsabili, quella sera di ottobre, di
uno degli episodi più infami della storia coloniale di questo paese. Ci sono voluti molti anni e il lavoro eccezionale
di storici, intellettuali e artisti, perché quei crimini fossero
riconosciuti e ricordati. Tra loro Olivier Le Cour Grandmaison, docente di scienze politiche e di filosofia politica all’Université d’Évry-Val-d’Essonne, autore di Haine(s). Philosophie et politique (Puf, 2002) e di Coloniser. Exterminer.
Sur la guerre et l’Etat colonial (Fayard, 2005) nonché presidente dell’associazione «17 octobre 1961: Contre l’oubli».
Qual è il significato del 17 ottobre 1961 nel contesto
della storia coloniale francese?
Le manifestazioni del 17 ottobre 1961 furono la risposta
pacifica, organizzata nella capitale, per protestare contro
un coprifuoco razzista. Razzista perché imposto ai soli al-
gerini, che all’epoca erano ancora francesi di diritto, ma venivano chiamati «francesi musulmani d’Algeria». Uno statuto d’eccezione, perché gli effetti di una tale legislazione
discriminatoria gravavano soltanto su di loro. Per impedire queste manifestazioni, il prefetto Maurice Papon mobilitò un enorme dispositivo di polizia. Il bilancio fu terribile:
circa trecento algerini furono massacrati dalle forze dell’ordine, quella sera e nei giorni successivi. Sequestrati, fermati o arrestati, i manifestanti vennero spesso affogati nella
Senna. Fu, a tutti gli effetti, un crimine contro l’umanità
commesso dallo Stato francese, che ancora oggi non è stato ufficialmente riconosciuto dalle più alte cariche istituzionali. Né è stato giuridicamente sanzionato in alcun modo, a causa delle leggi di amnistia votate dopo la fine della
guerra di Algeria. Né i sopravvissuti né i parenti delle vittime accertate e di quelle scomparse hanno potuto ottenere la minima riparazione. Né Papon, né coloro che hanno
agito sotto il suo comando sono mai stati giudicati per i loro crimini.
Questa politica del silenzio e dell’oblio sui crimini di
Stato sembra avere anche una controparte più attiva
nella recente «offensiva» per rivalutare il ruolo positivo
della colonizzazione. Qual è il significato, ad esempio,
della legge del 23 febbraio 2005 in questo contesto?
Questa legge, che stabilisce una vera e propria menzogna di Stato riconoscendo un ruolo positivo alla colonizzazione, è motivata da diverse ragioni. Soddisfare certi settori dell’opinione pubblica, per esempio, e lavorare alla restaurazione dell’immagine della Francia in un difficile contesto nazionale e internazionale. Incapace di trovare soluzione ai problemi economici e sociali o di offrire delle prospettive che vadano oltre l’esibizione quotidiana delle ambizioni personali di una classe dirigente, l’attuale maggioranza tenta di resuscitare la mitologia coloniale. Pensa così di poter risollevare il prestigio e l’orgoglio del paese e dei
suoi cittadini. A ciò si aggiunge, certamente, un desiderio
di rivalsa politica sui progressi significativi già compiuti,
come ad esempio il riconoscimento della schiavitù come
crimine contro l’umanità, con la legge Taubira del 2001.
La legge del 23 febbraio non ha equivalenti in nessun altro
paese democratico, dove nessuna maggioranza ha mai
osato legiferare per imporre all’opinione pubblica e agli insegnanti un’interpretazione ufficiale, partigiana e menzognera del passato. Un’eccezione francese, dunque, sinistra e scandalosa, che viola i diritti, le libertà e i principi
che, teoricamente, dovrebbero governare una società democratica. In nessun modo lo Stato dovrebbe farsi garan-
Una fotografia
di Elie Kagan
scattata
nei giorni
successivi
alla brutale
repressione
del 17 ottobre
1961 a Parigi
te di un’interpretazione particolare del passato, qualunque essa sia.
Qual è stata la risposta della società francese a questa
politica revisionista e, in particolare, a questa legge?
Con la mobilitazione di molte associazioni, di storici e
intellettuali, è stato ottenuto il ritiro dell’articolo 4 di questa legge, relativo al «carattere positivo della colonizzazione». Ma altri passaggi del testo restano per me inaccettabili, poiché vi è ancora espressa, in forme più blande o con
eufemismi, la stessa tesi per cui la colonizzazione sarebbe
stata di beneficio per i paesi e i popoli sotto il dominio francese. Per certi versi, la situazione in Francia è paradossale:
«dovere della memoria» è ormai difeso da tutti, con la sola
eccezione del Fronte Nazionale di Le Pen. Solo qualche
settimana prima della legge sul ruolo positivo della colonizzazione, per esempio, era stata decisa la celebrazione
del sessantesimo anniversario della liberazione di Auschwitz. A ciò si aggiunge il riconoscimento ufficiale del genocidio armeno, votato all’unanimità dall’Assemblea nazionale con la legge del 29 gennaio 2001, mentre è di pochi giorni fa la legge che rende perseguibile chi osa negarlo. D’altro canto si assiste alla glorificazione dell’«avventura coloniale», come alcuni osano ancora scrivere, aprendo
la strada a uno spensierato revisionismo.
In questo contesto, un anno fa le banlieues francesi
prendevano fuoco, rivelando la patologica incapacità
della Francia nell’affrontare il proprio passato. Qual è il
rapporto fra queste crisi «postcoloniali» e la storia violenta della decolonizzazione?
Non so se si tratti di un’incapacità patologica, ma cronica lo è, senza ombra di dubbio. Cominciamo col ricordare
che, per fermare le rivolte del novembre dello scorso anno, su iniziativa del primo ministro, il governo ha fatto ri-
corso alla legge del 3 aprile 1955 sullo stato di emergenza,
impiegata per la prima volta dalle autorità metropolitane
proprio durante la guerra di Algeria. Una legislazione di eccezione, destinata originariamente a ristabilire l’ordine
nelle colonie, è stata dunque mobilitata contro dei giovani
francesi, marchiati e condannati nella più parte dei casi
per la loro supposta origine etnica. Siamo di fronte alla
prova, a carico delle più alte autorità dello Stato, della permanenza di una rappresentazione – e delle pratiche che
ne derivano – direttamente ereditata dal periodo coloniale. Più in generale, i legami tra il passato coloniale e l’attualità si mostrano attraverso una molteplicità di elementi. Il
primo riguarda senz’altro l’Islam, ritenuto da molti una religione di guerra, ostile al progresso della ragione così come alle libertà democratiche. È ciò che ripetono incessantemente i sostenitori dello scontro di civiltà, che sono riusciti a imporre una nuova doxa. Ma questi argomenti, tutt’altro che originali, sono stati forgiati per la prima volta,
nel contesto francese, nel periodo della conquista dell’Algeria. Un secondo elemento di continuità fra passato e
presente è l’idea per cui alcune categorie di persone, di origine maghrebina in particolare, sarebbero difficilmente
«assimilabili», se non del tutto refrattarie all’integrazione,
per ragioni culturali e religiose. Qui, di nuovo, riemerge
una retorica in cui l’immagine di questo «tipo particolare»
di cittadino francese viene costruita secondo gli stereotipi
dell’«indigeno» mussulmano. Di lui si diceva, al tempo delle colonie, che non avrebbe potuto veramente accedere alla «civiltà francese». È impossibile, quindi, comprendere
ciò che accade oggi in Francia senza tenere presente questo passato coloniale che non tramonta e che, per parafrasare Marx, pesa in modo visibile sulle rappresentazioni
dei nostri contemporanei.
Quando la scienza diventa narrazione
Franco Voltaggio
Che la scienza o, meglio, la «impresa
scienza» abbia sempre avuto una incidenza
cruciale sulla società è, come direbbe uno
scienziato, una «verità triviale». Altrettanto
triviali sono due verità: la necessità che il
pubblico sia informato sui contenuti e sulle
finalità della ricerca, e la difficoltà di
informarlo, giacché il linguaggio e – almeno
all’apparenza – lo stile di pensiero, la forma
mentis degli scienziati di campo sono
inaccessibili ai «non addetti ai lavori». È,
questo, un gruppo in cui vanno compresi
non soltanto gli individui di media cultura
ma anche quegli stessi studiosi e ricercatori
che non svolgono indagini affini a quelli
presentate nei papers di altissima
specializzazione, quali quelli che
compaiono in riviste come «Nature»,
«Science», «Physical Review», per non citare
che alcune tra le più autorevoli e
prestigiose. Resta il fatto che il pubblico va
informato e che la comunicazione della
scienza è importante quanto quella della
politica e, per di più, per le stesse ragioni, se
non altro perché una società che non riesca
a seguire i suoi scienziati ignora gran parte
del suo presente e del suo futuro, il che è
quanto dire che vive in una democrazia
Per spiegare al pubblico le grandi
scoperte, il racconto è la forma
migliore, argomenta efficacemente
Pino Donghi in «Sui generis»
condizionata. Il problema però rimane.
Come comunicare quel che ha tutta l’aria di
essere incomunicabile? A presentare una
sua proposta, a nostro parere molto
interessante, interviene ora Pino Donghi,
autore di un denso libro, volutamente breve
(spia di un obiettivo che mira a rendere
«più semplici» cose che semplici non sono),
Sui generis (Laterza, pp. 96, euro 14).
Donghi ha tutti i titoli per parlare della
questione: semiologo, docente di
comunicazione della scienza nell’Università
di Bergamo, ha soprattutto, nella sua
attività di segretario della Fondazione
Sigma-Tau di Roma, operato la
contaminazione di competenze e saperi
diversi, applicando coerentemente una sua
idea- guida che si può riassumere così:
l’unico modo di comunicare la scienza è
quella di raccontarla. Come?
Invitando uomini e donne di buona volontà
– l’invito è nostro, ma scommettiamo che
Donghi lo condividerebbe – a non seguire
pedissequamente Popper, per il quale
quello che conta è il contesto della scoperta,
ma, piuttosto, a ripercorrere, sulla scorta
della ricostruzione storica, il modo con cui
si sia pervenuti a effettuarla. Talora sono gli
stessi autori a farlo. Basta citare il caso di
Keplero che in Astronomia nova ricorre a
uno stratagemma non poco intrigante sotto
il profilo letterario, presentando la genesi
della conoscenza scientifica in forma di un
racconto di viaggi.
Altro caso assai noto è la straordinaria
narrazione che ci fornisce Darwin del suo
lunghissimo viaggio sulla Beagle, dandoci
una immagine, non meno suggestiva che
esatta, delle sue idee sull’evoluzione delle
specie, per non parlare delle Lettere
copernicane di Galilei. Sono, tutti questi,
esempi di una verità che corre a molteplici
livelli: il racconto delle gesta scientifiche è
tutto quello che possiamo sapere, da
incompetenti, dell’epos degli scienziati; non
si tratta, tuttavia, di una verità di poco
conto, perché ci fa toccare con mano il
modo delle passioni, delle emozioni, delle
idee da cui nasce la scienza, affinché
l’incompetente possa dire di sé,
conoscendolo, de re nostra agitur;
rispettando – è questo un livello ulteriore –
la necessità di transitare da un genere di
illustrazione a un altro, per l’appunto dal
paper specialistico al racconto. A volte è il
teatro a comunicare la scienza. Si passa
dalla drammatizzazione esplicita di una
grande teoria scientifica, come
l’eliocentrismo di Galilei, compiuta nel
Galilei di Brecht, che il pubblico italiano
conobbe, più di quarant’anni fa, nella
memorabile regia di Strehler, al
singolarissimo esperimento di Luca
Ronconi che nel suo Infinities, allestito alla
Bovisa di Milano nel 2002, mise in scena –
facendoli letteralmente «vedere» agli
spettatori – paradossi e singolarità della
matematica sulla base dei contenuti
espressi dal fisico e matematico inglese
John Barrow (ma già qualcosa del genere
aveva compiuto Musil nei Turbamenti del
giovane Törless, collegando magistralmente
la scoperta del sesso del giovanissimo
protagonista all’apprendimento della teoria
dei numeri complessi). Spesso sono i grandi
ricercatori che si fanno divulgatori
scientifici, scrivendo lavori che
rammentano da vicino la detective story.
