Verbiloquio sull`ISTA degli inizi

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Verbiloquio sull`ISTA degli inizi
Verbiloquio sull’ISTA degli inizi
frammenti ed appunti di Nando Taviani
(un testo del 1994 - ultima revisione: autunno 2009)
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International School of Theatre Anthropology
anni 1979 e seguenti
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UNA STRETTA LONTANANZA
…la stretta lontananza d’un abbraccio
(Bronislaw Malinowski)
“Col tempo – credetemi – sono maturato”.
Rispondo: “Cadendo vi siete fatto male?”.
(Carlo Dossi)
oOo
Il titolo “Una stretta lontananza” non piace. Non suscita immagini, l’ossimoro è
grossolano. Eppure continua a sembrarmi appropriato, adatto a definire la passione per
il teatro, questa voglia di tenersi il più stretti possibile a un’arte che sta oltre l’orizzonte,
come la montagna di cui parlava Craig. Montagna del Teatro verso cui molti si
indirizzano, spesso sbagliando strada, e sulla cui cima – diceva - nessuno ha mai messo
piede. Ma la cui nostalgia, intravedendola, ci punge la mente ed il cuore.
La nostalgia del teatro è soprattutto preventiva, contraddittoria nostalgia di ciò
che si aspetta e che manca. In compenso la nostalgia normale, quella che viene dopo,
non intristisce granché gli abbandoni. In genere, quando un appassionato smette di
andare a teatro, di esso non ne sente la mancanza in maniera lancinante. La nostalgia
preventiva – o stretta lontananza – caratterizza Meister e Artaud, Stanislavskij e Carmelo
Bene, il sogno di Cotrone e quello di Molière.
L’ISTA, con tutte le sue ufficiali parole – “Internazionale”, “Scuola”,
“Antropologia Teatrale” – è un caso di nostalgia preventiva sotto forma di “scuola”,
“d’accademia” e “campo base”.
Parliamo di teatro con spreco: spaccando il capello in quattro, cercando il pelo
nell’uovo. Come se fossero questioni essenziali per la vita dell’Arte (o per la vita toutcourt). Le persone “mature” non si comportano così.
Le persone “mature” non parlano del teatro come si parla delle faccende
essenziali, a meno che si tratti delle urgenze di coloro che nel teatro lavorano e di teatro
vivono. Ma gli altri – gli artisti non contenti di quel che si sa, gli appassionati, gli
spettatori - se si lasciano andare e si infervorano, dopo pochi minuti notano nel loro
interlocutore i sintomi del disinteresse, del fastidio e a volte della stizza: “stiamo
perdendo tempo”, pensa l’interlocutore. Se poi il discorso ha fattezze intelligenti è
ancora peggio. L’interlocutore si domanda: “Ma non sarà uno spreco di talenti?”.
Le persone “mature” riservano al Paese del Teatro un interesse proporzionato al
suo reale peso nell’orizzonte dello spettacolo del nostro tempo, che rarissimamente è
spettacolo al vivo. Poiché nella società dello spettacolo il teatro assume sempre più le
dimensioni d’una zona marginale, la passione e l’acribia rivolte alle pratiche teatrali
appaiono esagerate, sintomi – appunto - di immaturità.
L’ISTA–International School of Theatre Anthropology si fonda su un postulato
non scritto: vale la pena esplorare i mestieri della scena. Il che, visto dal di dentro, può
far pensare all’inesplorata montagna sulla linea dell’orizzonte; e visto da vicino (troppo da
vicino) può anche somigliare ad uno che esplori un giardino semi-abbandonato come se
racchiudesse i misteri della Giungla Nera.
Potremmo anche dire che l’ISTA è scientifica come può esserlo una Festa
laboriosa. E che il suo nome potrebbe mutarsi in: International Feast of Theatrical Bios.
Questa boutade farà sbruffare d’impazienza, per la sua improponibilità, coloro che
dell’ISTA hanno una qualche esperienza, a cominciare da chi l’ha inventata. Mi si
permetta, però, di sviluppare l’idea in qualche riga: Festa in senso forte, spazio-tempo
fatto non per essere visti ma per vedere in maniera non-quotidiana. Imaginiamo: tutti
conosciamo Edipo Re, o – se si preferisce – Edipo Tiranno, chiaroveggente che si acceca.
La responsabilità finale – ovviamente – è degli dèi. Gli dèi, cioè, sono i veri spettatori
occulti. Per loro tutto è farsa e commedia, a partire dalla nostra tragedia. Potremmo mai
vedere anche noi, sia pure in un lampo, la tragedia delle tragedie come la vedono gli dèi?
La ricerca teatrale è solo ricerca sul comportamento extra-quotidiano dell’attore? Non
potrebbe andare anche a caccia dell’extra-quotidianità dello spettatore?
Con queste domande siamo entrati nel territorio del verbiloquio.
Il verbiloquio è il tipico genere degli immaturi. E’ un termine a base tautologica
usato per indicare gli scritti deragliati che malgrado tutto possono però offrire qualche
senso alla lettura.
Il presente verbiloquio risale all’estate 1994, fu dattiloscritto per non essere
pubblicato, rivolto ad altre poche persone amanti della professione scenica o “spettatori
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di professione” (confratelli e consorelle anche loro “immature”). Poco dopo è stato
diffuso in una piccola cerchia - con il titolo Ricordi ed altre allegrezze - dal servizio
“Preprint” ideato e curato da Renzo Vescovi e dal Teatro Tascabile di BergamoAccademia delle forme sceniche. E’ stato riveduto, ampliato e soprattutto tagliato
nell’estate del 2009, con sospetto, e fra i rimbrotti. Sospetto, perché chi l’ha scritto ha
sempre temuto che dovesse risultar utile a qualcosa di predefinito (insegnare?
Testimoniare? Documentare?). Rimbrotti, perché anni dopo mi è stato chiesto soltanto
di depurarlo da alcune grossolanità grafiche (i programmi di scrittura dei computer del
1994 risultano oggi arretrati) e da molte bizzarrie nell’impaginazione. Un lavoro di
poche ore, rispondendo alla richiesta di inserirlo – dattiloscritto ma in pulito – fra i
documenti degli erigendi Odin Teatret Archives. Sono passati i mesi, quasi un anno, e il
lavoro solo ora lo sto terminando.
Nel frattempo, la condizione del libero teatro è mutata. Parlare dell’ISTA, dei suoi
inizi, dopo questo impercettibile e forse decisivo mutamento è molto diverso da quel
che era parlarne quindici anni fa. C’è la sensazione d’aver superato un valico.
Nel frattempo
Benché non appaia chiaramente, qualcosa dev’essersi rotto sotto la superficie.
Forse semplicemente un’idea labile come un’ala di farfalla, un piccolo strappo dopo il
quale tutto rimane in piedi – ma come se fosse già crollato. L’ala di farfalla era un’idea
basata sul quasi-nulla: che fosse normale sovvenzionare le attività teatrali con denaro
pubblico, essendo esse di per sé un “bene culturale” da proteggere in quanto spettacolo
“al vivo” o “dal vivo”, in un’era dove lo spettacolo normale è tutto e quasi soltanto
spettacolo d’immagine, mediatico, ripreso e diffuso a distanza. Per il fatto stesso
d’appartenere, insomma, ad una specie protetta, come quella d’una mosca bianca, che
non la si lascia sparire per la semplice ragione che lasciata sola sparirebbe. Questo,
benché strano, è parso per anni un pensiero ed un comportamento normale, una
conseguenza marginale dell’era teatrale che sostituì al commercio teatrale le sovvenzioni.
Con l’avvento della Recessione del 2008-2009, le sovvenzioni ai teatri sono state
quasi ovunque decimate, e accanto a questa decimazione è cresciuta la sensazione che
potrebbero anche quasi del tutto sparire, con la supplenza di sponsor privati, mecenati,
finanziamenti “a progetto”, ecc. Sarebbe in generale una rivoluzione. Ma per i teatri
liberi, soprattutto in Europa, vorrebbe dire desertificazione.
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Tutto ciò che va sotto i nomi di “ricerca”, “sperimentazione”, “laboratorio”, mira
di fatto all’imprevisto, a qualcosa da trovare. Per essere credibile, in assenza d’una
giustificazione a priori, deve godere dell’ombra d’un Prestigio, nel senso di gloria
acquisita, consenso di pubblico, appartenenza ad un genere riconosciuto. O magari
anche semplicemente nel senso di “gioco di prestigio” (dall’abile teorizzazione al
millantato credito). In poche parole questo significa che tutto ciò che va sotto i nomi di
“ricerca”, “sperimentazione”, “laboratorio”, ecc., vivrà fra difficoltà più gravi del solito,
ma soprattutto perderà gli incentivi per cominciare a vivere. Il “chi c’è, c’è; chi non c’è,
non c’è” sta per diventare, e in parte è già diventato, un principio fondamentale della
nuova “selezione naturale” nei territori del teatro.
Allarghiamo per un attimo il campo d’osservazione, inquadriamo i territori di
lassù, dal posto dove stanno le nuvole. Vediamo che i sovrappiù teatrali prosperano nei
tempi intrisi di Speranza, talmente intrisi da non accorgersene. Speranza - non foss’altro
- d’un futuro migliore. Certamente quei tempi torneranno, per la semplice ragione che la
specie dell’homo sapiens-sapiens, pare si raccontino i gatti quando si scambiano
informazioni sul Creato - ha la peculiarità un po’ mostruosa di non sapersi accettare così
com’è. Le cose come stanno sembrano quasi sempre, ai soggetti di questa specie, un
affronto alla (loro) Natura. Saremmo esseri puramente ridicoli, se non fossimo uno dei
misteriosi errori della catena evolutiva.
E dunque i tempi della Speranza ritorneranno. Ma nel frattempo non ce n’è quasi
traccia. Se oggi diciamo “Speranza” non sappiamo neppure dove guardare. In alto no.
Davanti, peggio che andar di notte. Finché diciamo “stabilità”, “tolleranza”,
“sostenibilità”, “diversità”, d’accordo. Ma Speranza, con la maiuscola, è qualcosa che
non ha né presenza né funzione. Speriamo che le cose continuino ad andar avanti più o
meno come ora, correggendo qualche stortura. Speriamo che il relativo privilegio si
mantenga. Altro di meglio sembra che non ci sia. Persino i “valori” sembrano
identificarsi con il codice penale e civile. Abbiamo molte speranze portatili, tutt’altra
cosa, anzi l’opposto, della Speranza.
Poco più d’un calembour e poco meno d’un’idea è ciò che qualcuno ha suggerito:
che il teatro possa offrire l’ambiente adatto alla Speranza disperata, o – con parole più
caste – al pessimismo dell’intelletto intrecciato all’ottimismo della volontà. Inciampi
logici. Ma noi immaturi abbiamo bisogno di qualche scalino in cui inciampare per saltar
su ed entrare in argomento, per saltare dal grande al piccolo, dal tempo che ci
comprende al dettaglio che vorremmo comprendere.
In realtà basterebbe molto meno d’un tempo intriso di Speranza, per regalare al
teatro il suo val-la-pena. Basterebbe l’ossatura d’una casa, d’un asilo in cui ritirarsi a volte
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degnamente, un’ossatura architettonica, una teatrologia interna, una scientia in base alla
quale trascendere almeno in parte le cronache delle stagioni.
Questo vuol dire che l’ISTA appare oggi inattuale? Inattuale lo è sempre stata.
Ma oggi può forse essere profetica. Nel 1994, quando gli appunti e i frammenti di
questo verbiloquio vennero buttati giù, si poteva pensare che offrissero cronache adatte
ai futuri possibili partecipanti delle future sessioni dell’ISTA. Oggi, un tale futuro
prossimo è difficile da pensare. L’efficacia immediata di quelle feste – Feste del Bios
scnico – appare oggi problematica e forse inesistente. Il che vuol dire che l’efficacia
dovrebbe passare al racconto. Nel racconto potrebbe conservarsi il seme (“Certi canti
non li possiamo più cantare – diceva l’antico rabbino – ma di essi possiamo
raccontare”). E il seme, se lo si conserva in secco, può sempre germogliare in orti e
tempi imprevisti e dilazionati. Il che vuol dire che il nostro verbiloquio si trova carico di
responsabilità superiori a quelle originarie. Non avrà certo la forza di rispondere ad esse
come dovrebbe. Lo si prenda per quel che è: la prima fase d’un disseccamento a-venire.
De Spectaculis, e il palazzotto del teatro
Forse sarebbe stato pomposo, ma il titolo giusto avrebbe dovuto essere De
Spectaculis. Perché l’ISTA, soprattutto nei suoi primi anni, ha rappresentato il più
vigoroso tentativo di fissare i contorni di una vera teatrologia interna, d’una scientia de
spectaculis. Qualcosa di superfluo, agli occhi di molti addetti alle pratiche e soprattutto
agli studi teatrali.
Invano si percorrerebbero stanze corridoi soffitte e cantine del palazzotto
affascinante e fatiscente del Sapere Teatrale d’Occidente: una nicchia riservata alla sua
scientia non c’è.
Cantine e seminterrati custodiscono disordinati raccoglitori di strumenti del
mestiere; pacchetti di ricette, prontuari, aneddoti; ceste di trovarobato; manifesti e
contratti; disegni delle scenografie e dei costumi.
Al piano terra fanno bella mostra di sé le discussioni sui generi letterari
drammatici e i loro principi. Le sole che assomiglino ad una scientia: la scienza dello
sceneggiare.
Nei corridoi, c’è una colorata esposizione di quelle che a scuola ci insegnavano a
chiamar “poetiche”: le teorie particolari dei singoli artisti, delle singole correnti, dei
singoli stili, da non confondere – imparavamo dai filosofi dell’arte - con le teorie
davvero estetiche. Era un’utilissima distinzione. Cadde in mano ai pedanti e si trasformò
in un mediocre disinfettante. Al posto d’una teatrologia interna, si ebbero pertanto molti
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medaglioni, ognuno con la sua etichetta. Tanti teatranti, niente Teatro. Si annusa,
percorrendo questi corridoi, il tanfo e lo squallore, pur fra la grande ramificata ricchezza
delle idee. Una raccolta di fiale, dotata ciascuna del proprio tampone contenente le
tracce del materiale organico per la ricostruzione dei differenti DNA, ogni “poetica”,
un’ampolla - come gli intelletti folli conservati sulla Luna, quando vi volarono Astolfo e
l’Ippogrifo. Finché ci si accorge che una sequela di differenze sotto vuoto non fa più
differenza.
Su, ai piani nobili, negli ambienti più vasti, più frequentati, più arieggiati e
luminosi, si aprono le ampie sale dei Repertorii, biblioteche di pièces diverse, raccolte
per Autore, per Genere, per Secolo, per Paese: il rigoglioso Mato Grosso del teatro.
Libri che dialogano fra di loro, che scivolano a volte l’uno nell’altro, impulsi e
contrimpulsi che se ne infischiano di calendari e stagioni. Il Teatro che accade-oraaccade-sempre, liofilizzato in parole efficaci, pronto a rifiorire, serbatoio d’aria buona.
In soffitta, si conserva il Thesaurus dei semi: i libretti e gli scartafacci delle farse.
L’ISTA ha preso posto sùbito fuori dal Palazzotto, a volte nel giardino, altre volte
nei cortili, senza dar fastidio. La Professione teatrale vi si è materializzata come mestiere
e come “mondo” a sé stante, assumendo per tempi intermittenti i contorni d’un
villaggetto non solo virtuale: capace di ricompattarsi e riconoscersi ogniqualvolta se ne
offrisse l’occasione.
L’occasione era il sogno ad occhi aperti di Eugenio Barba. Dentro quel sogno,
presero forme molte realtà. A nessuna istituzione culturale, a nessun ricercatore
ragionevole sarebbe mai venuto in mente di raccogliere tante lingue e tanta gente
disparata. E se anche gli fosse venuto in mente, nessuno avrebbe avuto il polso per
dirigere un accampamento-laboratorio con personalità diverse, ognuna col giustificato
amor proprio della sua tradizione artistica, con le sue idiosincrasie, le sue differenti
abitudini professionali. O con l’amor proprio di chi lotta per emergere dal mutismo.
Gente disparata raccolta, per di più, in condizioni logistiche disagiate, con un orario di
lavoro intensissimo, e in vista d’una ricerca proiettata sul non si sa che, capace di
assumere le vesti di differenti ragionevolezze: attività pedagogica, indagine scientifica,
dialogo multiculturale - ed anche un Carnevale come non se ne fanno più da secoli.
Penso ad Urbino, al febbraio del 1513. Tornerò ad accennarvi più avanti (nel paragrafo
Fiaba e Allegoria).
A priori, l’ISTA sembrava una flottiglia di artistiche barchette impreziosite dai
caratteri della cultura alternativa o dallo scintillio scientifico – quella scientia di cui alcuni
sentono fortemente il bisogno per trasmettere l’esperienza e per imparare a imparare. A
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posteriori, sembra un’accademia o un laboratorio multiculturale da cui escono libri, saggi,
resoconti scientifici, una buona dose di buon senso, ed anche il solito senso comune,
che del buon senso è nemico giurato. E che alcuni artisti di teatro ricordano a distanza
di anni come l’alta scuola che è stata il trampolino per l’ardire delle loro scelte
professionali. In mezzo fra l’a priori e l’a posteriori, l’ISTA rappresenta forse la pancia del
teatro. In una parola: la sua interiorità.
Il grano sotto il letto
Dicevamo che alcuni reputano non solo superfluo, ma artificiale e bizzarro il
problema della teatrologia interna. Non ne sentono alcun bisogno, e a sentirne parlare si
stizziscono come se si trovassero davanti ad una fissazione. E’ strano. E’ come non
sentire il bisogno dell’interiorità.
Ci sono sentieri interni e sentieri esterni. Non sono divergenti. Mirano per vie
complementari e conoscere e circoscrivere uno stesso territorio. Per i linguisti, ad
esempio, è vitale distinguere, una “linguistica interna”, che studia i procedimenti del
linguaggio o delle lingue, i loro mutamenti osservati come se fossero autogeni; ed una
“linguistica esterna” che connette i mutamenti alle circostanze storiche e geografiche,
agli influssi ed ai contatti, all’evoluzione del comportamento e delle mentalità. Le due
cose non sono ovviamente separabili, ma proprio per questo gli sguardi, i sentieri, i
metodi verso l’una o l’altra di esse vanno tenuti separati per intravedere lo spessore
dell’insieme.
Con diverse accentuazioni, l’equilibrio fra il sentiero “interno” e quello “esterno”
dà peso, volume e dialettica ad ogni disciplina che abbia attinenza diretta e obbligata con
una pratica, dalla musica all’economia, dall’architettura alle arti figurative e persino alle
matematiche. Con il teatro, nella tradizione di matrice europea, le cose sono andate
diversamente: le pratiche sono state espunte o recintate a parte. Il sapere teatrale ha
avuto il suo centro di gravità nei libri, si è condensato ed approfondito attorno ai
problemi drammaturgici, su di essi ha combattuto le sue battaglie e fondato la propria
scientia. La mancanza di una consistente ed articolata teatrologia interna e persino di una
nomenclatura sufficientemente dettagliata per classificare e rendere distinguibili i
procedimenti attorici e le diverse sfaccettature del rapporto con gli spettatori, sono
insieme causa ed effetto della superficialità, dell’autindulgenza e della demoralizzazione
degli studi teatrali, sia quand’essi crebbero nelle adiacenze di ben assestate convenienze
sceniche; sia quando poi si sono acquattati fra i programmi d’esame per gli scolari delle
accademie e delle università.
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Dalle codificazioni dei singoli stili e delle singole tradizioni spettacolari, dalle
pratiche degli attori, non si sono estratti ricorrenze significative in tecniche diverse e
lontane. In compenso s’è parlato molto delle teorie che ispirerebbero le tecniche.
Contemporaneamente, gli attori e le attrici eminenti, sia nella vita vissuta che in quella
postuma, sono stati circondati e raccontati per lo più da dragomanni addestrati dal
giornalismo e della letteratura di colore, inconsapevoli parodie dei prāśnika, gli spettatoriintenditori, essenziali, secondo il Nātyāśāstra, per la conservazione-innovazione dell’arte.
Non sono giudici, i prāśnika, non sono l’ultima parola in fatto di tradizione, o senso
estetico. Ma sono uno dei poli delle tensioni, del dialogo, della dialettica attraverso cui
lentamente si condensa l’oggettività a lungo termine del teatro.
Solo pochissimi appassionati di teatro hanno accettato la loro passione fino a
trasformarsi in ricercatori sul campo. E pochi, fra quei pochissimi, hanno saputo
coltivare l’Illusione vitale degli studi: che esista un uditorio sufficiente a fondare il val-lapena dell’analisi e del racconto.
Poiché gli studi teatrali, nel loro complesso, si sono tenuti lontani dai fuochi
artificiali delle tecniche, essi sono cresciuti per lo più anemici, come il grano bianco,
educato al buio sotto il letto, per decorare, un tempo, le paraliturgie dei Sepolcri.
Entrare in scena
Per far ricerca nel campo del teatro bisogna metter piede nel territorio degli attori,
entrare in scena. Ma che cosa vuol dire “entrare in scena”?
La scena non è solo uno spazio da vedere, un tridimensionale schermo
d’immagini. Quando il sipario è chiuso, quando la platea è una vuota caverna, o quando
la sala di lavoro ha la porta chiusa, e non vi sono ospiti-spettatori ai posti che loro
spettano, la scena è lo spazio paradossale del pre-spettacolare pencolante o sobbollente:
prove-ed-errori, clichés, fughe in avanti, cenni di spettacoli che affiorano per un attimo
e non si vedranno mai – fra essi, anche quelli che più avanti chiameremo gli “spettacoli
dell’isola di Atlantide”.
Si dice: entra in scena Tizio, esce di scena Caia. Ma gli attori parlano in modo
rovesciato. Dicono che uno di loro esce in scena, quando dal punto di vista degli
spettatori entra. E dicono che entra quando ritorna nel retroscena e fra le quinte. Così si
usava, per esempio, nel gergo teatrale italiano, che rappresenta un modo comune di
pensare e vedere. E’, una volta ancora, il famoso specchio.
