Sognavo di sposare il principe azzurro

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Sognavo di sposare il principe azzurro
IL ROMANZO
Sposare il principe azzurro è il sogno di tutte e Luna sta per realizzarlo. Il fidanzato
Edoardo è perfetto: avvocato, alto, biondo, con due splendidi occhi color del mare.
Ma qualcosa non torna in questo quadretto idilliaco. Edoardo rimanda continuamente
la data delle nozze, Luna non è per niente soddisfatta della sua vita lavorativa... e poi
c’è Juan, collega maledettamente bello e irresistibile. E ci sono tutte quelle donne
dell’est, “alte e biondissime” di cui Edoardo è costantemente alla ricerca su Internet.
Così, una vita apparentemente felice rischia di trasformarsi in una marea di
catastrofi!
Seguire Luna tra imprevisti, delusioni ed equivoci vi farà guardare alla vita e
all’amore con il sorriso perché non bisogna mai smettere di sognare.
L’AUTRICE
Lisa Lorenzi è nata a Bologna e vive a Roma. Laureata in Lettere presso l’università
di Bologna, si è specializzata in Letterature comparate alla University of California
Irvine e in Women’s Studies alla University of York in Inghilterra. Prima del suo
esordio narrativo con Sognavo di sposare il principe azzurro, ha scritto saggi
sull’immagine femminile e le donne fatali nella letteratura fin de siècle e nel cinema
muto e soggetti televisivi. Dal 2000 si occupa di marketing e comunicazione per un
importante gruppo editoriale italiano.
Seguila sul blog lisalorenzi.blogspot.it
Il suo profilo twitter è @lisaintheattic
Lisa Lorenzi
Sognavo di sposare
il principe azzurro
© 2015 De Agostini Libri S.p.A.
Redazione: Corso della Vittoria 91, 28100 – Novara
Pubblicato su licenza di Libromania S.r.l.
ISBN 978-88-98562-44-2
www.deagostinilibri.it
www.libromania.net
Edizione digitale aprile 2015
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L’Editore dichiara la propria disponibilità a regolarizzare eventuali omissioni o errori
di attribuzione.
La storia, le vicende, i luoghi e i personaggi sono frutto di pura fantasia. Eventuali
riferimenti a fatti realmente accaduti e a persone realmente esistenti sono da ritenersi
puramente casuali.
A Teresa e Renzo, i miei genitori.
“Fai della tua vita un sogno
e di un sogno una realtà.”
Antoine-Marie Roger de Saint-Exupéry
Sognavo di sposare
il principe azzurro
Prologo
Terre del Nord, 1114
Il principe Ingvar scese dal suo cavallo bianco. Lui e Ginevra si trovarono uno di
fronte all’altra: lei non osava guardarlo, ma sapeva che gli occhi di lui erano fissi sul
suo volto. La notte era illuminata dalle fiamme che in lontananza avvolgevano il
castello della Strega dei Ghiacci.
Il principe ripose la spada nel fodero e le strinse le mani. Ginevra non si mosse,
sentendosi sicura e protetta. Una sensazione di calore le scaldò tutto il corpo,
nonostante il vento freddo della brughiera.
“Mi sposerete?” lui le chiese.
Ginevra teneva lo sguardo fisso a terra senza rispondere. Il principe le sollevò il
mento, costringendola a guardarlo negli occhi.
“Fino al momento in cui ho temuto di perdervi, Lady Ginevra” disse lui con la sua
voce profonda, “non avevo capito quanto vi amassi. Se non accetterete la mia mano,
cercherò di conquistarvi per tutta la vita; non mi arrenderò mai. Fino a quando non vi
avrò avuta, continuerò a cercarvi, dovessi andare fino alle terre dei Mori.”
“E se vi sposassi, o mio principe?” chiese lei. “Mi lascerete libera? Non sarete un
tiranno come tutti i vostri pari? Non mi chiuderete in una torre quando andrete in
battaglia?”
“Ve lo giuro. Se il papa mi ordinasse di partire per la Crociata vi porterei con me,
facendovi cavalcare al mio fianco.”
“Amor mio” mormorò lei, guardandolo con occhi ridenti, “vi conosco e so bene che
la prima volta che mi opporrò mi piegherete alla vostra volontà e so anche che io non
ve lo impedirò. Oh, Ingvar, Ingvar!”
Lentamente lui le tolse l’elmo da guerriera, poi la strinse a sé con tale forza che a
lei mancò il respiro.
