mente estesa: una rivoluzione a metà?
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mente estesa: una rivoluzione a metà?
RICCARDO MANZOTTI E PAOLO MODERATO MENTE ESTESA: UNA RIVOLUZIONE A METÀ? È possibile individuare la base fisica dei processi mentali? Molti neuroscienziati reputano che tale sostrato fisico sia interno al sistema nervoso (Kim 1993; Jennings 2000; Zeki 2001; Bennett e Hacker 2003; Tononi 2008). Filosofi come Jaegwon Kim sostengono che «Se tu sei un fisicalista di qualsiasi tipo, [...] accetti la sopravvenienza locale dei qualia» (Kim 1996, 159). Neuroscienziati come Atti Revonsuo pensano che «esistono convincenti prove circa il fatti che i processi interni al cervello sia sufficienti a produrre la mente cosciente» (Revonsuo 2000, 58). Eppure non tutti credono che la mente sia solo il prodotto dell’attività cerebrale. La posizione, apparentemente egemone, delle neuroscienze quali future scienze della mente comincia a essere criticata (Bennett e Hacker 2003; Manzotti e Moderato 2010). Tra gli altri, Jan Koenderink ha sostenuto che: «Per dirla chiaramente: dato che la mente non si trova nel cervello, perché continuare a cercarla dentro l’attività nervosa? [...] la mente è ben lontana dall’essere un prodotto del cervello, ma è il frutto dell’interazione tra cervello, corpo e ambiente esterno» (1999, 1181). In questo dibattito, ha acquistato particolare forza la posizione della mente estesa spesso ricondotta a un provocatorio articolo eponimo di Andy Clark e David Chalmers (in ordine di confidenza nella tesi espressa, Clark e Chalmers 1998). In realtà, tale idea ha una lunga serie di predecessori (Holt 1914; Kantor 1969; Gallagher 2009) sui quali qui non ci soffermeremo per evidenti limiti di spazio. È proprio per fare un bilancio di questo dibattito che Michele Di Francesco e Giulia Piredda (D&P nel seguito), nel loro articolo bersaglio, sintetizzano alcune posizioni chiave nella discussione contemporanea sulla mente estesa. Nel nostro breve commento vogliamo sottolineare ulteriormente due aspetti cruciali e intrecciati: la tipologia di mente e il criterio di appartenenza. Il primo punto riguarda la contrapposizione tra mente cognitiva e mente fenomenica. Il secondo punto considera il criterio in base al quale un fenomeno è parte di un altro. SISTEMI INTELLIGENTI / a. XXIV, n. 1, aprile 2011 65 1. TIPO DI MENTE L’articolo originale di Clark e Chalmers sulla mente estesa non specifica esattamente a quale tipologia di mente o di contenuti mentali si faccia riferimento. E, infatti, nella letteratura si sono determinate due correnti di pensiero (con altrettanti detrattori). Alla prima corrente appartiene chi considera soltanto gli aspetti cognitivi della mente (disposizioni, credenze, processi funzionali in grado di tradursi in azioni concrete); una posizione che ha generato un vivace e articolato dibattito circa i limiti della cognizione (Adams e Aizawa 2008; Adams e Aizawa 2009; Robbins e Aydede 2009; Stewart, Gapenne e Di Paolo 2010). Questa linea, abbastanza conservatrice, è quella più vicina alla posizione originale espressa dall’articolo di Clark e Chalmers che parlava soprattutto di «cognizione estesa» (Clark e Chalmers 1998, 12). Tuttavia molti sono rimasti insoddisfatti e attendevano una presa di posizione precisa circa la mente fenomenica. È stato lo stesso Chalmers a chiarire questo punto nella prefazione di un loro lavoro recente (Clark 2008): «Alla fine rimane la domanda cruciale: anche la coscienza può essere estesa?» Chalmers fornisce una risposta sostanzialmente negativa e molto cauta: è plausibile che sia proprio la parte non cosciente della mente a estendersi. Non credo vi siano motivi di principio che escludano che le basi fisiche della coscienza possano estendersi. [...] Tuttavia penso sia improbabile (2008, xiv). E la spiegazione sarebbe che: le basi fisiche della coscienza richiedono accesso diretto all’informazione attraverso una banda passante molto ampia [...] la ridotta banda passante tra noi e l’ambiente sembra inadatta alla coscienza (2008, xiv-xv). Si tratta di considerazioni che fanno appello più al senso comune che ad argomentazioni stringenti empiriche o teoriche. Per esempio, per quale motivo l’esperienza cosciente dovrebbe richiedere una banda passante ampia? E che cosa si intende per ampio nel caso della coscienza? Esistono esperimenti che sembrano mostrare il contrario, ovvero che una ridotta quantità di