Esemplare un saggio appassionante come
Aids. Storia di una pandemia attuale
(tradotto in Italia per Laterza nel 1989) di
Mirko Grmek, il grande storico della
medicina scomparso sei anni fa. Talora gli
scienziati non mancano di praticare l’arte
dell’invettiva, raccontando per questo
tramite scoperte e teorie, come ebbe a fare,
qualche tempo prima della morte, Stephen
Jay Gould nella polemica con Dennett.
A tutti costoro si affiancano i giornalisti
scientifici, come Franco Pratico, decano del
settore, il compianto Giovanni Maria Pace,
e giornalisti passati dal lavoro scientifico alla
divulgazione, come il chimico Pietro Greco
o il fisico Juri Castelfranchi.
Ma c’è ancora una cosa che ci preme
sottolineare. Senza parere, a modo suo
Donghi ci dice qualcosa che assomiglia a
una salutare lezione. È vero che «la scienza
è una cosa troppo importante per lasciarla
fare allo scienziato di professione» – magari
fantasticato con la grinta scimmiesca del
Dottor Mabuse – vale a dire privando il
pubblico dell’informazione necessaria e
non consentendo l’attivazione di una
avveduta governance da pare della società.
Solo che, se da questa preoccupazione è
nato con qualche legittimità il «principio di
cautela», indugiarvi più che tanto equivale a
slittare sul piano inclinato
dell’oscurantismo, malattia infantile di una
democrazia a sovranità limitata da equivoci
e superstiziosa ignoranza, qual è la nostra.
Perché trarre dalla difficoltà della
comunicazione il pretesto, tutt’altro che
legittimo, di rifiutarla a noi stessi e agli
scienziati? In fondo, si tratta di una
speranza che Donghi ci fa capire essere
quasi una certezza e di un dovere che
incombe agli occupanti precari, italiani e
non, di questo nostro pianeta. O forse non è
così?
14
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
«La civiltà non si misura solo con il Pil, ma
analizzando come stanno i più deboli».
Paolo Ferrero, ministro Solidarietà Sociale
Dietro l’icona di guerra
Clint Eastwood riscrive
la storia di Iwo Jima
«Flags of Our Fathers»
Un film che esplora
fantasmi e demoni
di un paese che ha perduto
idealismi e certezze.
Mostrando la banalità
della retorica bellica
Festival di Torino
«Flags of Our Fathers»
aprirà la XXIV edizione
Ancora non si conosce nei dettagli il
programma di «Torinofilmfestival» 24, ma
una piccola vendetta rispetto alla molto
più finanziata Festa di Roma la
manifestazione diretta da Giulia D’Agnolo
Vallan e Roberto Turigliatto già se l’è
presa. Clint Eastwood ha preferito inviare il
suo ultimo capolavoro, «Flags of Our
Fathers», invece che alla ricca kermesse
moderata a un festival estremista, di
tendenza e dalla parte degli autori radicali.
Il 10 novembre dunque prima europea del
film di guerra (parte americana, cui
seguirà «Letters from Iwo Jima», la stessa
battaglia dal punto di vista «jap»).
«Flags of Ours Fathers» di
Clint Eastwood.
In basso, il regista
Luca Celada Los Angeles
L’
ufficio stampa della Paramount (ma in Europa la distribuzione sarà Warner
Bros.) non avrà compito facile a promuovere Flags of Our Fathers
come un inno all’eroismo patriottico.
Impresa ardua (ma non tanto da scoraggiare gli impavidi uomini-immagine degli studios) anche perché l’argomento dell’ultimo film di Clint Eastwood è precisamente la perversione delle
immagini, la loro strumentalizzazione
politica.
Quella che sta al centro del film è
l’innalzamento della bandiera sull’isola di Iwo Jima, teatro della battaglia
più sanguinosa sostenuta dalle forze
armate americane nel secondo conflitto mondiale. Su questo minuscolo scoglio di pomice in mezzo al Pacifico moririono in meno di quattro settimane
quasi 20.000 soldati giapponesi e oltre
6000 fra i marines sbarcati in ondate
sulle spiagge di sabbia nera (le riprese
sono state effettuate in Islanda) per
conquistare una pista di atterraggio
«strategicamente vitale» e per poter in
seguito bombardare Tokyo. I bombardamenti che seguirono sono stati, con
Dredsa, una delle più crudeli pagine
della guerra, costati la distruzione di
57 città giapponesi e la morte di
500.000 civili.
L’immagine di sei soldati americani
che innalzano una bandiera sulla vetta del monte Suribachi, unica altura
dell’isola, immortalata da un fotografo
dell’Associated press, divenne una delle più celebri dell’iconografia del ventesimo secolo, una rappresentazione
«monumentale» dello sforzo bellico
con la forza grafica e «plastica» di una
nike americana. Disseminato dai media, divenne anche una sorta di bran-
ding della vittoria nella «guerra giusta»
attraverso le figure dei sei militi ignoti,
senza volto in quanto ripresi di schiena.
Il film di Clint Eastwood, basato sul
libro di James Bradley Ron Powers, invece è l’ultima esplorazione dei fantasmi e demoni che rimuginano nell’anima di un’America orfana di idealismi
e certezze. Clint scava dietro l’icona,
nella banalità della guerra e della retorica dell’eroe. Intanto scopriamo che
quell’alzabandiera improvvisato sulla
vetta nacque già come riproduzione:
la bandiera issata dai marines sostituiva un primo vessillo ritenuto troppo
piccolo e che un ufficiale aveva deciso
di conservare come souvenir. La prima bandiera venne ammainata e la se-
conda fu alzata da un gruppo di soldati che si trovavano sul luogo per allacciare un collegamento telefonico con
il comando. Un fotografo che si trovava lì per caso puntò quasi sovrapensiero il suo obiettivo e la storia fu fatta.
L’immagine, capostipite di un filone che arriva fino a quella dei pompieri che innalzano la bandiera sulle macerie di Ground zero, nasce cioè come
pseudo-evento ed è subito acquisita
dal ministero della guerra che la trasforma nel manifesto di una campagna per la vendita di buoni del tesoro,
emessi allo scopo di finanziare lo sforzo bellico nel Pacifico e sollevare il morale dell’opinipone pubblica americana. Un’operazione di pubbliche relazioni «fondativa» cioè dell’era delle
guerre-spettacolo condotte
principalmente attraverso la
gestione della loro immagine.
Dopo che la foto viene
pubblicata da tutti i giornali,
il War Department decide di
reclutare i soldati raffigurati
per una tournée promozionale per la vendita di war
bonds. Nel frattempo tre di loro sono morti e i sopravvissuti vengono prelevati dall’inferno del fronte (l’alzabandiera infatti avvenne non già alla conclusione vittoriosa della battaglia durata un mese,
ma solo nella prima settimana) e rispediti negli States dove si ritrovano protagonisti
spaesati di uno spettacolo fatto di comizi, tappeti rossi perfino rappresentazioni trionfali negli stadi con l’ausilio di
fuochi pirotecnici e una collina di cartapesta su cui piantare una bandiera per il visibilio del pubblico.
La storia si dipana in una terra di
nessuno, onirica e allucinatoria negli
interstizi fra ricordo e realtà, presente
e passato. Flags of our Fathers è strutturato come un lungo flashback all’interno del quale se ne innestano molti altri attraverso i ricordi di John Bradley,
uno dei soldati ritratti nella foto, ormai
vecchio, prossimo alla fine dei suoi
giorni. È una struttura anti temporale
e labirintica che rammenta quella di
Mattatoio numero 5, narrativa con cui
spartisce un montaggio complesso,
quasi caotico; come nel romanzo di
Vonnegut, gli avvenimenti sono un
vortice che si allarga da un evento di
spaventosa violenza rifratto nei ricordi
dei protagonisti.
In questo, il film di Eastwood è simile anche a Salvate il Soldato Ryan di
Steven Spielberg, che qui ha collaborato in veste di produttore (i due film
hanno in comune anche Barry Pepper
in uno dei ruoli principali). Anche in
quel caso la narrrativa veniva messa in
moto da un’operazione di «immagine» - la pattuglia del capitano Miller
viene spedita a salvare Ryan per evitare che un vedova di guerra potesse perdere tutti e quattro i figli in combattimento. Entrambi i film ruotano atorno ad uno sbarco americano ma al posto di quello iperrealista in Normandia, Eastwood costruisce un teatro stilizzato per i suoi diciotteni mandati alla carneficina in un dedalo senza senso di trincee, cariche e imboscate che
disegnano la geografia atroce della
guerra.
Spielberg era troppo legato a un sentimento di reverenziale omaggio alla
generazione dei padri per approfondire le contraddizioni morali della guerra. Le tinte di Clint, invece, sono molto
più fosche, più affini allo stile di Sam
Fuller, il regista che sosteneva che in
guerra «non esistono eroi, ma soltanto
sopravvissuti». E, come in un film di
Fuller, qui escono fuori l’atrocità e la
contraddizione intima della guerra: il
sacrificio, l’ubbidienza gli ordini irrazionali, la paura della morte, la difficoltà di uccidere.
Ma il discorso è più ampio, si allarga
all’ipocrisia complice che avvolge le
guerre.. Il film apre con la dichiarazione: «Abbiamo bisogno di sapere che le
guerre sono combattute da buoni contro cattivi - ma non è vero», una dichirazione di semplicità «evangelica» a
cui l’attuale constesto conferisce tuttavia una forza rivoluzionaria. Questo è
il corpo viscerale del film, e sotto la superfice non lineare - che irriterà molti
- c’è il feticismo americano per le stelle
e strisce, nell’era in cui i comandi militari vengono progettati da scenografi,
c’è una meditazione sull’eterna ipocrisia della retorica bellica e sulla forza
delle immagini usate per vincere le
guerre o - come avvenne col Vietnam
- capaci di fermarle, sull’omertà embedded - che può essere squarciata come è avvenuto ad Abu Ghraib - da altre immagini. Su tutto è diffusa una
malinconia crepuscolare degli eroi
che, dopo l’arbitraria promozione a
eroi mediatici, vengono rispediti al dimenticatoio appena hanno esaurito la
propria pubblica utilità, ma che devono tuttavia proseguire le loro vite «banali». È il sentimento forse più sincero
e struggente del film.
Dei tre la figura più tragica è Ira
Hayes (interpretato da Adam Beach
della tribù Ojibwa di Manitoba, già
protagonista di Windtalkers per John
Woo). L’indiano Pima dell’Arizona trasformato in eroe - che continuerà però a essere buttato fuori dai bar che
«non servono gli indiani» - imbocca la
parabola autodistruttiva dell’alcolismo, ridotto, fra le risse e gli arresti, a
fare l’elemosina per qualche spicciolo
in cambio di una foto coi turisti. Verrà
trovato morto in un campo sulla riserva. La sua storia è raccontata da Clint
con minimalismo pari alla bellissima
ballata che gli aveva dedicato Johnny
Cash già nel 1964. Eppure nei dettagli
dell’affresco c’è come un problema di
definizione, come se i primi piani non
fossero del tutto messi a fuoco. Il film
trasmette a tratti la sensazione di sfuggire di mano al regista o come se non
fosse stato del tutto «digerito» da Clint
e dal suo sceneggiatore Paul Haggis
(Million Dollar Baby, Crash).
Flags è solo la prima parte di un’opera più ampia che verrà completata da
Letters from Iwo Jima un film «gemello» che racconterà la battaglia dal punto di vista giapponese, attraverso lo
sguardo del generale Tadamichi Kuribayashi (Ken Watanabe), comandante delle forze nipponiche costrette a
combattere fino all’ultimo uomo nelle
caverne dell’isola, una storia davvero
affascinante del tutto sconosciuta all’occhio occidentale (quel film aprirà a
breve in Giappone e sarà distribuito in
occidente all’inizio dell’anno prossimo). Promette, afferma lo stesso Haggis, di avere la forza umanizzante dello
sguardo «altro», come in Niente di
Nuovo sul Fronte Occidentale - ed è come se la sua mancanza pesasse su questo primo film, privato di una sua parte integrante.
