testo Giusti, restauro della Porta del Paradiso

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testo Giusti, restauro della Porta del Paradiso
L’oro del Ghiberti: il restauro della Porta del Paradiso
di Annamaria Giusti
Il restauro della Porta del Paradiso, finalmente portato a termine dall’Opificio delle Pietre Dure,
vede la conclusione di un lavoro avviato nel 1978, e la cui complessità e durata sono stati commisurati all’
impegno richiesto a suo tempo dalla realizzazione della Porta, che occupò gli anni dal 1426 al 1452. Si è trattato di un evento cruciale, nella così qualificata attività di restauro che fa del nostro paese
uno dei poli di eccellenza in questo ambito, ed ha coinvolto nel tempo uno staff numeroso di restauratori,
Soprintendenti, responsabili dell’Opera di Santa Maria del Fiore, direttori dei lavori, esperti scientifici e
tecnici del bronzo, affiancati o succedutisi nei diversi impegni, in una sorta di ben orchestrata “staffetta”, che
ha garantito continuità di metodo e di risultati. Prossimamente, una pubblicazione a cura dell’Opificio raccoglierà la summa delle esperienze e degli
studi legati al restauro della Porta, per documentare un lungo percorso di ricerca e operatività, e dare conto
delle ragioni che hanno decretato per questo capolavoro la fine della sua permanenza in esterno, durata più
di mezzo millennio. Macchina complessa e perfetta, la Porta del Paradiso si compone di due poderose ante, del peso di
quasi 40 quintali ciascuna, alte cinque metri e venti, larghe un metro e cinquantaquattro ciascuna, e con uno
spessore di undici centimetri. Ciascuna anta fu gettata in bronzo in un unico pezzo, con una perizia senza
precedenti e mai più eguagliata in seguito: l’ intelaiatura del fronte venne fusa assieme al robusto piano di
supporto, in modo da costituire un tutt’uno di solida tenuta, in grado di sopportare al meglio la funzione
d’uso delle due ante. L’ intelaiatura delimita gli alvei di alloggiamento dei pannelli a rilievo con Storie della
Bibbia (5 per ciascun battente, per un totale di 10) e dei 48 elementi del fregio di rigiro, con teste e figure
intere di profeti e sibille: in tutto 58 rilievi, che vennero fusi ad uno ad uno, rinettati a freddo e finemente
cesellati in superficie, per essere infine dorati con il metodo dell’ amalgama di mercurio, che conferisce al
bronzo una luminosità in tutto simile a quella dell’oro. Nella fase finale del lavoro, tutti i 58 rilievi dorati
vennero incastrati “a forza” nell’ alveo bronzeo, profondo alcuni centimetri: per consentire l’ inserimento di
misura dei rilievi, il telaio fu verosimilmente riscaldato, in modo da ottenere una lieve dilatazione che
favorisse l’ incastro preciso dei rilievi.
Dall’anno della sua solenne messa in opera, nel 1452, la Porta rimase in permanenza sul fronte
orientale del Battistero, costituendone l’ accesso principale e il punto focale della vita religiosa e civile della
piazza: per questo si trovò soggetta agli stress derivanti dalla funzione d’uso, e da puliture intenzionate a
mantenere splendente la preziosa doratura dei rilievi. Doratura certo più durevole di quella a foglia che fu
spesso usata sui bronzi rinascimentali, ma che pure reca in sé un fattore di fragilità, dovuta al binomio
bronzo‐oro, che forma un legame chimicamente instabile. A questa intrinseca vulnerabilità della doratura, si
devono aggiungere gli accidenti che hanno segnato la vicenda fisica della Porta: la doratura reca ben leggibili
tracce di danneggiamenti, intenzionali o meno, che hanno provocato la consunzione dell’ oro e in certi casi
dello stesso modellato nelle parti in basso, sottoposte allo sfregamento delle mani. Altre irregolari e talvolta
vaste lacune della doratura sembrerebbero da imputare invece all’ effetto di acidi, in occasione di maldestri
tentativi di pulitura della porta stessa, o di sgocciolature di liquidi corrosivi impiegati per i marmi del
paramento. Numerosi anche i graffi effettuati con punte acuminate, per vandalismo o forse per la curiosità
di veder baluginare la doratura, che almeno nel XVIII secolo sappiamo essere stata occultata da una vernice
scura, probabilmente applicata per smorzare la mobile luminosità dell’oro, non apprezzata dal gusto severo
del Neoclassicismo.