In questo nodo di sguardi incrociati e speculari, Carmelo Bene ha piantato il
paletto d’un ragionevolissimo paradosso: gli attori non mettono in scena proprio niente
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(se si intestardiscono a farlo, diventano uomini e donne per burla). In realtà, con lo
spettacolo, gli attori tolgono di scena. Quando attori ed attrici escono – per esempio dai loro camerini, carichi ciascuno del proprio personaggio, d’una storia incombente,
sboccano all’esterno e rendono alla scena tutte le sue spoglie. Se stanno per recitare
Amleto, stanno per realizzare “un Amleto di meno”. Carmelo Bene sbandierava questo
titolo per un suo spettacolo amletico e sembrava una stranezza. Eppure, nel raccontare
questo nodo essenziale del teatro, o nel presupporlo, parlava di cose semplici e chiare.
Parevano spiritose. Indicavano una via maestra. E pareva un labirinto.
Si ammantava di oscurità? Al contrario: sfuggiva la penombra delle cose seriose.
Si teneva nel territorio del comico e dell’umoristico, s’atteggiava a battutista, anche
quando vestiva gli abiti d’un infranciosato filosofo (ma sempre con un risolino
sarcastico nascosto in un angolo della bocca). Perché sapeva che la gravità, quando
s’accampa lungo i margini del teatro, è perniciosa: prelude all’abbandono o alla
condanna.
Nella tradizione culturale di radice europea, uno sguardo acuto ed attento
dedicato alla scena come spazio da-vedere-e-da-abitare si è avuto quasi soltanto con i
moralisti più intransigenti e radicali – da Tertulliano ad Agostino, da Bossuet a
Rousseau. E’ stato quasi sempre uno sguardo che s’è tenuto lontano dai grossolani
paradigmi sull’immedesimazione o la non-immedesimazione, sul caldo e sul freddo della
recitazione, su cui insistevano gli illuministi che cercavano di capire la macchina-uomo e
si servivano degli attori come cavie. Lo sguardo acuto dei moralisti retrogradi serviva a
definire il danno del teatro per la vita. Ma quel danno non veniva visto all’ingrosso.
Veniva attribuito a veleni sottili, a scosse intime. Veleni e scosse che la scena può
diffondere e che sono per noi le sue virtù, i suoi interiori val-la-pena. Anche per questo
nel titolo sarebbe andata bene la soluzione forse pomposa: il ri-uso rovesciato della
celebre intestazione di alcune celebri sentenze di condanna: De Spectaculis.
Ma anche altre forma di gravità fanno male atrofizzando lo spirito del comico. Si
pensa di entrare in scena. E ci si ritrova in un paese. Allora si esagera: si parla di nobili
falansteri, monasteri, romitaggi, abbazie. Oppure al contrario: carceri, bordelli, case di
scalognati e di persone inadeguate alla vita. E così, un colpo al cerchio e uno alla botte,
la risata di sottofondo vien meno.
Come semplice paese, il teatro ha il pregio di presentarsi un po’ come
Quinquendone, dove Jules Verne ambienta La fantaisie du Docteur Ox; o come Calabuig,
la cittadina del film di Berlanga (e Flaiano). O come Tlön, di cui più avanti
fortunatamente parleremo.
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L’anello del mestiere
Dai pensieri alti si può solo scendere. Abbassare i toni serve a salire.
Chi malgrado tutto volesse percorrere Quinquendon o Calabuig come se fossero
una Zona da cui arrampicarsi verso lo stato d’allerta d’una chasse spirituelle, potrebbe
sedersi e farsi raccontare le storie dell’ISTA, dove fra le regole del giuoco – regole nondette, come sempre le più serie, le più importanti - c’era quella di comportarsi come se il
teatro fosse la proverbiale “ars longa vita brevis” che costituisce non solo un esercizio
spirituale, ma un microcosmo virtualmente infinito con le fattezze d’un mestiere. Nel
detto latino appena citato, ars indica mestiere e consapevolezza del mestiere. In altre
parole: una pratica dotata di teoria. E potremo aggiungere che si dota una pratica di
teoria quando davvero la si ama e la si desidera aldilà dai propri limiti ovvi: Amore ed Arte
fanno grandi le piccole cose, diceva Goethe.
Caratteristico dell’ISTA è l’amalgama di ricerca teorica e di lavoro pratico.
Amalgama vuol dire erosione dei confini, sfuggire alla contrapposizione (in gran parte
pretestuosa) fra le competenze degli attori e quelle degli spettatori, fra la scena e il libro.
E’ caratteristica dell’ISTA anche la planimetria della sua zona: non questa o quella
tradizione, l’uno o l’altro stile, ma il “mestiere”, ciò che di diverso e di unitario si
nasconde dietro questa parola. Tradizioni, scuole, stili diversi posti l’uno di fronte
all’altro. E’ un atteggiamento che deriva direttamente dalla Grande Riforma teatrale
d’inizio Novecento e dai suoi Padri Fondatori.
Gordon Craig, dall’alto della sua superiorità intellettuale (epperò incapace o
sdegnoso nei confronti dell’arte del comando), diceva al dotto William Archer più o
meno così: “Che cosa potrà mai capire, lei, dell’arte d’una attore completo come Irving,
se cerca di capirlo restando bloccato in una poltrona di platea?, se non è mai salito in
palcoscenico per osservare il prova-e-riprova di quell’attore?”. Lo stesso tono
adottavano i padri e le madri dell’Antropologia Culturale quando apostrofavano gli
antropologi da biblioteca, come il grande Frazer, o quelli che facevano domande in loco
ma senza muoversi dalla chaise-longue d’una veranda coloniale. Il vero viaggio non è
quello da New York ad un villaggio della Polinesia, ma quello che va dalla veranda alla
piazza del mercato – diceva, più o meno con queste parole, Margaret Mead.
L’invito che ogni demarcazione ci trasmette è a scavalcarla. E’ difficile
attraversare il confine mentale che distingue gli spettatori dagli attori. Uno spostamento
del genere si crea nello sguardo dei partecipanti dell’ISTA. Ce ne siamo accorti con
l’andar del tempo: se il termine “scuola” significava qualcosa di sensato, indicava una
“scuola dello sguardo”. Scavalcare la linea di demarcazione fra chi il teatro lo fa
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facendosi vedere e chi lo fa invece vedendolo non significa uccidere i rispettivi ruoli
dell’attore e dello spettatore. Significa semmai non farsene schiavi. La confusione fra i
due emisferi qualche volta può servire, ma il sapere che essa non deve dividere anche la
testa che pensa, questo sì, serve sempre. Anche se poi ognuno, secondo il fabbisogno
dello spettacolo, deve riprendersi il proprio posto. L’enfasi posta sulle differenze fra chi
recita e chi, per esempio, scrive, quando viene riattizzata ed enfatizzata, diventa una
delle colonne portanti del teatro come scuola d’approssimazione e mediocrità.
La mancanza d’una scienza interna del teatro fu vissuta in modo drammatico dai
riformatori del Novecento, quando tentarono di edificare dalle basi un edificio di
conoscenze specificamente teatrali, necessarie per raffinare l’artigianato scenico e per
individuare i principi della trasmissione. Perché da un lato c’era mestiere senza teoria, e
dall’altro teoria senza mestiere. Tutto s’era infatti svolto come se nella teoria, al
contrario di quel che avviene nella pratica, il vero interlocutore dello spettacolo fosse il
suo testo - e gli spettatori fossero lì per vedere come funzionasse il connubio. E come se
la pratica fosse roba da specialisti o praticoni. Jacques Copeau, prima ancora di fondare
il Vieux-Colombier, stigmatizzava la patologica scissione d’un “mestiere” sentito come
puro saper-fare separato dalla sua “Arte”.
L’altro carattere basilare dell’ISTA, e cioè l’atteggiamento pedagogico, ci obbliga a
fermarci un attimo a riflettere. Qui le cose non vanno lisce come sembra.
Anche l’atteggiamento pedagogico deriva dalla pratica dei Padri Fondatori, per i
quali la scientia del teatro era tutt’uno con le condizioni necessarie per trasmetterla. Ma
quel che si desiderava trasmettere non era la Forma d’una Tradizione. Erano, al
contrario, i primi passi per muoversi verso un’arte del teatro ancora in gran parte da
esplorare – o piuttosto da inventare. La pedagogia – a differenza di quanto accadeva
nelle scuole di teatro regolari – era concepita come il punto di partenza per ricominciare
daccapo. Assumeva, perciò, una natura contraddittoria in se stessa. Ha senso una pratica
pedagogica che non trasmette forme sceniche consolidate – come è quando si impara il
Kabuki o l’Opera – ma che al contrario si propone di predisporre a forme non ancora
formate? Non è una contraddizione in termini?
Alcuni definiscono la pratica pedagogica non finalizzata all’apprendimento d’una
forma già formata un dovere sociale e culturale: diffondere il sapere tecnico di base, per
coloro che non hanno il privilegio d’un’ordinata educazione. Ma perché non ce l’hanno,
questo privilegio? Perché l’hanno cercato e sono stati esclusi, oppure perché non
l’avrebbero mai voluto o non ne avrebbero mai fatto tesoro?
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Altri ritengono che sia un’illusione vitale, se osservata dal punto di vista dei
“maestri”. Ma se è così rischia di depotenziarsi in una pura e semplice illusione, se
osservata dal punto di vista degli “allievi”. Addirittura c’è chi afferma che si dovrebbe
parlare d’una vera e propria menzogna vitale. Vitale perché senza poter fare come se ci
fosse un’esperienza da trasmettere non si potrebbe creare il rapporto fra generazioni,
che è una delle cose che chiamiamo “vita”. E però Menzogna, perché in assenza d’una
vera e propria selezione naturale, senza la legge della giungla dei successi e degli
insuccessi, della fama e della disgrazia, non c’è niente che motivi la violenza, o se si
vuole le forzature, gli eccessi, le fatiche che fanno parte d’ogni rapporto pedagogico che
miri all’alta qualità. E perché, senza mirare all’alta qualità, ogni trasmissione dell’arte non
può che depotenziarsi, sicché la pratica pedagogica rischia di diventare l’arte operosa
dell’accontentarsi.
E perché mai, domandano gli ottimisti, non dovrebbe esserci gara per la qualità?
Perché mai la dialettica successo-insuccesso dovrebbe sciogliersi in nulla? Replicano i
pessimisti: perché alla base non c’è competizione, ma comunione d’intenti. Il che si
adatta molto bene allo spirito dei tempi in cui il teatro vive sostanzialmente di
sovvenzioni. La concorrenza in un’economia di sovvenzione poco ha a che fare con
l’efficacia artistica. Dipende dall’efficacia organizzativa. E’ la forza di convinzione del
progetto, non quella del risultato a decidere. Ed è l’economia di base a formare la
mentalità e le regole del mestiere: per vie dirette e soprattutto indirette.
“Á quoi sert la vertu solitaire?”: il rigore artistico, senza lo spettro della fame, non
si regge. E’, per l’appunto, una virtù solitaria. Può dar vita ad alcune splendide eccezioni.
Ma nella generalità declina. Ma come!? – qualcuno domanda – si vuol forse dire che
dietro l’eccellenza di Decroux, degli attori di Kantor, di Grotowski, della Mnouchkine,
di Barba; che dietro gli attori della Socìetas Raffaelo Sanzio o del Teatro Tascabile di
Bergamo, della Fura dels Bahus o d’un’altra di quelle enclave teatrali che sono in realtà
piccole tradizioni, si vuol forse dire che alla base di quelle appartenenze c’è lo spettro
della fame?! Proprio così. Perché la fame non è solo stomaco vuoto. Come definire,
sennò, ciò che tormenta alcuni, la spinta ad entrare in un ambiente ristretto, difficile, che
a volte ci vogliono anni ed anni per impadronirsi delle sue regole? Che ha regole difficili,
che non insegna un mestiere davvero valido altrove ed altrove spendibile? Ma nel quale
ambiente, malgrado tutto, alcuni vogliono integrarsi e vivere? E’ una sorta di legge della
giungla a permettere l’integrazione. Niente a che vedere con i pochi principi stilistici o
tecnici che vengono velocemente fatti assaggiare nei seminari pratici d’una settimana o
dieci giorni. Per i quali seminari, si obietta, spesso vi è una nutrita domanda. Sì, perché
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sono solo d’una settimana o dieci giorni: il tempo per sperimentare l’arte operosa
dell’accontentarsi.
Eugenio Barba ha piazzato l’attività pratica dell’ISTA sotto lo slogan “imparare
ad imparare”. Ha rotto, così, il contratto pedagogico tradizionale, dove chi insegna non
sa soltanto insegnare, ma sa anche che cosa all’allievo serva o non serva imparare . Pur
continuando spesso a parlare di “pedagogia teatrale”, Barba ne ha fatto, nell’ISTA, una
pedagogia deragliata. I binari pedagogici regolari prevedono il raggiungimento di
determinati risultati, un programma d’insegnamento definito e calibrato su mete
controllabili in riferimento a determinati fini: un come insegnare ben correlato al perché
imparare. Separando il come dal perché, Barba ha sostituito al contratto pedagogicoscolastico un patto di solidarietà: si lavora assieme; come si lavori lo stabilisco io, Barba,
e lo stabiliscono i diversi maestri che ho radunato; ma perché si lavori ciascuno lo
stabilisce per sé. Ortoprassi invece d’ortodossia. Non abbiamo niente in comune,
tranne il tempo e lo spazio che ci contengono.
L’eccesso e la sua smorfia
Che il teatro assomigli ad un paese è un’idea che non viene dalla Grande Riforma
né dai suoi Padri Fondatori. Loro pensavano piuttosto ad avamposti, monasteri, strane
Abbazie di Thelème (alla maniera di Rabelais), acropoli, comunità anarchiche, piccole
città del Sole o dell’Arte. Pensavano a territori unanimi, capaci di radunare i simili e i
pari.
In un paese, invece, non vi è né unanimità né somiglianza, solo una comune
appartenenza. Confini comuni, feste e ricorrenze comuni, lavori diversi, mansioni
complementari, interessi opposti ed in lotta fra di loro, ricchi e poveri che vivono a
pochi passi gli uni dagli altri, spesso conoscendosi poco, amandosi meno, ma a volte
stringendo incongrue alleanze. Una compresenza di ceti e di culture. Differenze
lontananze incomprensioni rivalità sodalizi noti o segreti. Il tutto strettamente legato in
un ristretto territorio: è questo che fa un paese.
Il tempo dell’ISTA è stato (quasi) sempre un tempo separato. Non un tempo di
raccoglimento, ma un tempo faticoso e festivo. Cioè super architettato. Un’architettura
del tempo, simile a quella del Carnevale e delle Feste, o delle Grandi Manovre, che per i
mestieri delle armi sono guerra guerreggiata senza guerra. Al centro di questo tempo
separato, aldilà dei differenti temi di ricerca, aldilà degli esperimenti e degli spettacoli,
mai nominato, perlopiù ignorato, c’è sempre stato un eccesso: si faceva come se il teatro
fosse un valore di vita, l’oggetto d’una dedizione, un mestiere vasto e terribile. Come il
mondo. Un altro mondo.
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Perché un eccesso? Perché tutto il senso del lavoro ruota attorno all’asse del
mestiere e della tecnica - e poi, appena fuori dai confini dell’ISTA, l’eccellenza del
mestiere e della tecnica non è quasi mai richiesta e raramente riconosciuta. La sola
possibilità è, per ciascuno, forgiarsi gli strumenti per combattere lungo i propri
diversissimi e spesso imparagonabili sentieri, spesso umili poveri e ritirati. Ma
purtroppo, senza mirare all’alta qualità della propria arte, gli umili restano umiliati,
oppure sono costretti ad acquattarsi nella furbizia e nella tecnica d’una sopravvivenza
contenta di sé, senza un lume che la trascenda.
Benché l’ISTA sia super architettata, sono rarissimi i casi in cui in una sua
sessione abbia prevalso il tempo scalettato delle scuole, delle caserme, dei talk show,
che non si adatta ai casi, ma a cui sono i casi a doversi adattare. Il prevalere degli
orologi, la forza stringente dell’orario programmato, quando si sono manifestati, son
sempre stati sintomi di demotivazione e temporaneo smarrimento del senso. La virtù
dell’eccesso si depotenzia allora nella sua smorfia: la disciplinata corsa d’una fretta
indiavolata per passare dall’una all’altra attività in programma.
Poiché l’ISTA non sta tutta dentro gli abiti delle sue formule, della sua
organizzazione, delle sue teorie, poiché – anzi - il suo senso si coglie nel debordare, nei
paragrafi o frammenti che seguono, cercherò di fornire una testimonianza quasi sempre
in terza persona delle facce dell’ISTA che non compaiono dai documenti compilati e
pubblicati per essere utili. Vorrei che i curiosi avessero qualche sentore anche del resto,
quel tumulto, quel misto di senso di gratuità, di sfida e di coinvolgimento che
caratterizzò gli inizi dell’ISTA e che – ripeto - permetterebbe persino di pensarla alla
luce della categoria Festa. Che è sempre gioia e minaccia, se davvero è Festa.
Ho dovuto scegliere. Non ho parlato, fra gli aneddoti che aneddoti non sono,
degli scoppi improvvisi di allegria e baldoria nelle notti dopo gli ultimissimi
appuntamenti di lavoro. Sicché molti, a Bonn e Volterra soprattutto, dormirono per un
mese e più due o quattro ore per notte. Recuperando il sonno perduto nel giorno libero
settimanale.
Le immagini “in soggettiva” e persino gli aneddoti si alterneranno ai dati oggettivi
e a qualche embrionale riflessione. E’ il miscuglio che caratterizza l’esperienza sul
campo. E’ bene non restare chiusi in quel campo o in quell’orizzonte. Ma è anche
importante conservarne un qualche sapore per chi di quelle zone, a distanza di tempo,
fosse però curioso.
L’ordine dei paragrafi è variamento disordinato, spesso basato sulla digressione.
Citerò ancora una volta Carlo Dossi, quando parla di “argomentazioni che sono come i
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sentieri in un giardino, fatti per allungare, non per accorciare la strada”. Nel giardino in
cui gli immaturi sperimentano i misteri della Giungla Nera. E sentono questa apparente
immaturità come una benedizione, una delle misericordie che la vita ha concesso loro.
Fine estate del 1979
Quando alla fine dell'estate del 1979 Eugenio Barba mi parlò per la prima volta
del progetto d'una scuola in cui riunire gli artisti orientali che già avevano collaborato
con lui, prima fra tutti Sanjukta Panigrahi, la mia reazione fu doppia: gusto per la novità
e sospetto per la parola «school». La scuola comunque non sarebbe stata «di teatro»
ma d' «antropologia teatrale» (il termine ISTA non era ancora definito). Antropologia
Teatrale era poco più d’un paravento, uno di quelle espressioni fatte per incutere
rispetto ai possibili committenti. E che sùbito dopo debbono riempirsi di senso, per non
rimanere allo stato di cortina fumogena. Rinchiudersi in una cortina fumogena fa male al
respiro.
Il progetto, però, era chiaro e – per noi – con i piedi ben piantati per terra.
Andava oltre la pratica degli incontri del teatro di gruppo che dal 1976 si erano
succeduti a Belgrado; a Bergamo; a Madrid e Lekeitio, nel Paese Basco; ad Ayacucho,
sulle Ande del Perù. L'esigenza di continuare la pratica di quegli incontri veniva
impacciata dal disagio della ripetizione. C'era stata, nel 1978, l'idea d'un incontro in
Spagna che unisse cultura teatrale e cultura culinaria. Finì in nulla sul nascere. Nella
primavera del '79 fu elaborato, fino ad arrivare ad un passo dalla realizzazione, il
programma d'un viaggio dell'Odin Teatret assieme ad un Circo equestre tedesco. Sotto
il tendone vi sarebbero stati inediti incontri e seminari sulle tecniche performative, oltre
ai normali spettacoli del circo e dell'Odin.
Era il Circo Atlas, piccolo e di carattere famigliare. Il suo chapiteau, nel giugno
del 1979, era affittato al festival teatrale di Monaco di Baviera, che si teneva fra le
collinette artificiali attorno allo stadio della città. Collinette verdi e fiorite, vallette ridenti.
Il parco era stato creato ricoprendo di terra fertile le macerie della guerra, trasportate
fuori città. Lo stadio con la sua poderosa ed elegante struttura d'acciaio e cemento,
con tiranti madornali, si stagliava in lontananza. Era stato eretto per le Olimpiadi –
quelle insanguinate del 1972.
I proprietari del circo Atlas facevano al pomeriggio qualche piccolo spettacolo
per i bambini in una minuscola pista all'aperto, soprattutto con cavallini e clown. L'Odin
presentava l'itinerante Anabasis; irrompeva in improvvisi interventi festivi, ad esempio
per i 65 anni del regista Tabori alla fine del suo spettacolo; rappresentava ogni sera,
sotto uno degli chapiteau, il Milione, in una selva d'applausi (tanto che gli attori
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discussero per ore su come rispondere alle numerose chiamate alla fine dello spettacolo,
una situazione ignota al loro modo di far teatro, dove nei primi anni il successo veniva
addirittura misurato, non dagli applausi, ma dal silenzio che accompagnava la fine fegli
spettacolisia dagli attori che dal regista ).
Nacque un buon rapporto fra la gente dell'Odin e la gente del Circo Atlas. Da
ciò, il progetto di tournée comune, con due spettacoli al giorno, il Milione e lo spettacolo
circense.
Un volo all’indietro fino a un circo bulgaro in Polonia
Nella preistoria del teatro di Eugenio Barba, compare un circo assai meno
episodico di quanto sembra. E’ il Circo Bulgaro che fa una tournée in Polonia, nel 1962.