Coreani allo specchio nel Pusan Film Festival
Folla di giovani locali entusiasti
e di giapponesi in trasferta,
tutti impegnati a vedere film
e fotografare i divi più amati
Paolo Bertolin Pusan
Mentre gli occhi di tutto il mondo sono puntati
sull'Hanbando (la penisola coreana) per le spinose evoluzioni diplomatiche innescate dagli
esperimenti nucleari di Pyongyang, la vita dei
coreani del sud prosegue secondo il consueto
tran-tran di superlavoro, bagordi antistress, dormite in metrò. Del resto, l'attenzione della fascia giovanile della popolazione sudcoreana
più che dalle preoccupazioni per le azzardate
manovre dei confratelli al nord in questi giorni
è monopolizzata dall'evento cinematografico
più atteso dell'anno, il festival di Pusan (PIFF).
Bisogna vederli dal vero per crederci, queste e
questi sfegatati che scendono qui da tutto il paese per dormire in scalcinati yeogwan, alberghetti da poco che spesso altro non sono che love
motel, per accamparsi sulle panche nelle hall
dei multiplex localizzati ai piani alti dei centri
commerciali attendendo il film di mezzanotte,
per guadagnare a furia di bruschi spintoni il
fronte delle prime file dei cinema per catturare
con telefonini e camere digitali le star locali. Per
non dire delle allucinate donne di mezz'età giapponesi che attraversano gli stretti per brandire
bouquet di fiori e sbandierare striscioni al cospetto del baldo Cho In-seong, protagonista del
bellissimo Dirty Carnival di Yu Ha. In questi bizzarri epifenomeni di sociologia festivaliera si coglie la grande contraddizione del Piff. Se per chi
viene da Occidente si tratta di una vetrina dove
ricercare il nuovo che si muove nelle ferventi
correnti delle nouvelle vague asiatiche, per lo
zoccolo duro e folto del pubblico, locale nonché
nipponico, sono il cinema coreano e le sue star
a costituire il canto di sirena. Film, attori e attrici
che da noi non dicono nulla ma che a queste latitudini raccolgono spesso platee oceaniche: sono più di venti i film nazionali che hanno superato quest'anno la soglia del milione di spettatori; il campione di botteghino The Host di Bong
Joon-ho ne ha raccolti addirittura oltre tredici,
su una popolazione di 48 milioni d'abitanti. Del
resto è proprio la fruttuosa interazione che persiste tra cinema e realtà storica e sociale del paese che cementa la passione degli spettatori coreani per la produzione mainstream locale.
Un esempio notevole l'ha fornito il film
d'apertura del Piff, il mélo strappalacrime Traces of Love (Attraverso l'autunno) firmato da
Kim Dae-seung, già assistente di Im Kwon-taek
e autore del cult movie Bungee Jumping of their
Own, raro caso di pellicola coreana cripto-gay
con professore di liceo che s'innamora, ricambiato, di un allievo che sente d'essere la reincarnazione della sua defunta amata. Anche Traces
of Love elabora un lutto insormontabile attraverso l'incontro con una possibile reincarnazione
dell'amata perduta, ma più che il ben oliato e
prevedibile congegno del romanticume a uso e
consumo delle fan di Yoo Ji-tae (il cattivissimo
di Oldboy), interessa e sorprende la premessa
che innesca il dramma: la promessa sposa del
protagonista muore nel crollo dell'edificio di un
enorme centro commerciale nel centro di Seoul. Si tratta in effetti di uno spunto ispirato a
una tragedia che ha colpito nel vivo la città una
decina d'anni fa, e che nel film denuncia l'oblio
di una società ricca e spasmodicamente consumista, dimentica della fragilità delle sue corrotte
fondamenta. Hyun-woo, questo il nome del
protagonista, si ritrova infatti solo e osteggiato a
indagare sulle colpevoli mancanze d'imprenditori e politici, e colmo dell'assurdo, viene addirit-
tura usato come capro espiatorio. Partito per
una vacanza consolatoria s'imbatte in una sopravissuta del disastro che aveva condiviso le ultime ore della sua fidanzata sotto le macerie. Le
immagini del crollo e le claustrofobiche sequenze d'attesa d'aiuto sotto le macerie sono formidabili, il resto è una cartolina di viaggio attraverso paesaggi autunnali della penisola coreana.
Lodevole e necessario comunque l'impegno a
non dimenticare, soprattutto a fronte di quanto
rivelato da Yoo in conferenza stampa: quando
presentò il film a Seoul dichiarò che si sarebbero dovute ricordare le centinaia di morti con un
monumento e non ricostruire sul luogo della catastrofe. In un forum aperto su internet pare
che la sua dichiarazione sia stata accolta in maniera del tutto negativa: «Con quel che costa la
terra a Seoul lasciare tutto quel terreno non edificato è uno spreco inammissibile». Auspicabile
quindi che il film di Kim smuova davvero qualcosa contro una simile mentalità imperante.
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
15
visioni
Autobiografia della crudeltà
Roberto Silvestri Roma
D
a una stanza, da una
strada, da un centro
storico, magari dai
quartieri spagnoli di
Napoli, da una città per quanto
bella, da un matrimonio per
quanto non combinato, da una
professione per quanto non di
routine, e perfino da una battigia
sulla quale giocare alle biglie o
agli sposi (proprio come in un recente Bellocchio), si entra e si
esce. Sono gli spazi della vita.
I beatnik ce li descrissero con
esagerata lucidità, negli anni 50,
e con annessa mappa del tesoro,
e antidoti farmaceutici, per scansarli se necessario anche in autostop. Certo la nostra energia non
è più quella be bop di una volta.
Eppure i beat esistono ancora.
Ma da certi luoghi, esistenti e più
nascosti (Foucault in una conversazione radiofonica del ’66, appena pubblicata da Cronopio, li
chiamava «eterotopie», posti altri, paralleli per distinguerli dalle
«utopie», spazi che ancora non
sono), non è così facile uscire. Però è meraviglioso disperdersi. O
trovare dentro di essi una riserva
aurea dell’immaginazione. Sono
come anticorpi comportamentali che spingono ai confini della realtà. Che ne dite, infatti, di guardare il mondo, sgusciando via
dal nostro corpo, con gli occhi di
qualcun altro? L’attore lo fa, e a
volte socializza il suo segreto.
Non rappresenta testi, né canta
storie, produce incanti crudeli di
questo tipo. Un film estremo visto alla Festa di Roma, è Grido di
Pippo Delbono (in sala il 20),
un’avventura con lo spettatore
sull’orlo dell’abisso. Alla fine,
una flotta di barchette di carta è
pronta a solcare i mari dell’im-
Il «Grido» di Pippo Delbono,
molto più di «una pubblicità
per se stessi». Il documentario
sull’esperienza d’amore
tra teatro, rito e anarchia
maginario. Viene voglia di partire. Grido ricorda più che gli omonimi film di Antonioni e di Skolimowski, il filmaker sperimentale
canadese Michael Snow di «La
Region Centrale». Lì dita elettriche percorrevano un territorio
misterioso, pietra dopo pietra, e
tutte le parti invisibili della tundra artica si mettevano così a vivere. Qui il regista, che sa come
far recitare e commuovere le pietre (lo ha appreso in Israele, anche dalle tombe dei palestinesi,
in Guerra), si mette davanti a noi
con il suo dolore e tutto il resto.
Narcisismo? Il contrario. Amore
per il pubblico. Davanti agli occhi semichiusi dell’attore e drammaturgo che ricorda alcuni fatti
importanti del passato (detour
radicali; la scoperta del partner
Bobò dove meno te lo aspetti,
che non parla ma maneggia le
mani come a Bali; la morte di un
amante) è il nostro volto che acquista certezza, solidità. Grazie allo sguardo sbarrato che vede le
nostre palpebre chiuse. Ecco il
doppio gioco del cinema, Eyes
wide shut. Inquadrare «l’amore».
Per questo alcuni spettatori, nel
documentario ripresi durante
uno spettacolo, sono così turbati. L’amore, come lo specchio
che è il cinema e come la morte,
al lavoro 24 fotogrammi al secon-
Giuseppe Gagliardi e Peppe Voltarelli sono calabresi e amici da sempre, una complicità di
gusti e sguardi che intreccia le loro avventure
tra cinema e musica - Voltarelli è il frontman
del Parto delle nuvole pesanti. I due li troviamo già insieme in Doichlanda (premiato al Torino film festival, 2003), documentario che parla di musica, di immigrazione, del viaggio italiano verso la Germania dei tanti migranti di
Calabria e anche di come negli anni questo
movimento è abbia «contaminato» gusti e sapori (cucina compresa, la fortuna dei ristoranti italiani in Germania è nota).
Migrante è pure il protagonista del nuovo
film di Gagliardi, scoperto da Nanni Moretti
che lo invitò (era il 2001) al sacher festival con
Peperoni (premiato col Sacher d’argento). La
leggenda di Tony Vilar (negli Extra della Festa
del cinema) racconta infatti di Antonio Ragusa, pure lui calabrese, partito da Genova nel
1952, approdato in Argentina, a Buenos Aires,
dove in pochissimo diviene il nuovo idolo musicale del momento col nome, appunto, di
Tony Vilar. É lui che fa impazzire l’America latina modulando Tintarella di luna e Non esiste
l’amor, e fa sognare e danzare il mondo al rit-
FOTO DI CIBO NEL MONDO
do, ci dice che nell’amore il corpo è qui.
Ma questi controspazi non
sempre sono «piacevoli» come il
galeone di Johnny Depp nei Pirati dell’isola dei Caraibi, o il cinematografo. Eterotopie sono anche i club mediterranee, manicomi, cimiteri. Però anche il «letto
dei genitori», quando si è piccoli
e si scopre che il piacere ha molto a che fare con la punizione
(che arriva quando i genitori arrivano). Ancora. La prigione, e anche la «prigione della droga», o
un trauma del passato che ti attanaglia e non ti abbandona mai
(la morte improvvisa di una persona che hai amato totalmente,
per esempio).
Sono spazi di reclusione, ma
anche di resistenza e di anarchia, per chi li contempla da fuori soprattutto, con i quali gli arti-
sti hanno spesso dimestichezza
esagerata perché superano l’angusta realtà degli «spazi normali». Vedono ciò che gli altri non
vedono. E anche perché, ripeto,
non per chi c’è dentro, ma per
chi c’è fuori, sono spazi di contestazione che denunciano come
illusione l’organizzazione della
società presente.
Pippo Delbono non ha scritto
diretto e interpretato il suo secondo lungometraggio Grido, inteso come film, per raccontarci
la sua autobiografia in un momento infrenabile di egocentrismo. Al massimo questo lungo
estenuante lavoro di autoconfessione, riprese, montaggio e rifinitura, potrà servire per evitare di
rispondere, senza essere maleducato, alla domanda dei critici e
dei giornalisti: «scusi, c’è dell’autobiografia nel film?».
Festa di Roma
Mondanità azzerata
Ogni manifestazione che non sia
proiezione o conferenza stampa
è stata sospesa dalla direzione
della Festa in seguito al grave
incidente del metro. Aboliti
quindi tappeto rosso e eventi
mondani. Cancellata la festa
finale a Cinecittà con Jovanotti e
rimandata a sabato la serata
dedicata alla moda. Non si
escludono ulteriori variazioni.
Già ieri erano state annullate,
oltre alle passerelle, la conferenza
stampa di Corrado Guzzanti per
Fascisti su Marte (rimandata la
proiezione a sabato) e la diretta
Total Request Live di Mtv a
piazza Augusto Imperatore.
L’amara eredità del film
del clan dei Babluani
mo di Quando calienta il sol. Però a un certo
punto scompare, e senza ragioni apparenti,
anzi nel momento di maggior successo. Anni
dopo un cugino lontano (Voltarelli), cresciuto
sognando Vilar e pure lui musicista decide di
risolvere l’enigma ... Genere dichiarato su
schermo e dal regista il mockumentary, gioco
di vero e fiction con umorismo e tenerezza
che trasformano questo viaggio, anche un po’
di formazione, in un vagare dentro all’immaginario sull’emigrante italiano. Sembrano tutti
usciti da un libro di John Fante, dice tra sé il ragazzo Voltarelli (che insieme a Gagliardo scrive pure la sceneggiatura, le musiche sono sue
e di Vilar). Eccoci tra le facce da «bravi ragazze», polpette al sugo e negozio da barbiere con
memorie di tagli a De Niro laddove il quartiere, siamo in America, se lo sono ormai divorato i cinesi. E le donne brune brune, le camicie
sgargianti, gli occhiali a specchio da vecchi
film e romanzi di «cosa nostra». In Argentina
impastano tango, pranzi, e malinconia. Vilar
sta negli States, oggi vende automobili, altro
tassello di leggenda. Siamo in un mondo di
personaggi in bilico, un po’ immagini letterarie, un po’ storia di questo paese scritta qui e
negli «altrove» in cui si sono radicati. Icone e
stereotipi ma anche figure vere come le parole
di una canzone, come la musica di Vilar.