Nell’Ottocento, grazie anche all’ avvento della fotografia, ebbe inizio la fortuna internazionale della
Porta, che le foto Alinari e di altri archivi storici mostrano uniformemente scura in superficie, tanto che
anche negli studi ad essa dedicati non emergeva all’epoca la certezza della presenza della doratura. Bisognò
attendere la seconda guerra mondiale, il ritiro nel 1943 dal Battistero della Porta per ragioni di sicurezza, e il
successivo restauro compiuto da Bruno Bearzi nel 1946‐48, per veder tornare a brillare l’oro del Ghiberti
sulla Porta, restituita al Battistero per la festa del Battista, nel 1948.
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Ma nel crescente inquinamento atmosferico del dopo guerra la doratura riprese rapidamente a
offuscarsi, e soprattutto continuarono a generarsi dal bronzo sali instabili, che affioravano in superficie
“forando” la pellicola aurea e aprendovi micro lacerazioni. Mentre cresceva la preoccupazione per la salute
della Porta, un evento traumatico colpì Firenze e i suoi capolavori: l’ alluvione del 4 novembre 1966 invase la
città, e le acque formarono mulinelli attorno al Battistero, spalancando e facendo sbattere le ante della Porta
del Paradiso. Cinque pannelli caddero nella melma; un sesto pannello pericolante fu tolto, e tutti e sei, dopo
essere stati ripuliti dalla nafta e dai depositi dell’ alluvione, furono riapplicati nei loro alvei dal resaturatore
Bearzi, che per fissarli stabilmente forò il fondo degli alvei, agganciando da tergo i sei pannelli con viti
passanti. Ma al di là della restituzione della Porta alla sua interezza, c’era la necessità di affrontare, su basi
scientifiche che erano ancora in embrione all’epoca del restauro del dopo guerra, una approfondita indagine
diagnostica che individuasse i meccanismi di deterioramento del bronzo dorato, e studiasse le possibili
soluzioni per il restauro. Nel 1975 si era costituito a Firenze il nuovo Opificio delle Pietre Dure, antico
Istituto di fondazione medicea passato alle dirette dipendenze del Ministero per i Beni Culturali, che alle sua
tradizionali competenze nel campo delle opere lapidee univa ora i laboratori multidisciplinari di restauro,
formatisi a Firenze nel dopo alluvione. Ne fu primo Soprintendente Umberto Baldini, che avocò all’Opificio
il compito di attivare la ricerca scientifica e quindi il pratico intervento sulla Porta del Paradiso
Gli studi diagnostici sullo stato di conservazione del bronzo e della doratura furono avviati alla fine
degli anni Settanta, rivelando che l’ aspetto più critico non consisteva tanto nei depositi da polluzione
atmosferica che in meno di quarant’ anni avevano formato spesse incrostazioni sui rilievi, quanto piuttosto
nella presenza sotto l’ oro di ossidi instabili quali cloruri e solfati. Sollecitati dalle variazioni di umidità,
inevitabili in ambiente esterno, questi sali ciclicamente solubilizzano e ricristallizzano, creando di
conseguenza una serie di minuscole ma diffuse protuberanze nella pellicola aurea, che dietro la pressione
dei microcristalli si aprono in tanti piccoli crateri, mettendo a nudo la sottostante superficie bronzea. Si tratta
di una corrosione “miniaturizzata” ma progressiva della doratura, il cui esito finale sarebbe inevitabilmente
quello della perdita totale dell’oro
La pulitura dei rilievi dorati ha dovuto pertanto affrontare questa specifica e non facile situazione,
agendo solo sui depositi di superficie, senza intaccare gli ossidi stabili formatisi sotto l’ oro, ma senza poter
inibire il riformarsi degli ossidi instabili che aggrediscono la pellicola aurea di superficie. Il metodo prescelto
allo scopo è stato una sequenza di lavaggi in acqua distillata, acetone e soluzione neutra di sali di Rochelle
(tartrato di potassio), messa a punto da Mauro Mattini, all’epoca direttore del Laboratorio Scientifico dell’
Opificio. La completa immersione dei rilievi nelle vasche di lavaggio, e il loro successivo risciacquo, furono
relativamente semplici per i sei pannelli fuoriusciti con l’alluvione e “riavvitati” alle ante. Ben altro problema ponevano gli altri 4 pannelli e tutti i 48 elementi del fregio, con i quali si trovò a
fare i conti il proseguimento dell’intervento, quando nel 1990 la Porta fu smontata e trasferita all’Opificio,