informazione è in grado di stimolare complessi contenuti fenomenici (Quiroga et al. 2008). Si tratta senz’altro di un punto che meriterebbe maggiore approfondimento. Molti altri autori hanno preso in considerazione esplicitamente la possibilità che il mondo esterno abbia un ruolo nel costituire la mente non solo nei suoi aspetti cognitivi, ma anche per quanto riguarda l’esperienza fenomenica (Rockwell 2005; Honderich 2006; Manzotti 2011a; 2011b) suggerendo vari modelli che tendono a far dipendere l’esperienza fenomenica dallo stato fisico di cose o processi esterni al corpo del soggetto. Si tratta di posizioni sicuramente più radicali di quella espressa 66 da Clark, ma che hanno il vantaggio di considerare apertamente tutti gli aspetti della mente. In quest’ambito di esternismo fenomenico è giusto citare anche l’enattivismo (O’Regan e Noë 2001) che però, soprattutto nelle ultime versioni (Noë 2004; 2009; O’Regan 2011) sembra ricadere in forme di funzionalismo e quindi incapace di risolvere i limiti del funzionalismo rispetto alla coscienza (dallo spettro invertito al problema degli zombie). 2. COSTITUTIVITÀ O APPARTENENZA Un altro problema che emerge con grande forza nella discussione sulla mente estesa è il problema della costitutività o appartenenza. In generale, in quali circostanze un fenomeno fisico può dirsi parte di un altro? Nello specifico, quando un processo funzionale è parte della mente di qualcuno? Il principio di parità è un tentativo di dare una risposta a questa domanda, ma ha due limiti. Il primo limite è che tale domanda non ha basi empiriche. In altri termini, il fatto di attribuire a un certo processo fisico un ruolo funzionale è criticabile in quanto il processo in questione ha un ruolo funzionale solo in relazione a un certo soggetto. La spiegazione quindi rischia di soffrire di circolarità: questo taccuino ha un ruolo funzionale perché serve a Otto per andare al museo, ma Otto è proprio il soggetto funzionale che dovremmo spiegare in quanto insieme di processi. La circolarità è evidente. Il secondo motivo di debolezza del principio di parità riguarda la sua incapacità di definire in modo autonomo il soggetto. Ovvero, immaginiamo di non avere soggetti completi e di doverne costruire uno. Supponiamo di essere degli ingegneri robotici. All’inizio tutti i processi che utilizziamo sono semplici processi fisici. Man mano li combiniamo insieme, sembrano acquistare un ruolo funzionale, ma tale ruolo è attribuito da noi o generato dal loro interagire reciproco? Su questo il principio di parità non dice nulla in quanto assume che esista un livello funzionale che dipende dall’esistenza di soggetti. Per un attimo dimentichiamo i limiti del principio di parità e torniamo alla domanda di base: quando qualcosa è parte di qualcos’altro? È una domanda che va oltre il problema della mente e che richiede di indagare sulla struttura fondamentale del mondo. Il mondo, così come si offre alla nostra esperienza, è fatto di unità macroscopiche: persone, oggetti, sistemi fisici, pattern, processi... menti, persino. Noi sappiamo che ognuna di tali unità è scomponibile in parti più piccole. Sulla base di quali criteri le parti fanno parte delle unità? Perché il mio piede è parte del mio corpo? Perché i giocatori dei Red Bulls fanno parte di una squadra? Perché un mattone fa parte del Colosseo? Perché un pixel fa parte di una figura? Esiste un’ampia letteratura che indaga sulla natura degli interi e sui criteri relativi alla loro composizione (Simons 1987). 67 Stupisce che la maggior parte dei sostenitori della mente estesa, nel momento in cui ci si interroga su un caso particolare quale la relazione tra parti funzionali e mente, non consideri tale letteratura. Anche perché una delle possibilità è che l’intero a cui far riferimento (mente, persona, sé, soggetto d’esperienza) non esista affatto, ma sia solo una somma mereologica di processi funzionali. Alcuni autori hanno recentemente preso in considerazione in modo esplicito questo problema definito «il problema della composizione» (Goff 2006; Mellor 2006) rispetto alla possibilità che esperienze, processi cognitivi, credenze possano combinarsi insieme. D’altronde, già William James si interrogava su cosa unisse insieme dieci pensieri distinti e Cartesio si poneva inquietanti domande su che cosa legasse insieme i rintocchi consecutivi di una campana che segnava le ore. Nel caso della mente abbiamo un caso particolare di