Come in un sogno, lei vide il viso di lui chino sul suo, poi le loro labbra si unirono in
un bacio così intenso che la bocca di Ginevra parve ferita. Cedette, abbandonandosi
alla passione, aderendo al suo petto, sopra la maglia di ferro dell’armatura...
1
Ho trovato il principe azzurro
(o quasi)
Roma, giorni nostri
“Scusi” dice qualcuno alle mie spalle nel tono sbrigativo di chi, invece di chiedere
permesso, impartisce un ordine.
Mi risveglio dalle mie fantasie. Come al solito stavo sognando a occhi aperti. È una
pessima abitudine, lo so, ma ci ricasco sempre: fantasticare è una delle mie attività
preferite. In chiesa, poi, per me è inevitabile. Sarà che ci sono venuta poche volte e
non ci sono abituata, ma non sono mai riuscita a seguire una predica senza distrarmi.
Leggermente infastidita, mi sposto per far passare il ritardatario. La sua figura alta
mi passa davanti e si ferma in piedi alla mia sinistra.
Alzo lo sguardo sul suo viso e incrocio gli occhi più verdi che abbia mai visto.
Abbasso il capo, quasi abbagliata, mentre lui si mette ad ascoltare la messa con volto
impassibile, senza neppure accorgersi della mia esistenza.
Continuo a osservarlo di sottecchi. Gli zigomi alti modellano un volto bruno dalla
bellezza non convenzionale. Un ciuffo ribelle di capelli neri fa risaltare ancora di più,
se possibile, il colore dei suoi occhi. È un uomo indiscutibilmente bello. Anche se non
è il mio tipo. Ha un aspetto vagamente esotico e nella sua espressione c’è qualcosa di
arrogante, l’aria di uno abituato ad avere tutte le donne ai suoi piedi, che me lo fa
subito classificare come un soggetto da cui stare alla larga.
Senza contare l’inadeguatezza del suo abbigliamento. Come si fa a venire a un
matrimonio con un giubbotto di pelle nera e senza la cravatta? Per non parlare poi del
fatto che non sembra conoscere l’uso del pettine e del rasoio.
Eppure, guardandolo, mi chiedo come dei capelli scompigliati e un’ombra di barba
sul mento possano donare tanto a un uomo.
Lui continua a ignorarmi, per almeno mezz’ora, finché all’improvviso si gira verso
di me tendendomi la mano.
Sobbalzo. Che si sia accorto che lo stavo osservando?
Gli porgo la mano arrossendo.
“Luna, piacere” gli dico, presentandomi.
Lui inarca un sopracciglio guardandomi dall’alto della sua statura. Gli occhi che
fino a poco fa sembravano attraversare il mio corpo senza neppure vedermi mi
fissano con un’espressione indefinibile sotto le sopracciglia brune.
Sono confusa. Perché ha quell’aria sorpresa? Sembra incerto: che sia turbato dalla
mia vicinanza? In ogni caso una cosa è sicura: desidera conoscermi. Altrimenti
perché tendermi la mano? Che io abbia fatto colpo, penso lusingata?
Lui continua a fissarmi senza dire nulla per alcuni interminabili istanti durante i
quali io rimango come sospesa nell’incertezza. Poi il suo volto si anima, un guizzo
divertito gli attraversa gli occhi che fino a pochi secondi fa esprimevano solo noia
invincibile, la bocca altera s’increspa in un sorriso.
“Ma questo è il segno di pace!” esclama scoppiando a ridere. “Non sei mai stata a
messa prima d’ora?”
Mi guardo intorno: nella chiesa tutti si stanno stringendo la mano. Che stupida! E io
che pensavo che volesse conoscermi.
Mi volto di nuovo verso di lui. Sento il viso avvampare.
“Effettivamente...” balbetto, senza riuscire a finire la frase.
Lui mi porge di nuovo la mano e stringe la mia. Ha la presa sicura di un uomo
deciso. Sento una scossa inaspettata.
“Comunque mi chiamo Juan” aggiunge lui con quella sua voce profonda.
Rispondo alla sua stretta in maniera automatica. Per l’imbarazzo inizio a sudare.
Sottili rivoli mi scendono dalla fronte, squagliando il fondotinta; il vestito mi si
appiccica sulla schiena.
Per fortuna la messa va avanti, salvandomi da ulteriori figuracce. Facendo finta di
nulla mi allontano, spostandomi in fondo, verso l’uscita.