per continuarvi il restauro dei rilievi infissi nelle ante. Fino ad allora si era preferito estrarre ad uno ad uno,
e portare in laboratorio, i pannelli amovibili, per ritardare il momento della sottrazione dell’ intera porta alla
visione del pubblico. Ma essendo evidente, fino dai primi risultati delle indagini diagnostiche, che la
continua aggressione dei sali nei confronti della doratura vietava la permanenza dell’opera in esterno, fu
decisione obbligata il trasferimento dell’intera Porta all’Opificio, e la sostituzione contestuale con una copia
già predisposta allo scopo. Per realizzare la copia l’Opera del Duomo, che ha condotto l’operazione con la
sponsorizzazione di un mecenate giapponese, si è servita dei calchi tratti dalla Porta al tempo del restauro
del dopoguerra: la fusione fu eseguita a Firenze a cura della Galleria Frilli, mentre la doratura avvenne a
Parigi, con il metodo galvanico, in sostituzione di quello a mercurio “fuori legge” per la sua tossicità. Benché
la doratura a freddo della Porta sia decisamente inferiore alla vibrante luminosità dell’originale, non
sembrano accorgersene le folle dei turisti, che da 22 anni continuano ad accalcarsi davanti alla copia e a
fotografarla, nonostante che una targhetta applicata alla cancellata di protezione la segnali onestamente
come tale.
Il restauro della Porta nei laboratori di via degli Alfani, dopo una pausa operativa di qualche anno,
dovuta a sopravvenuti impegni del settore bronzi dell’Opificio, formato dai due soli restauratori Fabio
Burrini e Paolo Nencetti con la direzione di Loretta Dolcini, nel 1996 è ripreso con la direzione, proseguita
fino a oggi, di Annamaria Giusti. Il restauratore Burrini, il solo rimasto in servizio e attivo fino al 2010, è
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stato dalla fine degli anni’90 affiancato e poi sostituito da Annalena Brini e Stefania Agnoletti, che
costituiscono lo staff attuale del settore bronzi. Per evitare che il lavaggio con sali di Rochelle potesse infiltrarsi a tergo dei rilievi rimasti infissi
sulle ante, ed essere fonte di potenziali danni futuri, si è scelto di rimuovere i rilievi dall’ alveo per lavarli e
risciacquarli su entrambe le facce, senza rischi di residui. L’estrazione sarebbe avvenuta dal fronte, mediante
l’applicazione di un telaio d’acciaio, incollato sull’esiguo bordo non dorato dei rilievi, e sagomato di volta in
volta secondo i dissimili perimetri di contorno. Ed è così che si è messa in pratica la difficile e delicata
operazione, esercitando con il telaio una forza di trazione costante e continuamente controllata lungo tutto il
perimetro, per evitare rischi di deformazione o peggio di rotture al bronzo dei rilievi. Si è cercato inoltre di
coadiuvare questa operazione con altre, possibili azioni di supporto, quali spinte esercitate da tergo, là dove
lo consentiva la presenza di fori praticati nell’ intervento post‐alluvionale; un lieve raffreddamento, i cui
effetti sono stati peraltro irrilevanti, del rilievo da estrarre; la rimozione delle zeppe bronzee a tratti inserite e
ribattute fin dall’ origine, per rendere perfetto l’ incastro dei rilievi entro le ante. Così perfetto, che in cinque anni di impegno continuativo siamo riusciti a rimuovere solo i quattro
pannelli che ancora restavano infissi sulle ante, e 8 elementi del fregio, più difficili questi da estrarre per i
frequenti aggetti delle figure dal bordo su cui va applicato il telaio. La complessità e la non calcolabile durata
di questo impegno ha mosso alla ricerca di un metodo alternativo di pulitura, che consentisse di lasciare “in
situ” i rilievi, e per il quale è stata di stimolo la positiva esperienza maturata, all’Opificio e altrove, nel corso
degli anni ’90 sulla pulitura laser dei materiali lapidei. Era tuttavia necessario un laser con caratteristiche
diverse, in grado di non danneggiare i metalli, molto più sensibili dei marmi al calore: è stato questo l’
innovativo e determinante contributo dell’Istituto di Fisica Applicata del CNR di Firenze, che ha messo a
punto un laser adatto allo scopo. Ed è con questo metodo, studiato per la Porta e da allora entrato a far parte
delle tecnologie innovative per il restauro dei metalli, che è stata ultimata la pulitura del fregio da cui erano
stati rimossi, e con grande fatica, solo otto elementi.
