Anton Čechov - Edizioni Studium

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Anton Čechov - Edizioni Studium
Anton Čechov (1860-1904)
Nostalgia di una natura incontaminata
di Raffaele Vacca
Anton Čechov 1 iniziò a scrivere mentre in Russia si sviluppava la reazione di Alessandro III, alimentata dall’uccisione, avvenuta nel 1881,
del padre Alessandro II, che aveva compiuto la liberazione dei contadini e che, con la distribuzione di terre fra le comunità dei villaggi,
aveva messo le basi della piccola proprietà rurale nei suoi Stati.
Dapprima scrisse e pubblicò, spesso con lo pseudonimo di
Antoscia Cechontè, schizzi e bozzetti umoristici e comici, espressione di una visione di vita frammentaria. Poi, mentre l’acutissima
osservazione della vita russa lo portava a scoprire quel che di universale vi era in essa, scrisse novelle e racconti raffinati, delicati, lirici, drammatici, tragici, talvolta di struggente malinconia.
Per vari anni avvertì l’influenza di Lev Tolstoj, che all’iniquità
opponeva la non violenza. Poi vi si sottrasse, ritenendo che la
scienza e la tecnica avrebbero potuto migliorare il mondo e la vita
degli uomini. Ciò non gli tolse dall’animo il timore della futilità e
dell’inutilità delle cose umane, dell’impotenza dell’uomo a uscire
dalle sue illusioni; il timore che ogni sforzo di liberazione si infrange contro il pregiudizio, l’abitudine, l’inganno, e che tutto ciò
porta all’indifferenza e alla passività, che sono paralisi dell’anima
e morte anticipata. Ma nel suo animo restava anche la convinzione, espressa in una delle sue ultime novelle, La conca, che, «nel
mondo di Dio», la verità esiste ed esisterà ancora, come una notte
silenziosa e bellissima, e tutto sulla terra aspetterà soltanto di fondersi con la verità, come il chiaro di luna si fonde con la notte.
Per Čechov vivere in quella tranquillità e in quella serenità, alle quali tutti gli uomini tendono, sarebbe possibile se non ci fos-
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sero, inspiegabilmente, incomprensioni, incompatibilità, ostilità,
odio, come avviene nel racconto Villa Nuova.
Jelena Ivànovna, figlia di un commerciante di Mosca, uomo
del popolo, ha sposato l’ingegnere Kuceròv, al quale i suoi aristocratici e ricchi genitori non hanno perdonato il matrimonio.
Jelena e Kuceròv hanno quattro figli, che sono sempre malati.
Kuceròv ha costruito per il governo un enorme ponte, a poca distanza da un villaggio. Sul ponte passerà il treno. Jelena si innamora delle rive del fiume, della magnifica vista della valletta con
boschi, prati, piccoli villaggi, chiese, armenti, e prega il marito di
comprare un piccolo appezzamento di terra e di costruirvi una villa dove andare ad abitare.
L’ingegnere Kuceròv acconsente e costruisce una bella villa a
un solo piano con terrazzo, balconi, torre e con una guglia sulla
quale, durante la domenica, sventola una bandierina.
Jelena, che è quieta, buona, mite, caritatevole, e Kuceròv si
sforzano di vivere in armonia con la gente del villaggio. Ma alcuni, come Lic’hov padre, Lic’hov figlio, Kosov, Volod’ka si rivelano ostili e ottusi. Con continui dispetti, danneggiamenti, furti, incutono paura a Jelena e alla figlia e portano alla disperazione Kuceròv, fino a costringerli a ritornare a Mosca e a vendere la villa.
Dopo la loro partenza, alla gente del villaggio sembra che i
due cavalli bianchi, i piccoli pony, i fuochi d’artificio, la barca con
le lanterne che a sera scivolava sul fiume, la bella, elegante signora che parlava affabilmente non siano mai esistiti; sembra che tutto sia stato solamente una fiaba o un sogno.
Solo chi non ha esperienza di come va il mondo potrebbe
considerare un paradosso il finale del racconto.
La villa viene acquistata da un arcigno e borioso funzionario,
che parla e tossisce come un impiegato molto importante, quantunque non lo sia, che viene da tutti rispettato, quantunque non
risponda ai contadini che si inchinano quando l’incontrano. A lui
nessuno osa toccar qualcosa.
Non possiamo ritenere Anton Čechov un difensore della natura. Ma bisogna riconoscere che, da sensibilissimo scrittore, avvertì uno dei problemi che maggiormente stavano interessando
l’umanità: la distruzione delle foreste e l’ampliarsi di una terra arida e desolata.