Temur e Gela Babluani, padre e figlio firmano L’héritage (L’eredità). Della Georgia si conosce l’atmosfera soprattutto attraverso i
film di Iosseliani, e l’intera cinematografia è
diventata famosa in tutta l’Urss per le sue
commedie, il suo umorismo. Ma il clan dei
Babluani viene dall’ovest, al confine con
l’Abkhazia e fa eccezione per la decisa inclinazione verso il dramma, e si può cogliere
anche una certa atmosfera da «polar» nei
film di Gela, giovane regista scoperto con 13
Tzameti a Venezia dove un ragazzo immigrato si trovava in una situzione insostenibile. Il padre, Temur allievo di Tengiz Abuladze è il regista di La migrazione dei passeri
(’80) e Dzma (Fratello, ’81), due film censurati e Il sole degli insonni (’92) dalla lunga gestazione. Un angelico George Babluani (il
fratello minore) è l’interprete sia di 13 Tzameti che di questo film del ritorno in patria.
I turisti sono personaggi comici di per sè ma
qui in maniera un po’ troppo pesante forse
sottolineano l’ottusità dei viaggiatori con la
loro prosopopea opulenta nei confronti dei
paesi di cui non conoscono la storia e che
non capiscono. La Georgia, culla della civiltà per via della Colchide e del vello d’oro
(ma, avertiva Iosseliani, «i greci hanno cercato di portarci via anche quello»), terra di arti-
sti e poeti e della civile Tbilisi è anche un paese di montagne i cui abitanti hanno le loro
leggi da sempre. I tre francesi (Sylvie Testud,
Stanislas Merhar et Olga Legrand) in viaggio
con le loro telecamere troverebbero da riprendere sorprendenti situazioni, se solo
fossero un po’ meno primitivi, nonostante
la loro spocchia e la mancanza di savoir faire: sotto i loro occhi si svolge un regolamento di conti che da generazioni si trascina senza fine e la loro presenza è la causa di una situazione che precipita, mentre un traduttore osserva e traduce (e talvolta interviene
con tatto). Probabilmente l’umorismo amaro della storia è proprio nel raccontare un
certo tipo di «osservatore» di ogni paese esso sia, con tutta la sua pesantezza nell’affrontare le situazioni oppure il pubblico in
generale che giudica senza conoscere minimamente la storia e le tradizioni di un paese
(come i fatti che avvengono oggi che la Georgia è di nuovo in prima pagina). Nel film ci
sono momenti di grande poesia, in particolare l’incipit della storia di vendetta in cui
nonno e nipote salgono sul pullman e viaggiano verso il loro destino. Ce ne sono anche altri irritanti e sono proprio quelli in cui
noi, pubblico occidentale incolto siamo un
po’ i protagonisti. (S.S.)
sabato con il manifesto a 2,00 €
RO
EU
.00
10
RIPENSARE LA RIVOLUZIONE
È IL DESIDERIO CHE CI ATTRAE
VERSO I SUOI LIBRI E LE SUE
CONFERENZE, DELUSI DAI SOCIALISMI
REALI E DALLE POLITICHE
DELLE SINISTRE MA NON CONVINTI
CHE IL NOSTRO DESTINO SIA UN
MONDO IN CUI CONVIVANO REALTÀ
ARTIFICIALI DA PAESI DEI BALOCCHI
E ORRORI DI TUTTI I TIPI
Tsunami
Terzani
IN QUESTO NUMERO
ULTRAVISTA: GENOVA SCONOSCIUTA • FATA MORGANA • ULTRASUONI: IL POP CHE DÀ
SCANDALO • L’ERA DEI NIPPOBRASILIANI • JAMES BLOOD ULMER • TALPALIBRI: PALAHNIUK
• MANGUEL • WRIGHT • HEYM • MAGISTRETTI IN LIGURIA • CLERICI • NORI • RISSET • DECOUPAGE
Sapori disneyani
e gusti Slow food
Che sapore ha la crostata di uva
spina preparata da Biancaneve o il tè
del Cappellaio Matto che Alice nel
paese delle meraviglie non riuscirà
mai ad assaggiare? Nella Reggia di
Colorno (Parma) dal 28 ottobre al 7
gennaio si terrà la mostra «Il gusto
nell'arte di Walt Disney», curata da
due cultori dell'arte e del cibo, il
critico cinematografico Marcello
Garofalo e lo chef statunitense Ira L.
Meyer, rispettivamente curatore e
autore di tre volumi dedicati all'
argomento. Esposti bozzetti, disegni,
artwork originali dei Disney Studios di
Burbank. L’incasso della mostra
andrà in aiuto ai bambini del Sahrawi
e dell'Etiopia.
Bobò (a sinistra)
e Pippo Delbono
(a destra)
in «Grido», regia
di Pippo Delbono
«Tony Vilar», la leggenda
del migrante italiano
Cristina Piccino Roma
calibro 9
ASSALTI FRONTALI
MI SA
CHE STANOTTE
Il sesto disco di Assalti Frontali è un
piano sequenza in cui scorrono fatti,
sogni, ossessioni e speranze di una
banda di strada, frammenti di una
biografia collettiva. La musica è frutto del
lavoro di Assalti, prodotta artisticamente
da Max Casacci e Casasonica. Un ritorno
all'Hip-Hop per uno dei rap tra i più
poetici e politici.
INFO SU CONCERTI, PROSSIME USCITE E MOLTO ALTRO SUL SITO
ww.music
a.ilmanifesto.it
musica.ilmanifesto.it
Donne che lavorano il pesce a Dakar
fotografate da Walter Mericchi, i
mercati della Malesia visti da Alberto
Peroli, gli allevatori di yak tibetani
ritratti da Paola Vanzo, il caffè di
Huehuetenango torrefatto a Torino nel
carcere delle Vallette nelle foto di
Alberto Peroli. Sono alcune delle
opere della mostra di Terra Madre a
Atrium (Torino) esposte da oggi al 12
novembre. La mostra è preludio alla
kermesse di Terra Madre in
programma dal 26 al 30 ottobre
all'Oval del Lingotto. Le foto
raccontano i presidi Slow Food
presenti in 39 paesi del mondo.
FERITO RAPPER FABOLOUS
Il rapper statunitense Fabolous è
stato ferito ieri a una gamba da un
colpo di pistola in un parcheggio
sotterraneo a Manhattan. I quattro
aggressori sono fuggiti a bordo di un
auto a grande velocità, attirando
l'attenzione di una pattuglia di polizia,
che dopo averli fermati ha trovato
due armi nell'auto. Il rapper di origine
afroamerica e dominicana, è
diventato una star nel 2001 con il
singolo «Can't deny it». Da quel
momento il cantante è diventato uno
dei più importanti esponenti della
musica rap per la sua sensibilità nel
raccontare i problemi razziali con
complessi ritmi musicali e testi ironici.
Il suo stile è stato paragonato a
quello di Murda Mase.
INDIPENDENTI DAL MAGHREB
Un luogo di diffusione dei film
dell'area del Medio Oriente e del
Maghreb, realizzati a margine dei
circuiti commerciali di produzione e
distribuzione cinematografica. È il
primo Festival Sinima, organizzato
dalla Ong Cives Mundi dal 23 al 27
ottobre fra Soria e Madrid.
BUON VIAGGIO ANDREA PARODI
È morto ieri il cantante Andrea Parodi.
L'ex leader dei Tazenda combatteva
da circa un anno con un tumore.
Durante questo periodo Parodi non
ha smesso di esibirsi collaborando
con diversi artisti. Tra i suoi successi
«Spunta la luna dal monte» e
«Pitzinnos in sa guerra» (nato da una
collaborazione con Fabrizio De
Andrè). «C'è un momento, tra la notte
e il giorno - si legge sul sito web
dell'artista - che non è nè notte nè
giorno. Quello, è un momento di
AbacadA...Dopo la sua AbacadA,
Andrea ora canta e canterà sempre
ancora per noi, nell'aria, e dovunque.
Perchè la vita è bella. Buon viaggio,
capitano!».
16
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
sport
Avvio sorprendente del campionato di basket con Benetton ko
Scafati e Capo d’Orlando,
entusiasmo a canestro
Stefano Milani
Siamo solo alla seconda giornata ma a leggere la
classifica di serie A di pallacanestro c'è già qualcosa che non torna. Non torna che la squadra
campione d'Italia in carica, la Benetton Treviso,
sia laggiù nei bassifondi a litigare col canestro
cercando risposte ai suoi perché. Perché Siskauskas è volato in Grecia? Perché al suo posto sono
arrivati Lyday e Frahm che in due, finora, non ne
fanno uno buono? Perché Bargnani non strappa
il contratto coi Toronto e torna in terra veneta?
Due partite altrettante sconfitte, non accadeva
da vent'anni per i biancoverdi scudettati. Non
era mai accaduto invece che - ed è la seconda cosa che non torna - in testa arrivassero, zitte zitte
dal profondo sud, due squadrette di provincia
come Scafati e Capo d'Orlando, a godersi il meritato primato alla faccia di formazioni più blasonate, tecnicamente più attrezzate e, soprattutto,
con maggiore liquidità nelle casse societarie.
I campani hanno impiegato trentasette anni
per raggiungere il paradiso, esattamente dal
1969 anno di nascita della Scafati Basket spa, dopo diversi tentativi nel purgatorio della Legadue.
Domenica a festeggiare l'evento erano in 3.700,
perché di più non potevano entrare al PalaMangano di via della Gloria, troppo stretto per contenere l'entusiasmo di un comune di 45mila anime letteralmente impazzite per il pallone a spicchi. Il presidente gialloblu, Nello Longobardi, padrone dell'omonima ditta di conserve alimentari nonché terzo sponsor ufficiale del club, sprizza gioia da tutti i pori, e le sue dichiarazioni all'indomani del successo contro Reggio Emilia sembrano quelle di un veterano che già la sa lunga.
«Il nostro obiettivo resta la salvezza», «Dopo questi primi due successi siamo a dieci vittorie dal
nostro traguardo», e tutto il frasario di circostanza. Diplomazia doverosa, con l'aggiunta di un
pizzico di superstizione campana, perchè la mezzanotte è dietro l'angolo e da principessa a tornare cenerentola ci vuole davvero un attimo. Specie a vedere il calendario: prima la trasferta a Milano poi in casa con Treviso. Due impegni titanici, come da tradizione delle migliori favole. Stavolta però il lieto fine non sembra così scontato.
Dalla Campania alla Sicilia il passo è breve e
l'euforia alle stelle. E il piccolo comune messine-
Alvin Young della Legea Scafati, 58 punti in due partite
se di Capo d'Orlando, 13.000 abitanti, si coccola
la sua Orlandina che sabato scorso ha inflitto dodici punti nientemeno che ai vice campioni della Fortitudo Bologna schizzando in alto a sinistra
della classifica. Novità assoluta visto che la stagione scorsa, la loro prima nella massima serie, non
ci si schiodava dal basso a destra, oscillando dal
quattordicesimo al sedicesimo posto della graduatoria. Quest'anno però la squadra sembra
avere una marcia in più, frutto di un rinnovamento generale che ha portato nel piccolo comune siciliano ben sette esordienti in serie A. Su
tutti lo statunitense Alvin Young (dal 2001 tre
campionati a Reggio Emilia) classe '75 che in
due partite ha confezionato la bellezza di 58 punti lasciando tutti a bocca aperta e proponendosi
di diritto come uno dei migliori realizzatori del
torneo. Ma anche qui stare con i piedi per terra è
l'imperativo assoluto e guai a farsi illusioni, parola di coach Giovanni Perdichizzi, triestino trapiantato in Sicilia ormai da anni: «Al di là di queste due vittorie, il nostro obbiettivo, quello richiesto dalla società, è la salvezza. Noi andiamo in
campo pensando a una partita per volta». E il
prossimo pensiero è di quelli da far venire il mal
di testa: a Bologna contro la Virtus, per il primo chi l'avrebbe mai detto - vero scontro al vertice.