Non ha nulla a che vedere con i progetti del '79, ma in questi eterogenei frammenti di
cronaca vorrei fargli un po' di posto, anche perché permette di leggere un documento
che alcuni troveranno interessante.
Nel 1962, quando era ad Opole presso Grotowski, Barba ventiseienne aveva
ottenuto dal Ministero della Cultura polacco un contributo per compiere una ricerca di
alcune settimane presso il Circo Bulgaro in tournée.
L'originale della relazione che Barba compilò alla fine dell'esperienza è
conservato fra le carte dell'Odin Teatret (oggi Odin Teatret Archives: busta 25, serie
Odin Teatret, Fondo Barba). E' in italiano, dattiloscritto su una macchina dalla tastiera
straniera. Barba conosceva il polacco, ma non abbastanza da scrivere direttamente in
quella lingua: gli 11 fogli a spazio 1 non sono quindi un testo definitivo, ma la base per
una traduzione. Il che, oltre alle considerazioni che faremo in séguito, spiega certe
incertezze di lingua.
Si sa come si scrivono queste relazioni: per necessità, per dovere, ma nello stesso
tempo con la costrizione ad essere passabili: non si sa mai chi leggerà i fogli al
Ministero. Tanto più dev'esser corretto uno straniero, che lavora alla difesa d'un
teatrino molto controcorrente, sospetto al regime e minacciato. Occorre riempire un
congruo numero di pagine, e così mano a mano che si scrive e si fatica le cose
cominciano a farsi anche serie, si è costretti ad aprire la borsa del proprio repertorio di
idee, emergono quelle che in quel momento paiono le più robuste ed efficaci: e mentre
si sbuffa contro le necessità burocratiche, la relazione burocratica diventa un test.
Dopo aver soggiornato due settimane al Circo Bulgaro in tournée in Polonia,
quali sono dunque le idee che la relazione cattura al giovane Barba? Vista come in uno
specchio, con alcuni contorni invertiti, l'idea di teatro che egli si è formato in quegli
16
anni e resterà intatta fino ad oggi: centralità della "presenza", pensiero-in-azione,
training, tribù; e l'immagine di quel che non vuole: spettatori che diventino
"pubblico".
Quest'ultimo è un problema delicato: il termine "massa" era santificato nei paesi
del socialismo reale. Inoltre, all'inizio dei Sessanta, l'idea di un teatro per le folle
incarnava dappertutto la speranza del rinnovamento. Ciò che oggi è fin troppo facile
deridere allora era spesso un assioma, e derideva i teatri di poco pubblico.
La relazione inizia così:
Le seguenti note sono un frettoloso e non sistematico tentativo di riepilogare certe
osservazioni compiute durante due settimane di soggiorno al Circo Bulgaro. Czestochowa,
Opole e Klodzko furono le tre località visitate durante il mio stage.
Czestochowa: abitanti 180.000, spettacoli 16, giorni 12, spettatori ca. 5.000.
Opole: abitanti 60.000, spettacoli 16, giorni 12, spettatori ca. 35.000.
Klodzki, abitanti 22.000, spettacoli 10, giorni 8, spettatori .... [non valutati].
Dalle cifre sopramenzionate si comprenderà facilmente la popolarità di una tale forma
d'arte tra le grandi masse. Per prendere un esempio concreto, a Opole, piccola cittadina
industriale, più della metà della popolazione è andata al circo. Da tener presente l'elevato
prezzo dei biglietti: 25-20, 15-12 zl. Mai un'altra forma artistica (teatro, film, esposizione,
concerto, serata letteraria) avrebbe proporzionalmente attirato tanta gente. Probabilmente
soltanto un incontro sportivo.
Poco sotto:
La maggior parte del pubblico sono adulti. Molti di loro vengono senza bambini, a coppie o
addirittura soli.
Passa quindi ad esaminare la reazione degli spettatori. E' un brano di circospetta
retorica, che spoglia il concetto di "massa" e di "spettacolo popolare" per far emergere
un'immagine di irrazionalità. Sposta cioè il problema e fa spazio all'idea di un altro
ideale di spettacolo, esattamente opposto alle aspettative:
Con un tendone capace di contenere fino a 2.700 persone ci troviamo di fronte al fenomeno
di uno spettacolo popolare dove l'individuo si fonde in una marea di reazioni collettive,
reazioni semplici, psichicamente organiche, che possono essere vissute soltanto in un
processo di totale integrazione con una collettività. La storia e la sociologia ci offrono molti
di questi esempi: dagli estatici concerti di rock'n roll, ai furiosi amok dei folti gruppi di
"reggae"; i teddy-boys scandinavi; negli stadi o nelle riunioni politiche, nelle parate militari o
cerimonie religiose si ritrovano appunto reazioni tipiche di una massa di individui
disintegrati, cioè integrati in una maggiore entità che permette di liberarsi dalle maschere
sociali o dagli atteggiamenti personali che ogni individuo assume nei rapporti diretti con
altre persone.
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Poi il discorso si dirige sui clown, sia pure per un breve passaggio. Ne
approfitto per aprire una digressione nella digressione.
Dal 1974 in poi, 12 anni dopo lo "stage" al circo, Barba ha più volte sovrinteso
alla composizione di spettacoli di clown eseguiti da alcuni dei suoi attori. Era stato Jan
Torp a rievocare i "numeri" che aveva visto fare molte volte dai fratelli Colombaioni
nelle loro tournée scandinave organizzate dall'Odin Teatret. Jan Torp era appunto
organizzatore di tournée all'Odin, approdato al teatro come obiettore di coscienza (oggi
è uno dei leader del teatro per ragazzi in Danimarca).
Su impulso di Jan Torp, lo spettacolo di clowns dell'Odin era nato a Carpignano
per esigenze immediate (mostrare qualcosa alla gente del paese) e poi rimase a lungo in
repertorio, mutando attori ma non struttura. Si chiamava Johann Sebastian Bach: tre
clowns, uno Johann, l'altro Sebastian e il terzo, che si presentava gloriosamente, Bach. I
numeri erano quelli tradizionali (pugilato, schiaffi, il morto che risorge, il barbiere...). Lo
spettacolo passò da un attore all'altro dell'Odin. A forza di vederlo mi resi conto che
era la negazione esatta del teatro dei clown, che usano il pubblico come partner, ed era
semmai quello che nella mia testa ho sempre definito un'imboscata per gli spettatori.
Lo spettacolo era divertente, prezioso per barattare teatro (della strategia del
baratto, che l’Odin mise a punto negli ultimi mesi della sua permanenza a Carpignano
Salentino nel 1974, non è questo il luogo per parlare. Se ne parla ampiamente nella
corrente bibliografia sull’Odin, e Iben Nagel Rasmussen sta oggi componendo – oggi
2009 - un libro a più voci sull’argomento). Lo spettacolo dei clown era efficace nelle
scuole e sulle piazze, ma non erano clowns: li rappresentavano. E con uno speciale
retrogusto: era come se Barba volesse mostrare a se stesso, ai suoi attori, ai suoi
spettatori più assidui, con aria beffarda o a volte con dispiacere, che innescata la
dinamica di due o tre attori che sanno far ridere una massa di persone, si possono fare
alla gente delle cose anche fastidiose senza che nessuno protesti, ed anzi tutti si
divertano, a cominciare (quasi sempre) dalle vittime.
Alla fine, dopo il “numero del barbiere”, venivano scelti due spettatori ai quali si
faceva lo shampoo spiaccicandogli in testa un uovo e un pomodoro. Non è niente. Ma
chi ha occhi per vedere s'accorge che ci si potrebbe spingere anche un po' più avanti.
Fino a dove? Dipende dal "coinvolgimento" del pubblico. Cioè dall'incoscienza
indotta nei singoli.
Credo che il solo aggettivo che oggi Barba correggerebbe nella sua relazione sul
Circo per quella lontana borsa di studio polacca, sia l’aggettivo "insulsi" applicato ai
numeri dei clown. Invitando ripetutamente all'Odin Teatret i Colombaioni, fra i gli anni
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Sessanta ed i Settanta, Barba ha imparato a gustare la sapienza nascosta sotto la scorza
dei numeri dei pagliacci. Ma credo che raramente abbia riso davvero della loro
comicità. Non è fatta per lui. Persino dal suo lessico il termine comico è in genere assente,
sostituito dal termine grottesco: il nodo del tragico e del buffo. Non ama il riso, se non è
fino alle lacrime. Ridacchia alle barzellette. Ma scoppia nella vera risata solo davanti a
scene e racconti che ad altri, come si dice, gelano il sangue.
La relazione del '62 continuava così, al punto in cui l'ho interrotta:
Lo stesso spettatore che alla vista degli insulsi numeri dei clowns scoppia in una irresistibile
risata, con tutta probabilità, in una situazione dove non fosse immerso e completamente
mimetizzato in una massa, ma rappresentasse un'entità socialmente ben definita e sotto
l'osservazione di altre persone, alla vista di una scena dieci volte più ridicola del numero dei
clowns conterrebbe le sue risate, cioè si divertirebbe più "culturalmente".
Il pensiero forse è forzato. E' di nuovo convincente qualche riga sotto, quando
dall'interpretazione d'un fenomeno concreto e un po' sproporzionato, torna alla teoria:
Il fatto di essere immersi in una massa, liberi da inibizioni e freni [...] fa cadere in uno stato
psichico particolare [...]. Questo processo di disintegrazione o di fascinazione collettiva è
caratterizzato da un rilassamento della propria facoltà di giudizio e di discernimento
puramente razionale [...]. La voce di un solo individuo è capace di scatenare e dirigere le
loro reazioni.
Sùbito dopo, l'Eugenio Barba del '62 passa a quel che per lui è l'essenziale dello
spettacolo circense:
l'assenza della dicotomia azione intellettuale-azione fisica come la si ritrova in altre forme
di spettacolo anche di massa (teatro, film, televisione). Qui [nel circo] il corpo diventa l'unico
strumento o medium di comunicazione, egli compone con un alfabeto comprensibile a
tutti. Qui non è più questione di esprimere verbalmente idee o tesi, ma di dimostrarle
fisicamente.
E' già il Barba che conosciamo. Sono le idee che lo guideranno e che trasmetterà.
Più avanti, forse per dare una patente di nobiltà culturale alla sua esperienza di
due settimane nel circo, e mostrare il proprio valore d'intellettuale, si lancia in un
excursus di due pagine che a partire dal virtuosismo degli acrobati evoca immagini
d'altre società e della funzione che in esse assume colui che esegue portenti col proprio
corpo. Seguono 3 pagine in cui analizza la musica, lo spazio, il contatto diretto, quasi
fisico, che si instaura fra gli artisti nell'arena e gli spettatori; ricorda che in Russia
attualmente gli allievi-artisti di circo studiano balletto solamente per sapere come
comporre le loro entrate e uscite dall'arena; analizza l'atmosfera festosa e fuori dal
quotidiano ottenuta con i mezzi d' una certa «rusticità» (troviamo in quest'espressione
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un anticipo di ciò che caratterizzerà gli assetti spaziali degli spettacoli dell'Odin Teatret:
senso d'un altrove spazio-temporale coniugato con evidente rusticità).
A p. VIII (le pagine del dattiloscritto son numerate in numeri romani) ritorna il
tema del pubblico:
Lo stadio e il circo, data la loro capacità di posti, riescono a creare questa disintegrazione
dell'individuo in una massa, farlo vibrare all'unisono con le reazioni di migliaia dei suoi simili,
quello di cui scriveva appunto Mejerchold nella "Rekonstrukcja teatru". Una conseguenza
logica sarebbe di costruire teatri monumentali potenti contenere migliaia di spettatori.
Sùbito dopo averla evocata, Barba contraddice l'idea dei teatri per le folle:
Ma il fine del teatro non dovrebbe essere, tramite la sua azione scenica, di creare una
specie di psicosi collettiva superficiale, pronta a scomparire non appena lo spettatore
riindossa la sua maschera sociale o meglio quando si ritrova nel suo ambiente abituale. Noi
tutti conosciamo le reazioni di entusiasmo e i brividi di eccitazione al vedere una possente
sfilata militare, con bandiere e musica pomposa. Ma nessuno di noi, ritornando a casa,
pensa di arruolarsi volontario nell'esercito come paracadutista o commando [...]. Il teatro,
invece, deve appunto conseguire un risultato opposto: isolare lo spettatore, aumentare,
mettere sotto pressione la sua individualità, ossia costruzione psichica e nucleo d'opinioni,
non dare nessuna via d'uscita, ma infliggere una ferita profonda al di là della corazza
psichica e della routinière forma d'espressione sociale dello spettatore. Questa forma di
teatro si può definire psico-dinamica.
Il 1962, l'anno dello "stage" di due settimane presso il Circo Bulgaro in tournée
nel paese “fratello”, è l'anno in cui Eugenio Barba pubblica il suo primo scritto sul
teatro di Grotowski, che è anche il primo saggio d'un certo respiro sull'argomento:
Expériences du Théâtre-laboratoire 13 rzedów, edito ad Opole, dal Teatrlaboratorium che
pubblicava una serie di fascicoletti densi modesti e di buon gusto con l'intestazione
"materialy-dyskusje": erano i programmi degli spettacoli con fitte note e antologie
critiche. Per l'opuscolo di Barba (l'autore viene presentato, nel frontespizio, come:
“Eugenio Barba, boursier italien en Pologne”) il titolo della collanina è anch'esso
volto in francese: "Faits et discussions". Vi si parla di teatro psicodinamico e dello
spettacolo come psicomachia.
Nella relazione per il Ministero della Cultura, Barba scrive:
Questa forma di teatro che si può definire psico-dinamica provoca appunto dei traumi
duraturi che permettono di lasciare delle cicatrici e uno stimolo continuo nella psiche dello
spettatore anche lungo tempo dopo lo spettacolo.
Sembra che il discorso, anche per l'esigenza di diffondere le idee-forza
dell'esperienza minacciata e d'avamposto di Grotowski, s'allontani dal suo centro che è
il circo. Ma Barba torna alla base con un'abile giravolta che trasforma il circo (che
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prima era apparso una sorta d'anti-teatro delle folle, o forse l'immagine del solo
spettacolo di folla non pericoloso e fanatizzante) in un esempio per il teatro scivolato
troppo lontano dalle sue fonti.
Giravolta non è un modo di dire. Presuppone lo spostamento del "boursier italien
en Pologne" dalla sedia di spettatore, donde osserva gli spettacoli e le prove, al ruolo di
partecipante, che fatica assieme agli altri nei quotidiani lavori di manutenzione dello
chapiteau e osserva la vita del circo dall’interno.
E' una costante del modo d'essere e di pensare di Barba: forte della propria
esperienza intelletuale e operaia, di quel che ha attinto da Grotowski e di ciò che gli
deriva dall’esperienza lavorativa in Norvegia. Anche nel periodo passato al Circo
Bulgaro ha lavorato come uomo di fatica con gli altri. Anche di questo è fatta la sua
indagine per la borsa di studio. E anche il circo ha una sua Musa, rustica buffa e
marziale, amante del pericolo e della fatica, gloriosa e paziente:
Vorrei attirare l'attenzione sulla falsa aura che circonda il teatro. Tra gli intellettuali, e non
soltanto tra di essi, si considera il teatro come un'arte ben superiore al circo (ha esso una sua
musa?). [...Ma] tutti sono d'accordo che il cosiddetto teatro moderno tratta solo di
letteratura moderna, cioè è qui questione solo d'autori. Un teatro moderno, psico-dinamico
o no, può essere creato solo da registi e da attori. A questi ultimi spetta il compito di una
continua e giornaliera creazione, il che, per dirlo con qualche parola, significa: lavorare su se
stessi.
E di qui, passa senz’altro ad affermare il valore del circo, più che per i suoi
spettacoli, per l'identità professionale che li nutre:
Gli artisti del circo che presentano un numero che dura appena qualche minuto lo
preparano per un anno intero, spesso anche più a lungo. Durante le tournées, per ore
intere, essi sono nel maneggio a ripeterlo. La precisione e l'abilità significano lunghe ore di
lavoro monotono e duro. Le loro condizioni di vita non sono brillanti. Abitano in
carrozzoni, continuamente in viaggio, una vita spossante, parca, senza eccessi "all'artista".
Dopo lo spettacolo per loro non esistono Spatif o Bristol [locali aperti l'intera notte, dove a
Varsavia si radunava la gente di teatro finito il lavoro]. Non è lecito ubriacarsi o addirittura
solo chiacchierare fino a notte tarda quando il giorno dopo li attendono lunghe ore di prove
e di lavoro. Come si vede, l'astinenza non è solo prerogativa dei santi canonizzati.
Al mondo del circo, retto da un'etica del mestiere, senza grandi parole e senza
esibizione di ideali, Barba confronta il mondo artificiale del teatro. Conclude la sua
relazione sovrapponendo tacitamente quel che all'inizio aveva contrapposto: il Circo
con le sue folle e l'avamposto teatrale del Laboratorium di Opole, due postazioni che gli
permettono di sentirsi straniero nel teatro:
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Ammettiamolo francamente, il teatro quasi interamente sacrifica a Mammone, al
commercialismo, alle lusinghe del pubblico. Le prodezze degli attori sulla scena sono al
livello di quello che qualsiasi "uomo della strada" srebbe capace di fare [...]. Il teatro non è
un Dr. Jekyll che può sdoppiarsi in un Mr. Hyde di massa. C'è da domandarsi se da questa
sodoma, abbagliata da una tale illusione e distrutta da una continua pioggia di banalità e
mancanza di disciplina e labrosiosità, un solo Lot riuscirà a salvarsi.
Questo sul Circo Bulgaro in Polonia rischia d'essere il frammento più lungo del
verbiloquio di racconti e digressioni sull'International School of Theatre Anhropology.
Ma pur digredendo torna all'argomento. Il sentimento dello straniero, della
disappartenenza, sarà centrale quando Barba definirà l'immagine della sua scuola.
In un'intervista con Franco Quadri ("la Repubblica", 11/4/1994), Jerzy
Grotowski, dal romitaggio del suo Workcenter presso Pontedera, dice di Eugenio
Barba:
E' interessante come ha associato la propria storia personale con le sue ricerche, lui stesso
cioè nella vita è divenuto come un esule, uno straniero: un italiano che si è fatto marinaio
norvegese, poi è venuto da me al Teatro Laboratorio in Polonia. Ha fondato l'Odin Teatret
in Norvegia, poi si è trasferito in Danimarca dove è tuttora; e il suo gruppo è
completamente internazionale, tutti sono in qualche modo apolidi, per cui è l'Odin Teatret
a diventare la loro patria. Ed è tipico fino ache punto Eugenio si interessi sempre dei
problemi degli esuli, delle persecuzioni etniche, e come coltivi un interesse particolare per
l'America Latina.
A partire dal 1974, dal soggiorno dell'Odin a Carpignano Salentino, il gruppo di
Barba ha cominciato a fare spettacoli per molti spettatori, spesso piccole folle, in piazze
o in grandi sale: ma in quegli spettacoli rimane, seppure ad un livello più elementare e
meno drammatico, la stessa dialettica con gli spettatori che caratterizza gli spettacoli
chiusi, quelli per poche persone: 60, 100, 120. Sono spettacoli stranieri. Lo spettacolo
itinerante Anabasi era la dimostrazione e la tematizzazione di questa disappartenenza
che non è estraneità.
Anche per questo non è stata un’inutile digressione il lungo frammento sul
Circo Bulgaro: perché quel modo di far spettacolo per le folle che caratterizza il circo e
che Barba nella sua relazione del 1962 vedeva come l'esempio d'uno spettacolo che
disintegra le individualità in una massa, nel 1979 gli appariva ormai da tempo come
l'approdo ad una tenda straniera.
Il paradigma del baratto s'era sostituito a quello del teatro affollato popolare
(sogno che Barba non ha mai inseguito). Al suo posto c'è semmai la visione di un
paese senza luogo, che a volte si riunisce per sùbito tornare e distinguersi e disperdersi:
22
non il sogno di un impossibile rituale popolare, ma il «popolo del rituale» come Barba
scrive a Schechner nel settembre del 1991:
Caro Richard, non voglio una patria costituita da una nazione o da una città. Non ci credo.
Eppure ho bisogno di una patria. Questo, in parole povere, è il perché del mio fare teatro.
La lettera fa parte de La canoa di carta. Poche righe sopra scriveva:
Questa sera tutti noi che abbiamo lavorato per la Festuge [settimana di festa organizzata ad
Holstebro dall'Odin Teatret con la collaborazione di teatri stranieri] ci siamo radunati nella
sala del nostro teatro per il banchetto di addio. In queste situazioni, fra uomini e donne della
nostra professione, mi sento a casa, non importa in quale parte del mondo. Anche tu lo
notavi nel tuo scritto "Magnitudes of Performace": attori di culture lontane si incontrano e
sentono tra loro un'affinità più forte di quella che li lega ai loro concittadini». [La canoa di
carta, p. 219]
Il progetto del viaggio o tournée dell'Odin Teatret con il Circo Atlas, fra 1979
ed '80, avrebbe dovuto chiamarsi "Città del sole" e doveva essere finanziato da non
ricordo quale istituzione teatrale tedesca. In Italia, Nicola Savarese ed io cominciammo
a raccogliere materiali all'Istituto delle Tradizioni Popolari e ci mettemmo in contatto
con l'Associazione degli Spettacoli Viaggianti. Bisognava rendere convincente il progetto
agli occhi delle autorità fornendolo dei necessari addentellati storici e culturali,
verniciandolo di sperimentalismo riconoscibile. Ma il progetto fallì all'ultimo momento.
I contatti con i finanziatori rimasero però in piedi, e Barba riuscì a mettere a punto il
programma della scuola di antropologia teatrale con Sanjukta Panigrahi ed altri maestri
dei teatri classici asiatici. Fra quella scuola dall'etichetta serissima e il Circo la differenza
non è tanto grande quanto sembra.