un problema molto generale: perché due processi funzionali debbano unirsi e debbano essere considerati parte di una totalità più ampia? La nozione di mente non è altro che un insieme di processi legati insieme da null’altro se non un riconoscimento esterno? Il sé ha solo una esistenza forense, ricordata da D&P, quale quella suggerita dai modelli bundle della mente (Stubenberg 1998; Rosenberg 2004)? A questo proposito, si può notare come la formulazione che D&P danno di questo problema – nel momento in cui delineano la fallacia della costitutività – non sia la più generale possibile. D&P scrivono che tale fallacia consiste nel credere che «l’abbinamento causale tra X e Y implichi che X sia parte di Y». Tuttavia, esprimendosi in questo modo, implicano che esista un Y che corrisponda al totale. Una formulazione più corretta non dovrebbe assumere a priori l’esistenza di Y, ma piuttosto chiedersi se, dati due processi X1 e X2, non esista un qualche tipo di intreccio causale che giustifichi 1) l’esistenza di un’ulteriore entità o processo unitario Y costituito da entrambi e 2) l’appartenenza di X1 e X2 a tale processo unitario Y. Proprio all’inizio del loro articolo D&P individuano subito questo aspetto critico e sono costretti a indicarlo con diversi termini: «l’ambiente esterno al soggetto ha talvolta un ruolo così essenziale», «la mente si estende», «i contenuti dei nostri stati mentali dipendono», «la base materiali dei processi», «essere causalmente coinvolti», «essere causalmente abbinati». Si tratta di altrettante espressioni che contengono il problema evidenziato qui: quando un processo appartiene o, semplicemente, è parte della mente. È proprio questa appartenenza e costitutività a essere uno degli elementi che distinguono la mente estesa (e altre posizioni collegate) dal funzionalismo classico. La mente estesa ha le risorse per rispondere a questo vaghezza? Come accennato all’inizio, crediamo di no. Da un lato non riesce a sottrarsi alla circolarità del funzionale: come definire un ruolo funzionale in assenza di soggetti? D’altro lato, negli scritti dei sostenitori della mente estesa 68 si trova spesso una argomentazione debole: un processo apparterrebbe al soggetto nel momento in cui assurge allo stato di processo cognitivo. Si tratta di una argomentazione, a nostro avviso, assai debole perché suggerisce l’appartenenza a un genere naturale quale «collante» tra processi. È una linea di pensiero debole per almeno due motivi: 1) non è chiaro se il cognitivo sia un genere naturale e 2) l’appartenenza allo stesso genere è una debole criterio di unione. Per motivi di spazio non discutiamo il secondo punto, ma ci concentreremo sul primo. 3. COGNIZIONE: UN GENERE NATURALE? Visto il ruolo fondamentale che la dimensione cognitiva svolge nel delineare i confini della mente, si capisce perché nella letteratura sulla mente estesa (e non solo) ha avuto tanto interesse il tentativo di dare alla cognizione lo status di genere naturale (Menary 2007; Adams e Aizawa 2008; van Boxtel e de Regy 2010) magari facendo ricorso alle nozioni di cognizione situata o incarnata (Anderson 2003; Robbins e Aydede 2009). Se questa strategia avesse successo, molti modelli della mente avrebbero trovato un fondamento sicuro e ci si potrebbe sbarazzare di altri ingrati dilemmi quali la coscienza fenomenica (Baars 1988; Shanahan 2010). Chalmers e Clark – e anche D&P – sembrano accettare la nozione di cognizione quasi come se fosse un genere naturale. Anzi, gran parte del dibattito da loro delineato (per esempio Rupert 2009) tratta la cognizione con grande disinvoltura quasi fosse possibile distinguere tra attività cognitive e processi fisici. Non è detto che sia così facile. Lo stesso Chalmers, anni priva, aveva provato a delineare i fondamenti della cognizione ricorrendo ad altri argomenti quali la teoria della computazione (Chalmers, in corso di stampa). Tuttavia l’interrogativo rimane aperto. La cognizione è definibile in qualche modo autonomo o è soltanto un concetto utile ma ontologicamente vuoto? In altri termini, la cognizione è qualcosa di reale o è soltanto un atteggiamento epistemico alla stregua di altri atteggiamenti quali quello intenzionale? Molti autori trattano una serie di concetti quali – l’informazione, la computazione e la cognizione – come se fossero effettivamente qualcosa di aggiunto rispetto alla concatenazione causale dei processi fisici (consideriamo per esempio lo