Ne incominciò a parlare ne La zampogna, scritta nel 1887, che
richiama alla mente l’immortale prima bucolica di Virgilio.
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I protagonisti della bucolica di Virgilio sono due pastori del
mantovano: Titiro e Melibeo.
In un tardo pomeriggio d’autunno, Titiro se ne sta nel suo podere, seduto sotto un largo faggio, guardando l’armento e traendo
tenui melodie dalla canna di un flauto.
Di lì passa Melibeo con le sue capre. Ha dovuto lasciar tutto:
la sua capanna, il suo focolare, le sue fonti, i suoi dolci campi a
uno dei soldati veterani di Cesare. Con l’animo pieno di dolore e
di nostalgia, deplorando le discordie e le guerre civili, va verso un
luogo sconosciuto, forse verso l’Africa assolata, forse verso la Scizia dai fiumi turbinosi e travolgenti, forse verso la Britannia, confine estremo dell’Occidente. Le sue capre non andranno più al
consueto pascolo, non brucheranno più il citiso in fiore, che particolarmente amano, né l’amaro salice, glauco e flessibile. E lui
non canterà più canzoni. Titiro invece, per volere di Augusto,
continuerà a vivere tra ciò che gli è caro, resterà tra i noti rivi e le
sacre fonti. Continuerà a trarre dolci melodie dal suo flauto.
L’egloga termina con Melibeo che si allontana con il suo gregge, mentre lontano fumano le capanne e dagli alti monti scendono
le ombre.
Due sono anche i protagonisti de La zampogna. Uno è il cacciatore Melitòn Šiškin, intendente di fattoria che, come al solito,
se n’è andato a caccia perché la casa, dove vivono otto figli, la moglie e la suocera, gli è diventata odiosa. L’altro è il vecchio pastore
Lukà Bèdnyj. È magro, indossa un gabbano strappato, non ha
berretto, sorveglia cavalli, mucche e pecore non suoi, suona uno
zufolo costruito da sé, ma non sa prendere più di cinque o sei note, che trascina pigramente senza legarle in un motivo. Il loro incontro avviene in un piovoso mattino d’estate, mentre gli alberi
sono avvolti in una lieve nebbia.
È il suono dello zufolo che porta il cacciatore dalla boscaglia
d’abeti, ove si trova, verso il vecchio pastore, che con la sua mandria è sul limitare del bosco.
Dopo essersi salutati, concordano nel ritenere che c’è poca
selvaggina, meno dell’anno precedente, e che fra cinque anni non
ce ne sarà affatto.
Il pastore ricorda che una ventina di anni prima c’era gran quantità di oche, gru, anatre, galli di bosco, beccaccini, beccacce, alzàvole, aquile, falchi, allocchi. Il lupo e la volpe sono diventati una rarità,
per non parlare dell’orso e della lontra. Poi dice: «È venuto il tempo
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che il mondo di Dio deve perire». E aggiunge: «Quante cose buone,
Signore Gesù! Il sole, il cielo, i boschi, i fiumi, le creature, tutto è
creato, aggiustato e adattato insieme. Ogni cosa è condotta al suo
scopo e al suo posto. E tutto questo deve sparire!»
Il cacciatore replica dicendo che il mondo potrebbe anche finire, ma ciò non lo si può ricavare dalla scomparsa degli uccelli.
Il pastore aggiunge che a dare segni della prossima fine del
mondo è anche il venir meno dei pesci, è anche il seccare dei fiumi, è anche la scomparsa delle paludi, degli stagni, dei ruscelli. È
anche il continuo tagliare e bruciare dei boschi, che non ricrescono. È convinto che Dio abbia dato all’uomo l’intelligenza e gli abbia tolto la forza. E al cacciatore, che gli domanda il perché, così
risponde: «Facciamo troppi peccati, ci siamo dimenticati di Dio
[...] e vuol dire che è giunto il tempo della fine di tutto».
Prima che il cacciatore se ne vada verso il villaggio, il pastore aggiunge: «Che peccato, o Signore! La terra, i boschi, il cielo [...] e ogni
creatura, tutto è creato e messo a posto, e in tutto vi è l’intelligenza.
Tutto perisce per nulla. E più di tutto rincresce per gli uomini».