Equivalente, per effetti e risultato estetico, al lavaggio con sali di Rochelle, anche la pulitura laser
non ha potuto agire contro la presenza degli ossidi instabili sotto la doratura: la salvaguardia dalla loro
aggressione, allo stato attuale delle conoscenze, può essere affidata solo all’ isolamento della Porta dalle
variazioni di umidità, che determinano la cristallizzazione dei sali e la loro fuoriuscita dalla pellicola dorata. Per i rilievi rimossi dalla Porta, ed è questo il caso dei dieci pannelli biblici, che una volta restaurati
sono stati via via esposti nel Museo dell’ Opera di Santa Maria del Fiore, è stato relativamente facile ottenere
il loro isolamento, collocandoli in singole vetrine sature di un gas inerte (Azoto), rinnovato ogni sei mesi. Più
complesso è stato garantire lo stesso isolamento per i rilievi rimasti sulle ante, a causa delle inevitabili fughe
del gas inerte dalle camere d’aria di polietilene, che isolano i singoli rilievi, restando fissate al bronzo non
dorato con un nastro adesivo speciale, che non lascia residui. Si è dovuto mettere a punto un meccanismo
di produzione e controllo dell’ azoto, che lo distribuisce e lo ricicla automaticamente nelle camere isolanti in
caso di perdite, in modo da mantenerle sempre sature. Tutti gli aspetti legati all’isolamento della Porta sono
stati nel tempo curati dal Settore Climatologia dell’Opificio, affidato a Roberto Boddi.
Mentre venivano reinseriti nelle ante i dieci pannelli e gli otto elementi del fregio rimossi per il
lavaggio, con un impegno che è risultato quasi pari a quello richiesto in precedenza dalla loro rimozione,
all’Opificio si è messo a punto il metodo per la climatizzazione finale della Porta, nella esposizione
permanente al Museo dell’Opera del Duomo. Nel corso di un anno di sperimentazione, sotto il controllo dei
chimici dell’Opificio Simone Porcinai e Andrea Cagnini, si sono messe a confronto la protezione con Azoto e
quella con aria filtrata dalle impurità e deumidificata, verificandone la pari efficacia e optando quindi per la
seconda, di più agevole ed economico utilizzo. Secondo questi criteri è stata avviata dall’Opera di Santa
Maria del Fiore la realizzazione della speciale vetrina per la Porta, inusuale per le dimensioni e per la
sofisticata tecnologia che regolerà e controllerà costantemente qualità e valori dei flussi d’aria.
Grazie all’ impegno congiunto di tante professionalità e alla passione di molti, qui citati solo in
piccolissima parte, dall’ 8 settembre torneremo a vedere la Porta del Paradiso ergersi davanti a noi, ancora
splendida e lucente nonostante il suo passaggio non indolore attraverso secoli di storia: il sacrificio di averla
sottratta alla sua destinazione d’origine può essere compensato dal pensiero di poterla consegnare alla storia
che verrà.
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