Anche la scuola sarebbe stata straniera. Secondo i primi progetti avrebbe dovuto
essere della durata di 3-4 mesi, ed avrebbe poi avuto un'appendice meno intensa in cui,
nell'arco di tre anni, i pedagoghi dell'Odin Teatret e dei teatri classici asiatici avrebbero
visitato i gruppi partecipanti assistendoli nel loro contesto di lavoro.
L'idea forte era lo straniamento pedagogico: i maestri asiatici, appartenenti a stili
teatrali che non hanno corso nel teatro occidentale, avrebbero posto gli allievi di fronte
ad una alternativa: o non sapere che farsene dei loro insegnamenti, oppure saperne
tradurre il succo nella propria pratica teatrale. In altre parole: scoprire i principi
riutilizzabili nascosti nel cuore di stili estranei. Era fin dall'inizio il proposito di una
«scuola» nella quale non si impara, ma si impara ad imparare, che sarà poi una delle basi
dell'ISTA. Quel progetto pedagogico dedicato a uomini di teatro che non volevano o
non potevano frequentare le scuole teatrali tradizionali, venne lentamente
trasformandosi, non solo per ragioni economiche ed organizzative, ma anche per il
23
crescere d'un interesse scientifico altrettanto potente dell'interesse per la politica
teatrale la pedagogia e l’impegno pratico per la “trasmissione delle esperienze”,
qualunque cosa questo voglia dire.
Le scienze
Era soprattutto la letteratura scientifica ad attrarre Eugenio Barba in quegli anni.
Leggeva molto su Niels Bohr, si sprofondava in libri di biologia ed in discussioni con
gli uomini di scienza. Aveva trovato forti stimoli negli incontri organizzati in Francia
da un intellettuale amante dei tralignamenti disciplinari, Jean-Marie Pradier, che era stato
addetto culturale all'estero, lasciando tracce durature per le sue capacità organizzative e
per il carattere contagioso del suo entusiasmo culturale. Ora insegnava all'università,
muovendosi con un piede nel teatro ed un piede nei territori delle novità scientifiche,
ed organizzando incontri misti in cui campeggiava l'oratoria di Henri Laborit.
Pradier aveva cercato Eugenio Barba, conoscendone la fama d’uomo di teatro
particolarmente esperto delle cosiddette «tecniche del corpo». In séguito, fra Pradier e
Barba si strinse un'amicizia che non s'è sciupata col tempo e col mutare degli
interessi e delle ricerche dell'ISTA.
Fu Barba, invece, a cercare Peter Elsass.
Peter Elsass è un neurofisiologo, vive a Copenaghen dove insegna all'università in
una posizione accademica di spicco. Nel periodo intorno alla nascita dell'ISTA
insegnava all'università di Århus, pendolando. Barba ne aveva sentito parlare e forse
l'aveva anche superficialmente conosciuto. Ma s'era interessato a lui scoprendolo, a
distanza, come una persona competente ed apprezzata nel proprio campo, ma
inquieta, capace di avventurarsi fuori dal ruolo e dalla disciplina. Peter Elsass aveva
viaggiato a lungo in Latinamerica ed aveva pubblicato alcuni libri sull'acculturazione.
Faceva lo scienziato e l'antropologo. Sapeva raccontare e collegare in maniera
sorprendente ambiti di discorso e d'esperienza che in genere vengono tenuti separati.
Sulla copertina d'uno dei suoi libri di viaggio e reportage antropologico c'era un indio
amazzonico seminudo, di quelli che hanno la capigliatura come i nostri monaci
medioevali (rasata al centro e la "danza d'intorno") con in una mano lancia e scudo, e
nell'altra mano una lattina di Coca Cola.
Barba invitò Peter Elsass a far tappa ad Holstebro, all'Odin Teatret, in uno dei
suoi settimanali vai e vieni fra Copenaghen e l'università di Århus. Peter accettò: il
teatro non l'interessava, ma l’invito lo incuriosì. Prese qualche informazione e scoprì
che quel teatro periferico era reputato molto serio. Peter era giovane, brillante, dotato
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d'un senso fortissimo dell'ironia. Non capiva bene che cosa potesse interessare a Barba e
all'Odin Teatret del suo sapere. Forse i suoi viaggi. Per Barba era invece molto
importante poter avere vicino, in Danimarca, un esperto di scienze neurologiche, un
uomo curioso nel decifrare i segni dei tempi, ma esperto nel campo delle scienze, capace
di discutere di biologia e del funzionamento del cervello, e di inoltrarsi con lui in quel
territorio ancora impreciso dell'Antropologia Teatrale.
Quando Peter Elsass arrivò all'Odin Teatret, Barba gli disse sùbito che quel che
gli proponeva era un rapporto professionale, un lavoro da esperto e che per quella
giornata passata a parlare dei più diversi argomenti il suo compenso sarebbe stato... e
disse una cifra davvero sproporzionata, che lasciò Peter a bocca aperta. Ma per modo di
dire, perché lui, mi raccontava, si guardò bene dal mostrarsi meravigliato e lusingato.
Restò impassibile e mantenne il punto. La cifra credo che fosse l'equivalente di 2 milioni
di lire italiane d’allora.
Parlarono, discussero, nacque un calore reciproco. Alla fine della giornata, Barba
disse a Peter Elsass che l'Odin Teatret voleva fargli vedere un suo spettacolo, lo portò
in sala e gli attori fecero Il libro delle danze. Peter ne fu colpito. Barba gli disse: «Questo
spettacolo in genere lo vendiamo per 2 milioni. Oggi l'abbiamo fatto solo per te».
L'Odin gli pagò così il suo primo compenso.
Peter Elsass con periodi più o meno intensi, è ancora vicino all'Odin e a Barba,
benché oggi quest'ultimo sia molto meno interessato a tuffarsi nella neurofisiologia.
Quella che alcuni dei suoi amici e collaboratori consideravano l'infatuazione
scientifica di Barba, era una tipica esplosione di voracità intellettuale. Senza voracità
intellettuale (dove si mischino vere scoperte e vagabondaggi effimeri) lo slancio per la
ricerca cala col tempo e svanisce.
Barba stava mettendo a punto un nuovo modo di guardare il lavoro dell'attore,
basato sulla distinzione dei diversi livelli di organizzazione. A questo gli serviva la sua
“infatuazione” per le scienze: a mettere a punto un modo di guardare, ad addestrarsi ad
una ginnastica mentale capace di affrontare i problemi della scena e dell’attore non come
una serie di segmenti contigui, ma di strati sovrapposti, ognuno dotato d’una sua logica
che poteva essere esaminata come se fosse indipendente da quella degli altri livelli
d’organizzazione. Da un lato, quella delle scienze era una passione intellettuale
personale, passeggera e sostanzialmente dilettantesca, tipica d’un intellettuale onnivoro
divoratore di libri interessanti. Dall’altra era un training professionale. Non cadde mai
nella trappola dell’applicazione diretta al teatro dei principi appresi leggendo di biologia,
fisica atomica e subatomica, letteratura sperimentale sulla biomeccanica, esperimenti
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sull’equilibrio o le sinapsi (naturalmente, come sempre accade in questi casi, la paroletta
mai significa quasi mai).
Dal punto di vista professionale, le letture scientifiche gli permettevano di
rinnovare il repertorio di metafore adatte a nominare certi aspetti sottili del
comportamento degli attori in scena. Dopo anni di reciproca pazienza, le impronte delle
azioni dei suoi attori, quella specie di graffio personale ed inimitabile che ciascuno
lascia sulle partiture, il loro diverso modo di reagire agli impulsi, si erano innervate nel
suo corpo. Sicché quand'egli parlerà di presenza (d'un livello precedente all'espressione,
ma organizzato, riconoscibile, con impronte tradizionali e individuali così marcate da
lasciar pensare per davvero che le style c'est l'homme, e che l'atteggiamento etico sia legato
all'attitudine fisica), parlerà di qualcosa di ben noto a lui, anche se a lungo non
nominato. Il problema della nomenclatura, di poter nominare distintamente, non
riguarda solo l’efficacia dello spiegare, ma anche la possibilità di guardare. Un
continuum indistinto resta tale se non possediamo parole per distinguerlo.
Partì dai fatti empirici che aveva sotto gli occhi e per i quali mancava una
nomenclatura. Siccome la difficoltà stava nel trovare il modo di formulare, cominciò
analizzando e comparando le diverse formulazioni.
Fu un'inchiesta tanto meticolosa quanto incapace di prevedere dove sarebbe
andata a parare. C'erano soprattutto i taccuini. «Per molto tempo - scrive Barba nella
Canoa di carta (p. 223) - ho impersonato una delle maschere tipiche del nostro pianeta
interculturale: l'uomo che va in giro nelle regioni più lontane e nelle vie attorno a casa
con uno zainetto sulle spalle, gli occhiali sul naso ed un taccuino in mano».
A forza di traduzioni - sistematiche, monotone, puntigliose e difficili da capire a
che cosa servissero - chiedendo a Katsuko Azuma come traducesse il termine inglese
"energy"; discutendo con I Made Pasek Tempo, in un inglese traballantissimo, alla
ricerca del significto letterale di "bayu"; insistendo con Sanjukta Panigrahi per capire i
dettagli più terra-terra del suo stile, pervenne a comparare lingua di lavoro e
insegnamenti elementari («le prime cose che ti hanno insegnato quando sei andata
dal tuo guru»), e di qui pervenne ad individuare e isolare, ai fini della ricerca, quel livello
d'organizzazione primario che dopo l'ISTA di Bonn si chiamerà pre-espressivo.
Ma è bene ricordarlo: vi pervenne con l'atteggiamento cocciuto d'un artigiano
della ricerca che si ostina a far domande quando sia lui che gli interlocutori sono pieni di
sonno e vorrebbero riposarsi con quattro chiacchiere, e procede con una metodicità
apparentemente ingiustificata, come certi sergenti - almeno quelli dei film americani che vanno avanti con precisione perché così gli han detto di fare.
26
Un po' la stessa figura - raccontano gli antropologi - la fanno loro, gli antropologi
sul campo, meticolosi, insistenti nel raccogliere piccole informazioni sui loro foglietti
o sui loro registratori, mentre intorno a loro la Natura e la Cultura ronfano, gli odori
soffocano, gli insetti infieriscono come antichi dèi.
Alcuni equivoci
Questo procedimento da uomo di scienza creerà anche equivoci. Poiché nel
campo dell'indagine teatrale si è abituati a considerare le cose all'ingrosso, con l'illusione
di considerarle globalmente, la scelta di un preciso livello d’organizzazione come
oggetto d'indagine è apparsa a molti come esclusione o sottovalutazione degli altri
livelli.
Gli equivoci di cui parlo farebbero ridere se di simili se ne verificassero nel
campo di qualsivoglia altra scienza. L'Antropologia Teatrale si occupa di quel che
Barba per similitudine ha chiamato la «biologia» del teatro: questo non vuol dire che
ignori l'importanza dell'antropologia culturale. Si occupa dei procedimenti dell'attore:
non vuol dire che ignori l'importanza dei procedimenti di comunicazione con lo
spettatore. Si occupa del corpo-in-vita dell'attore: non ignora che però alla fine il senso e
il valore di quella «vita» viene stabilito da scelte estetiche ed etiche, dal coraggio e non
dalla tecnica.
Sarebbe ingiusto ridere di questi equivoci, sia perché sono anche di persone che
hanno tutta la buona volontà di capire, sia perché sono ricorrenti. E quando un
equivoco, benché sciocco, è ricorrente, vuol dire che mette radici da qualche parte non
pertinente ma importante.
Credo che gli equivoci dipendano soprattutto da alcuni automatismi mentali
collegati.
Eugenio Barba è un creatore ed un capo teatrale. Ciò significa che nella sua
attività con l'Odin Teatret si occupa della globalità: tecnica dell'attore, etica
professionale, espressività, senso degli spettacoli, economia, rapporti con lo spettatore,
rapporto con la realtà sociale circostante. Ci si aspetta, allora, che la sua teorizzazione
sia altrettanto globale, come sono le estetiche personali degli artisti quando essi si
decidono a metterle giù sulla carta.
Se uno storico della letteratura studia il livello d'organizzazione della prosodia,
nessuno pensa che non sappia che la poesia non è solo prosodia. Ma se lo stesso studio
lo fa un poeta, e magari un poeta fra i più importanti, si ritiene automaticamente
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ch'egli pretenda che tutta la poesia consista in prosodia. O che vi consista tutta la sua
poesia. Gli stessi equivoci si sono verificati con il pensiero scientifico di Ejzenstejn.
Le scienze dell'arte sembrano sempre ambigue: spesso non si riesce a capire, a
distinguere, se siano il frutto di osservazione empirica o se invece siano norme per
raggiungere la buona qualità. Ci vuol poco a metterle in contraddizione, appunto
perché oscillano fra l'uno e l'altro di quei poli. In realtà consistono proprio
nell'oscillazione. Sono "teorie di scorta" (così come Cartesio parlava di una "morale
par provision") o hand-made theories che servono a fornire sistemi d'orientamento ad
un modo d'operare che trova la sua eccellenza nel disorientamento. In questo senso
sono
esattamente l'opposto di un'estetica personale. Ma poiché forniscono
generalizzazioni utili a partire dall'osservazione empirica, sono scienze, pur non essendo
esatte. L'indagine scientifica non può dipendere dalle sole urgenze, né rispettarle
ciecamente. Deve occuparsi di ciò per cui ha l'adeguata attrezzatura metodologica ed
empirica. Molti dei temi che vengono proposti come alternativi a quelli impostati
dall'Antropologia Teatrale non si conosce il modo di indagarli. Per questo vengono
invocati, e restano non indagati da chi li invoca.
La scuola
Permettetemi di introdurre questo paragrafo particolarmente adatto al genere del
“verbiloquio” con la citazione di due versi della poetessa italiana Patrizia Cavalli: “Non
ero fatta per andare a scuola. / Era che non volevo essere sola”. Se si vede la “scuola”
come una buona soluzione per la solitudine-assieme-agli-altri, per una solitudine al
lavoro, molte delle perniciose illusioni legate a nozioni come “pedagogia” e
“trasmissione delle esperienze” evaporano come nebbia al sole.
Gli equivoci intorno al livello d'organizzazione del pre-espressivo, nel 1979 o
agli inizi dell'80, ancora non avevano ragion d' essere. In quel momento discutevamo
semmai sulla necessità di distinguere l'Antropologia Teatrale dall'antropologia culturale.
«Antropologia» era una parola che stava assumendo molti significati nuovi e
imprevedibili se coniugata con «teatro».
«Scuola» implica programmazione, ordine, consapevolezza degli obiettivi da
raggiungere. Eugenio Barba era il maestro del contrario. Aderendo alle sue iniziative, dal
'73 in poi, avevo cominciato a comprendere quella semplice verità (una delle più difficili
da capire per un professore) secondo cui la teoria viene dopo l'azione.
Barba è sempre stato un costruttore di Disordine, sia come artista che come guida
di artisti. Non confusione. Ma il Disordine come disorientamento volontario. La base
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del lavoro creativo. L'ordine della ragione è il momento del necessario riposo, e sta al
Disordine come la tappa sta al viaggio, il sonno alla veglia. O come la famiglia - nelle
parole di Lévi-Strauss nel '56 - sta alla società. Essa, diceva, è “poco altro che
l'espressione del bisogno di rallentare il passo agli incroci e approfittarne per
riposare”. E così come - sempre secondo Lévi-Strauss - una società non può dirsi
costituita dalle famiglie, neppure il lavoro creativo può dirsi composto da atti d'ordine,
“come un viaggio non è costituito dai viaggiatori in sosta che lo interrompono con
tappe discontinue”. Queste - le tappe, le soste, il riposo ai crocicchi, l'ordine – “sono
allo stesso tempo la sua condizione e la sua negazione” [The Family, 1956].
Se non è un modo per saltare improvvisamente fuori dal Disordine nel
momento in cui questo diventa insostenibile, l'ordine della ragione diventa facilmente
insipido offensivo o mortale, come il tutti in fila allineati e coperti dei soldati e dei
cimiteri. O come i chiari schemi dei manuali.
Niels Bohr appariva a Barba un maestro scienziato del disorientamento. Barba
ripeteva spesso la domanda che Bohr pose una volta ai suoi giovani collaboratori:
“Qual è il contrario della Verità?”, e la risposta che aveva dato: “La chiarezza”. Per
colui che aveva assunto nel suo blasone il motto “Contraria sunt complementa”, il
contrario della verità non era certo qualcosa di negativo. Era comunque il contrario.
Intanto, “Contraria sunt complementa”, il motto di Bohr quando venne insignito
d'un titolo nobiliare danese, diveniva anche il motto del Nordisk Teaterlaboratorium,
l'Odin Teatret.
Ma è possibile una scuola disorientata?
L'Odin Teatret è stato per molti anni formalmente riconosciuto dalle autorità
scandinave non come teatro ma come "scuola" teatrale di tipo sperimentale. Si trattava
però di una pedagogia a lungo termine, basata su anni ed anni di lavoro. Niente di
simile avrebbe potuto accadere in una “scuola” come quella d'Antropologia Teatrale
che aveva invece la dimensione di un corso di un mese o poco più. Che cosa l'avrebbe
salvata dalla chiarezza delle teorie, dei metodi?
Feci ricorso, come sempre quando non riesco a comprendere bene la situazione,
al mio libro magico: un dizionario etimologico. Cercai la parola «scuola», venni a sapere
che originariamente, in greco, significava «tempo libero», e mi tranquillizzai: forse
quella futura «scuola» di Antropologia Teatrale sarebbe stato proprio un tempo libero
dai programmi e dalle previsione di risultati. Un tempo liberato.
Lo fu.
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Ma dovemmo tutti scoprire quanta fatica e quanto tempo occorra per liberare il
tempo.
Prima sessione dell'ISTA
Si tenne a Bonn dal 1º al 31 ottobre del 1980. La giornata cominciava alle 6,45’
con una corsa fino alle 7,30’. Sùbito dopo c'era un'ora di lavoro sul training acrobatico e
vocale, diretto da Eugenio Barba coadiuvato da Toni Cots, attore dell'Odin Teatret.
Fino alle 8,30’ vigeva la regola del silenzio: nessun saluto, nessuno scambio di
informazioni, niente «Buon giorno!», «Brutto tempo, oggi!» o le altre chiacchiere che si
fanno al mattino per consolarsi d'essersi svegliati.
Alle 9, dopo il breakfast, cominciava il lavoro nelle classi di Sanjukta Panigrahi,
Katsuko Azuma e Tsao Chun-Lin, maestri rispettivamente di danza Orissi, di Buyo e
dell'Opera di Pekino (ma quella di sede a Taiwan). I 50 partecipanti erano divisi in tre
gruppi, ognuno dei quali, a rotazione, lavorava una settimana con uno dei tre maestri
orientali. Costoro, però, non insegnavano la propria specialità. Barba aveva concertato
una tattica pedagogica particolare:
Il mio compito - spiegò ai partecipanti il giorno dell'apertura - è stato quello di trovare,
insieme a Sanjukta Panigrahi, Katsuko Azuma e Tsau Chun-Lin, il modo in cui loro potevano
non insegnarvi tutte le belle cose che sanno fare. Vi insegneranno solo quel che loro stessi,
da bambini, appresero nei primi 3 giorni di lavoro.
E aggiunse:
Il lavoro con gli «orientali» qui non servirà a farvi imparare niente di «orientale»: serve a
trovare una nuova qualità d'energia, che poi potremo usare dove vorremo.
Dopo il lavoro con gli «orientali», ognuno si applicava - dalle 11,30’ alle 13,30’
- al proprio training individuale. Il lunch era alle 13,30’. Alle 16 cominciava il lavoro in
piccoli gruppi composti da un regista e da 5-6 attori. Il tema comune era Hamlet.
Barba andava a visitare i gruppi, osservava e non interveniva in alcun modo. Alla
fine del mese ogni gruppo doveva presentare i risultati: uno schizzo di 5-10 minuti, un
frammento del testo di Shakespeare, un personaggio o un gruppo di personaggi, una
sintesi o una metafora dell'intera tragedia.
Si trattava di toccar con mano come dal lavoro sul livello d'organizzazione preespressivo, sulla presenza dell'attore, si passi al livello superiore, quello della
drammaturgia e dei significati. In diverse forme, il lavoro su questo passaggio ha
caratterizzato tutte le sessioni dell'ISTA, sia attraverso schizzi curati dai partecipanti,
sia attraverso spettacoli o abbozzi di spettacoli creati direttamente da Eugenio Barba.
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La sera, dopo cena, si vedevano spettacoli o frammenti di spettacoli dei
pedagoghi orientali o di gruppi teatrali ospiti. Eugenio Barba commentava e analizzava:
fin verso le 23.
I partecipanti erano di nazionalità diverse, lavoravano tutti in gruppi di teatro, in
situazioni precarie. Avevano voglia di conoscersi, di parlare, di scambiarsi opinioni e
informazioni, di intrecciare relazioni. Ma le giornate erano piene, non c'era tempo.
Rimaneva la notte. Inoltre gli orari pressanti e la mancanza di privacy (si dormiva in
camerate) favorivano il bisogno di esplodere la sera. Spesso si organizzavano feste in
cui si ballava a perdifiato. Altri discutevano. Era molto difficile che si andasse a dormire
prima dell'una o delle due di notte. Il che significa che per il sonno, in quel mese, non
c'erano più di 3 o 4 ore per notte.
Fin dal primo giorno, i registi partecipanti si resero conto che per loro mancava
qualcosa. Eugenio Barba lavorava sul training, ma non aveva previsto di dedicarsi ai
problemi tecnici dei registi. Gli proposero di trovare un po' di tempo anche per loro.
Fu trovato facendo una riunione tutte le mattine un'ora prima che cominciasse il
lavoro comune con la corsa.