***
Trovo posto nell’ultima fila e mi siedo, ripensando all’accaduto.
A essere sincera, non mi sono presentata con il mio vero nome, ma con il
diminutivo che usano tutti. All’anagrafe sono registrata come Falce di Luna, un nome
assurdo, d’ispirazione pellerossa, che i miei genitori mi hanno dato per ricordarmi,
ogni giorno della mia vita, l’occasione in cui si sono conosciuti: una manifestazione di
indiani metropolitani nel periodo delle contestazioni a fine anni settanta.
Già, i miei sono così: molto simpatici ma, almeno per una persona convenzionale
come me, un po’ matti. O perlomeno originali, come lo possono essere due ex figli
dei fiori poi convertitisi alla New Age, sempre rigorosamente a sinistra della sinistra
(PSIUP, PdUP, RC, SEL) e sempre a sostegno di tutti i popoli oppressi, dagli andini ai
pellerossa, dai vietnamiti ai palestinesi e così via.
Originari di Milano, dove sono nata, ora vivono in un casale malconcio nelle
colline marchigiane dove tutto è biologico, tutto è a chilometro zero, tutto è
politicamente corretto. Da loro si mangiano solo cibi di stagione per lo più coltivati
nell’orto o barattati con i vicini, gli elettrodomestici sono pochi e di solito non
funzionano, l’acqua è spesso fredda e l’automobile è una vecchissima Renault che si
rompe in continuazione.
Costantemente al verde, sbarcano a mala pena il lunario grazie a mia madre che
insegna y oga. Mio padre invece gestisce un cineclub d’essai quasi sempre deserto.
Ma lui non si demoralizza, felice della sua battaglia per la cultura contro il sistema
capitalista. Per lui la battuta “la Corazzata Potëmkin è una cagata pazzesca” continua
a suonare come un’eresia. “Quel Fantozzi preannunciava già Canale Cinque” l’ho
sentito dire più di una volta.
Eppure, nonostante le difficoltà, i miei genitori sono degli inguaribili ottimisti.
Solari, simpatici, affettuosi, sempre circondati da amici e, cosa più importante di
tutte, anche se non si sono mai sposati disdegnando quella “convenzione borghese”
che si chiama matrimonio, si amano moltissimo da più di trent’anni.
Insomma, alla fine la loro vita non è così male, ma è l’esatto opposto di quella che
sogno per me. Io vorrei qualcosa di più regolare, qualcosa di meno precario. Vorrei
non avere preoccupazioni economiche. Vorrei essere come tutti gli altri, cancellando
dai miei ricordi quella “strana bambina” che veniva presa in giro perché si chiamava
Falce di Luna. Piuttosto preferisco essere invisibile. Come la donna dei Fantastici
Quattro!
Per farla breve, vorrei un vita normale.
O meglio, una vita perfetta. Con un lavoro sicuro a tempo indeterminato (non
troppo impegnativo, non sono certo una donna in carriera) e soprattutto con un bel
matrimonio!
Sì, perché, anche se ai miei non l’ho mai confessato, il mio sogno da bambina non
era, come raccontavo loro, quello di diventare una rivoluzionaria, un’artista
d’avanguardia, una scienziata o la prima donna a mettere piede sulla Luna, ma
unicamente quello di sposare il principe azzurro.
Lo so, è maschilista, patriarcale, politicamente scorretto. Ma è proprio così. La
pura verità.
Mentre mia madre leggeva Dalla parte delle bambine e andava alle sedute di
autocoscienza femminista, da piccola la mia fiaba preferita era Cenerentola e da
adolescente avrei voluto essere la protagonista di un romanzo rosa.
Ora sono cresciuta, maturata, cambiata. Mi sono laureata e lavoro. Ma le mie
aspirazioni, sotto sotto, sono sempre le stesse e forse sto anche per riuscire a
realizzarle.
Negli ultimi tempi sta cominciando a girare tutto per il verso giusto. Un anno fa
sono stata assunta a tempo indeterminato in banca e molto presto, ne sono certa, mi
sposerò.
***
Ma torniamo al presente.
Mi trovo al matrimonio di Roberta, la mia migliore amica.
Finalmente ce l’ha fatta. È riuscita a ottenere ciò che sognava da tanto (e che le
aveva consigliato anche la sua psicologa dei Parioli, il quartiere “bene” dove abita):
un bel matrimonio con quello che lei definisce “un professionista un po’ ricco”.
Ovvero un dentista, figlio di dentista.