Sognare, a questo punto, non costa nulla.
Champions
Persport
Roma ad Atene, diretta tv
Scontro Chelsea-Barca
Lotito e l’irriducibile Chinaglia,
che spettacolo. Il calcio può attendere
R. Sp.
Roberto Duiz
Sotto shock per il grave infortunio che ha
colpito il portiere Petr Cech, il Chelsea oggi
affronta il Barcellona in Champions
League. Le due squadre si trovano di
fronte per la terza stagione di fila nel
massimo trofeo continentale:la prima volta
prevalsero gli inglesi, l'anno scorso i
catalani, sempre al termine di confronti
aspri e pieni di polemiche. «Anche stavolta
sarà una partita difficile - assicura Eidur
Gujohnsen, passato pochi mesi fa proprio
dal Chelsea al Barca - si tratta di due
squadre solide, organizzate, che possono
arrivare in fondo alla competizione. Sono
queste le gare che più amo giocare». Etòo e
Belletti sono le principali assenze per
Rijkaard, mentre Mourinho sarà costretto a
schierare il terzo portiere Hilario visto che
pure Cudicini è uscito malconcio
dall'incontro con il Reading per uno
scontro di gioco. Comunque vada a finire il
loro doppio confronto, Chelsea e
Barcellona non dovrebbero avere problemi
a superare il gruppo A, visto che Werder
Brema e Levski Sofia, in campo in
Germania, dovrebbero limitarsi a lottare
tra di loro per il ripescaggio in Coppa Uefa.
Situazione più che confortante anche
per Bayern Monaco e Sporting nel gruppo
B, quello dell'Inter che si misura con lo
Spartak Mosca. Bavaresi e portoghesi si
affronteranno stasera a Lisbona e un pari
potrebbe essere risultato di lusso per
entrambe, soprattutto se il segno X
dovesse uscire anche a San Siro. Possibilità
di dilagare nel gruppo C, invece, per
Liverpool e Psv Eindhoven, appaiate in
testa con quattro punti: gli inglesi saranno
di scena a Bordeaux, mentre gli olandesi
giocheranno a Istanbul contro il
Galatasaray. Si tratta di una sfida inedita:
nei quattro precedenti con squadre inglesi,
comunque, il Bordeaux non ha mai vinto.
Nel gruppo D, oltre a Olympiakos-Roma
(in diretta Raiuno, ore 20.30)con gli uomini
di Spalletti che faranno a meno di
Mancini, Mexes, Montella e Pizarro, è in
programma Valencia-Shakhtar Donetsk,
con gli spagnoli a caccia del terzo successo
di fila.
Q
uanti punti di penalizzazione
condonerà l'Arbitrato del Coni
alla Lazio (così come a Fiorentina, Milan, Juventus, Reggina)
lo si saprà solo verso la fine del mese.
Che qualche condono ci sarà viene dato per certo, anche se la speranza diffusa è che la clemenza sia moderata,
in modo di non dare la conferma ad
un sospetto che si va già pericolosamente diffondendo. E cioè che tutto
l'affare Calciopoli sia in via di sgonfiamento e che tutto stia tornando più o
meno come prima, anche se con protagonisti diversi. I più dietrologicamente maligni dicono che, dietro a
tutto, ci sia lo zampino manovriero di
Moratti, per ribaltare a suo favore lo
strapotere di Juventus e Milan che penalizzavano l'Inter. Chi sostiene questa tesi deve sostenere anche l'imbarazzo di condividerla con Moggi, che
è un peso non idifferente.
Ma quali che siano le nuove sentenze, Lotito, il presidente che ha salvato
la Lazio dal fallimento, tipo stravagante, facile alle citazioni in greco che la
D'Amico a Sky scambia per latino, un
condono non da poco l'ha già ottenuto, alleggerito dall'ingombro di Chinaglia e i suoi alleati e complici, che gli
hanno reso la vita difficile negli ultimi
anni, se non proprio impossibile. Minacce a lui e alla sua bella moglie, volgari allusioni a stupri assassini modello Circeo, per costringerlo a cedere la
società a un gruppo dalle connotazioni losche, intascando denaro riciclato.E al centro di tutto il traffico illecito
proprio lui, Giorgio Chinaglia, Giorgione o Long John, a seconda del grado
di confidenza, ex ariete d'area della Lazio campione d'Italia, migrato in
Gran Bretagna a vent'anni, rientrato
in patria e riemigrato negli Stati Uniti
a trenta per giocare nei Cosmos assieme a Pelé. Poi rientrato ancora, dopo
il flop di un'operazione che avrebbe
dovuto lanciare il calcio stellare in
America e non ci riuscì, ancora affamato di Lazio, di cui riuscì a diventare
presidente per un paio di stagioni, giusto il tempo di accompagnarla nella
retrocessione in serie B. Eppure sempre idolo della curva Nord, quella degli Irriducibili, che non disdegnano di
esporre striscioni anti ebrei e pro Auschwitz, autori di slogan razzisti e destinatari privilegiati dei saluti romani
di Di Canio, altro eroe della curva nella generazione successiva a quella di
Long John, a sua volta grande accusatore di Lotito e che, coerentemente,
ora (domenica a Quelli che il Calcio)
si è schierato in difesa del suo predecessore e della sua gang. Non è un bello spettacolo, ma tant'é. Il calcio può
attendere.
Al momento si parla di riciclo di soldi mafiosi transitanti prima attraverso
l'Ungheria e poi dirottati verso l'America, di cointeressenze nell'«affare» di
alcuni capi degli ultras più fascisti
d'Italia. Qualcuno è già in galera.
Long John, colpito da mandato d'arresto, per ora se ne sta in America, senza sbarre cui affacciarsi. Gli Irriducibili non demordono. Domenica, dopo
tutto il trambusto, hanno esposto all'Olimpico uno striscione che recitava: «Colpevoli di amare la Lazio». Ma
quale Lazio, quella di Chinaglia e i trafficanti di cui è testimonial per garantire la complicità degli ultras? Comme
d'habitude hanno fischiato l'odiato
Lotito (altrimenti che «irriducibili» sarebbero?).
Daniela Fini, invece, che per quelli
della curva Nord non ha mai nascosto un debole, Lotito l'ha baciato. Un
bacio casto, naturalmente, meglio precisare in quest'era di gossip intensivo.
Qualche timido applauso per contrastare i fischi degli Irriducibili, colpevoli «solo» di amare la Lazio, c'è stato, come a segnare l'inizio di un'operazione di pulizia nella tifoseria laziale che
non sarà indolore.
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
17
televisioni
CULT
programmi di oggi
16.00
L’INFEDELE
EROTISMO GAY LA 7
La centralità assunta nella cultura occidentale dai simboli e
dall’erotismo gay. Con Gad Lerner ne parlano stasera Walter
Siti, curatore delle opere di Pasolini e autore del romanzo
«Troppi paradisi»; il senatore Rocco Buttiglione, il filosofo Romano Madera, la teologa musulmana Patrizia Dal Monte, il direttore del settimanale «Tempi» Luigi Amicone, il direttore di
«Rolling Stone» Carlo Antonelli e il culturista Carlo Masi.
21.30
RADIO3SCIENZA
UNA SPESA ALLUCINANTE RADIO 3
Smart shop, negozi furbi. Così si chiamano i punti vendita dove è possibile comprare sostanze psicoattive, ma legali. Franco Carlini ne parla con Carmelo Furnari, docente di tossicologia forense e Danilo Ballotta, entrambi membri del comitato
scientifico Osservatorio europeo droghe e tossicodipendenze
(Emcdda). A seguire la storia del fondatore dell’Istat, Corrado
Gini, statistico, demografo e sociologo nell’Italia di Mussolini.
11.30
LEZIONE D’ARTE DI DARIO FO
IL DUOMO DI MODENA RAI 3
Il Duomo di Modena, uno dei più fulgidi esempi di stile romanico, è stato dichiarato «patrimonio dell'umanità» dall'Unesco. Cosa distingue questo capolavoro e lo rende unico? La
sua storia e ciò che rappresenta. È un libro di pietra, e anche
qualcosa di più della «Bibbia dei poveri» come la definivano i
romantici dell'800. Con «Il tempio degli uomini liberi – il Duomo di Modena» si chiude stasera il ciclo di sei puntate delle
lezioni d’arte di Dario Fo.
23.40
mattino
pomeriggio
sera
IL RITORNO DI DON CAMILLO DI
JULIEN DUVIVIER
ITALIA 1952 (100’) RETE 4
Peppone e Don Camillo dal romanzo che Guareschi aveva scritto nel `48 diretto dal regista francese di «Pepe le
Moko», poi rifugiatosi negli Usa durante la guerra. Duvivier dirigerà anche Il ritorno di Don Camillo, poi
sarà la volta di Gallone e Camerini. Fernandel e
Gino Cervi danno il volto a due caratteri italiani
di poca ideologia e molto buon senso.
21
9
GIUDA DI RAFFAELE MERTES
ITALIA 2000 (90’) RETE 4
Giuda, figlio di un ricco mercante ha abbandonato la famiglia per seguire il Messia, credendo che lui sarà il condottiero che libererà il suo popolo dall’oppressore romano. Mertes, già direttore della fotografia realizza questo
film per la tv interpretato da Enrico Lo Verso
che ha dichiarato di aver sempre sognato di interpretare Gesù o Giuda («sarà per la mia schizofrenia»), Danny Quinn e Mathieu Carrière.
16.20
6
MONELLA DI TINTO BRASS
ITALIA 1997 (95’) RETE 4
Anna Ammirati con «quel certo non so che» che sbandiera per tuttoil film è la protagonista del film, colori pastello, atmosfere Robbe Grillet, ma più terragno, un inno alla
«gioia di vivere» epicurea. Il suo partner Mario Parodi (26
anni, ex difensore del Genoa, esordiente) e Serena Grandi (nel film la mamma). Trattandosi
di Brass il divieto ai minori di 18 anni è di rigore.
23.35
1
TORNANDO A CASA DI HAL ASHBY
USA 1978 (127’) STUDIO
UNIVERSAL
«Coming Home» di gusto marcatamente anni settanta,
con una sceneggiatura scritta da Jane Fonda e tre Oscar
al suo attivo: è un classico film della guerra del
Vietnam, realizzato una decina di anni dopo
dall'epoca più calda, storia della guerra vista
con gli occhi di una donna che non si arrende.
21
9
RAI2
RAI3
17.10 Che tempo fa (all’interno)
18.50 L’eredità, conduce Carlo Conti.
Regia di Maurizio Pagnussat.
20.00 Telegiornale
20.30 Calcio, UEFA Champions
League Olympiakos: Pireo Roma (in diretta da Atene)
22.45 Un Mercoledi da Campioni,
conduce Marco Civoli.
23.20 TG1
19.10
20.00
20.15
20.30
20.55
21.05
20.30 Un posto al sole
21.00 La Squadra 7, con Massimo
Bonetti, Massimo Wertmuller,
Toni Sperandeo.
23.05 TG3 - TG Regione
23.20 TG3 Primo Piano
23.40 Lezione d’arte di Dario Fo Ultima puntata “Il tempio degli
uomini liberi - Il Duomo di
Modena,seconda parte”
18.55 TG4 - Meteo 4
19.35 Sipario del TG4
20.10 Walker Texas Ranger “Un rivale
scomodo - seconda parte “con
Chuck Norris,Michael Greyeyes.
21.00 Il ritorno di Don Camillo
(Commedia,1953) con
Fernandel,Gino Cervi,Paolo
Stoppa,Leda Gloria.Regia di
Julien Duvivier.