Ognuno di noi, già a partire dal secondo giorno, si trascinò dietro il proprio
sonno come un pesante mantello, ora drappeggiandolo con apparente noncuranza, ora
inciampandovi dentro. Inventammo mille modi d'assopirci nei ritagli di tempo. Barba
aveva molti impegni, oltre quelli del lavoro comune. Inoltre la situazione gli imponeva
un continuo stato di allerta. Giorno per giorno smise di dormire. Un giorno, all'ora del
lunch, verso la fine del mese - quando stavamo preparando il Simposio che avrebbe
mostrato ad una cinquantina di ospiti internazionali i principi dell'Antropologia Teatrale
- lo ricordo appoggiarsi allo stipite d'una porta ed addormentarsi in piedi, nei pochi
secondi dell'attesa per un colloquio. Allora lo costringemmo a coricarsi per almeno tre
ore.
Sembrava che tutti noi ci fossimo trasformati in un treno scintillante che
correva fra sorprese e scoperte in una nebbia di fatica, senza saper rallentare, senza
potersi fermare.
A che scopo?
Quali fossero le sorprese e le scoperte oggi lo si può capire leggendo il libro di
Eugenio Barba e Nicola Savarese The Secret Art of the Performer e il libro di Barba La
canoa di carta. Praticamente non c'è pagina, in questi libri, in cui non si ricordi un
«segreto del mestiere» appreso dai maestri di teatro indiani, giapponesi, cinesi o
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balinesi. E quasi sempre si tratta del ricco raccolto della sessione dell'ISTA a Bonn, fra
il 1º ed il 31 ottobre del 1980.
Ma scoperte e sorprese non sono sufficienti a rispondere a quella domanda: a
che scopo?
Nelle riunioni della mattina, un po' prima delle 6, Barba a volte raccontava le
proprie esperienze, altre volte commentava ciò che il pomeriggio precedente aveva visto
nei gruppetti che lavoravano sul tema di Hamlet. Ma i primi giorni si parlava
soprattutto dell'andamento dell'ISTA.
Barba sembra che non riesca neppure a concepire l'immagine del regista come
semplice specialista della messinscena. Per lui il regista è un leader prima ancora che un
«artista». Il principale compito d'un regista è guadagnarsi la fiducia dei compagni,
lavorando più degli altri, alzandosi prima degli altri (quelle riunioni la mattina presto,
dunque, non erano soltanto una soluzione pratica, ma anche una dimostrazione
pedagogica), e soprattutto mostrandosi capace di stimolare i compagni. Da ciò la
necessità d'osservare i dettagli, di saper individuare i disagi inespressi, le incrinature
nella vita della piccola comunità del teatro, i punti di crisi, per dominarli e trasformarli
in fonti d'energia.
Il richiamo della fatica
Non c'è bisogno di grandi parole per capire che cosa spinga molti dei
partecipanti - a Bonn e in quasi tutte le successive sessioni dell'ISTA – ad accettare il
richiamo della fatica e di giornate riempite di lavoro come un uovo. Per molti è un
semplice principio di economia: l'ISTA è un tempo prezioso. E' un'oasi di ricchezza in
una vita teatrale caratterizzata dall'isolamento, dalla penuria di stimoli e d'esperienze. E'
naturale che chi vi partecipa non voglia sprecare neppure un'ora di questo tempo. Il
pesante nero mantello del sonno, la fatica, non sono altrettanto importanti.
Per i pedagoghi, sia i maestri dei teatri asiatici che gli attori dell'Odin Teatret, o
per Ingemar Lind, formato da Decroux e leader di teatri poveri ed estremisti, le lunghe
giornate di lavoro sono una condizione quotidiana, con cui si sono familiarizzati da
anni, a volte fin dall'infanzia.
A ben guardare, coloro che sentono assurdi gli «assurdi» orari dell'ISTA, che li
vedono come una fatica gratuita, sono in genere coloro che non appartengono né al
proletariato né all'aristocrazia del teatro. Non sono tanto poveri da aver bisogno
d'ogni nutrimento disponibile, né tanto ricchi di tradizione da aver bisogno di molto
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tempo e molto lavoro per tenere in forma un'arte delicata e complessa da sembrare lei
il fine, non gli uomini e le donne che la ereditano, l'esercitano e la trasmettono.
Proletari e aristocratici - si sa - sono voraci.
Una sessione dell'ISTA è un fatto eccezionale: non solo per lo sforzo
organizzativo e per i costi elevati che richiede, ma anche perché tale sforzo e tali costi
sono dedicati al teatro invisibile: agli artisti del Terzo Teatro, ai grandi maestri che però
non fanno notizia, agli studiosi che non appartengono al calendario delle premières. O
che vi appartengono da transfughi.
Le parole con cui Eugenio Barba aprì la prima sessione pubblica dell'ISTA, il 1º
ottobre dell'80, non evocavano un programma di politica teatrale, o un'idea, ma il
desiderio di rifiutare la scala normale dei valori teatrali:
L'ISTA è il risultato di un grande desiderio: permettere a certe persone di incontrarsi. Da un
lato i maestri orientali che hanno avuto grande importanza per me. Dall'altro lato voi, che vi
conosco quasi tutti personalmente. Appartenete alla stessa famiglia, quella che non ha
ricevuto l'eredità di questo mondo.
Le parole di Barba evitano sempre, attraverso un effetto di straniamento un po'
biblico, il frasario politico che sta sulla cresta dell'onda. Ciò non toglie che si
riferiscano a fatti concreti. Persino a significativi aneddoti (o sintomi) presto
dimenticati.
Jean Darcante e gli altri
Nel novembre del 1979, per esempio, l'ITI (International Theatre Institute) si
apprestava a dare il proprio appoggio morale alla futura scuola di Antropologia Teatrale
diretta da Eugenio Barba. A presiedere l'ITI c'era il francese Jean Darcante, che da
giovane era stato un raffinato attore e metteur-en-scène, un sindacalista, un oppositore
del regime di Vichy. Per un grave indebolirsi della vista aveva abbandonato le scene,
dedicandosi ai programmi dell'UNESCO per lo sviluppo della cultura teatrale.
Era un signore anziano, distaccato, ironico nel parlare, prezioso nella pronuncia.
I personaggi in cui da giovane eccelleva s'erano distillati nella sua persona d'alto
funzionario dell'UNESCO. Portava quel tipo di occhiali che dilatano gli occhi, come
gli occhi dei grandi pesci esotici con cui si scambiano sguardi infecondi di qua e di là
del vetro degli acquari. Aveva qualcosa di autorevole e insieme di modesto, come un
generale a riposo, che conosce molto bene il potere, ma non altrettanto la ricchezza.
Darcante negli anni precedenti aveva appoggiato gli incontri del teatro di
gruppo organizzati da Barba, e nell'estate del '79 aveva scritto una lettera personale di
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apprezzamento anche per la progettata «scuola». Ora però, nella riunione annuale del
comitato internazionale dell'ITI che si teneva a Parigi in quel mese di novembre,
propose un appoggio più ufficiale.
Si alzò a parlare Paolo Grassi, rappresentante italiano, uno dei più importanti e
benemeriti uomini di teatro europei, fondatore assieme a Strehler del Piccolo Teatro di
Milano, gran paladino del «teatro servizio pubblico» finanziato dallo Stato («Un servizio
cittadino al pari dalla metropolitana», ripeteva). Si alzò per opporsi al patrocinio alla
scuola diretta da Barba. Il comitato seguì il suo parere. Darcante dovette minacciare le
dimissioni per evitare che il comitato capitanato da Grassi spingesse il dissenso fino al
punto di sconfessare la lettera personale di apprezzamento.
Chi andasse a leggere i verbali di quella riunione, troverebbe la dura motivazione
di Grassi: «L'Odin Teatret - aveva detto - è un falso teatro di ricerca, che crea solo
confusione». Grassi era giustificatamente confuso. Quel teatro non creava affatto
confusione, né disordine, ma Disordine. Ma Grassi non sapeva o aveva dimenticato la
differenza. Ormai legato alle regole del gioco dei partiti politici ed alla mentalità che
inducono, ciò che ai suoi occhi appariva confusione era proprio quell'emergere del
teatro invisibile che Barba si prefiggeva, e che Darcante - estraneo alla realtà dei teatri
marginali, ma proveniente dalla tradizione artigianale dei vecchi attori e delle vecchie
compagnie, prima dell'avvento del "Teatro di Stato" - da lontano sapeva apprezzare.
Vecchio aristocratico del teatro, Darcante sapeva che il Disordine è un'altra
cosa: semmai invenzione penuria voracità. E insomma pazienza a vivere nel cerchio
d’una Fiaba per adulti e nell’Allegoria.
Fiaba e Allegoria
Le sessioni dell’ISTA, soprattutto le prime, le più lunghe, sono state “architetture
del tempo”, appartenevano cioè alla natura della Festa. Vi si svolgeva molto lavoro utile,
un addestramento su cui attori e registi hanno poi potuto erigere la propria storia e la
propria corsa. Vi si svolgevano indagini empiriche sulle cui basi alcuni studiosi hanno
potuto introdursi nella scientia dei teatri. Ma tutte queste utilità potevano respirare, non
essere soffocate dallo spirito d’organizzazione, perché chiuse nel cerchio d’una Fiaba
per adulti al lavoro. Questo cerchio d’arbitrarietà feconda, d’eccesso, era la matrice del
loro plusvalore culturale o spirituale. Dava vita a quei residui che sono come i semi,
futuro che si nasconde nel frutto.
Parlavamo, all’inizio, di Urbino 1513, gli ultimi giorni di Carnevale. Fu una grande
festa di Corte, vi si rappresentò la Calandria con tutti i suoi intermezzi. Le feste di Corte
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non erano (solo) strumenti del potere - così come la saliera del Cellini non è (solo) un
contenitore per sale e pepe. Erano momenti di sperimentazione, produzione di residui
che funzioneranno come semi. Nei libri di Fabrizio Cruciani e di Franco Ruffini tutto
questo è spiegato e dimostrato. Nei documenti che trasmettono la cronaca di quella
festa urbinate, si ricordano nei dettagli gli avvenimenti. Ma per gli ultimi due giorni di
Carnevale si dice niente, quasi niente: che tutti i partecipanti alla festa erano mascherati e
nessun evento particolare venne programmato e organizzato. Facile capire che quei due
giorni erano il culmine della Festa. E che perciò sfuggono alla cronaca. Come mai nelle
nostre teste si configura sùbito l’immagine generica dell’orgia? Come mai ci riesce
difficile pensare ai residui fisici e spirituali che ciascuno metabolizza da per sé in
quell’incomprensibile laboratorio che chiamiamo ora corpo, ora anima, ora mente, senza
capire granché ciò di cui stiamo parlando, per la semplice ragione che diventa parlabile
solo quando lo studiamo cadavere, in preda all’anatomia, alla teologia, alla
neurofisiologia?
L’Allegoria non è il simbolo. Non partecipa né del segreto né del mistero. Né del
sogno. E’ semplice consapevolezza che quel che facciamo è una cosa precisa, letterale, a
cui nello stesso tempo facciamo significare qualcosa d’altro. Della prima si fa cronaca.
Dell’altra si tace semplicemente perché ognuno deve darle tutt’al più le sue parole.
Parole fragilissime, se le si dicesse ad altri. Ma quando la presenza dell’Allegoria
svanisce, l’arte resta vuota. La persona resta vuota. E se quel vuoto si smette di patirlo,
esso si riempie di sostanze tossiche. La corsa diventa carriera.
L'uso di battezzare in modo immaginifico tempi e spazi è ciò che normalmente
vien detto «un uso da boy-scout». Può darsi. Serve comunque a non sentirsi provvisori,
a sentirsi a casa propria per il poco tempo che vi si resta. E' un uso nomade. Quando
dopo un mese, due mesi, quindici giorni si sbaracca, si porta via tutto, non solo i
bagagli, ma anche il respiro dei nomi.
Ulvetime (l'ora del lupo), Ora et Labora, Gange e Danubio, Dream Therapy,
Kamayuga, Erosyuga, Gipsy time, erano nomi di fasce orarie, nell'una o nell'altra
sessione dell'ISTA.
Flowers room, Meeting point, Epidauros, Caliban, Deserto dei Gobi, Grotta
Azzurra, Tlön erano toponimi.
Tlön è invenzione di Borges, il nome d'un paese dove memoria ed esistenza
coincidono, tant'è che «un'antica soglia perdurò fino a che un mendicante venne a
visitarla, e alla morte di colui fu perduta di vista»; tant'è che «talvolta pochi uccelli, un
cavallo, salvarono le rovine di un anfiteatro».
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«Antica soglia» più che semplice traduzione è un commento o una coloritura:
l'originale argentino dice solo «umbral». E racconta che «las cosas se duplican» a Tlön, e
«propenden asimismo a borrarse y a perder los detalles cuando los olvidas la gente». Gli
oggetti o le cose che «se duplican» si chiamano hrön (plurale: hrönir), ed hanno un
modo di riprodursi secondo il ritmo di chi le pensa che andrebbe meditato per capire i
salti e i ricorsi delle tradizioni: «los hrönir de segundo y de tercer grado [...] exageran
las aberraciones del inicial; los de quinto son casi uniformes; los de noveno se
confunden con los de segundo; en los de undécimo hay una pureza de líneas que los
originales no tienen». Delle due lingue di Tlön, una è fatta solo di verbi con suffissi
avverbiali, l'altra solo d'aggettivi e aggregati d'aggettivi. I sostantivi - com'è giusto - non
esistono. Insomma, mentre «al principio se creyó que Tlön era un mero caos, una
irresponsable licencia de la imaginación», ora si è compreso «que es un cosmos», e le sue
leggi fondamentali, almeno per il momento, «han sido formuladas».
Ma non sempre basta l'incantesimo d'un nome.
Una volta mi sembrò di piombare in uno di quei sogni di Buñuel, che
sghignazzano su ciò da cui fuggono. Immaginate una camerata lunga, dal soffitto
altissimo, dove appena apri la porta credi di vedere d'infilata due schiere affrontate
d'altarini messi lì uno accanto all'altro sulle pareti lunghe, come in un magazzino di
cose sacrosante. Lassù, attaccati appena sotto il soffitto, ci sono in fila tanti baldacchini
tondi, grandi quanto un cerchione di bicicletta, da cui pendono cortine di raso rosa,
che s'allargano scendendo a toccare il pavimento, proprio come gli apparati che
onorano la statua del Santo nelle chiese in festa di paese.
Che cosa racchiudono o nascondono tutte queste cortine rosa che salgono fino
al soffitto? Guardi meglio e t'accorgi che, piccolo piccolo, sul pavimento, sotto ogni
baldacchino c'è… un bidè.
Siamo in un collegio per ragazze di buona famiglia, e questa camerata è adibita
alle pulizie intime, che ognuna possa fare insieme alle altre, ma dietro la sua personale
cortina di raso.
Le camerate dei bidè sono tre, al Conservatorio di San Pietro a Volterra, dove il
12 maggio 1981 facciamo il sopralluogo per la sessione dell'ISTA che deve aprirsi l'8
agosto prossimo: in una delle camerate dei bidè, le tende sono tutte di raso giallo,
nell'altra tutte celeste, nella prima, come ho detto, rosa. Preghiamo la direttrice di farle
sparire prima dell'inizio dell'ISTA. Non si sa mai, con tanta gente, le tende di raso
potrebbero rovinarsi e il Centro di Pontedera che finanzia questa sessione dell'ISTA
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non vorrebbe davvero pagare i danni. La direttrice capisce benissimo. Ma la sconcezza
delle camerate dei bidè non sembra avvertirla.
Prima di richiudere la porta do ancora un'occhiata, voglio imprimermi bene nella
memoria quell'immagine, la sua sorprendente e pregnante sporcizia morale perbene. E'
proprio vero: qui i bidè sembrano altari.
C'è un immondo sottile che può restare attaccato ai muri.
A Volterra, nel maggio dell'81, durante il sopralluogo per l'ISTA, Eugenio
Barba, Roberto Bacci e Paolo Pierazzini dovevano occuparsi dei problemi più urgenti se non più gravi: i posti per dormire, gli spazi di lavoro, le cucine, i gabinetti
(pochissimi, purtroppo). Non c'era tempo per far caso agli influssi negativi delle mura.
Forse nessuno di noi avrebbe ammesso di crederci. Io non avevo granché da fare,
quindi potevo andare in giro a naso all'aria ad annusare i dettagli.
Comunque sia, quando l'ISTA cominciò, all'inizio d'agosto, fin dai primi giorni
quegli "influssi" o come li si vuol chiamare cominciarono a farsi sentire.
Malgrado tutto il nostro scetticismo, alcuni di noi consigliarono ad Eugenio
Barba di chiedere ai balinesi ed agli indiani che suonassero qualcosa che fosse come una
benedizione e allontanasse quel sottile miasmo che sembrava emanare dalla mura del
Conservatorio. Ed a Barba parve ragionevole acconsentire.
Suonarono, cantarono, e (in parte) passò.
Il Salento è una penisola, ma così sottile che la sua luce è la stessa delle piccole
isole, le quali hanno la luce d'un sole e mezzo, perché il riverbero del mare che sta
dall'altra parte invia luce leggera anche dalla parte donde dovrebbe venir l'ombra. Le
ombre si attutiscono. E poiché siamo abituati a riconoscere la realtà dal peso dell'ombra,
tutto sembra un po' meno reale. Le cose le case le masserie persino i brutti edifici come
la nostra colonia scolastica in riva al mare sembrano posarsi leggeri sul terreno, fatti
d'aria anche loro.
Alla fine dell'ISTA del Salento, la domenica 13 settembre 1987, di pomeriggio,
eravamo tutti in riva al mare, chi in costume da bagno, chi, come Sanjukta Panigrahi,
con il suo sari: tutti pronti a fare una nuotata insieme (chi sapeva nuotare, gli altri ad
annaspare finché s'apppieda o al massimo a stazionare alla secca). Era una cerimonia,
una delle cerimonie di chiusura dell'ISTA, rustiche, un po' ciniche e un po' sentimentali,
più da commilitoni che da confratelli. Barba parlava di Kantan, il monaco del famoso
dramma Nô, che visse un'intera vita nel tempo in cui la padrona della locanda gli
preparava una ciotola di riso: «Un tempo dentro il tempo, questo è l'ISTA per me.
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Potrei dire: un sogno in cui divento il principe di un'isola incantata, come Prospero. Ma
quand'è che sogno?».
Da una sessione all'altra dell'ISTA i discorsi di chiusura o d'apertura sembrano
legarsi al di sopra degli intervalli di tempo.
Tre anni dopo, all'ISTA di Bologna del 1990, il pomeriggio del 1º luglio:
Abbiamo due famiglie, quella in cui siamo nati e quella che abbiamo scelto. Questa qui
intorno a me è la mia seconda famiglia. Tutte le persone che hanno avuto una grande
importanza nella mia vita: i compagni dell'Odin, gli intellettuali, i maestri orientali, i
latinoamericani. Forse questi ultimi sono i più importanti. Attraverso loro posso formulare il
perché faccio teatro, perché continuo.
Noi siamo privilegiati. Ed è sola colpa nostra se non sappiamo scoprire il significato del
nostro fare teatro.
Qualche giorno dopo spiegava:
Il teatro è il resto arcaico di altre epoche. All'inizio del nostro secolo il teatro entra in crisi
d'identità. I riformatori hanno cercato di iniettargli un senso. In realtà il teatro è un residuo
archeologico. Perde valore come per un'emofilia. I latinoamericani l'hanno aggirata questa
emofilia. Sono fra i più grandi ricercatori del senso del teatro.
Fara Sabina, discorso di apertura, il 22 maggio 1993, alle 9:
Quando sono tornato in Chile sono stato accolto da Miguel Angel, di madre india e padre
cileno. L'ho incontrato la prima volta nell'88. Questa volta, nel '91, mi ha regalato un libro, il
primo libro di poesie pubblicato in mapucho, la lingua india cui apparteneva sua madre. Me
lo ha dedicato con queste parole: “Con gratitudine dalla parte di un figlio del vostro lavoro”.
Questa frase mi ha molto colpito, tanto che non ho fatto altro che parlarne in America
Latina. Sì, siamo figli di padri e di madri. Ma del lavoro di chi siamo i figli, noi dell'ISTA?
Siamo anche i figli del lavoro di Fabrizio [l'incontro di Fara Sabina era dedicata a Fabrizio
Cruciani, morto nell'agosto del 1992, storico del teatro e collaboratore di Barba fin dall'ISTA
del 1980]. E' un momento di grande gioia. Siamo in questo sole che per noi dell'Odin
significa molto. Fara Sabina è il posto dove l'Odin sognava di creare una base. E' il posto
dove nell'aprile dell'80 abbiamo incontrato alcuni gruppi sudamericani. Qui, sette anni dopo,
abbiamo iniziato Talabot. Questo è il posto che sapevamo che ci avrebbe accolto quando
in nessun altro posto sarebbe stato possibile. E' il posto dove Fabrizio veniva, lavorava.
Anche questo posto è figlio del lavoro di Fabrizio. Aldilà di tutto quello che ereditiamo,
esiste un dovere professionale che sempre ci fa sognare di essere discoli. Nel nostro
mestiere significa riuscire a rompere quel falso rispetto che ci lega ad aspetti di pensiero che
diventano narcisismi.
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Da scuola a villaggio
Con il tempo, passando attraverso diverse forme organizzative e diversi tentativi
per integrare le sue componenti, l'ISTA è divenuta sempre meno una «scuola» (sia pure
basata sulla disciplinata anarchia del Disordine) e sempre più un «villaggio» in cui sono
rappresentate le diverse specializzazioni ed i diversi livelli d'esperienza, persone che si
conoscono da molto tempo e nuovi venuti, principianti e professionisti con molti anni
alle spalle.
E' un microcosmo teatrale o un’isola di Laputa così come la vide Gulliver in uno
dei suoi viaggi, che cala ora qui ora là, nelle sue diverse sessioni. Si organizza al suo
interno quasi senza tener conto di ciò che la circonda, e muta invece profondamente
per il modo in cui intreccia le sue relazioni con il contesto.