La guardo. L’abito che abbiamo scelto insieme le sta d’incanto. Alle sue spalle
quattro deliziose bambine bionde vestite di rosa le reggono lo strascico. La piccola
chiesa è gremita, ci saranno almeno trecento persone. Le panche e il corridoio
centrale sono decorati con fiori d’arancio. Nell’aria risuona una musica soave: non so
bene cosa sia, ma è bellissima.
È tutto perfetto. Proprio come vorrei che fosse il mio matrimonio. Anzi, il nostro
matrimonio, mio e di Edoardo, “professionista un po’ ricco”, come direbbe Roberta,
ovvero avvocato figlio di avvocato, e soprattutto il mio fidanzato!
Già, Edoardo, il mio fidanzato. Come mi piace questa parola.
E non un fidanzato qualunque. Ma un fidanzato alto, biondo, sportivo, con un buon
lavoro e gli occhi azzurri.
Insomma, un fidanzato perfetto.
Anche se, ad essere sincera, a volte penso che sia un po’ troppo perfetto.
Come dire? Un po’ perfettino.
Come quando mi fa pulire le scarpe prima di salire in macchina, vuole insegnarmi
come tenere le posate, o mi chiede se ho fatto la doccia prima di andare a letto.
Oppure quando mi chiama “cara”! Cosa che proprio non sopporto. Mi fa sentire una
vecchia signora con la collana di perle, di quelle che si vedono nei telefilm inglesi.
Ma che sto dicendo?
Edoardo ha così tante qualità! Penso ai suoi modi impeccabili a tavola, a come
gioca bene a tennis, a com’è ordinato e poi... e poi? La mia mente è vuota, ma questo
non significa niente. Anche se ora non riesco a elencarli tutti, non vuol certo dire che
Edoardo non sia pieno di pregi. Senza contare che abbiamo già parlato di matrimonio,
e questa non è una cosa tanto comune di questi tempi (a parte il caso di Roberta, è
naturale, ma lei se lo merita proprio).
Sì, Edoardo è perfetto, assolutamente perfetto.
È il mio principe azzurro.
Non vedo l’ora di sposarlo.
2
Festa di nozze
Il ricevimento che segue è ancora meglio della cerimonia.
Roberta ha fatto proprio le cose in grande, anche se con apparente semplicità. Il
massimo della raffinatezza.
Siamo nel parco di una villa sull’Appia Antica, le rose sono in fiore, il cielo è
azzurro e sullo sfondo si erge la tomba di Cecilia Metella. Roberta ha fatto venire un
catering dalla Toscana e ora stanno servendo sul prato, a bordo piscina, un aperitivo a
base di salumi, fave e pecorino. Sembra di stare in un casale del Chianti pur essendo
al centro di Roma!
C’è un’atmosfera di gioia, pace e serenità. Gli ospiti sorridono a loro agio. Anche la
sposa sembra rilassata (ma come fa? Fino a ieri era così agitata).
L’unica a non sentirsi a proprio agio sono io.
Non solo perché il vestito mi stringe (l’ho comprato apposta stretto, una
quarantadue, certa di dimagrire due chili in due settimane e non ce l’ho fatta), ma
anche perché, dall’altro lato della piscina, quel Juan, l’uomo con cui ho fatto la gaffe
del segno di pace, sta parlando con Edoardo, il mio fidanzato, e Chiara, la
responsabile dell’ufficio del personale della Italy Invest Bank, la banca dove lavoro
come addetta ufficio stampa.
Li guardo preoccupata. Ho paura che lui racconti loro della mia figuraccia.
Timore che diventa certezza quando Juan mi indica e Chiara scoppia a ridere, mentre
Edoardo fa un sorriso tirato e mi lancia un’occhiataccia. Vorrei scomparire.
Per non assistere alla scena vado a consolarmi al buffet, rimpinzandomi di fritti.
Nonostante la bontà dei fiori di zucca farciti di mozzarella, non riesco a rilassarmi. Da
lontano osservo il terzetto parlare e ridacchiare. Che sia ancora io l’argomento della
conversazione? Forse è meglio cercare di scoprirlo. Non vorrei che quel Juan mi
mettesse troppo in cattiva luce con Edoardo e, nel caso, è meglio saperlo.
Vedo che vicino a loro c’è una siepe di allori in vaso e, dopo aver afferrato al volo
un calice di champagne, vado a mettermi lì dietro con aria noncurante, sorseggiando
dal mio bicchiere.
