Volendo parlare di cinema e utopia il discorso si può estendere in
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Volendo parlare di cinema e utopia il discorso si può estendere in
Paola Populin SPAZI UTOPICI E LUOGHI DEL CINEMA: DA MALTA, NON-LUOGO INFINITO DE ‘L’INVENZIONE DI MOREL’, AGLI SPAZI CHIUSI DI ‘SAN MICHELE AVEVA UN GALLO’ Non è facile, nel passaggio da un testo letterario ad uno cinematografico, tradurre con esattezza lo spirito del racconto: uno degli esempi più riusciti può essere considerato l’utilizzo che Emidio Greco fece della location in cui girò uno dei suoi primi film, Malta. Assolutamente affascinato dal luogo, non appena vide l’isola non riuscì a pensare a nessun’altra location possibile, unica soluzione in grado di riprodurre l’estraneità dell’isola tropicale in cui è ambientato il romanzo da cui il racconto deriva. Luogo dell’infinito in cui l’estraneità si moltiplica nell’infinito temporale, come accade nel romanzo stesso. Ma vediamo il senso di questa interpretazione e poniamola a confronto con un film coevo che, pur parlando di utopie, ne tratta altro aspetto e si muove in un contesto figurativo spaziale diverso. Volendo parlare di cinema e utopia il discorso si può estendere in varie direzioni e sarebbe difficile scorgerne la fine. Innanzi tutto perché sin dall’inizio della storia del cinema si è pensato al film come un prodotto utopico di per sé in quanto, come lo definiva Jean Epstein nel 1921 „ è il reale strumento dell‟irreale e del surreale‟. La prima questione che si pone infatti è quella di come sia possibile perseguire l’utopia di una rappresentazione del reale, che proprio in quanto rappresentazione non è la realtà in sé1 .Altra caratteristica è quella di cercare sin dall’inizio un costante e continuo rinnovamento tramite la ricerca di nuove modalità espressive e soprattutto di nuove possibilità per creare nuovi sistemi. Proprio l’infinita ricerca, l’assenza di un codice definito e la volontà di scardinare l’ordine preesistente è il motore del cinema ed è quello che più lo accomuna al concetto lato di utopia. E inoltre cosa è possibile rappresentare? Cosa è possibile realizzare? Proviamo a considerare, nella produzione infinita che può prestarsi a questi argomenti, due film significativi: San Michele aveva un gallo di Paolo e Vittorio Taviani (1971) e L‟invenzione di Morel di Emidio Greco (1973), tratto dal romanzo ‘di A. Bioy Casares, “L‟invenzione di Morel”. Pur essendo due film realizzati quasi nello stesso periodo, in anni politicamente significativi e in cui il nuovo cinema degli anni ’60 cerca di risorgere con l’ideologia, sembrano due film su piani opposti: l’uno un film ideologico e ‘impegnato’, l’altro afferente a quel genere che ora chiameremmo fantasy. Eppure vi sono affinità fra le due produzioni, e non solo per la casualità di avere il medesimo protagonista: sembra infatti che tutti gli elementi convergano verso ciò che caratterizza l’utopia intesa non solo nel senso del fare cinema, ma più genericamente come idea. Analizziamo i film sotto i seguenti punti di vista: 1. 2. 3. elementi visivi strutture narrative racconto 1 Al limite estremo si può tenere in considerazione la tecnica del pedinamento di Zavattini: la realtà del piano sequenza nella percezione dello spettatore è costantemente alterata dall’irrealtà della mdp accanto ai personaggi). 1 Innanzi tutto la narrazione utopica prevede quella convenzione che è poi propria del cinema: un patto tra testo e lettore che consenta ad entrambi di travalicare la verosimiglianza. Come terzo elemento nel cinema vi è l’io narrante, il protagonista che si colloca in una ulteriore dimensione. Iniziamo con il considerare le strutture narrative. Il racconto utopico ha in genere una struttura di base che può essere così riassunta: a. b. c. d. e. peregrinazione del protagonista e sbarco su un’isola sconosciuta e solitaria incontro con gli abitanti dell’isola, misteriosi e non assimilabili a comunità note descrizione della città, spesso insolita nelle forme o assolutamente perfetta nelle geometrie chiarimenti da parte di un capo, legislatore tempi e luoghi chiusi Vediamo l’incipit del film ‘L’invenzione di Morel’ e vediamo se questo corrisponde a quanto il romanzo inquadra sin dall’inizio. Prima inquadratura: Campo lungo sul mare, poi subito quadro ristretto sulla barca del naufrago. Sarebbe stato più ovvio per il regista tenere il campo lungo per simulare ancora di più il silenzio e la solitudine. La scelta di restringere porta l’attenzione sul protagonista a discapito dell’ambiente. Da qui sarà il nostro occhio: non mostra, non agisce ma guarda. Il tutto è sottolineato dallo stacco immediato sul primo piano. Di nuovo un campo lungo sull’ambiente. Da notare è la geometrizzazione del terreno che sembra preludere a quanto