Vi sono diverse linee di tensione o diverse polarità che tengono in vita l'ISTA:
quella fra lavoro pedagogico e ricerca pura era una polarità forte soprattutto nei primi
anni. Altrettanto forte, in quel periodo, la polarità attori/registi, in seguito sostituita da
quella fra uomini di teatro e uomini di libro (kshatriya e pandit, come Barba li chiamò
nell'organizzare il lavoro interno dell'ISTA del Salento nell'87). Prevale, negli ultimi anni,
la polarità fra coloro che sono ormai dei veterani e gli altri che desiderano d'essere
immessi in un modo di pensare che per loro è nuovo.
I partecipanti di una sessione dell'ISTA sono in genere un centinaio. Fra loro - a
partire dall'ISTA di Bologna nel '90 - gli attori dell'Odin Teatret quasi al completo, i
maestri orientali con i loro staff, un nucleo fra le 10 e le 20 persone a metà fra
partecipanti e collaboratori, un nucleo ancora più ristretto che è stato presente sempre,
e un insieme di attori e registi diversi per provenienza, simili per cultura o scelte di
vita. Più alcune persone che si aggregano perché interessate al lavoro di Eugenio
Barba, per desiderio di vivere il teatro dall'interno, o perché considerano stimolante
quell'atmosfera culturale dell'ISTA (giornalisti, antropologi, teatrologi, organizzatori,
musicologi...).
La polarità più importante, quella in cui l'ISTA consiste, è fra il suo carattere
informale di network, la sua assenza di strutture stabili, di cariche e gerarchie, e la
centralità di Eugenio Barba. Una centralità che non ha a che vedere con il potere, ma
con l'attrazione.
Il delicato equilibrio dell'ISTA, ed anche la sua apparente complessità, derivano
da due dati di fatto: tutti coloro che vi partecipano sono lì perché interessati al tipo di
ricerca che Eugenio Barba conduce da anni nei territori di frontiera del teatro; e perché
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in un modo o nell'altro, per affinità o contrasto, Barba li ha personalmente scelti
sentendosene stimolato.
Non c'è dubbio che Eugenio Barba appartenga alla schiera non numerosa degli
artisti che sono anche capi e costruttori di territorio. Ma all'interno dell'ISTA il suo
ruolo più ancora che di leader è di capofila. I suoi vagabondaggi di ricercatore
disegnano un arabesco che diviene un campo di riferimento per altre persone ed altre
curiosità. In realtà non è un territorio se non idealmente, come potrebbe esserlo un
andirivieni di sentieri di mare.
Se queste immagini sono un po' strane la colpa non è mia, ma dell'oggetto. Una
schiera di artisti e di teatrologi che con modi ed intenti diversi lavorano sul campo
emerso dai disegni del vagabondare d'un artista-scienziato e in esso raccolgono
ciascuno il proprio guadagno: benché un po' troppo romanzesca nella dicitura credo
che sia proprio la descrizione più realistica e precisa della struttura dell'ISTA.
E' evidente che si tratta d'una struttura che non potrebbe essere copiata con altre
persone senza franare in un'organizzazione piramidale e gerarchizzata. Quindi, alla
lunga, vogliosa d'ortodossia. Quindi sciocca, sciapa. Questa sciocchezza sarebbe la
degenerazione di quella «S» della sigla che sta per «School».
Ed è evidente che il suo ordinatissimo disordine è molto solido perché è un
tessuto d'egoismi. Ma è fragilissimo perché vivo e quindi in gran parte inconsapevole.
Nessun punto di vista, nell'arabesco, permette di vederne la forma. Quindi uno
si domanda: «Ma dove siamo?». Anche per coloro che vi hanno aderito fin dall'inizio, il
problema di come l'ISTA funzioni non è affatto facile da risolvere. Ci sono dei dettagli
marginali che rischiano invece di rivelarsi decisivi. Per esempio: una "normale" fissità
degli orari nel corso delle sessioni, oppure una programmazione più dettagliata (che
sarebbe tanto utile per gli organizzatori), o una struttura associativa più stabile nei
periodi privi di incontri, un qualche regolamento per i soci e per le nuove immissioni,
una chiara distinzione fra l'équipe stabile e i partecipanti alle differenti sessioni,
sarebbero tutti elementi che malgrado il loro apparente senso comune basterebbero
probabilmente a produrre la frana. Su un altro piano sarebbe altrettanto deleterio benché tutti in un momento o nell'altro lo si sia auspicato - ogni tentativo di definire
una base teorica unitaria e comune.
L'ISTA è fatta esclusivamente di storie, lavori e relazioni fra persone. Non ha
statuti, scopi definiti, buone giustificazioni. Non è «le primedonne passano ma la Scala
rimane», come disse quel sovrintendente sprezzante verso la Callas; non è una di quelle
istituzioni che possono esser svuotate e poi riempite di uomini e donne nuove senza che
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l'essenziale si perda. Non è un partito, e neppure un «movimento». In questo senso è
puro e semplice teatro: un intreccio di relazioni capaci di farsi vere - diceva Stanislavskij
- solo tramite l'apporto di alcuni se magici.
Se magico
Ciò che permette al Disordine di non cadere nella confusione è quel particolare
“se magico” che regola l'autodisciplina. Irresistibile la voglia di meditare sui giochi di
parole quando Stanislavskij viene tradotto in italiano: il “se magico” è l’esatto opposto
del “magico sé” nel cui pozzo nero ciascuno rischia di cadere. Ne è l’antidoto?
In Italia, o forse soprattutto a Roma, c'è una domanda fondamentale che spesso
viene ripetuta con disincanto: «ma chi te lo fa fare?».
Quando la risposta è: «nessuno», ma detta come se fosse invece «qualcuno», e in
più come se questo «qualcuno» fosse in grado di minacciare dure sanzioni in caso di
trasgressione, allora c'è autodisciplina, che ha sempre a che fare con una finzione vitale,
e quindi, nel senso più profondo, con qualcosa di simile al lavoro dell'attore.
E' un punto di congiunzione del teatro con la vita, dove si vede quanto poco
saggio sia distinguerli.
La seconda sessione dell'ISTA, la più lunga, a Volterra, era basata su orari simili
a quelli di Bonn. Cominciò l'8 agosto e finì il 5 ottobre. Poiché il ritmo di lavoro era
quello della prima ISTA, ma dopo un mese questa volta si era non alla fine ma solo a
metà del cammino, il nero mantello del sonno cominciò a pesare sproporzionatamente.
Occorsero delle pause, una variazione di ritmo che coincise con i seminari tenuti da
alcuni
specialisti dei giochi teatrali d'improvvisazione: Clive Barker, docente
universitario inglese, formatosi come attore e drammaturgo all'interno del Theatre
Workshop di Joan Littelwood; e soprattutto - nella settimana fra fine agosto e inizio
settembre - Keith Johnstone, proveniente dal Canada, formatosi all'interno dell'atelier
per drammaturghi del Court Theatre di Londra.
Per alcuni giorni, la giocosa libertà del Theatre-Sport predicata da Johnstone ed il
suo libro Impro circolarono per l'ISTA.
Dedicammo molto tempo ad esplorare i diversi aspetti dell'improvvisazione
teatrale. Lavorammo con Dario Fo, che ci spiegò come il segreto dell'improvvisare
consista nel partire negando il tema. Uno di noi propose: «Un grande fumatore smania
alla ricerca d'una sigaretta: è solo in casa la domenica e tutti i tabaccai sono chiusi».
Dario Fo improvvisò: il grande fumatore ha deciso di smettere di fumare.
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Era, al livello d'organizzazione drammaturgico, l'equivalente del principio preespressivo che Mejerchol'd chiamava «otkaz», rifiuto, e che Barba traduce con
l'espressione «negare l'azione». Fo delineò l'episodio, in parte interpretandolo, in parte
raccontandolo. Alla fine il fumatore benpensante, passato dall'astinenza volontaria ad
una voglia irrefrenabile, con una smania resa tanto più forte dall'improvvida decisione
di divenire virtuoso, esce di casa e non trova nulla di meglio che unirsi ad un gruppetto
di giovani nottambuli che fumano erba.
Grotowski parlò quasi un'intera notte dell'improvvisazione secondo Stanislavskij.
Discutemmo di Commedia dell'Arte.
Ingemar Lind raccontò dell'improvvisazione alla scuola di Decroux.
Sanjukta Panigrahi improvvisò sotto i nostri occhi una danza basata sulla
Bhagavad Gita. Il tema l'aveva suggerito Barba. In pochi minuti Sanjukta concertò con
Ragunath i versetti da cantare e la musica. Poi eseguì senza alcuna preparazione, per
più di mezz'ora, una lunga danza drammatica che per lei era completamente nuova. Ci
stupì la sicurezza con cui tracciò la cornice drammaturgica: iniziò quando Krishna va ad
aggiogare i cavalli al cocchio di Arjuna e terminò non con l'ultima scena (Arjuna dice a
Krishna: "Il mio sgomento si è dileguato"), ma con quella che tecnicamente si
chiamerebbe una coda drammaturgica: Krishna tornava nelle scuderie, staccava i cavalli
dal cocchio, li legava alla mangiatoia.
Anche la coda drammaturgica ha un equivalente al livello d'organizzazione preespressivo, in quel ricorrente consiglio a non chiudere sempre il movimento sul suo
tratto accentato.
Chiedemmo a Sanjukta quali fossero le parole del testo cantato da Ragunath.
Erano l'insegnamento che alla metà del secondo canto Krishna impartisce ad Arjuna:
Sei chiamato ad agire,
non a godere i frutti della tua azione.
Non dipendere dai frutti della tua azione.
Non attaccarti neppure alla non-azione.
Fa' quel che devi fare senza preoccuparti
di successo o insuccesso.
E' questo che chiamiamo
“disciplina”.
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Con quell'espressione incantevole con cui Sanjukta a volte si sforzava d'esser
timida, aggiunse che era stata particolarmente contenta del tema propostole, perché quei
versetti erano il testo della sua preghiera mattutina.
Ecco un'altra spiegazione di quell'aria di famiglia che lega malgrado tante
differenze Eugenio Barba e Sanjukta Panigrahi: parole profondamente coincidenti
erano comparse in Ferai ed erano poi diventate uno dei motti dell'Odin Teatret:
Fa' quel che devi fare.
Non domandare.
Non domandare.
A Volterra il tempo del silenzio andava dalle 6 alle 9,30’. Caffè alle 5,30’, corsa
di 40 minuti a gruppi di 3 o 4 persone. Per i primi 3-4 giorni, Eugenio Barba tenne un
seminario collettivo, che durava l'intera giornata, a cominciare dalle 7 di mattina, per
fornire ad ogni partecipante le basi per costruirsi un proprio training individuale.
Negli stessi giorni i pedagoghi si presentarono con dimostrazioni di lavori e brani di
spettacoli. Nei giorni seguenti, tutti si divisero in tre «famiglie»: la famiglia di Sanjukta
Panigrahi, quella di Katsuko Azuma e quella di Ingemar Lind. All'interno della
«famiglia» ciascun partecipante lavorava al proprio training, e l'apporto dei pedagoghi
consisteva nello stimolarli con esempi e nel guidarli ognuno lungo la propria diversa
strada.
Ciascun partecipante aveva scelto la sua «famiglia», così come gli attori scelsero i
registi con i quali lavorare, nel pomeriggio, per il loro studio su Hamlet.
Dopo il lavoro nelle «famiglie», breakfast alle 9,30’; dalle 10 alle 13,30’ si
svolgevano attività diverse secondo i diversi momenti ed i diversi gruppi. Il lunch era
alle 14; il dinner era alle 19,30’, in uno dei ristoranti di Volterra.
I balinesi, guidati da I Made Pasek Tempo, abitavano in una casupola nel
giardino del Conservatorio di San Pietro dove l'ISTA aveva luogo. Non erano
responsabili di una «famiglia», ma ciascun partecipante poteva concordare con loro
delle sedute di lavoro speciali. Altrettanto succedeva con l'attore Tage Larsen dell'Odin
Teatret, che lavorava sulle tecniche del teatro di strada, organizzando una parata
notturna per le vie e le piazze di Volterra.
Oltre alla divisione fra registi e attori vi era anche quella fra uomini di scena ed
uomini di libro, gli "intellettuali": un gruppo di una decina di persone di differenti età e
di differenti livelli d'esperienza. Ci radunavamo con Barba per discutere dell'andamento
dei lavori. In realtà, Barba lavorava con noi sull'energia della parola, cercava di raschiare
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via dal nostro modo di esprimerci il superfluo delle scuole e dei giornali, i giri di frase
che riempiono il tempo senza trasmettere stimoli o informazioni.
Lavorammo a lungo, i primi giorni, per formulare dei brevi temi - 3, 4, 10 righe al
massimo - che fossero nodi d'immagini, di situazioni o di storie in grado di permettere
ai registi presenti all'ISTA di comporre una breve scena di pochi minuti con un attore o
un'attrice. Sotto il peso delle minuziose esigenze di Barba ci divenne difficile il semplice
compito di fornire un'indicazione di lavoro capace di stimolare la creatività e la libertà
d'un uomo di teatro.
Ogni maestro è anche un sergente. Barba obiettava sempre in prima persona:
«Qui non capisco», «Questo è astratto, non mi dice niente», «Questo è superfluo», «Se
leggessi questo, come regista, non saprei neppure da dove cominciare». Gli "scholars"
vedevano soppesate le loro parole non diversamente dagli attori quando ogni loro
minimo gesto è soppesato e ridisegnato dal regista. E' la situazione tormentosa di chi
deve faticosamente reimparare le azioni più semplici, mentre qualcuno ti dice come
camminare, come sederti o alzarti in piedi.
Come attori che debbano inventare un personaggio o una scena, ognuno di noi
aveva pensato al significato profondo o divertente del tema immaginato. E si trovò a
dover combattere con ogni singola parola, soprattutto ogni verbo, discutendo
minuziosamente le scelte per la punteggiatura o gli "a capo". Nessuno si permise di
mandare Barba a quel paese, di dirgli, “ohi, ma con chi credi di parlare? Io sono
professore, giornalista di professione, scrivo articoli, scrivo saggi, scrivo come te e
meglio di te. Falla finita!”. Tutti lo pensammo. A volte eravamo molto rabbiosi. Quando
poi abbiamo letto Toporkov, perfino noi che non lavoriamo in teatro e non abbiamo
mai avuto un regista, abbiamo riconosciuto la situazione per averla assaggiata a
minuscole dosi.
Le scene di pochi minuti composte dai registi sulla base d'un tema scelto fra
quelli da noi proposti, vennero mostrate il pomeriggio dei giorni seguenti a tutti i
partecipanti. Questo permise ai registi di presentarsi, sicché i 13 gruppi che lavoravano
su Hamlet, a differenza di quanto era accaduto a Bonn, si formarono sulla base di una
scelta reciproca fra registi ed attori.
Cominciarono a lavorare negli ultimi giorni di agosto. I risultati vennero
presentati nelle giornate del 21, 22 e 23 settembre. Fu il solo momento in cui, malgrado
tutte le precauzioni, penetrò nell'ISTA lo spirito di competizione e la gerarchia del
successo/insuccesso. Di per sé non sarebbe un male: sulla forza pedagogica della
competizione sono basati - dovunque - i nove decimi dell'addestramento teatrale. Ma
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all'ISTA lo spirito di competizione e di giudizio è estraneo, non perché sia un luogo
pacifico, ma perché negando la possibilità di misurarsi su un modello, tutta la tensione è
rivolta alla ricerca della differenza individuale. Anche in questo l'ISTA non è una
"scuola", e in essa gli "studi" composti dai partecipanti, questi fac-simile di spettacoli
presentati agli spettatori-critici, erano un principio di contraddizione.
Poiché non vi sono più state sessioni dell'ISTA lunghe come quella di Bonn o
Volterra, il problema s'è risolto da sé: nelle sessioni successive, gli studi dei registi
partecipanti non erano possibili per ragioni di tempo.
Cajamarca
Ora mi si impone nella memoria e nella cronaca un'altra digressione, un
episodio che non si riferisce direttamente all'ISTA.
Nel novembre dell'88 si tenne presso Lima, a Chaclacayo, un incontro di teatri
di gruppo latinamericani diretto dai teatri Cuatrotablas e Yuyachkani e guidato da
Eugenio Barba. Barba chiese a tutti i registi presenti di comporre - con attori diversi
da quelli del proprio gruppo - un breve schizzo basato sul tema “Escenas de amor y
vientos de desapariciones”.
Dopo 5 giorni (quindi la brevità del tempo non è decisiva) le scene vennero
presentate nell'incredibile paesaggio fatto solo di polvere e pietra delle rovine di
Cajamarca, un luogo d'aridità assoluta.
I più di cento partecipanti all'incontro sfilarono a lungo, in uno spettacolocerimonia senza spettatori, all'interno del quale Barba chiese di rappresentare le scene
preparate nei giorni precedenti. Ma scelse uno spazio che le nascondeva quasi del tutto
agli occhi di noi possibili spettatori. Gli attori dovettero decidere ciascuno per proprio
conto per chi o contro chi stessero recitando, mentre materialmente davanti a loro c'era
solo un orizzonte aperto, terra nera e pietre nere, polvere, e intanto scendeva il buio.
E' in questo modo che all'ISTA potrebbe essere introdotta la pratica di
presentare "studi" a gara? Mettendo alla prova il fine ultimo del lavoro dell'attore - lo
spettatore - e portandolo all'estremo fino a confrontarlo con il vuoto?
Anche il lavoro dello spettatore è stato una volta confrontato con il suo
estremo, alla riunione dell'ISTA a Fara Sabina, nel maggio del '93. Mirella Schino ha
raccontato quel caso alla fine del suo articolo Sakuntala fra gli ulivi.
Ho interrotto il lavoro. Sono andato a cercare le foto che Tony D'Urso ha
scattato nel deserto archeologico di Cajamarca. Si vede una fila lunghissima di più di
100 persone, in testa c'è Eugenio Barba, tutt'intorno un paesaggio assente. Si vede la
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polvere che alziamo camminando. Riconosco alcune facce e ricordo l'atmosfera, il
silenzio, le fantasie. Alcuni portano con sé i propri strumenti. Due o tre reggono la
sagoma d'un elefante fatto di rami d'eucalipto, che serve per la loro scena. Una
traversata teatrale disarmata. Al centro della piana polverosa c'è un gruppo di musici,
alcuni scandinavi, altri peruviani: Barba aveva chiesto loro di suonare tutto il tempo.
In quella fila c'è una persona che molti anni fa aveva fatto un sogno e più tardi
me l'aveva raccontato. All'inizio degli anni Sessanta, aveva visto una fila lunghissima di
giovani vestiti con molti colori e coi capelli lunghi che camminavano in festa,
suonando i propri strumenti su una strada verso le montagne o il mare. Allora s'era
meravigliata, perché qualcuno camminava alto sui trampoli. Nel '78, le immagini di
quel sogno s'erano realizzate con precisione, nell'incontro dei teatri di gruppo ad
Ayacucho. E lei, che anni prima aveva sognato quel momento, ora era lì, partecipante e
protagonista, riconosceva le immagini e me lo diceva con gli occhi di luce.
L'incontro, a Chaclacayo, è nel decennale di quello di Ayacucho, si chiama "Ayacucho
88", anche se siamo nei pressi di Lima e ad Ayacucho in così tanti non potremmo
andare per la guerra che là continua fra esercito e Sendero Luminoso. Questo corteo
pensoso e fantasticante nel silenzio, fra le rovine deserte di Cajamarca, dove un tempo
c'era una città-mercato fiorente per acque ed orti, rasa al suolo dai conquistatori (non
gli spagnoli, ma gli Inca), è la continuazione dell'altro? E' una meditazione sulla
presenza e sul vuoto? Insistere tanto sul valore della "presenza" per l'attore, non vuol
dire in realtà meditare su un'unione d'opposti: "presenza-e-vuoto"?
Una collega mi dice, poiché sa che sto scrivendo cronache dell'ISTA:
“Riuscirai a comunicare il senso di pericolo? Perché se non ci riesci si perderà
l’essenziale”. Probabilmente non ci riuscirò. Perciò nego il problema: “Pericolo? Quale
pericolo c'è nello stare all'ISTA?”, e ridacchio per sovrappiù. Ma lei continua seriamente:
“Tutto il senso dell'ISTA, forse anche dei rapporti con Barba sparisce se ci si dimentica
del senso del pericolo”. Poi mi fa notare (e allora non posso non riconoscere che ha
ragione): “Il senso dell'ISTA, forse anche dei rapporti con Eugenio Barba sparisce se
ci si dimentica di questo senso del pericolo. Alcuni quasi con terrore, altri col sollievo
di una "prova" personale attesa e insperata, tutti comunque (forse anche tu), abbiamo
vissuto l'Odin ed Eugenio Barba come un esser messi
alla prova, e
contemporaneamente come timore e diffidenza d'esser messi inutilmente a rischio”. Ha
ragione.
Salto indietro alle 5 di mattina del 2 ottobre dell'80, a Bonn, primo incontro di
Eugenio Barba con i registi.
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Dopo aver detto che tutto il potere del regista sta nell'esempio, che il regista deve
conquistarsi la fiducia dei compagni, e che solo a prezzo di lavorare più degli attori può
chiedere a costoro di sopportare la situazione altrimenti insopportabile di uno che
continuamente ti dice come muoverti, come parlare, come comportarti per ore ed ore
di prove, aggiunge:
Non credo alla vocazione del regista scelto democraticamente dal gruppo. Alcuni di voi
hanno detto: “avevo voglia di fare l'attore, ma il gruppo ha il problema che manca un
regista, e allora mi sono sacrificato, lo faccio io”. Ma se uno sente il bisogno di dipingere,
poi non si mette a fare lo scrittore! Quali sono le qualità del regista? Una necessità personale
che gli fa scegliere un ruolo di dominio. Io so - e lo sapevo fin dall'inizio - che ho un grande
potere. Qualunque cosa faccia, lascia una traccia: come parlo, a chi parlo... Con una parola,
posso deprimere una persona per un mese. Se permetto ai miei problemi personali di
venir troppo allo scoperto, questi contagiano. Il problema principale per un regista consiste
nel trovare il modo per usare il proprio potere al fine di stimolare e di non soffocare.