Da dietro la siepe giunge nitida la voce di Chiara.
“Ma davvero ha detto ‘piacere’?” esclama divertita.
Juan annuisce.
“A te non sarebbe mai potuto succedere” osserva Edoardo.
“Non è merito mio, ma di come mi hanno educata. Evidentemente meglio di lei,
poverina” risponde Chiara, con falsissima modestia.
“Già, la classe non è acqua” la adula Edoardo, facendomi ribollire il sangue. Ma
cosa sta dicendo? È il mio fidanzato e fa i complimenti a un’altra?
“Non è questione di classe, ma di essere ridicoli oppure no” rincara lei.
“Non esagerare, si vede che non conosceva il rituale” ribatte Juan, l’unico che
sembra prendere le mie parti. Cosa che a quanto pare a Chiara non piace.
“È un’imbranata. Quel genere di donna che fa sentire gli uomini protettivi. Vero,
Edoardo?”
“E adesso che c’entro io?” lo sento rispondere, esterrefatta. Perché invece non
dice che siamo fidanzati e li mette a tacere? Ora vado lì e lo strozzo.
Juan si rivolge preoccupato a Edoardo. “La conosci? Spero di non avere fatto una
gaffe.”
“Non preoccuparti” risponde il mio fidanzato. “So bene quanto sia goffa.”
Juan ride. “È vero, goffa e imbranata. Però è anche divertente. A suo modo è un
tipo, no?”
“Un tipo? Non dirmi che ti piace!” esclama Chiara con tono volutamente
sbalordito mentre Edoardo, riesco a vedere tra le fronde, abbassa lo sguardo facendo
finta di nulla.
“Ma no! È passabile, ma non è il mio genere” risponde Juan facendo ridacchiare
di nuovo Chiara. “Però è piacevole.”
Bene, penso avvilita, in sostanza mi ha dato della cozza simpatica.
***
Roberta mi fa sobbalzare.
“Luna! Che ci fai qua tutta sola?” esclama, comparendo improvvisamente alle
mie spalle.
Sussulto per la sorpresa e rischio di rovesciare una pianta di alloro sul terzetto che
stavo spiando. Per fortuna riesco a sorreggerla. Appena in tempo per non farmi
scoprire, ma non per impedire allo champagne di riversarsi sul mio vestito.
“Ma niente” rispondo cercando di avere un’aria disinvolta, come se fossi lì per
caso.
Roberta fissa preoccupata il mio vestito.
“Ti sei macchiata, come al solito. Meno male che non è vino rosso.” Poi alza lo
sguardo sul mio volto con un sorriso malizioso. “Stavi guardando anche tu quel tipo
che si è portata Chiara, vero? Mi stanno chiedendo tutte di lui.”
Mi prende sottobraccio e ci allontaniamo di qualche passo. La siepe non copre più i
tre. Li osservo. Juan cinge la vita sottile di Chiara con il braccio.
“Sarà la nuova conquista di Chiara” dico.
“Già, il tipo perfetto per la Strega” commenta Roberta, lanciandomi un’occhiata
complice. “La Strega” è infatti il soprannome di Chiara in ufficio.
“Perché?” le chiedo. “Cosa sai di lui?”
“Quasi nulla, ma tutte le mie amiche che hanno provato a parlarci mi hanno detto
che è insopportabile. Rivolge a malapena la parola a chi non è del suo gruppo e non
fa nulla per rendersi piacevole. Certo è un gran bel ragazzo. Ma questo non lo salva
dall’essere antipatico!”
Roberta mi lascia per andare a salutare altri invitati che stanno arrivando. Io vado
in bagno ad asciugare il vestito bagnato dallo champagne.
Mentre strofino la macchia, rimugino su Chiara.
Al contrario di me, lei ha tutto: alta, bionda, magra, elegante e in carriera. Pur
avendo la mia età ed essendo entrata in azienda il mio stesso giorno, è uno dei
manager più in vista della Italy Invest Bank. Io invece sono una semplice assistente,
rifletto un po’ invidiosa. Sento una punta di gelosia se penso che è anche l’ex fidanzata
di Edoardo e l’ha pure piantato. Cosa da cui temo che lui non si sia più ripreso, anche
se ovviamente non me lo confesserebbe mai.
Del resto che cosa poteva aspettarsi da una così? Se Edoardo per me è un
professionista, come direbbe Roberta, “un po’ ricco”, per Chiara è un professionista
“un po’ povero”. Questione di punti di vista.