Mentre avanza verso il fiume, il cacciatore sente dietro a sé
svanire a poco a poco i lamentevoli suoni dello zufolo, fino a che,
dopo un’altra nota, tremante come uomo che piange, tutto tace.
Il problema dell’abbattimento degli alberi e della distruzione
delle foreste si ritrova in un dialogo tra Vojnickij e Chruščov, nel
primo atto di Lesij, scritto e andato in scena nel 1889.
Vojnickij, enfaticamente, dice a Chruščov che tutto quello che
ha sentito da lui in difesa delle foreste «è vecchio, poco serio e tendenzioso». Ha sentito che le foreste adornano la terra, insegnano
all’uomo a comprendere il bello, gli ispirano sentimenti sublimi,
rendono il clima più mite e più dolce, che nei paesi dove c’è un tal
clima gli uomini sono belli, agili, pronti a reagire, che il loro parlare è eloquente, i loro movimenti sono leggiadri, che tra loro fioriscono le scienze e le arti, che la loro filosofia non è cupa, che il
loro atteggiamento verso le donne è pieno di elegante nobiltà.
Chruščov specifica che è lecito abbattere foreste per bisogno,
ma non distruggerle per pigrizia umana. Invece per una tale pigrizia le foreste russe si schiantano sotto i colpi delle scuri, miliardi
di alberi periscono, le dimore degli animali e degli uccelli si svuotano, i fiumi si prosciugano e inaridiscono, paesaggi incantevoli
scompaiono irreparabilmente. Ogni giorno la terra diventa sempre più povera e desolata.
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Chruščov ritiene che l’uomo abbia la ragione e la forza creativa per moltiplicare ciò che gli è dato, ma finora non ha creato, ha
soltanto distrutto. Aggiunge che, quando pianta una betulla e poi
la vede verdeggiare e ondeggiare al vento, la sua anima si riempie
d’orgoglio, perché è consapevole di aiutare Dio a creare un organismo.
Il dire di Chruščov viene ridetto quasi integralmente da
Astrov nel primo atto di Zio Vanja, che nel 1900 Anton Čechov ricavò dal Lesij.
Astrov, come Chruščov, vorrebbe che nelle stufe si bruciasse
carbone e non legna e che i granai fossero costruiti di pietra e non
di legna.
Nel terzo atto, mostrando a Elena le piante topografiche del circondario, indica che, cinquant’anni prima, metà della superficie della zona era occupata da boschi. C’erano cervi e capre selvatiche. Sul
lago vivevano cigni, oche, anitre. C’erano uccelli di ogni specie, a
stormi, a nuvoli addirittura. C’erano villaggi e qui e là case coloniche, piccole fattorie, eremitaggi, mulini ad acqua. C’erano buoi e cavalli a non finire. Ogni casa aveva in media tre cavalli.
Venticinque anni dopo solo un terzo della zona era a boschi.
Le capre selvatiche erano scomparse; c’erano però ancora cervi.
Nel momento in cui parla il verde è ancora qui e là, ma interrotto, a chiazze. Le case coloniche, le piccole fattorie, gli eremitaggi, i mulini ad acqua sono scomparsi, così come i cervi, i cigni,
i galli cedroni.
Anche per lui tutto ciò è segno di decadenza graduale, prodotta dalla pigrizia e dalla incoscienza più cieca. Anche per lui la
distruzione dei boschi sarebbe giustificabile se avvenisse per costruire strade carrozzabili, strade ferrate, officine, fabbriche,
scuole, capaci di rendere il popolo più ricco e più evoluto.
Parla a Elena. Poi si accorge che Elena non lo segue, pensa ad
altro. È uno dei molti che nel Novecento hanno parlato del venir
meno della natura, ma non sono stati ascoltati.
Questo aveva scritto e questo era nell’animo di Anton Čechov
quando scrisse Il giardino dei ciliegi, che andò in scena al Teatro d’Arte di Mosca il 17 gennaio 1904, giorno del suo quarantaquattresimo
compleanno. L’aveva terminato nell’ottobre dell’anno precedente.
Ljubov’ Andreevna e il fratello Gaev appartengono alla nobiltà terriera che decade di giorno in giorno.
Ljubov’ Andreevna, dopo la morte del figlio e l’abbandono
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del marito, è andata a Parigi, con un amante che l’ha poi lasciata.
Gaev trascina la sua esistenza giocando a biliardo.
Si ritrovano, dopo anni, nella loro proprietà situata a venti chilometri dalla città e vicino alla ferrovia. Su di essa gravitano debiti.