vedremo subito dopo. Interno palazzo. (cfr. cit. dal romanzo) Nella parte alta dell’isola […] si trovano il museo, la cappella e la piscina. I tre fabbricati sono moderni, angolari, uniformi, di pietra rozza […] La cappella è una scatola rettangolare, bassa (questo la fa sembrare molto lunga). La piscina è ben costruita, ma siccome non supera il livello del terreno, inevitabilmente si riempie di vipere, di rospi, di rane e d’insetti acquatici. Il museo è un edificio grande, a tre piani, senza tetto visibile, con un corridoio davanti, un altro più piccolo dietro, e una torre cilindrica […] Le pareti dell’atrio sono di marmo rosa, con strisce verdi verticali, simili a colonne sprofondate […] Una porta dà sul corridoio; un’altra sul salone circolare; un’altra, piccolissima, chiusa da un paravento, dà sulla scala a chiocciola. Nel corridoio c’è la scala principale, di stucco e con tappeti. Ci sono sedie di paglia, e le pareti sono ricoperte di libri. A. BIOY CASARES, L‟invenzione di Morel, Bompiani, Milano 2002 Le scenografie, realizzate da Amedeo Fago, riproducono lo spazio immaginario di Casares inserendo l’elemento di riferimento al tempo irreale della storia (design ’29) e assolutizzando invece il vuoto all’esterno intensificando la purezza delle forme geometriche e giocando sul bianco/nero. Difficile risulta a questo punto percepire l’esterno/interno. Passando al San Michele possiamo tralasciare l’incipit e tenere in considerazione la parte centrale, in cui il protagonista trascorre i suoi 10 anni di prigionia prima della condanna a morte. Qui il regista chiude Manieri/Brogi in una piccolissima cella tenendo quasi sempre l’inquadratura stretta su di lui e delimitandone i bordi con le pareti stesse. Il tutto conferisce alla lunghissima sequenza un senso di oppressione che non solo significa la prigionia ma anche quella stessa angoscia della solitudine che opprime il naufrago sull’isola di Morel. La solitudine e l’isolamento preludono alla scoperta della nuova realtà, che non può essere percepita senza un mutamento radicale della propria condizione o l’abbandono di uno schema di vita precedente. Se la nuova condizione del naufrago è quella di trovarsi solo dopo la disperata fuga per evitare il carcere la condizione nuova di Manieri è quella di ritrovarsi separato dai suoi compagni di lotta. Solo così 2 riuscirà a scoprire la sua realtà. Nei lunghi anni di prigionia ritroverà i compagni, ma nella sua immaginazione, parlerà con se stesso fingendosi il gruppo. La sua capacità di ‘finzionare’ (usiamo pure il termine di Mercier che si adatta splendidamente al cinema) gli consente di creare una realtà consona alla realizzabilità del suo sogno. Se il suo sogno rivoluzionario si è infranto a causa di una mancata concordia del gruppo e dei contadini, le immagini fictae di Manieri sono in grado di correggere le storture del pensiero per ricostruirne una struttura perfetta. Ecco che si realizza l’utopia politica di Manieri: in una realtà nuova in un tempo fermo. I dieci anni sono fissi in quel quadro proprio perché il tempo di Manieri diviene un non tempo-ucronia utopica. Manieri parla con se stesso: lo sdoppiamento risolve al personaggio l’irrealizzabilità della conciliazione ma anche allo spettatore l’irrappresentabilità dell’immaginario del protagonista. Espediente da un lato, risolve anche il problema della rappresentazione che l’osservatore del racconto utopico si trova a dover contrastare:solo abbandonando il suo punto di vista e la sua struttura rigida di pensiero può avvedersi di altro. L’osservatore utopico però è uno,unico. Tornando al film di Greco si può notare che fino almeno al 23’ il film è silenzioso. Ciò sicuramente accade per consentire allo spettatore una maggiore identificazione con la solitudine del naufrago, ma una cosa che è interessante notare è come il regista eviti accuratamente anche una narrazione introduttiva che avrebbe potuto essere rappresentata in voce off o voce pensiero. Questo perché il regista vuole dare un racconto in soggettiva sì, ma annullare quanto più possibile il contatto con lo spettatore limitando i campi della comunicazione ai due elementi di osservazione: quello ‘reale’ del naufrago e quello ‘irreale’ degli ospiti dell’isola. La volontà di non didascalizzare l’evento isola ancora di più il naufrago e spinge lo spettatore a concentrarsi sul suo punto di vista. Quello che vede il naufrago è la sua realtà, così come manieri vede i suoi compagni nella cella. Il mondo tranquillo e perfetto è assoluto, senza inferenze esterne e chiuso. Il naufrago vede e realizza con la sua visione quello che in realtà non esiste o almeno non esisterebbe senza una visione esterna. Ogni mondo utopico ha bisogno di un osservatore esterno per essere reso reale, altrimenti non potrebbe raggiungere la sua