1.15 TG Parlamento
1.25 RaiSport Motorama
1.55 Meteo 2
0.40 TG3 - TG3 Night News - Meteo 3
0.50 Rai Educational - La Storia
siamo noi
l problema della crescita della popolazione urbana è planetario. A dispetto
degli studi e delle sperimentazioni,
l’ecopolis, anzi l’ecometropolis (che sia
il più possibile autosufficiente, a ciclo chiuso e riciclaggio spinto, con fonti rinnovabili
e perfino produttrice di alimenti) sembra
ancora un miraggio. Oggi le città, le metropoli (oltre un milione di abitanti) e le megalopoli (oltre i dieci milioni), per non dire delle supermegalopoli (agglomerati urbani senza soluzione di continuità) sono assolutamente insostenibili, energivore e idrovore,
in percentuali pro capite nettamente più pesanti delle campagne. E naturalmente sono
inumane. Fosco il futuro, dato che il 2007 segnerà il sorpasso della città sulla campagna:
la popolazione urbana diventerà maggioranza e nel 2050 potrebbe raggiungere i
quattro quinti del totale.
Un editoriale del quindicinale indiano
Down to Earth cala l’enorme sfida nella realtà dell’India. Scrive Sunita Narain, direttrice
dell’istituto ambientalista Centre for Science and Environment (Cse) di New Delhi,
che l’India urbana è sul punto di esplodere.
Fa notare l’incoscienza di politici e cittadini
che non vedono, ad esempio, le implicazioni profonde della proliferazione di centri
commerciali e di quartieri benestanti difesi
da guardie armate, isole di India igienicamente pulita e armata contro il circostante
lerciume. L’intensità di capitale legata alla
crescita urbana è fatta per separare nettamente i ricchi dai poveri (benché in città an-
22.30 TGCom - Meteo (nell’inter.)
23.20 L’antipatico
23.35 Monella Film
Marinella Correggia
Gli incubi indiani metropolitani
che i più poveri - accettando di vivere in situazioni di assoluto degrado - trovino più facilmente almeno un piatto di riso, cosa non
scontata nelle aree rurali in presenza di avverse condizioni climatiche e politiche). I costi elevati dei servizi urbani - approvvigionamento idrico, servizi igienico-fognari, rimozione dei rifiuti, trasporti - richiedono grandi investimenti e attenzioni sociali. In assenza di ciò, c’è una forzata convivenza fra aree
confortevoli e ghetti. Secondo l’ambientalista, «il modello cosiddetto ’sostenibile’ della
crescita urbana ha funzionato - e solo parzialmente - nel mondo industrializzato grazie alla ricchezza accumulata in precedenza. I paesi ricchi hanno potuto permettersi
di temperare gli effetti negativi della crescita
urbana attraverso investimenti pubblici e
sussidi. Eppure, anch’essi perdono colpi rispetto alla dimensione dei problemi ambientali e sociali, per attenuare i quali devono investire sempre di più».
Più in generale come si farà a dare alle
moltitudini urbane acqua, case, servizi igienici e relativa depurazione, e perfino i parcheggi per sempre più auto? Dove e come
andranno seppellite o incenerite le montagne di rifiuti cittadini? Se per alcuni la soluzione appare relativamente facile - dare in
appalto ai privati la creazione e la gestione
delle infrastrutture o estendere il partenariato pubblico-privato, è certo che la sfida è
molto più grande. L’intensità di capitale e di
risorse di questo modello fa sì che nel mondo «in via di sviluppo» molti servizi siano
BELLO
MAGICO
CLASSICO
Norma Rangeri
CANALE5
6.15 TG4 - Rassegna stampa
6.25 Secondo voi
6.35 Peste e corna e gocce di
storia, conduce Roberto
Gervaso.
6.40 Media Shopping
6.50 Quincy “Duplice omicidio”
7.50 Charlie’s Angels “Angelo nella
notte”con Cheryl Ladd,Jaclyn
Smith,Kate Jackson.
8.40 Vivere meglio, conduce Fabrizio
Trecca.
9.55 Saint Tropez “Un amore
insopportabile”con Benedicte
Delmas,Tonya Kinzinger.
10.50 Febbre d’amore, con Peter
Bergman,Michelle Stafford.
11.28 Vie d’Italia notizie sul traffico
11.30 TG4
11.40 Forum
13.30 TG4 - Meteo - TG4
14.00 Renegade “La canzone di Val”
con Lorenzo Lamas.
15.00 Sai xchè?
16.20 Giuda - Gli amici di Gesù
(Storico,2000) con Enrico Lo
Verso,Aglaia Szyskowitz,Hannes
Jaenicke.Regia di R.Mertes.
17.50 TGCom - Via d’Italia notizie sul
traffico (nell’intervallo)
terraterra
I
RETEQUATTRO
6.00 RAI News 24 Morning News
8.05 Rai Educational - La Storia
siamo noi, conduce G.Minoli.
9.05 Verba volant: clandestino
9.15 Cominciamo bene - prima,
conduce Pino Strabioli.
9.50 Cominciamo bene
12.00 TG3 - Rai Sport Notizie Meteo 3
12.25 TG3 Agritre
12.45 Cominciamo bene - Le storie
13.10 Agenzia Rockford “ Battaglia a
Canoga Park”con James Garner.
14.00 TG Regione - Regione Meteo
14.20 TG3 - Meteo 3
14.50 TGR Leonardo
15.00 TGR Neapolis
15.10 Trebisonda presenta:
La TV dei ragazzi
16.15 TG3 GT Ragazzi
16.25 Papà castoro, cartoni animati.
16.35 Melevisione
17.00 Cose dell’altro Geo, con Sveva
Sagramola.
17.40 Geo & Geo
18.10 Meteo 3 (all’interno)
19.00 TG3
19.30 TG Regione - Regione Meteo
20.00 Rai TG Sport
20.10 Blob
1.00 TG1 - Notte
1.25 TG1 Cinema - Che tempo fa
COSÌ COSÌ
E’ in corso la campagna promozionale del progetto Gentiloni. Il
ministro fa la spola da un programma all’altro per spiegare i
contenuti della riforma del mercato televisivo italiano. L’altra sera ne discuteva a Ottoemezzo,
poi a tarda ora lo abbiamo visto
trasferirsi nel salotto di Porta a
Porta, e la sua presenza era annunciata anche a Ballarò. Naturale che se ne parli, siamo pur
sempre il paese di Berlusconia,
guadagniamo i primi posti per teledipendenza e gli ultimi per la
zavorra del duopolio.
Meno naturale che a discuterne non vengano mai invitati
Paolo Gentiloni
quelli che potrebbero raccontare
storie interessanti. Per esempio il
signor Francesco Di Stefano (che da anni attende di ricevere le frequenze di Rete4 avendone ottenuto la concessione), o uno dei tanti teleutenti stufi di pagare il canone per l’overdose di belle bionde e onnipresenti
marzulli, magari un Enzo Biagi, in omaggio alla lunga
esperienza, per il merito di aver inventato una novità
televisiva (Il Fatto), per l’onore di essere stato bandito
dai pubblici teleschermi dal potere politico.
Invece ecco Iva Zanicchi chiamata da Vespa in
quanto combattente della causa berlusconiana. «Sono molto ignorante in materia - confessa la cantante ma vorrei sapere quante persone verranno licenziate
da Rete4». A metterla sulla strada della propaganda di
basso conio ci aveva pensato il conduttore medesimo
intitolando la serata con un secco "Rai e Mediaset,
una rete in meno". Il ministro Gentiloni non ha gradito e alla fine, malvolentieri, quella frase è stata corretta
con "Rai e Mediaset, una rete in digitale". Oltretutto,
6.20 L’isola dei famosi, conduce
Paolo Brosio.
7.00 Random, con “Little Einstein”“La
casa di Topolino”“Monster
Allergy”“Eppur si muove”“Clic &
Kat”“ Nadja Applefields”
“Fimbles”“I Bi-Bi”“Le nuove
avventure di Braccio di Ferro”
9.45 Rai Educational Un mondo a
colori - magazine “ Nostalgia
fatale”,
10.00 TG2 - Meteo 2
11.00 Piazza Grande
13.00 TG2 - Giorno
13.30 TG2 Costume e Società
13.50 TG2 Salute
14.00 L’Italia sul 2, conducono
Monica Leofreddi e Milo Infante.
15.00 In diretta dalla Camera dei
Deputati, “Question time”,
interrogazioni a risposta
immediata
16.20 Il pomeriggio di Wild West
17.15 Squadra speciale Cobra 11
“Un felice risveglio - seconda
parte”
18.05 TG2 Flash L.I.S.
18.10 Rai TG Sport
18.30 TG2 - Meteo 2
18.50 Wild West
notte23.25 Porta a porta,
SOPORIFERO
Il mite ministro punge il cuore di Vespa
6.10 Strega per amore “Jeannie
diventa attrice”con Larry
Hagman,Barbara Eden.
6.30 TG 1 - CCISS Viaggiare
6.45 Unomattina
9.35 Linea Verde Meteo Verde
(all’interno)
10.45 TG Parlamento
10.50 Appuntamento al cinema
11.00 Occhio alla spesa, un programma ideato e condotto da
Alessandro Di Pietro.Regia di
Roberta Ricca.
11.25 Che tempo fa
11.30 TG1
12.00 La prova del cuoco
13.30 Telegiornale
14.00 TG1 Economia
14.10 Sottocasa
14.35 Festa Italiana Storie, conduce
Caterina Balivo.
15.05 Il Commissario Rex “Il bluff”
con Gedeon Burkhard.
15.50 Festa italiana, conduce
Caterina Balivo.Un programma
di Valter Preci,Daniel Toaff. Regia
di Salvatore Perfetto.
16.15 La vita in diretta
16.50 TG Parlamento (all’interno)
17.00 TG1 (all’interno)
L’isola dei famosi
Warner Show
Tom & Jerry
TG2 - 20.30
TG2 10 Minuti
L’isola dei famosi, conduce
Simona Ventura.
0.30 TG2
0.40 Weeds , “Non puoi sfuggire
all'orso!”
RIVOLTANTE
vespri
film di oggi
ATLANTIDE
KATHERINE HEPBURN E MARIA STUART LA7
Le « Storie di uomini e di mondi» presentate oggi da Francesca Mazzalai sono quelle di Katherine Hepburn e di Maria di
Scozia. «Ci sono donne e donne, e poi c'è Kate. Ci sono attrici
e attrici, e poi c'è la Hepburn»: parola di Frank Capra. Maria
Stuart divenne regina di Scozia a 6 giorni, a 17 regina di Francia. Ebbe una vita quasi sempre tumultuosa e dolorosa. Morì
sola e senza regni, a 40 anni, sul patibolo.
RAI1
LETALE
INSOSTENIBILE
troppo costosi anche per le classi relativamente privilegiate. In un simile scenario, le
città proprio non ce la fanno a estenderli.
Tanto più che i poveri in quelle realtà sono
almeno il 30-50 per cento dei cittadini, abitanti in slum, quartieri non autorizzati, insediamenti illegali. Almeno il 20-30 per cento
non riesce nemmeno a pagare il bus e va a
piedi o in bici.
Eppure, ricerche condotte in città relativamente ricche e in rapida modernizzazione,
come New Delhi, mostrano che il 60 per
cento degli abitanti usano al massimo i mezzi pubblici, i quali occupano solo il 7 per
cento dello spazio stradale, mentre i mezzi
privati occupano il 75 per cento delle strade
per trasportare un 20 per cento di privilegiati. Insomma, l’auto non ha sostituito i bus o
le biciclette: piuttosto, li ha emarginati, ne
ha ristretto gli spazi e l’agibilità.
E invece, per combinare la convenienza
della mobilità per tutti e gli imperativi della
salute, città come Delhi e le altre, in un paese «povero e ricco» come l’India, dovrebbero assolutamente affidarsi al trasporto pubblico, usando le tecnologie più avanzate.
Quanto all’acqua e ai servizi igienico-fognari, occorrerebbe puntare su soluzioni di autosufficienza (il Cse da tempo sostiene progetti di raccolta di acqua piovana in città) o
quantomeno ridurre la lunghezza delle tubazioni, che è direttamente proporzionale
alle perdite. Una città efficiente si approvvigiona nelle vicinanze e si incarica di evacuare e neutralizzare i rifiuti ugualmente vicino. E una città efficiente, pulita, vivibile in
India non deve imitare le città del mondo
sviluppato ma creare nuovi modelli.