status ontologico che l’informazione, quasi fosse una sostanza, acquista in alcuni recenti tentativi delle neuroscienze: Tononi 2004; Ward 2011). È una posizione che richiederebbe un fondamento empirico o argomentativo che finora sembra mancare. Come uscire da questo apparente impasse? Ci permettiamo di avanzare due suggerimenti che, finora, potrebbero non essere stati considerati adeguatamente. Il primo è proprio la coscienza. Invece di cercare di fondare la coscienza sulla cognizione si potrebbe tentare l’approccio inverso. In 69 fin dei conti, si potrebbe anche sostenere, contro un’opinione diffusa, che ogni fenomeno cognitivo è tale in quanto legato direttamente o indirettamente a un momento di coscienza. Siamo consapevoli che gran parte dei teorici delle scienze cognitive sarebbero fermamente contrari a questa conclusione, eppure lo stesso Chalmers, nel proporre i criteri per l’individuazione della mente estesa, non può far altro che riferirsi alla coscienza. Come ricordano D&P, il quarto criterio di individuazione per la mente estesa consiste nel fatto che l’informazione coinvolta sia stata coscientemente accolta nel passato. Una mente cognitiva, senza alcun momento di consapevolezza cosciente, sarebbe forse una mente? Come distinguerla da complessi processi causali quali quelli che avvengono nel nostro fegato o nel nostro sistema immunitario? In fondo non è la complessità il marchio della mente, ma il fatto che prima o poi dia luogo a un momento di esperienza. Il secondo suggerimento riconsidera la lunga tradizione della psicologia e, in particolare, il comportamentismo che, fin dagli inizi, rifuggiva dalla definizione di un livello mentale (fosse esso cognitivo, funzionale, simbolico, rappresentazionale, o altro), ma tentava di collocare la mente nel nesso tra mondo e corpo (Kantor 1969; Zuriff 1985) evitando ogni affermazione ontologicamente ingenua. A tale proposito è bene ricordare come la discriminazione dei propri stati interni fu concettualizzata da Skinner come risposte a una combinazione di contingenze (risposta Autoclitica) laddove tali contingenze sono combinazioni di eventi ambientali che possono anche comprendere il comportamento dell’agente, sia pure in momenti precedenti (Skinner 1957). Skinner amplia questa analisi a includere tutti i processi complessi che vengono attribuiti alla «mente». L’accento è posto sui fattori esterni, e sulla loro combinazione. In questo senso è possibile definire (anche empiricamente) la mente in termini di processo al pari di qualsiasi comportamento motorio, come il «rispondere a particolari condizioni stimolo», senza implicare alcuna elaborazione interna di immagini e prefigurando alcune posizioni dell’esternalismo. Il modello skinneriano è stata recentemente e ulteriormente (Haynes, Barnes-Holmes e Roche 2001) elaborato dai teorici della Relational Frame Theory (FT) che, sulla base di un filone di ricerche avviato nei primi anni Ottanta e ancora in pieno sviluppo hanno ampliato il concetto skinneriano di stimulus control, dimostrando come una risposta a una classe di stimoli non deve essere necessariamente appresa tramite una specifica esperienza diretta ma può essere «derivata» da esperienze indirette precedenti che in ogni caso rimandano a contesti esterni. In conclusione, potremmo unire i due suggerimenti (prendere sul serio la dimensione cosciente della cognizione e cercare un fondamento ontologico esterno della mente) e tentare di individuare un fondamento neutro per la mente cosciente in cui trovino posto anche la cognizione e la mente estesa come casi particolare di un problema più ampio: la natura relazionale della realtà e la nostra collocazione in essa. 70 RIFERIMENTI BIBLIOGRAFICI Adams F. e Aizawa K. (2008), The bounds of cognition, Oxford, Blackwell. Adams F. e Aizawa K. (2009), Why the mind is still in the head, in P. Robbins e M. Aydede (a cura di), The Cambridge handbook of situated cognition, Cambridge, Cambridge University Press, pp. 78-95. Anderson M. (2003), Embodied cognition: A field guide, in «Artificial Intelligence», 149, pp. 91-130. Baars B.J. (1988), A cognitive theory of consciousness, Cambridge, Cambridge University Press. Bennett M. e Hacker P. 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E-mail: riccardo.manzotti@ iulm.it Paolo Moderato, Istituto di Comunicazione, Comportamento e Consumi «G. Fabris» Università Iulm, Via Carlo Bo 8, 20143 Milano. E-mail: [email protected] 72