perfezione di modello. Il non vedere degli ospiti dell’isola rappresenta l’impossibilità di apertura del modo perfetto. Il mondo utopico difficilmente è aperto. Nella struttura di una città perfetta non c’è altro posto per ulteriori edifici, nel palazzo di Morel non c’è posto per altre persone, altri arredi. Nella cella di Manieri non ci sono altri spazi oltre lui stesso. Nella terza parte del film dei Taviani Manieri esce di prigione perché la sua condanna è mutata. Durante il tragitto incontra altri rivoltosi della generazione successiva e cerca di comunicare con loro, di trovare un accordo nelle forme di lotta. Ma ormai si è passati da un socialismo utopico e irrazionale ad un socialismo scientifico e non c’è posto per Manieri. L’incomunicabilità tra queste due forze rivoluzionarie è esemplificata nel film dalle due barche che non si incontrano. In una laguna veneziana spoglia, desolata e silenziosa il colloquio avviene rapidamente, infrange la staticità dell’inquadratura con il suono delle parole, ma non infrange l’immobilità visiva delle due barche. L’inquadratura è relativamente statica: indubbio il parallelismo con la chiusura del campo della seconda parte. Tutto ciò riporta ad un elemento ulteriore nell’ambito dell’utopia: il tempo chiuso. La laguna che Manieri attraversa è simbolicamente tutt’altro che uno spazio chiuso: dal punto di vista cinematografico è un luogo di transito che contrasta visivamente con lo spazio ristretto delle barche. L’inconciliabilità però tra i due elementi è rappresentata dall’impossibilità di sfiorarsi delle imbarcazioni, come è ormai impossibile che possano incontrarsi due fasi diverse della rivoluzione. Il tempo è passato, ma è completamente chiuso su se stesso e l’utopia che lo rappresenta vive in un luogo indefinito ricreato da Manieri all’interno della sua cella, in un tempo indefinito che può essere dieci anni ma non con un normale conteggio di giorni e ore. Passato e presente coincidono in Manieri. Il tempo passato vive invece e si realizza solo con il ritmo delle maree e il tempo infinito viene ridotto e scandito dalla natura. Solo l’osservatore esterno comprende la differenza ma anch’egli si assimila al non tempo degli ospiti misteriosi. Per rendere l’idea del passaggio del tempo non ci resta che affidarci al gesto del protagonista che segna il passare dei giorni sulle pareti della grotta e agli interni prima polverosi e abbandonati 3 del palazzo poi perfetti e frequentati. La prima volta però che il naufrago si avvede degli ospiti dell’isola è quando ode una musica. Volutamente il primo sonoro non naturale del film è una musica d’altri tempi (cit. colonna sonora Piovani): il passato è reale nell’invenzione di Morel e coesiste con il presente grazie allo sguardo dell’osservatore naufrago. La coesistenza del passato e presente è una delle caratteristiche dell’ucronia. La coesistenza dei tempi è ravvisabile soprattutto nell’ iteratività delle azioni e nella loro riproducibilità: Manieri vuole che le azioni di lotta siano le stesse e la macchina di Morel obbliga alle stesse azioni le sue ‘vittime’. Quando il naufrago decide di farsi fotografare comincia progressivamente a rivivere le azioni avvenute : nel montaggio vengono inserite scene precedenti. 2 Ucronia e Outopia sembrano dunque coincidere come elementi simbolici dei due film, ma non sono chiaramente gli unici film d’epoca a perseguire questi obiettivi estetico-ideologici. Ho volutamente tralasciato un film del ’73 che rappresenta un film culto e proprio per questo se ne è già parlato abbastanza: si tratta di La montagna sacra di Jodorowsky. Lì l’utopia diventa sicuramente una distopia e gli elementi simbolici da cui il film è caratterizzato sono quasi una utopia iconica del periodo in cui è stato realizzato. Mi piace però che a concludere siano le parole alla fine del racconto, simbolo della irrappresentabilità del reale e della irrealtà di ciò che si rappresenta: in poche parole del cinema. ‘Questa è la fine della nostra avventura? No, niente ha fine. Se non trovammo l‟immortalità almeno trovammo la realtà. Incominciammo in una favola abbiamo trovato la vita,ma…questa vita è realtà? No, è un film. Non siamo che immagini, sogni, fotografie. Non dobbiamo restare qui prigionieri. Romperemo l‟illusione. Questa è magia! La vita reale ci attende!‟ SITOGRAFIA Oubliettemagazine.com Giulianocinema.blogspot.com 365film.com 2 La riproducibilità del film e il potenziale ripetitivo dato dal montaggio non è naturalmente una novità del film: già la Nouvelle Vague e soprattutto Truffaut cita e riproduce se stesso facendo rivivere i suoi film precedenti nella saga di Doinel. Del resto sembra che questa sia una caratteristica del cinema post postmoderno, che tende ad annullare l’immedesimazione del tempo reale con l’estetica del loop. 4