La proprietà è composta dalla vecchia casa, piena di ricordi d’infanzia, della quale si è occupata Varja, figlia adottiva di Ljubov’
Andreevna, e del giardino dei ciliegi, del quale si parla nel Dizionario Enciclopedico, ma che non è più autosufficiente, giacché nessuno compra più le ciliegie che produce. La vicenda si svolge tra
maggio-ottobre.
Secondo Lopachin, ricco mercante, figlio di un servo della
gleba, la proprietà potrebbe ancora essere salvata se il giardino dei
ciliegi fosse suddiviso in piccoli lotti per costruire villini da affittare. Ma i due fratelli respingono il consiglio di Lopachin, che acquisterà il podere quando sarà venduto all’asta.
Nel finale si sentiranno le scuri che stanno abbattendo i ciliegi, mentre la casa viene abbandonata da Ljubov’ Andreevna, che
ritorna a Parigi, e da Gaev che andrà ad occupare un posto in banca, e fuori scena Anja, figlia sedicenne di Ljubov’ Andreevna, e
Trofimov, eterno studente, danno l’addio alla vita vecchia e il
buongiorno alla nuova.
Il giardino, che è al centro del dramma, non viene difeso dalla classe che l’ha ereditato e lo possiede, perché, pur alimentando
ideali di bene e di una più alta coscienza sociale, è diventata irresponsabile, stanca, apatica, e si sta dissolvendo nel lusso. Non viene difeso dalla classe che vuol liberarsi da tutto ciò che è basso,
meschino, illusorio e attende una umanità migliore e più felice,
perché non dimentica che lì hanno a lungo lavorato servi della gleba, alle spalle dei quali ha vissuto la classe possidente. Viene disintegrato dalla classe economicamente dominante, la quale, lavorando incessantemente, arricchisce se stessa, dando benessere e
prosperità e quindi costruendo anche villini di seconda residenza
per coloro che hanno casa in città.
Il giardino dei ciliegi ci ricorda che, nel Novecento, in ogni
parte del mondo, e specialmente in Italia, sono stati distrutti innumerevoli giardini, sebbene quasi ognuno fosse considerato tra i
più belli del mondo. Giardini, di ciliegi, ma anche di aranci, limoni, mandarini e di altri alberi. Giardini ma anche vigneti e uliveti.
Talvolta per costruire case per coloro che non l’avevano, spesso,
come dice Anton Čechov, per costruire villette «calcolando che a
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poco a poco dai villeggianti sarebbero nati i piccoli proprietari» di
seconde, terze e in certi casi anche di ulteriori residenze.
Piani regolatori e piani paesaggistici spesso non sono riusciti a
conservare giardini, vigneti, uliveti, sottraendoli a una speculazione, che, sostenendo che si voleva penalizzare la moderna creatività, in nome di un passato irripetibile, si è avvalsa di escamotages
per evadere le norme o di meri abusivismi. In tal modo il mondo
è diventato più povero, la terra più arida e desolata. E alla generazione attuale sono stati sottratti beni, che le generazioni successive non potranno neanche immaginare.
Dopo la Rivoluzione d’ottobre del 1917, Anton Čechov, per
qualche tempo, fu bandito dai teatri sovietici, perché considerato
non adatto a una società proletaria. In seguito fu rivalutato come
esponente del realismo critico.
In verità egli è un narratore e un drammaturgo che osserva, comprende e descrive il vivere di uomini, donne e anche bambini nella
realtà nella quale vivono, e che è spesso di ignoranza, di corruzione,
di ipocrisia, di crudeltà, di malafede, di pettegolezzi, di miserie.
Ne La mia vita scrive che i sessantacinquemila abitanti della
cittadina dove si svolge il racconto «da generazioni leggono e sentono parlare di verità, di misericordia, di libertà, e tuttavia fino alla morte mentiscono da mattina a sera, si tormentano a vicenda, e
della libertà hanno paura e l’odiano come un nemico».
Sono parole che Niccolò Machiavelli e Sören Kierkegaard, per
non citare altri, avrebbero attribuito a tanti loro concittadini e coetanei.
«Non siamo nulla, nulla c’è al mondo, noi non esistiamo, ma
solo crediamo di esistere»: così dice Čebutykin, un medico militare nel quarto atto de Le tre sorelle. E c’è chi, nello stesso dramma,
al pari di altri protagonisti di novelle e racconti di Čechov, sostiene che dopo la morte nessuno ci ricorderà e tutto svanirà nel nulla. «Che fare? Che debbo fare?» chiede invece disperatamente,
nel racconto Una storia noiosa, Kàtja a Nikolàj Stepànovič, famoso docente di medicina, suo antico tutore, che le è stato come padre, e che sta vivendo in solitudine gli ultimi giorni della sua vita.