6.00
7.55
7.58
8.00
8.50
9.30
10.45
11.50
12.20
13.00
13.30
13.40
14.10
14.15
14.45
16.15
17.00
17.40
18.15
18.50
come ha fatto presente Bianca
Berlinguer, volto del Tg3, non si
capiscono tutte queste lacrime
per Rete4 e nemmeno un pensierino per la rete Rai destinata a
ugual sorte.
Particolari di poca importanza visto che il principale scopo
di questi talk-show è imbottire
l’etere di vecchie polemiche ed
eterni protagonismi. Per esempio Vespa che gentilmente ci informa di preferire un editore di
riferimento partitico piuttosto
che imprenditoriale (e ce ne eravamo accorti), che lancia accorati appelli («non ci ammazzate»),
che ripete la tiritera di quella volta che Agnelli gli disse che non
voleva entrare nel mercato delle
tv, che solo Berlusconi è stato bravo, mentre i Mondadori e i Rizzoli hanno sempre fallito per incapacità. A
dargli man forte il capo degli inserzionisti, il berlusconiano Malgara, sempre pronto a ribadire che il monopolista privato deve crescere.
E apriti cielo quando Gentiloni scopre l’acqua calda, ovvero che un servizio pubblico si riconosce per la
diversità della sua missione, per la qualità dei programmi, per la minor presenza della pubblicità e il minor potere dell’Auditel. Vespa pretende l’annuncio immediato dell’aumento del canone, guardandosi bene
dal ricordare che il centrodestra, per l’occasione rappresentato dal presidente della Vigilanza, Landolfi, il
canone lo avrebbe voluto diminuire. C’è da capirlo:
l'identikit del nuovo servizio pubblico disegnato dal
ministro Gentiloni sembrava l’esatto contrario del programma che lo ospitava
[email protected]
LA7
ITALIAUNO
TG5 - Prima Pagina
Traffico - Meteo 5
Borsa e Monete
TG5 - Mattina
Un sorriso come il tuo
(Commedia,1997) con Greg
Kinnear,Lauren Holly.Regia di
Keith Samples.
TG5 Borsa Flash - Meteo
(all’interno)
Un detective in corsia
“Una bambina da proteggere”
con Scott Baio,Dick Van Dyke.
Reality Circus
Vivere
TG5 - Meteo 5
Secondo voi
Beautiful
Tutto questo è soap
CentoVetrine
Uomini e Donne, conduce
Maria De Filippi.Regia di Laura
Basile.
Buon pomeriggio, conduce
Maurizio Costanzo.
TG5 Minuti (all’interno)
Amici
Tempesta d’amore
Fattore C, conduce Paolo
Bonolis.
20.00 TG5 - Meteo 5
20.31 Striscia la Notizia - La voce del
turbolenza, conducono Ezio
Greggio e Michelle Hunziker.
21.00 Reality Circus - conduce
Barbara D’Urso con la
partecipazione di Andrea
Pellizzari.
0.35 Matrix, conduce Enrico
Mentana.
1.20 TG5 - Notte - Meteo 5
1.50 Striscia la Notizia - La voce del
turbolenza (R)
7.00 Dora l’esploratrice
7.20 Il mondo di Benjamin
7.35 L’Ape Maia “Il lombrico Max”
8.00 Magica Doremì
8.25 Pixie & Dixie “Batty il pipistrello”
8.35 Doraemon
9.05 Settimo cielo “Chi lo sapeva?”
10.10 3 Minuti con Media Shopping
10.15 L’uomo con la scarpa rossa
(Commedia,1985) con Tom
Hanks,James Belushi,Charles
Durning.Regia di Stran Dragoti.
11.15 TGCom - Meteo
(nell’intervallo)
12.15 Secondo voi
12.25 Studio Aperto - Meteo
13.00 Studio Sport
13.40 Naruto “La rivincita di Sakura”
14.05 Dragon Ball Z
14.30 I Simpson
15.00 Paso Adelante - Nuovi episodi
“L’occhio indiscreto della
telecamera”con Pablo Puyol.
15.55 Zoey 101 “La febbre del teatro”
16.20 Scooby-Doo
16.50 Keroro
17.20 Spongebob
17.35 Georgie “Scuola...che
passione!”
18.00 Ned - Scuola di sopravvivenza
6.00 TG La7/Meteo/oroscopo/
traffico/informazione
7.00 Omnibus
9.15 Punto Tg
9.20 2’ un libro, invito alla lettura e
proposte editoriali.
9.30 Due South - Due poliziotti a
Chicago “Soldi facili”con David
Marciano,Paul Gross,Catherine
Bruhier.
10.30 Il barone rosso, documentario.
11.30 Matlock “Il talk show”con Andy
Griffith,Linda Purl,Kene Holliday.
12.30 TG La7
13.00 Il tocco di un angelo“The one
that got away”con Roma
Downey.
14.00 Quando torna l’inverno
(Commedia,1961) con Jean
Gabin,Gabrielle Dorziat,Suzanne
Flon,Paul Frankeur.Regia di
Henry Verneuil.
16.00 Atlantide – Storie di uomini e
di mondi “Katherine Hepburn”
“Maria di Scozia”
18.00 J.A.G. - Avvocati in divisa
“Fantasma”
19.00 Star Trek - Deep Space
Nine “In cerca dei fondatori seconda parte”
18.30 Studio Aperto - Meteo
19.00 3 Minuti con Media Shopping
19.05 Tutto in famiglia “Questione di
ciccia”con Damon Wayans.
19.35 La pupa e il secchione
20.10 Mercante in Fiera
21.05 Dr. House - Medical Division
“Sotto la pelle ”“Sesso assasino
”con Hugh Laurie,Lisa Edelstein.
22.55 La pupa e il secchione - Hot
20.00 TG La7
20.30 Otto e mezzo
21.30 L’Infedele - Quarta puntata
“Siamo tutti omosessuali?”
conduce Gad Lerner.Tra gli ospiti
presenti in studio questa sera: il
Sen.Rocco Buttiglione e Walter
Siti.
23.35 Markette, conduce Piero
Chiambretti.
23.30 Golden Celebrities On Ice Tributo alle Olimpiadi, (dal
Mazdapalace di Milano)
1.05 TG La7
1.30 25ª ora - Il cinema espanso
2.55 Otto e mezzo (R)
SKYTV
SKY SPORT1
13.03 Mondo Gol (replica) - 14.00 Sport Time
(diretta) - 14.30 Futbol Mundial (replica) 15.02 Calcio Roma 2006/07: Roma - Shakhtar
Donetsk (replica) - 16.03 Calcio Juventus
2006/07: Juventus - Roma (replica) - 17.02
Calcio Milan 2006/07: Anderlecht - Milan
(replica) - 18.02 Calcio Inter 2006/07: Inter Bayern Monaco (replica) - 19.30 Sport Time
(diretta) - 20.00 Calcio, Prepartita (diretta) 20.41 Calcio, Uefa Champions League 3ª
giornata: Inter - Spartak Mosca (diretta) 22.45 Calcio, Postpartita (diretta).
SKY SPORT2
12.30 Kotv, episodio 37 - 13.00 Wrestling Int.
Heat, episodio 7 - 13.55 Rugby, Currie Cup:
State Cheetahs - Blue Bulls (replica) - 15.43
Volley, Camp. Italiano Serie A1 maschile 7ª g.:
Itas Diatec Trentino - Copra Piacenza (replica) 17.45 Basket, Camp. Italiano Serie A maschile
2ª giornata: Benetton Treviso - Angelico Biella
(replica) - 19.30 Wrestling Int. Heat, episodio 7
- 20.25 Volley, Camp. Italiano Serie A2
maschile 4ª g.: Mail Service CoriglianoSparkling Milano (replica) - 22.30 Football
Americano NFL (replica).
CULT
09.00 Il vento ci porterà via (Drammatico, 1999)
di Abbas Kiarostami - 11.00 First Ladies: Marocco 11.00 First Ladies: Marocco - 12.00 First
Ladies: Arabia Saudita - 13.00 Contacts 13.30 Chicago, il seme dell’impero - 14.00 La
casa della gioia (Drammatico) - 16.30 Il festival
nel deserto - 18.00 Chicago, il seme
dell’impero - 18.30 Questo è il giardino (Drammatico) - 20.30 City Folk - 21.00 Correggi la
fortuna - 22.00 City of Men - 23.00 Requiem
for a Dream (Drammatico, 2000) con Ellen
Burstyn,Jared Leto - 1.00 Correggi la Fortuna.
SKY CINEMA MANIA
14.50 C’era una volta in Messico di Robert
Rodriguez. - 16.37 Gianni Canova - Il
Cinemaniaco: Le avventure acquatiche di
Steve Zissou - 16.50 Genesisdi C. Nuridsany, M.
Pèrennou. - 18.08 Locandina - Saranno Famosi
- 18.20 Speciale - Cinderella Man, il Cinema
sul Ring - 18.55 Good Night, and Good Luck di
G. Clooney. - 20.25 Extralarge - Sin City - 20.46
Hollywood Flash - 21.02 Le regole
dell’attrazione di Roger Avary. - 23.00 Speciale:
Le regole dell’attrazione - 23.30 Kinski - Il mio
nemico più caro di Werner Herzog.
8.00 The Fighting Temptations di Jonathan Lynn. 10.04 Extralarge - Sin City - 10.25 The Clan di
Christian De Sica. - 12.05 Jersey Girl di Kevin Smith. 13.48 Gianni Canova - Il Cinemaniaco: Le
avventure acquatiche di Steve Zissou - 14.00 36,
Quai des Orfèvres di Olivier Marchal. - 15.54 Inside Romanzo criminale - 16.10 2 single a nozze di
David Dobkin. - 18.13 Extra - Oliver Twist - 18.25
Oliver Twist di Roman Polanski. - 20.38 Extralarge The Exorcism of Emily Rose - 21.02 Troy (di
Wolfgang Petersen. - 23.45 Speciale: Le regole
dell’attrazione - 0.20 Shopgirl di Anand Tucker.
SKY CINEMA 3
12.15 Identikit: Julia Roberts - 12.40 Io,
lei e i suoi bambini di Brian Levant - 14.15
Rubrica: Una poltrona per due - 14.30 Un
giorno per caso di Michael Hoffman - 16.20
Extra: Inside Romanzo Criminale - 16.35 Io
Robot di Alex Proyas - 18.30 Hollywood
Flash - 18.45 La febbre di Alessandro
D'Alatri - 20.45 Extra: The island - 21.00
Quel mostro di suocera di Robert Luketic 22.50 Sub Zero - Paura sulle montagne di
Jim Wynorski. - 0.25 Anaconda - Alla ricerca
dell'orchidea maledetta di Dwight H. Little.
RADIO
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7.00 Wake up
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12.00 Into the music
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13.30 Date my mom
14.00 Next
14.30 Pimp my ride
15.00 TRL
16.00 Flash News
16.05 Mtv 10 of the
best
17.00 Flash News
17.03 Mtv
playground
18.00 Flash News
18.03 Mtv Our Noise
19.00 Flash News
19.03 The fabulous
life of
SKY CINEMA 1
20.00 Flash News
20.05 Full metal
panic
20.30 Lolle
21.00 So notorius
(serie
televisiva
ispirata alla
vita di Aaron
Spelling)
22.00 The hills
22.30 Flash News
22.35 Very Victoria
23.30 Avere
vent’anni
0.00 Brand:New
1.00 Beavis &
Butthead
RADIOUNO
14.07 Con parole mie 14.30 GR1 Titoli - 14.50
News generation - 15.00
GR 1 15.04 Ho perso il
trend - 15.30 GR1 Titoli
- 15.37 Il comunicattivo
- 16.00 GR1 Affari 16.09 Baobab - 16.30
GR1 Titoli - 17.00 GR 1 17.30 GR1 Titoli - Affari
Borsa - 18.00 GR1 18.30 GR1 Titoli - 18.37
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Sera - 20.32 GR2 - 21.00
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Mezzanotte di Radio2 02.00 Radio due remix.