La sola borsa di Chanel che poco prima lei maneggiava con noncuranza vale
sicuramente più di tutti i vestiti che abbiamo addosso io (Max & Co, Zara, scarpe del
mercatino) ed Edoardo (Kiton, Marinella, scarpe Church e camicia “non saprei”)
messi assieme.
L’unica cosa che non mi spiego è perché lei, che è sempre così attenta alla forma,
perfetta in tutto, sia venuta a un matrimonio con un tipo che non porta neppure la
cravatta. Conoscendo Chiara, non può essere uno qualunque. Che dietro la negligente
trascuratezza del suo abbigliamento si nasconda qualcuno d’importante? Un artista
alla moda, magari? Oppure un architetto di grido? O più semplicemente è solo uno di
quei figli di ricchi che vogliono fare gli alternativi? Oppure mi sbaglio, e se l’è portato
dietro solo perché è bello e basta?
***
Uscita dal bagno torno a studiarlo. Ha detto di chiamarsi Juan, come Juan del Diablo,
il protagonista di Cuore selvaggio, la soap opera messicana che guardavo da ragazza.
E in effetti gli somiglia: bello, moro, tenebroso e molto maschile. Anche troppo per i
miei gusti, come se sprizzasse ormoni da tutti i pori. E poi, venire a un matrimonio
con un giubbotto di pelle nera... meglio non parlarne.
È l’esatto contrario della mia idea di principe azzurro.
Juan si accorge del mio sguardo fisso su di lui e si volta verso di me incuriosito: io
distolgo subito gli occhi e mi allontano tirando istintivamente indietro la pancia.
Appena me ne rendo conto penso di essere proprio una stupida: come se
cambiasse qualcosa! Il vestito è stretto, non c’è niente da fare. E poi cosa me ne
importa di lui? Nulla, è chiaro.
Raggiungo Roberta al buffet.
“Da domani mi metto a dieta!” le dico, afferrando una pizza fritta.
“Anche da dopodomani, stai benissimo così, Luna, non devi dimagrire” mi
risponde Roberta prendendomi a braccetto. “Andiamo! C’è il lancio del bouquet.” E
mi tira per la mano, trascinandomi al centro del prato nonostante la mia ritrosia.
***
Mi ritrovo in mezzo a un gruppo di ragazze scalmanate che si spintonano per mettersi
in pole position e riuscire ad afferrare il bouquet. Cerco di andarmene, ma Roberta
non ne vuole proprio sapere, tutte le sue amiche devono essere lì, se no si offende.
Mi metto in ultima fila. Odio essere al centro dell’attenzione e poi è proprio una
cosa ridicola, penso, mentre lancio delle occhiate a Edoardo, che mi fa cenno di
raggiungerlo.
“De-vo far-lo, Ro-ber-ta ci tie-ne” scandisco le parole con la bocca per cercare di
farmi capire da lui che da lontano continua a guardarmi di malumore.
So che il fatto che io partecipi al lancio del bouquet lo imbarazza. Lo trova di
cattivo gusto. Lui è per l’understatement, dedito alla massima riservatezza. Se fosse
per lui, il nostro matrimonio lo farebbe con pochissimi invitati, anche solo con i
testimoni. Cosa che ovviamente non gli permetterò.
Edoardo si rassegna e anch’io.
Mi metto pazientemente ad aspettare che questo rito bizzarro finisca,
riproponendomi di starmene lì come una comparsa. Solo che, nel momento in cui
Roberta fa il lancio, non so come, dentro di me succede qualcosa di inaspettato.
Quando vedo il bouquet in aria, di colpo entro in uno stato di trance, in un sogno. È
come se il tempo si fermasse e quel mazzo di fiori, che vola in alto a rallentatore,
diventasse il mio unico obiettivo. La cosa più importante della mia vita.
Non sono più al matrimonio di Roberta. Non vedo più nulla intorno a me, non c’è
più nessuno. Sono sola, immersa in una luce bianca, con il mio oggetto del desiderio
che sta venendo diritto verso di me.
Come un missile.
Con un urlo disumano corro in avanti sgomitando.
“È mio, è mio!” mi sento dire.
Poi con un balzo altissimo, veramente inusuale per me che non faccio mai sport,
mi lancio in aria e riesco ad afferrarlo per poi stramazzare al suolo, faccia a terra e
gonna sollevata.
Ma con il bouquet ben stretto al petto.