Ma egli non sa dare una risposta. E Kàtja se ne va senza voltarsi indietro.
La vita che Anton Čechov ci descrive in molti suoi racconti è
monotona, scialba, tediosa, pesante, uniforme, snervata dalla
scontentezza di se stessi, e dalla mancanza della fiducia nella pro-
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pria opera, come dice il pittore di paesaggi in La casa col mezzanino.
Egli sostiene che «gli ambulatori medici, le scuole, le biblioteche, le farmacie domestiche, nelle condizioni esistenti servono solo ad asservire il popolo». Questo è imprigionato da una catena
immane, che non viene spezzata, ma alla quale si aggiungono nuovi anelli, introducendo nella vita degli uomini nuovi pregiudizi ed
accrescendo nuovi bisogni.
Secondo il narratore, gli uomini dovrebbero innanzitutto pensare all’anima, ricordandosi di essere a immagine e somiglianza di Dio.
Purtroppo tutte le strade verso l’attività spirituale sono sbarrate.
Lida, che è maestra elementare e, quantunque ricca, vive del
suo stipendio, gli risponde che non è possibile starsene con le
braccia conserte, quando si osserva la situazione esistente. Non si
salva l’umanità, forse si sbaglia in molte cose, ma si fa quel che si
può. Essendo il compito più alto e più santo dell’uomo civile quello di servire il prossimo, si cerca di servirlo come si può.
Ella è intenta in attività sociali, come lo fu lo stesso Anton
Čechov, il quale, come è detto in un articolo di Kornej Čukovskij,
citato da Vladimir Nabokov, «non era solo impaziente di far diventare tutto verde, di piantare alberi e fiori, di far fruttificare la
terra, era anche impaziente di creare qualcosa di nuovo nella vita.
Con il suo temperamento vitale, dinamico, inesauribilmente attivo, si dedicò non soltanto a descrivere la vita ma a trasformarla, a
costruirla. S’affacendò perché sorgesse a Mosca la prima Casa del
popolo con biblioteca, sala di lettura e auditorium; si batté per dotare Mosca di una clinica per malattie della pelle; organizzò con
l’aiuto del pittore Il’ja Rapin un museo di pittura e di belle arti a
Taganrog; iniziò la costruzione della prima stazione biologica della Crimea; raccolse libri per la scuola dell’isola di Sachalin nel Pacifico e ne spedì una grande quantità; fece costruire, l’una dopo
l’altra, tre scuole per i figli dei contadini, non lontano da Mosca, e
contemporaneamente un campanile e un corpo di vigili del fuoco
per i genitori. Poi, quando si trasferì in Crimea, vi fece erigere una
quarta scuola» 2.
A Lida il narratore replica che non bisogna dare «soltanto una
nuova esigenza, una nuova occasione di lavoro», ma bisogna aiutare gli uomini ad avere «anche il tempo di pensare all’anima, a
Dio», e di poter esplicare più largamente le proprie capacità spirituali. Aggiunge che se con l’invenzione delle macchine, che sosti-
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tuiscono il lavoro dell’uomo, e la riduzione dei figli, che evita che
si tema continuamente per essi, si lavorasse solo tre ore al giorno,
ognuno avrebbe gran tempo per cercare la verità e il senso della
vita, e per liberarsi dal «continuo, tormentoso, opprimente terrore della morte, e perfino dalla morte stessa».
Ad aiutare gli uomini a cercare la verità e a scoprire il senso
della vita potrebbe essere il teatro. Ma questo, a dire del protagonista di Una storia noiosa, non è una scuola ma uno svago. «Esso
sottrae allo Stato migliaia di uomini e di donne giovani, sani e ricchi di ingegno che, se non si consacrassero al teatro, potrebbero
essere buoni medici, agricoltori, maestre, ufficiali; sottrae al pubblico le ore serali: il tempo migliore per la fatica intellettuale e per
le amichevoli conversazioni».
Nikolàj Stepànovič si astiene dal soffermarsi sul denaro speso
e sui danni morali che riporta lo spettatore, «quando vede sulla
scena non rettamente trattati l’omicidio, l’adulterio o la calunnia».