Stimolare in senso egoistico: per essere a mia volta stimolato. Devo essere affascinato da una
persona, per orrore o ammirazione (ma non per la sua bellezza fisica). Se non avete il
bisogno di dominare, dominare per cambiare, se non avete un lato metafisico, non dio o
una filosofia, ma qualche cosa che vi obbliga ad andare al di là di quel che sapete, al di là
del quotidiano, se non avete questo, siete dei cattivi registi.
Poi girandosi improvvisamente verso il lato sarcastico del senso comune, aveva
aggiunto: “E perché no? Perché non esserlo in fondo? Il teatro è pieno di cattivi
registi”. Proprio così. Ma forse non è neppure così. Forse bisognerebbe dire che il teatro
è pieno di buoni e accettabili registi. Il fatto è che il sistema teatrale sembra non avere
nessun bisogno di registi fuori norma.
Basho
Torniamo a Volterra, nel 1981. A partire dal 13 agosto, Eugenio Barba aveva
iniziato anche lui il lavoro per uno spettacolo, con 5 attori - disse - fra i più
“improbabili”, cioè fra i meno simili a quelli con cui era abituato a lavorare. Scelse, per
esempio, un non più giovane regista, e un ragazzo senza alcuna esperienza teatrale, e
cominciò ad adattare alla situazione il testo di Edward Bond The Narrow Road to the Deep
Nord, basato sull'opera e sui viaggi del poeta giapponese Basho.
Credo che fosse la prima volta - dal 1964, quando aveva fondato l'Odin - che
Barba lavorava per un vero spettacolo con attori non appartenenti al suo gruppo.
L'espressione «vero spettacolo» non è del tutto adatta, perché si trattò d'uno
schizzo, con alcune scene appena appena delineate ed altre già composte in tutti i loro
ritmi, colori, sovrasensi. O armonici drammaturgici.
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A differenza degli altri «spettacoli» composti da Barba nelle successive sessioni
dell'ISTA (Faust nell'87, The Crossing nel '90, The Space is a Paradoxical Space nel '92,
Sakuntala nel '93, in una di quelle brevi riunioni dell'ISTA chiamate Università del
Teatro Eurasiano, a Fara Sabina), a differenza di questi “spettacoli”, il The Narrow Road
to the Deep Nord di Volterra fu il più simile ad un normale spettacolo: non fu il frutto di
soli 5 o 6 giorni di lavoro, e alla fine venne presentato ad un pubblico di invitati il 27 ed
il 29 settembre.
Il tema della pièce di Bond è il conflitto fra l'arte e la violenza della Storia.
Nelle mani di Barba divenne una meditazione sul potere, la violenza e quella che più
tardi chiamerà - soprattutto in relazione ad Antigone – “la via del rifiuto”.
La scena finale aveva tutta l'enigmaticità delle grandi scene degli spettacoli
dell'Odin Teatret, ma con un carattere cristallino e spassionato che Barba non aveva
ancora trovato con i “suoi” attori dell’Odin.
I numerosi personaggi della pièce di Bond erano stati inizialmente ridotti a 5.
Nel corso del lavoro erano diminuiti a 3. Nell'ultima scena componevano un
minaccioso e vorrei dire dissanguato triangolo. Ricordo che vi brillava la lama d'un
coltello, vi compariva un uomo tutto fasciato di bianco come un'antica mummia o un
moderno chirurgo atomico, un neonato veniva calato nell'acqua, che era più pozzo di
morte che fonte d'iniziazione. La scena s'era fatta buia e veniva percorsa da lingue di
fuoco, come una città bombardata vista dall'alto. Non ricordo più nulla dell'azione e
dei suoi possibili significati, ma ricordo il rasa di quel finale, il suo sapore fondamentale:
che era nichilistica contemplazione della violenza e insieme ansia metafisica. Puro
buddhismo, direi.
C'era, nel corso dello spettacolo, anche un tempietto che veniva dilapidato e
distrutto, fatto come quelle urne funerarie etrusche in cui un piccolo abitacolo di pietra,
una sorta di forno, contiene a sua volta un vaso, che contiene le ceneri. Questo vaso in
un vaso mi faceva pensare alla materializzazione d'un cuore. Adelina Suber ed io ne
avevamo visti molti esempi, visitando il Museo Etrusco di Volterra, e suggerimmo di
utilizzarne l'idea in The Narrow Road to the Deep Nord, per miniaturizzare l'immagine di
un tempio che ad un certo punto dell'azione scenica era essenziale (avevamo la
funzione di Dramaturg nel gruppetto che lavorava con Barba allo spettacolo).
Ospiti a Volterra
Ci furono molti ospiti e molte iniziative durante l’ISTA di Volterra, e vi crebbero
alcuni leader di gruppi di teatro italiani oggi abbastanza solidi. Quando più avanti
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parlerò, esagerandola forse un po' per il gusto del racconto, di un'aria di malattia, non
bisognerà dimenticare la sostanziale fecondità di quell'esperienza che per il teatro di
minoranza italiano costituisce una data storica, anche se non altrettanto evidente delle
date di festival come Santarcangelo o Polverigi, o di incontri come quello di Casciana o
Modena, o di rassegne come quelle organizzate da Bartolucci, a Salerno prima, e poi a
Roma.
Se penso all'ISTA di Volterra, penso anche che il motto del gruppo di
Pontedera potrebbe essere il vergiliano (o pseudo-vergiliano) sic vos non vobis. Per il
Centro della Sperimentazione e Ricerca Teatrale e per il Piccolo Teatro di Pontedera,
che ospitavano l'ISTA e avevano trovato i finanziamenti, l’ISTA passò come una
nuvola che scaricò altrove la sua pioggia benefica. Nessuno del gruppo di Pontedera
era fra i partecipanti, ad eccezione di Roberto Bacci, il leader del gruppo, che però
venne strappato via per gran parte del tempo dalla malattia mortale di sua madre.
Aldilà del lavoro del mattino, gli orari non furono mai fissi. Il pomeriggio i
gruppi di attori e registi lavoravano su Hamlet. Ma sia la mattina che il pomeriggio si
poteva decidere, da un momento all'altro, di dedicare un'ora ad una conferenza su
Hamlet o ad un incontro con un ospite in grado di spiegare la segreta drammaturgia
dei prestigiatori («La cosa essenziale per un prestigiatore - disse Sergio Bini, in arte
"Bustric" - è saper guidare l'attenzione degli spettatori», e ci mostrò come i nostri
occhi fossero irresistibilmente attratti dove lui voleva, anche quando noi sapevamo che
non era lì che si doveva guardare: eppure guardavamo la mano innocente, mentre l'altra
compiva i doverosi trucchi, E’ stato uno dei casi di teatro “politico” più efficace e
istruttivo che mi sia capitato di vedere).
Si organizzavano brevi laboratori dedicati a temi diversi. Quasi tutti i registi,
per esempio, parteciparono per alcuni giorni
ad incontri sulla natura della
drammaturgia, divisi in gruppi guidati dai più sperimentati fra gli «uomini di libro» che
partecipavano all'ISTA.
Barba aveva lavorato su The Narrow Road to the Deep Nord a volte la mattina,
dopo il breakfast, più spesso il pomeriggio o la sera e la notte. Lavorava pensando
sempre a voce alta, permettendo ai presenti di comprendere i suoi procedimenti, le
ragioni dei suoi interventi e delle sue scelte.
Potevano assistere a quel lavoro solo i registi e gli "uomini di libro". Agli attori
Barba riservava, nel pomeriggio, incontri a parte dove rispondeva alle domande, e
soprattutto mostrava come potessero tenersi fedeli ad una propria linea d'azione senza
lasciarsi sopraffare dalle indicazioni o dai voleri del regista.
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A posteriori, riflettendo sulle storie di alcuni dei gruppi che ho conosciuto da
vicino, mi sono spesso domandato se non sarebbe stato più opportuno invertire i
termini della distinzione: riservare agli attori il lavoro registico di Barba, e destinare ai
registi le sue indicazioni agli attori.
Prima ancora dei problemi tecnici, quel che spesso blocca il lavoro dei gruppi di
teatro è un rapporto inorganico fra attori e registi, non tanto un'incomprensione, ma
un'eccessiva mancanza di furbizia nel modo di aggirare e rendere Disordine fertile le
ineliminabili conseguenze dell'incomprensione reciproca.
Ma nelle successive sessioni dell'ISTA la distinzione fra attori e registi non ebbe
più ragion d'essere.
La sessione di Volterra fu l'ISTA allo stato magmatico, anche per la sua
lunghezza. In séguito non fu più possibile far convivere tante attività e tanta varietà. A
Volterra, malgrado l'intensità della fatica e le disagiate condizioni logistiche, non ci fu
bisogno di regole troppo precise e neppure di rigide divisioni fra il lavoro interno e
quello aperto ai visitatori, che - l'ho già detto - furono molti e restavano ospiti dell'ISTA
chi pochi giorni, chi una settimana e più. Dalla Polonia vennero Konstanty Puzyna,
direttore dell'importante rivista teatrale "Dialog", e Zbigniew Osinski, studioso del
teatro di Grotowski. Vennero l'anziano maestro di teatro e regista italiano Orazio Costa,
che aveva lavorato come assistente alla regia con Jacques Copeau; docenti di teatro e
giovani studiosi; Cesare Molinari tenne una conversazione su Amleto e partecipò ai
giochi d'improvvisazioni organizzati da Keith Jhonstone; l'attore argentino Pepe
Robledo, cofondatore del Libre Teatro Libre; e Iben Nagel Rasmussen, che in quel
periodo - distaccatasi temporaneamente dall'Odin Teatret - aveva fondato il Gruppo
Farfa con il quale portava in giro lo spettacolo Heridos por el viento.
Venne anche, in visita per una settimana, Moriaki Watanabe, docente
dell'Università di Tokio e specialista di letteratura francese, regista teatrale, traduttore
di Racine e amico dei più grandi fra gli attori Nô e Kabuki, colui che aveva presentato
a Barba, nei mesi precedenti l'ISTA di Bonn, Katsuko Azuma.
A Volterra come già a Bonn, abitava all'ISTA, nel vero senso del verbo “abitare”,
Jerzy Grotowski, che in quegli anni aveva grandi difficoltà in patria. A Bonn era
rimasto quasi tutto il tempo ritirato. Durante alcune ore del giorno sedeva nell'ampia
cucina della scuola e dava ascolto ai partecipanti che desideravano un colloquio a
quattr'occhi. A Volterra, viveva altrettanto ritirato, con alcune sortite: una conferenza a
Firenze; la lunga, rivelatrice lezione d'un'intera notte sull'improvvisazione secondo
Stanislavskij, di cui ho già detto.
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Ho anche parlato di disagevoli condizioni logistiche. Non era tanto il fatto che si
dormisse in camere con 5 o 7 letti ciascuna, o in grandi camerate. Anche a Bonn, nel
Salento, e a Bologna la privacy era impossibile e veniva preservata attraverso la regola
del silenzio nelle zone dove la gente dormiva, anche perché gli orari erano a volte
molto diversi e c'erano persone che lavoravano la notte e dovevano quindi recuperare
durante il giorno. Inoltre la privacy ha delle strane regole. Nel Salento non v'era altra
possibilità che creare due camerate di circa 50 persone ciascuna, senza neppure poter
distinguere maschi da femmine. Ma il numero cosi alto di persone, unito al fatto che
nessuno apriva bocca, permetteva che già dopo pochi giorni la promiscuità non fosse
più un peso e che ognuno riuscisse a sentirsi quasi isolato nel suo spazio privato.
Che il Conservatorio di San Pietro, a Volterra, avesse qualcosa di particolare l'ho
già detto. E' un grande settecentesco edificio che ha l'architettura d'un convento,
adibito a collegio femminile per ragazze di buona famiglia. Dietro la casa, un parco con
giganteschi ippocastani, circondato da un alto muro di pietra, non riesce a dar
l'impressione d'esser liberi all'aria aperta. In fondo al parco, un minuscolo anfiteatro di
pietra imita gli antichi teatri degli etruschi. Oltre una rete metallica e il suo varco, c'era
la casupola a due piani dove stavano i balinesi: i soli che abitassero in uno spazio dalle
«vibrazioni positive», come in quegli anni amavamo dire con un sorrisetto da lettori
scettici di Castaneda.
Quando alle suore erano subentrate direttrici laiche, la vecchia chiesa venne
trasformata in un brutto teatrino con un alto e stretto palcoscenico. E' su quel
palcoscenico che ebbero luogo le prove e le rappresentazioni di
The Narrow Road to the Deep Nord.
Dopo l'ISTA, in quel teatrino si stabilì il gruppo "L'Avventura", fondato da
persone che negli anni precedenti avevano partecipato alla ricerca di Grotowski
chiamata "Teatro delle Fonti". Il loro leader era Fausto Pluchinotta, laureato in
architettura, che durante l'ISTA si offrì per organizzare i rapporti con i fornitori,
portare il cibo e curare altri contatti cittadini. Un lavoro umile, che alcuni di noi
credevano imposto dalla necessità di guadagnar due lire, visto che dopo la fine
dell'esperienza con Grotowski era rimasto senz'arte né parte. Invece stava pensando a
radunare i compagni e riusciva col suo umile lavoro di supporto ad introdursi sul
posto creando le premesse per fare di Volterra e del teatro del Conservatorio di San
Pietro, appena finita l'ISTA, la sede per il proprio gruppo. Fausto Pluchinotta è un
siciliano di Milano, non aveva mai fatto teatro, era passato attraverso quasi tutte le
esperienze spericolate della sua generazione, è rimasto eternato in alcune foto dell'allora
famoso "Macondo", fondato da uno degli spezzoni reduci da Lotta Continua, ed era
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solito sghignazzare sulla sua laurea in architettura, dicendo d’essere un architetto delle
delle vacche grasse all'Architettura di Milano, quando vigevano esami e lauree di gruppo.
Sosteneva insomma che d'architettura sapeva poco. Non tanto poco, però, se l'anno
dopo l'ISTA rinnovò quel teatrino del Conservatorio di San Pietro e ne fece una delle
più belle ed ispiranti sale di lavoro che mi sia capitato di vedere. In séguito fu la sede
del Teatro Carte Blanche, formato da due ex componenti dell' "Avventura" (Annet
Henneman e Armando Punzo), animatori della Compagnia della Fortezza, e cioè degli
spettacoli con i detenuti del carcere di Volterra, che nel giro di pochi anni si sono
imposti come avvenimenti teatrali d'eccezione e nel 1993-94, con il Marat-Sade di Peter
Weiss, hanno potuto finalmente godere del privilegio di brevi tournée fuori. La grande
fortezza del carcere si erge proprio davanti al Conservatorio di San Pietro.
La città circostante, Volterra, è una delle più belle città della Toscana, capitale
dell'Etruria. Ma la sua bellezza è temperata da qualcosa di tetro, una vaga aria ombrosa
e consunta, che Luchino Visconti sfruttò nel film Vaghe stelle dell'Orsa.
Quest'insieme di bellezza e di malattia imminente caratterizza il mio ricordo
dell'ISTA più lunga. Ad un certo punto, dopo guasti ricorrenti ai servizi igienici (m già
chiamarli così è un eufemismo), ci fu il pericolo dell'epatite virale.
Eugenio Barba, una mattina, indisse una riunione generale e spaventò tutti
iniziando così il suo discorso: «Siamo in una situazione d'emergenza, circondati da
pericoli». E nominò una… commissione sanitaria. La capeggiava Nicola Savarese.
Vietò a tutti gli altri l'accesso alle cucine. Da quel giorno Nicola, professore di storia del
teatro, esperto dei rapporti fra i teatri d'Oriente e d'Occidente, si aggirava con la faccia
tesa e in camice bianco, padrone assoluto dei fornelli, aiutato da Marco Paolini, attore
comicissimo, spiritoso uomo di cultura, anch'egli ottimo cuciniere, ma in quei giorni
severo, e anche lui in camice bianco quando presidiava la vasta cucina ormai solitaria.
Un giovane musicista dell'ensemble di Ragunath e Sanjukta Panigrahi s'era
ammalato d'un'epatite virale (evidentemente contratta prima d'arrivare in Europa) e
venne ricoverato in ospedale, dove a stento riusciva a comunicare con medici ed
infermieri e causa del suo e del loro inglese. Nicola Savarese riuscì a infliggere a tutti (o
quasi tutti) l'analisi del sangue. L'indiano, intanto, quando l'andavamo a trovare,
sorrideva con un'espressione mite e intelligente: diceva che bisognava rassegnarsi,
tutto dipende dalla buona o dalla malasorte, e a lui era capitata la sfortuna d'ammalarsi
in Europa. Se si fosse ammalato a casa sua - diceva – da quella stessa malattia
l'avrebbero guarito in quattro o cinque giorni, senza iniezioni, trasfusioni e tutte quelle
medicine. Bastavano i frutti (o le foglie?) di non so che pianta. Non ce l'aveva coi
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medici in bianco dell'ospedale, aveva un'aria indulgente per tutto quel loro darsi da fare,
tutta quella loro efficienza così poco efficace e così lenta nei risultati. Chissà!
Tutti i partecipanti facevamo a turno le pulizie. Quando, prima della paura per
l'epidemia, si facevano anche i turni in cucina, chi (come me) non sapeva cucinare
doveva barattare il suo turno con uno di pulizia ai cessi. I bravi in cucina (Nicola
Savarese, Marco Paolini, Nin Scolari, Piergiorgio Giacchè) divennero privilegiati e
popolari. A volte gli indiani i giapponesi o i balinesi regalavano un pranzo a tutti.
L'edificio era pulito come una caserma, eppure non si riusciva a mandar via quel
sospetto di malattia circostante che si faceva sentire ogni volta che la fatica del lavoro
rallentava. Ma non rallentava quasi mai. E il giorno libero (il martedì - a Bonn era stato il
lunedì) tutti gli stranieri si affrettavano a lasciare Volterra per correre non alle visite
d’arte a Pisa o Firenze, ma al mare.
Volterra sta in alto, su balze che creano paesaggi romantici e rischiano di franare.
Ma nel selciato delle sue strade si trovano spesso le impronte di conchiglie, come se il
mare avesse voluto lasciare in quelle salite e discese il segno della sua assenza.
Dopo quella di Volterra, le successive sessioni dell'ISTA, soprattutto quella del
Salento, nel 1987, furono in ambienti gioiosi. Nessuno, malgrado la fatica che è sempre
restata più o meno la stessa, avrebbe potuto sentirsi accerchiato dai pericoli. E' questo il
modo forse più futile e sbrigativo d'accennare ai mutamenti che distinsero dalle prime
due le altre sessioni dell'ISTA, a partire da quella di Blois, nel 1985.
All’ombra del castello di Chambord
La quale ISTA di Blois cominciò con uno strano racconto e finì con un libro
strappato.
Si lavorava, il mattino ed il pomeriggio, nel grande parco secolare accanto al
Castello di Chambord, all'ombra di una delle più belle architetture del Cinquecento
francese (che una probabilità non documentata attribuisce a Leonardo da Vinci). La
nostra sala di lavoro doveva esser stata, all'origine, una scuderia. Ora era usata per
manifestazioni culturali patrocinate dalla municipalità di Blois. La parete di fondo di
quell'enorme parallelepipedo, riscaldato da un rumoroso soffione che bisognava
spegnere durante il lavoro, era ricoperta da un vasto arazzo secentesco. Ma nessuno lo
degnò d'un'occhiata.
Quattro primi piani:
1) Patrick Pezin
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Ospitava l'ISTA un gruppo teatrale di Blois, la Compagnie du Hazard,
poverissimo, diretto da Nicolas Peskine. L'organizzava e la finanziava un piccolo
editore outsider che è anche uomo di teatro, organizzatore di corsi e di seminari, Patrick
Pezin gran conoscitore di Ruzante e della Commedia dell'Arte, che interpreta, come
attore, nel ruolo di Pantalone. Ha poi vissuto a Lectoure, nel Pais d'Ars, patria di
D'Artagnan. E Patrick Pezin è proprio una sorta di D'Artagnan della cultura teatrale.
Ha portato a Lectoure la sua rivista e la sua casa editrice - «Bouffonneries» e
«Bouffonneries-Contrastes» - e vi ha creato un centro di cultura teatrale che lavora fra
Commedia dell'Arte e Stanislavskij. E' soprattutto a lui che si deve la conoscenza in
Francia delle ricerche dell'ISTA e la pubblicazione del volume di Barba e Savarese
Anatomie de l'Acteur.
Benché le attività di Patrick Pezin siano assai diverse da quelle che caratterizzano
un teatro di gruppo, la sua logica d'azione è simile. Cammina su vie parallele rispetto a
quelle previste dall'organizzazione del teatro francese, sfruttando gli angoli e le
combinazioni di leggi e regolamenti, traendo - anche sul piano organizzativo l'imprevisto dal previsto.Credo che per l'ISTA di Blois abbia trovato finanziamenti in
quantità superiore a quanto avrebbe potuto ricevere per l'attività sua di un'intera
stagione.
Realizzare tournée di gruppi teatrali prestigiosi, seminari, o una sessione
dell'International School of Theatre Anthropology o della sua Università del Teatro
Eurasiano può essere - per gli outsider - un modo per crescere di livello sia come
competenza organizzativa che come interlocutori delle autorità da cui dipendono i
finanziamenti. E' più facile puntare in alto quando non si chiede per sé ma per i propri
ospiti. Naturalmente, la possibilità d'un salto di livello non è che l'altra faccia d'un
rischio che può essere mortale per chi deve affrontare impegni economici ed
organizzativi molto più grandi di lui. Ma neppure l'essere troppo guardinghi è saggio,
quando si vive in una landa teatrale dove basta un funzionario o un politico di
quart'ordine per far fuori in pochi giorni anche il teatro più solido e prudente.