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Musica-La prosa verso
la poesia - 15.00
Fahrenheit - 16.00
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Damasco - 18.45 GR 3 19.00 Hollywood party 20.08 Radio3 Suite 20.00 Bella Ciao: storie
da legare - 20.30 Il
cartellone: Orchestra
Sinfonica
Nazionale
della Rai: Sostakovic
cent'anni dopo Direttore
Gianandrea Noseda 22.45 GR3 - 23.30 Il
Terzo anello. Fuochi 00.00 Il Terzo anello.
Battiti.
18
l ’ultima
il manifesto
mercoledì 18 ottobre 2006
Balcani d’America
Sul dopoguerra le ombre delle responsabilità della Cia
Protestano nella capitale
della Federazione
croato-musulmana, contro
le espulsioni e per la
cittadinanza, i familiari
degli ex mujaheddin che,
grazie agli Usa e
all’Arabia saudita,
combatterono contro i
serbi e i croati nella guerra
interetnica del 1992-1995
Sarajevo, «Non
calpestate i nostri
diritti», protestano i
familiari degli ex
mujaheddin a rischio
espulsione. Foto ap
Tommaso Di Francesco
Inviato a Sarajevo
S
e parliamo di facciate, Sarajevo
sta faticosamente uscendo dalla guerra. Le case del centro storico sono quasi tutte ridipinte e
restaurate, le due Torri della capitale
della Federazione croato-bosniaca, ridotte un colabrodo e annerite dalle cannonate e dagli incendi dellaa guerra,
svettano ora rilucenti di vetrate nuovissime che riflettono in lontananza le
sempre disastrate case della periferia.
Ma altre ombre e i fantasmi della guerra restano ben presenti e duri a morire.
Non parliamo dei risultati delle recenti
elezioni, vinte, si dice, dai «moderati»,
in realtà sull’orlo del precipizio visto
che la parte musulmana chiede la fine
della Repubblica serba di Bosnia uscita
da Dayton, quella serba è pronta per ritorsione all’indipendenza e l’Hdz, storico rappresentante dei croati, è in frantumi surclassato dai «socialdemocratici croati» che in realtà hanno avuto i voti dei musulmani. Un bel caos istituzionale. Sul quale si affacciano nuovi movimenti come i giovani musulmani, serbi e croati di «Tutto completo» che prima del voto hanno sfilato con la loro «rivoluzione colorata» contro la corruzione imbrattando di vernice il portone
della presidenza bosniaca «falsamente
tripartita». Insieme ai ritrovamenti dell’ultim’ora di nuove fosse comuni,
emergono anche pericolose iniziative
che riaprono davvero le non rimarginate ferite di guerra. Parliamo della protesta degli ex mujaheddin e dei loro familiari per evitare l’espulsione.
Il ruolo di Izetbegovic
Nel 1992-1993 entrarono in Bosnia
Erzegovina circa tremila combattenti
islamici - altre fonti parlano di seimila per soccorrere l’esercito della Bosnia
musulmana del presidente Alja Izetbegovic, grazie al ruolo di intermediazione dell’Arabia saudita che divenne lo
sponsor ufficiale di queste partenze,
dall’Algeria al Libano, dall’Afghanistan
al Pakistan, ma soprattutto grazie al
permesso dell’Amministrazione Usa
guidata allora da Bill Clinton che autorizzò la Cia a garantire gli «arrivi». I circa tremila mujaheddin così, ipergarantiti dai paesi musulmani e dagli Stati
uniti, ricevettero passaporto bosniaco,
combatterono e insieme commisero
Da Sarajevo
a Guantanamo
stragi efferate a danno dei civili dell’altra parte - serbi e croati - e terrorizzarono spesso anche la stessa popolazione
musulmana di Bosnia abituata a costumi ben diversi da quelli integralisti, tanto da provocare - accadde a Travnik sollevamenti popolari di chi malsopportava le proibizioni contro le donne.
Molti di loro erano veterani dell’Afghanistan e, probabilmente, fra loro in un
primo tempo c’era lo stesso Osama bin
Laden, ma le autorità di Sarajevo lo
hanno più volte smentito. Dopo gli accordi di Dayton, duemila di loro sempre con lasciapassare della Cia lasciarono la Bosnia per tornare a casa o in altri
fronti di guerra. Un migliaio decise di
restare. Ma dopo l’attentato sventato
durante la visita del papa a Sarajevo nell’ottobre 1996 e soprattutto dopo l’11
settembre 2001, i mujaheddin fino a
quel momento considerati eroi e beniamini della guerra contro i serbi, sono diventati colpevoli di quasi tutti i crimini
commessi dall’esercito regolare musulmano e dalle milizie alle dipendenze dirette dell’ex presidente Izetbegovic.
«Basta ingiustizie»
Ora da molte i rappresentanti e i familiari di circa 600 di loro sono in piazza da molte settimane, spesso davanti
alla sede del parlamento di Sarajevo dove sostano da un mese le tende dei contadini bosniaci che accusano il governo di favorire le importazioni agricole
europee a danno dei contadini locali.
Gli ex combattenti mujaheddin si raccolgono nell’organizzazioni di veterani
«Ensarije». Protestano contro la richiesta dell’Unione europea che pone co-
me condizione per l’ingresso in Europa della Bosnia la revisione di tutte le
cittadinanze concesse al momento della guerra, e soprattutto contro una commissione governativa che ne ha già revocate 150 con espulsione immediata
degli interessati e che sta valutando i
metodi utilizzati per ottenerle. «Non è
vero che abbiamo pagato mille marchi
e che abbiamo corrotto qualcuno per
averle - sostiene Abu Hamza, portavoce dell’organismo dei veterani - le cittadinanze le abbiamo avute regolarmente dal governo dell’epoca, chiedete a lo-
Reingaggio in serbo
Per Kabul la Nato pensa a Belgrado e Podgorica
Gli Stati uniti, non contenti di avere prima portato i mujaheddin a
combattere in Bosnia e ora di trasferirli a Guantanamo come terroristi di Al
Qaeda, magari passando per Camp Bondsteel nel protettorato del Kosovo,
cercano ora un reingaggio militare dei serbi. Per confermarli nel ruolo
storico, da loro sempre rivendicato, di guardiani dell’Occidente contro le
«invasioni» da Oriente. E’ tutto confermato, da atti parlamentari e solide
fonti giornalistiche. Non basta che nel 2003, di fronte alle difficoltà del
«fronte dei volenterosi» di portare truppe nell’avventura della guerra
all’Iraq, chiesero a Belgrado di discutere il possibile invio di reparti serbi è agli atti del parlamento della Serbia. Ora il presidente serbo Boris Tadic mentre si confermano insieme, strabicamente, buoni rapporti con la Nato
e dure pressioni perché i serbi accettino l’indipendenza del Kosovo - nel
suo recente viaggio negli Usa ha avuto modo di ratificare un accordo
militare con Washington. Difficile immaginare, se resta la pressione sul
«Kosovo indipendente» ogni coinvolgimento serbo in guerre in corso. Anche
se il «Financial Times» ha raccontato a settembre che la Nato, che pure
solo 7 anni fa ha bombardato la Serbia, ha chiesto anche a Belgrado
l’invio di truppe nella guerra afghana. Così la diplomazia Usa aggira
l’ostacolo. E il ministro della difesa Donald Rumsfeld è corso a Podgorica
da Milo Djukanovic a congratularsii per l’indipendenza dalla Serbia e a
proporre l’utilizzo del nuovo esercito del Montenegro (già parte di quello
serbo-montegrino) nelle missioni della Nato all’estero. A cominciare
dall’Afghanistan dove, anche da Est, cominciano pesanti defezioni.
ro. Ora noi ricorreremo alla Corte di
Strasburgo dei diritti umani e la nostra
causa è difesa negli Stati uniti da un
grande studio legale».
I legali americani denunciano
Abu Hamza non dice tutta la verità,
ma l’entrata in scena di avvocati americani è reale. Un gruppo di legali americani ha infatti fatto causa alla Bosnia Erzegovina alla Corte di Strasburgo per la
violazione dei diritti di sei algerini consegnati dalle autorità di Sarajevo a
Washington e in seguito rinchiusi nel
carcere di Guantanamo. I sei, Bensayah Belkacem, Boudella el Haji, Hakmar Boumedienne, Sabir mahfouz Lahmar, Mustafa Ait Idr e Mohammed Nechle, erano arrivati in Bosnia Erzegovina per combattere a fianco dei confratelli musulmani nella guerra interetnica del 1992-1995, grazie alla triangolazione tra Usa-Arabia saudita e Iran che
garantì l’arrivo di combattenti e armi il Washington Post parlò di una nave intera di armi arrivata dai porti Usa alla
Croazia formalmente alleata dei musulmani. I sei, come altri 600 mujaheddin,
sono rimasti in Bosnia dopo aver sposato donne del posto regolarizzando così
la loro cittadinanza, gestendo spesso
centri islamici, campi di addestramento e indrottinamento. Secondo l’intelligence americana erano legati alla rete
di Al Qaeda e per questo sono stati arrestati in Bosnia alla fine del 2001 dopo
l’intercettazione di telefonate dove veniva pianificato un attentato all’ambasciata Usa di Sarajevo. Tutti in seguito
vennero rilasciati per mancanza di prove, ma le autorità di Sarajevo li hanno
lo stesso consegnati nelle mani dell’intelligence Usa che li ha portati subito a
Guantanamo con «trasferimento illegale», «senza prove» e in virtù degli «speciali legami» che intercorrono tra Sarajevo e Washington, accusa da Boston
il noto avvocato Wilmer Hale.
Le autorità musulmane di Sarajevo
ponziopilatescamente ora fanno orecchie da mercante su quei «lasciapassare» del ’92-’93: vorrebbe dire mettere in
discussione il padre della patria Alja
Izetbegovic. Rincarando la dose. In
una intervista al quotidiano Nezavisne
novine un portavoce del ministero degli interni ha denunciato che nella lista
dell’Onu dei terroristi affiliati ad Al Qaeda ci sono almeno tre stranieri con cittadinanza bosniaca: sono tre tunisini,
Mahrez ben Mahmud ben Shashi al
Amandani, Shafik ben Mohamed al
Ajadi e Halil Ben Ahmed, tutti con «residenza a Sarajevo», ma che ora, rassicurava il funzionario, hanno fatto perdere
le loro tracce. Se catturati, la loro destinazione è una sola: Guantanamo.
«Stop nepravdi» «Basta ingiustizie»,
gridano gli striscionbi e i cartelli portati
dai bambini che in arabo ripetono
«non vogliamo consegnarvi i nostri padri», «vogliamo i nostri diritti» gridano i
familiari dei mujaheddin e tante donne con il velo, molte coperte completamente dal niqab nero, che ricordano
come molti di loro erano in Bosnia anche prima della guerra interetnica.
La motosega di Vozuci
Ha fatto molto scalpore la polemica
sollevata dal coraggioso settimanale
Dani che in un servizio sulla protesta
dei veterani, faceva parlare in piena
campagna elettorale Alja Redzic, candidato dell’Sda (storico partito musulmano di Izetbegovic) per il cantone di Zenica e Doboj. Redzic ha accusato Dani
di avere enfatizzato quel che è accaduto nel 1993 a Vozuci, località bosniaca
dove le milizie musulmane regolari e i
mujaheddin si macchiarono di stragi
contro civili e militari serbi prigionieri.
«Io c’ero a Vozuci - ha dichiarato il politico che difende la protesta dei veterani
- e dico che sono tutte menzogne, non
vi permetto di parlare dei miei fratelli
come dei criminali». Nel resoconto Dani conclude chiedendosi come deve essere definito, se non crimine, quello
che - confermato da testimoni, anche
al Tribunale dell’Aja - è accaduto a
Vozuci, dove tra le altre atrocità, i soldati serbi prigionieri venivano appesi con
corde alle porte di uno stadio di calcio
e squartati con motoseghe davanti agli
occhi delle scolaresche locali.
Sorprende che pochi s’interroghino
sull’ennesimo paradosso balcanico. Prima venivano trasportati «legalmente»
dalla Cia a Sarajevo per combattere per
gli alleati di turno degli Usa come già in
Afghanistan, adesso, sempre con voli
della Cia, raggiungono «illegalmente»
Guantanamo. Chi è il criminale?