Quel che Anton Čechov fa dire sul teatro al protagonista del
suo racconto trova riscontro in una sua lettera, nella quale scrive:
«Il teatro attuale non è superiore alla massa; al contrario: la massa
è superiore e più intelligente del teatro; il che significa che esso
non è una scuola, ma qualcos’altro».
Nikolàj Stepànovič nel racconto dice di non sapere che cosa
sarebbe stato il teatro fra cinquanta, cent’anni. Noi invece dovremmo saperlo.
Nel Novecento il teatro è stato in gran parte sostituito dalla
radio, dal cinema e dalla televisione, mentre le macchine sollevavano gli uomini da tanti lavori pesanti. Purtroppo il benessere materiale ha accresciuto i bisogni e, più che mai, le ore serali sono
state sottratte alle conversazioni e alle fatiche intellettuali. Per di
più, mentre alcuni hanno continuato a proclamare la morte di
Dio, molti altri sono diventati indifferenti a Lui. Buttandosi nell’effimero, hanno cercato di dimenticare la «paura cosmica» che,
come nota Zygmunt Bauman, è provocata dalla magnificenza dell’universo che oltrepassa l’umano, e la paura del potere che l’uomo si è conquistato e con il quale potrebbe distruggere sia la nostra civiltà che l’intera umanità 3.
Concludendo la novella Una scommessa, scritta nel 1888, Anton Čechov aveva fatto dire al quarantenne giurista, che per quindici anni aveva vissuto volontariamente in reclusione, che «tutto è
nulla, caduco, illusorio e ingannevole come un miraggio», e che
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gli uomini sono impazziti e non seguono la via giusta, hanno preso «la menzogna per verità, la deformità per bellezza» e hanno barattato il cielo per la terra.
Otto anni dopo, ne Il gabbiano, che pur vorrebbe esprimere
un vagare senza meta, Anton Čechov fa dire a Nina che quel che
conta non è la gloria, non è il trionfo, ma la pazienza, il saper portare la propria croce, e credere. E che quando si pensa alla propria
vocazione non si ha paura della vita.
Questo seguire la propria vocazione, rivelata magari dalle necessità, portando la propria croce, senza aver paura della vita, lo
esprime anche Sonja nel finale dello stupendo Zio Vanja. Rivolgendosi allo zio dice: «...vivremo. Vivremo una lunghissima serie di
giorni, di lente serate; sopporteremo pazientemente le prove che ci
manderà la sorte; lavoreremo per gli altri, adesso e quando saremo
vecchi, senza riposo. Quando giungerà la nostra ora, moriremo
tranquilli, e là, oltre tomba, diremo che abbiamo sofferto, che abbiamo pianto, che abbiamo provato tanti dolori... e Dio avrà pietà
di noi. Vedremo allora una vita luminosa, bella, splendente. Gioiremo e guarderemo alle sventure d’oggi con tenerezza, sorridendo... e
riposeremo in pace. Credo, credo fortemente, credo con tutta l’anima. Riposeremo in pace! Sentiremo le melodie degli angeli, vedremo tutto il cielo sfolgorante di brillanti, vedremo tutto il male terreno e tutte le nostre sofferenze annegare nella misericordia che
inonderà il mondo... e la nostra esistenza diventerà serena, soave,
dolce come una certezza... Io credo, credo...»
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NOTE
1 Anton Čechov morì cent’anni fa, e precisamente il 2 luglio 1904, a Badenweiler,
famosa stazione termale della Selva Nera in Germania. Era nato il 17 gennaio 1860 a Taganrog, nella Russia meridionale, da un commerciante, figlio di un servo della gleba che
si era riscattato. Nel marzo del 1886 si era laureato in medicina all’Università di Mosca.
Scrisse racconti, novelle e opere teatrali, oltre ad alcune opere minori. Nel 1899 scelse,
rivide e rielaborò una parte dei racconti e delle novelle, che raccolse in volume. Quelli
accettati sono 240. Le opere teatrali sono quattordici, otto in un atto, sei in quattro atti.
Tra queste ci sono: Il gabbiano (1896), Zio Vanja (1900), Tre sorelle (1901), Il giardino dei
ciliegi (1904), che per tutto il Novecento sono state nel repertorio di teatri di tutto il
mondo e sono state continuamente ristampate in molte lingue.
2
Vladimir Nabokov, Lezione di letteratura russa, Milano 1987, p. 281.
3
In Rivista del clero italiano, I, gennaio 2004, pp. 42-49.