Patrick Pezin, la sua casa editrice, la sua rivista, non restarono schiacciati
dall'organizzazione spericolata (vi sprofonderà invece il gruppo "Mediterranea"
organizzatore dell'ISTA del Salento dell'87. Il gruppo "Mediteranea", come dirò fra
poco, erano due persone).
La sessione dell'ISTA dell'85 era organizzata e in parte sovvenzionata anche dal
"Théâtre 71" di Malakoff, presso Parigi, dove il 20 e 21 aprile si tennero delle pubbliche
dimostrazioni d'Antropologia Teatrale dedicate all'attore come «Maître du Regard»,
maestro e guida dello sguardo dello spettatore.
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2) Toni Cots
A Blois, nei giorni precedenti, fra il 12 ed il 18, nel tardo pomeriggio si tornava,
dopo i suntuosi ambienti di Chambord, alla periferia della città dov'era la sede della
Compagnie du Hazard, e dove si cenava. La sera, fra le 20 e le 22,30, era dedicata alla
presentazione di spettacoli o a dimostrazioni, come già a Bonn ed a Volterra.
Si lavorò sulle arti marziali e sul modo in cui modellano l'energia.
Una sera, Toni Cots presentò El Romancero de Edipo, uno spettacolo in cui - con la
drammaturgia e la regia di Eugenio Barba - rievocava l'antico mito raccontato da un
disilluso contastorie. Malgrado tutte le avventure e gli incesti, ciò che davvero
interessava il contastorie era il consenso che reggeva il potere di Creonte e l'Ordine
Nuovo da lui regalato alla città dalla lunga storia disordinata.
Era uno spettacolo che ho visto molte volte e che aveva alti e bassi. C'erano volte
in cui non riusciva a «volare» (uso la terminologia di Barba, che parla degli spettacoli
come di aerei messi a punto, con tutti i meccanismi pronti, capaci di mettersi in moto,
di correre sulla pista, ma che bisogna aver pazienza per aspettare il momento in cui
riusciranno ad alzarsi). A volte El Romancero de Edipo - o almeno questa era la mia
impressione - non riusciva ad alzarsi. Altre volte sì, e allora il calore nascondeva la
perizia dell'ingegneria drammaturgica. Ma sempre era uno spettacolo sorprendente per
l'intarsio ed i salti del racconto, per la padronanza tecnica dell'attore. Conteneva, inoltre,
la più struggente e sensuale scena d'amore che abbia visto a teatro, la notte di nozze
fra Edipo e Giocasta. Nella commozione dell'amplesso la donna diceva al suo giovane
Re: «Sei un ragazzo! Potresti essere mio figlio!». E noi spettatori toccavamo con mano,
nella maniera più semplice possibile, come funzioni la raffinata crudeltà delle potenze
superiori, che organizzano le loro allegre carneficine realizzando alla lettera ciò che gli
esseri umani sognano negli istanti felici.
Toni Cots era solo in scena, e da solo mostrava tutti i personaggi. Ma quella
Giocasta che materialmente non era altro che una lunga capigliatura - una parrucca
corvina - e un grande broccato animato dallo stesso Edipo, sotto il quale sembrava che
un corpo appassionato rispondesse alle carezze del giovane amante, quella Giocasta
ancora giovane da amare, che si ricongiungeva al figlio, era evocata e presente. E una
volta tanto l'espressione «magia del teatro» indicava qualcosa di letterale.
Quante volte nel parlare degli spettacoli sentiamo l'ansia del giudizio confinare
con quelle personali espettorazioni che avviliscono l'arte o - non foss'altro - la fatica di
chi ha lavorato all'opera! Più che malagrazia è mancanza di parole, quindi di concetti
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che permettano di dividere e suddividere le nostre impressioni, guidandoci ad un modo
di vedere che non sia all'ingrosso.
Senza terminologia dettagliata non c'è visione dettagliata.
3)Kosuke Nomura
Immaginiamo cosa sarebbe la memoria e la critica musicale se non possedesse
tutto il linguaggio tecnico della musica, se fosse capace di dettagliarsi solo modellandosi
sulle distinzioni letterarie o psicologiche, lasciando tutto il resto all'impressione più o
meno elegantemente espettorata. Sarebbe critica sentimentale o analisi del rumore. E'
ciò che accade al teatro. Ed è forse il massimo problema della cultura teatrale di radice
europea. Quando oggi parliamo di teatro eurasiano dovremmo pensare non soltanto
all'Antropologia Teatrale, ma anche alla possibilità di definire una lingua critica - per
un'arte del cui valore rischia altrimenti di svanire l'eco.
Ricordo la conversazione fra Eugenio Barba e Kosuke Nomura, la mattina dopo
la rappresentazione quasi laboratoriale de El Romancero de Edipo, mentre in macchina
attraversavamo il bosco di Chambord dove ognuno degli alberi secolari è abitato dal
ramo d'oro del vischio. Kosuke era allora un giovane di 25 anni, attore kyogen di una
delle più importanti famiglie di quest'arte, legata alla famiglia Kanze del Nô. Aveva,
quell'anno, superato la prova che conferma maestro un attore kyogen: la
rappresentazione della pièce La vecchia volpe. Aveva mostrato anche a noi un lungo
frammento di quell'opera straordinaria, che richiede di incarnare allo stesso tempo la
natura mite e razionale d'un monaco e quella sensuale e beluina d'una volpe (la magica
volpe, infatti, s'è trasformata in monaco, ma viene scoperta). E' un'opera che, per
incorporarla, impegna l'attore un anno intero. E qui, pur nella frenesia di lavoro
dell'ISTA, richiese a Kosuke una mezza giornata di preparazione personale.
In Giappone, superata la prova, l'attore kyogen in genere non rappresenta mai
più quel capolavoro.
In un vecchio documentario giapponese in bianco e nero sul Nô e sul Kyogen,
compare un decrepito maestro dai grandi occhi che sta insegnando l'arte ad un
nipotino di 4 anni. Sono tutti e due seduti a terra, il nonno sta dietro, con affetto e
precisione guida i gesti del bambino, sembra che ne plasmi i movimenti. Quel nonno
era uno dei più grandi attori kyogen del secolo. Quel bambino grazioso e volenteroso è
Kosuke.
Kosuke Nomura era stato all'ISTA di Volterra, nella famiglia di Sanjukta
Panigrahi. Era divenuto un giovanotto simpatico e - almeno all'apparenza - un po'
pigro, sempre l'ultimo ad arrivare la mattina, con gli occhi gonfi di sonno. Si diceva che
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il padre, anch'egli maestro kyogen, dopo la morte del nonno lo amasse troppo per
essere in grado di insegnargli lui stesso il mestiere e l'etica dell'attore. Si diceva che non
riuscisse ad esser severo con lui, che insomma lo viziasse. Per questo era contento
d'affidarlo per qualche mese ai rigori di Eugenio Barba.
Erano passati poco più di 3 anni, da quando era venuto la prima volta all’ISTA,
ed ora vi tornava, a Blois, con l'ipersensibilità e la segreta gravità d’un un giovane
maestro.
In macchina, schiacciati nel sedile posteriore fra Jean-Marie Pradier e Patrick
Pezin, Barba e Kosuke conversavano pacatamente di alcuni dettagli del Romancero de
Edipo, spesso si sarebbero detti dettagli di dettagli, minute questioni di ritmo, certe
sottili ripercussioni sulla percezione dello spettatore... Stavo seduto accanto a Nicola
Savarese che guidava. Ogni tanto ci guardavamo per dirci, senza bisogno di dirlo, che
non c'era mai capitato di assistere ad una conversazione di teatro così raffinata e
competente, simile a quella che potrebbe esserci fra due musicisti quando parlano dei
segreti d’una partitura o del loro strumento. E Kosuke era così giovane! In realtà, a 25
anni, aveva 20 anni d'esperienza teatrale, “Tanti quanti ne ha Eugenio!”, disse ridendo
Nicola, , mentre chiudeva a chiave lo sportello della sua auto, davanti alla sala di lavoro
all'ombra del grande castello.
4) Ragunath Panigrahi
L'ultima sera, al Théâtre du Hazard, alla periferia di Blois, venne invitato un
gruppo di cool jazz, guidato da un sassofonista celebre: si alternarono con le musiche
indiane di Ragunath Panigrahi e del suo ensemble, si incepparono nell'improvvisazione
dopo un exploit trascinante degli indiani. Alla fine indiani e jazzisti improvvisarono
assieme. E furono venti minuti d'una musica entusiasmante, che fece volar via,
lontano nel vento, tutti i neri mantelli di sonno che pesavano sulle spalle dei
partecipanti. Il più celebre cantante di musica tradizionale Orissi e i suoi compagni
dimostrarono così che quel loro complicatissimo e per noi quasi incomprensibile
sistema tradizionale di raga permetteva di traversare velocemente le distanze e le
tradizioni per tuffarsi, se necessario, anche nel jazz.
I raga, da quanto ho capito, costituiscono essenzialmente uno sterminato
repertorio mnemonico di semi melodici. Ancora una volta si dimostrava quello che gli
storici della Commedia dell'Arte sono costretti a comprendere al termine dei loro studi,
e che dalle ricerche condotte all'ISTA di Volterra emergeva con grande chiarezza sotto
diverse sfaccettature: che l'improvvisazione è tutta una questione di memoria. O
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meglio: è il momento in cui l'accumulazione di pattern artificiali si rovescia nel suo
opposto, nell'esperienza della spontaneità e dell'imprevisto.
Sustantificque mouelle
Tutta la sessione di Blois, troppo breve per permettere un lavoro d'apprendistato
pratico, fu dedicata all'indagine, e quindi a quel momento particolarmente prezioso
dell'indagine che richiede tecniche di disorientamento e che perciò spesso si trova
all'improvviso di fronte, dopo una svolta o una cataratta.
“Siamo qui riuniti non per un incontro di culture, ma per un incontro di principi
- diceva Barba, benché il titolo ufficiale di quella sessione dell'ISTA fosse proprio
"Dialogue between Cultures".
Non ci furono sedute di training, ma sperimentazione su partiture fisiche ottenute
in tempi brevi, a scopo laboratoriale, esaminate al loro livello d'organizzazione preespressivo.
Si discusse molto sul rapporto fra la tecnica e la lingua personale di lavoro,
secondo una pratica che Barba aveva già sperimentato in alcuni suoi seminari. Seminari
lontani dalla tradizione dell'Odin, in cui aveva chiesto ai partecipanti di lavorare con
carta e penna, formulando in modo personale alcuni aspetti ed alcuni caratteri del
mestiere, per poi tradurre le parole in movimenti e questi in azione fisica, mostrando
come i procedimenti mentali ed i procedimenti fisici a livello pre-espressivo siano le
due facce d'una stessa luna. E' un modo di lavorare di cui oggi si può cogliere una
traccia o piuttosto un sapore attraverso le pagine dell'ultimo capitolo del libro di Barba
La canoa di carta, nel resoconto e nelle quasi-poesie d'un seminario per danzatori in
Messico, chiamato “Cavallo d'argento”.
Nella sessione dell'ISTA del Salento, nell'87, Barba condusse un simile lavoro
con “gli uomini di libro”, per permettere loro di sperimentare fisicamente i principi
delle metamorfosi dell'energia di cui avevano esperienza come spettatori, attraverso
quell' «alta scuola dello sguardo» in cui l'ISTA con il tempo si è trasformata.
Nel Salento, delle passate distinzioni (attori/registi, uomini di teatro/uomini di
libro) rimase in piedi solo la seconda, anch'essa in procinto di sparire. Ma rimase in
piedi quasi per permettere un'unificazione ancora più chiara. Mentre tutti insieme
cerchiamo di mettere in moto quella fitta rete di azioni e reazioni che caratterizza una
mente collettiva, i soli a fare un lavoro sperimentale pratico, fisico (non parlo
ovviamente degli attori che prendevano parte al Faust) furono gli “uomini di libro”
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quasi per pareggiare i conti nei confronti degli altri partecipanti, registi e attori venuti dai
più lontani paesi e costretti una volta tanto a lavorare seduti.
Ma naturalmente gli “uomini di libro” lavorarono anche a loro modo.
Il visitatore che fosse piombato all'ISTA in riva al mare il pomeriggio del 9
settembre '87, avrebbe forse creduto d'esser sceso fra una setta di bizzarri esoteristi o di
pedanti bizantini rapiti in discussioni d'aria. Un gruppo di intellettuali dediti al teatro,
seduti in cerchio, discuteva sul tema se esistesse o meno un pre-espressivo mentale, e in
che cosa eventualmente consistesse.
All'inizio, due di loro, che avevano ricevuto l'incarico d'animare il dibattito (uno
era Franco Ruffini, l'altro colui che qui scrive), avevano lanciato sul pavimento, in
mezzo al cerchio, i fogli con alcuni tentativi di risposte raccolte presso i colleghi nei
giorni precedenti. Si sentivano, l'uno e l'altro, come le lame d'un frullatore: cercavano di
far montare a tutta forza un tema che non mostrava altro che la sua inerzia. Le finestre
erano aperte per far passare l'aria nel caldissimo pomeriggio dell'estate salentina. I fogli
svolazzavano qua e là nella corrente. I due animatori del dibattito li rincorrevano. Le
idee si infittivano, si ingarbugliavano per le imprecisioni del dibattito disordinato e per
i normali gonfiori dell'amor proprio. Poi di colpo si dipanarono riconoscendo
l'improprietà della domanda. Di pre-espressivo mentale non ha senso parlare. Una
lunga discussione lungamente preparata e del tutto inutile. Tipica accademia di
Quinquedone, accademia di Calabuig. La miglior giustificazione per chi esclama che
discutendo discutendo si perde tempo e si complica quel che chi ha un po' di pratica
può veder sùbito se sia giusto o no. Una giustificazione per una sciocchezza.
Perché la discussione non è teoria, così come l'allenamento fisico dell'attore non è
spettacolo. E' spreco e ricerca. Si discute non per vedere quale idea vinca, come nei
tribunali, ma per capire di quali idee ci si possa liberare. Le idee debbono essere come
palle di neve, buone armi, ma che non si possono conservare neppure in tasca, diceva
Me-Ti. L'indagine sulle connessioni fra il fisico ed il mentale nel lavoro dell'attore (ma
per la precisione dovremmo scrivere: fra il cosiddetto fisico ed il cosiddetto mentale),
una volta liberata dall'ingenua domanda sull'esistenza o meno d'un pre-espressivo
mentale, crebbe nelle successive sessioni dell'ISTA, divenne ricerca sui principi
ricorrenti nella multiforme fenomenologia del sottotesto, provocò discussioni e
tentativi di ricerca empirica nella seduta dell'Università del teatro Eurasiano, a Padova,
il 7 e l'8 marzo 1992 (anche qui si sprecarono utilmente ore di discussione, vennero
lasciate sciogliere non solo palle, ma interi pupazzi di neve); fu riformulata sostituendo
a sottotesto il termine subscore, sottopartitura, che indica una partitura non visibile,
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che può essere o no in relazione con un testo drammatico. Su questo tema si concentrò
la sessione dell'ISTA di Brecon, subito dopo la seduta di Padova, nell'aprile del '91.
Molti altri temi di ricerca esplodono nel lavoro empirico delle sessioni dell'ISTA e
per un tempo più o meno breve monopolizzano i dialoghi interni e le domande che si
intrecciano fra i partecipanti, saltando da Sanjukta Panigrahi ad uno storico del teatro,
da un attore autodidatta a Natsu Nakajima, erede diretta di Tatsumi Ichikata fondatore
(assieme a Kazuo Ohno) del teatro-danza Butoh.
Non si tratta quasi mai di pure discussioni. Normalmente alle domande
rispondono delle dimostrazioni pratiche. Eugenio Barba chiede all'attore o all'attrice
che ha mostrato un procedimento di lavoro di ripetere un frammento, emergono
interrogativi che spesso stupiscono l'attore stesso, portatore d'un sapere sedimentatosi
attraverso gli anni, ma che s'arricchisce di una diversa energia per lo sforzo della
formulazione.
Gli appassionati e gli studiosi di teatro abituati a vedere sempre dalla parte dello
spettatore scoprono passo passo un mondo che permette loro di rendersi conto delle
forze concrete ed invisibili che creano l'arte dell'attore ed il suo valore per lo spettatore.
Ma la ricerca teorica, essenziale per gli storici o i teorici del teatro, è utile anche
per gli gli attori e i registi che debbono difendersi con le armi del mestiere, tanto più
affilate quanto più se ne possiede il principio al di là della forma in cui esse sono state
apprese e tramandate. Formulare vuol dire quasi sempre scovare i principi nascosti nella
polpa dei “segreti del mestiere”.
In alcuni casi, un angolo delle sessioni dell'ISTA è stato consacrato alla
discussione pubblica, puramente teorica, di temi simili a quelli dei normali congressi: un
confronto fra l'Antropologia Teatrale e la Semiologia del teatro si è tenuto a Bari, nel
corso della sessione salentina dell'87; "tecniche della rappresentazione e storiografia"
sono state messe a confronto nel corso di un pubblico dibattito durante l'ISTA
bolognese del '90; alcuni momenti e aspetti della storia dell'attore europeo sono stati
interpretati alla luce dell'Antropologia Teatrale al termine della sessione inglese
dell'ISTA nel '92. Un argomento molto accademico, ma che di fronte ai veri accademici
delle università inglesi apparve accademicamente provocatorio.
In questi casi, pur nascendo all'ombra dell'ISTA, queste discussioni non sono
sostanzialmente diverse dalle normali “tavole rotonde” che si organizzano nelle
università, dove sono assenti gli attori, e i professori discutono fra di loro, e dove la
fatica maggiore consiste non nel decidere che dire, ma nel dirlo entro i limiti di tempo
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prescritti (in genere fra i venti minuti e la mezz’ora). L’orologio in questi casi è il vero
protagonista, tale e quale come nei dibattiti televisivi.
A parte va considerata la ricerca sull'identità dello spettatore condotta da
Piergiorgio Giacchè, iniziata nel corso della sessione del '87 nel Salento e durata molti
anni. Nella "Rivista di cultura meridionale" fondata da Goffredo Fofi nel '93, col titolo
"Dove sta Zazà", nel numero 3/4, 1994, pp. 38-43, Giacchè ha pubblicato alcune
"pagine tratte dal diario di una ricerca di antropologia del teatro" col titolo
Scene e visioni del Salento. Con quella sua lingua particolare, che sta in surplace nei giochi
di parole e poi si raddensa in formule semplici e pregnanti, Giacchè individua il Salento
come un paese di “vecchi riti e moderni consumi”, un territorio privilegiato per il suo
rapporto con la teatralità e lo spettacolo:
La densità e la vitalità delle sue tradizioni e, soprattutto, lo straordinario equilibrio fra
permanenze e innovazioni, lo rendeva equivalente a una ricca miniera di eventi ed esperienze
spettacolari. Vecchi riti e moderni consumi apparivano come stratificate e armoniche
compresenze [...]. Era dunque possibile incontrare e combinare fra loro gli appassionati di
lirica e i cinéphiles, gli esperti di fuochi d'artificio e di bande musicali, i consumatori di
antiche devozioni e i nuovi fedeli della moda.
Ma torniamo a ciò che accade praticamente nel corso d'una sessione dell'ISTA. In
genere è Eugenio Barba a gettare domande sul terreno, domande apparentemente
ingenue o “impossibili”, ed a cercare non tanto risposte, quanto qualcosa da
sperimentare direttamente. I vagabondaggi mentali diventano lavori di precisione
quando alle parole seguono i fatti, e un attore dell'Odin o d'un teatro tradizionale
asiatico scende sul terreno e mostra e spiega, magari si irrita per gli altrui tentativi di
spiegazione, traduce in azioni fisiche le obiezioni, e permette agli spettatori di
intervenire nel modo in cui mettere a fuoco l'uno o l'altro aspetto del suo lavoro. Il
salto da un mondo all'altro, dalla teoria alla pratica, dalla ricerca concettuale all'empiria,
fa sì che l'esperienza esista veramente: e che cioè non di rado ci si dimentichi di ciò di
cui si andava in cerca, e ci si orienti su quel che di inaspettato emerge dal lavoro.
L'intera sessione dell'ISTA a Holstebro, nell'86, consistette nel tentativo di
mettere come sotto un microscopio le diverse polarità dell'energia del performer. Fu
“alta scuola dello sguardo” dalla mattina alla sera, quasi senz'altra variazione oltre il
susseguirsi di straordinarie dimostrazioni di lavoro, tanto che
- forse più per
assuefazione e sazietà che per vera incomprensione - qualcuno poté confondere quella
ricchissima mostra di laboratorio con un congresso povero di discussioni.
Lo spostarsi del baricentro dell'ISTA dall'attività pedagogica all'attività di ricerca
empirica era cominciato con la sessione di Blois nell'aprile dell'85, quando Barba partì da
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alcune di quelle domande davvero impossibili, se venissero poste in un'aula o in una
vera scuola: che cosa è la tecnica? Che cosa si intende quando si dice che un attore ha
troppa tecnica? Che cosa si intende quando al contrario si dice che manca di tecnica?
Nella sessione dell'ISTA del Salento vi erano, nella seconda settimana, tutte le
mattine, alcune ore destinate a ciò che chiamavamo “il fiume”, e cioè un confronto
fra i diversi maestri dell'ISTA, sia gli asiatici che gli attori dell'Odin Teatret, intorno a
domande ingenue. Per esempio: che cosa hanno di particolare le mani dei balinesi nelle
danze? Le mani degli altri come lavorano?
C'era un punto di partenza, e poi per associazioni di domande e di idee
nascevano i confronti fra i maestri.
A Bologna un tema particolare di ricerca fu la voce: esiste un equivalente del preespressivo fisico per la voce? E anche qui, come nel “fiume” dell'ISTA salentina, si
consacrarono alcuni pomeriggi o alcune mattine a domande particolari sul flamenco,
sull'uso del respiro nella tecnica dell'attore giapponese, sul rapporto fra tecniche
somatiche e tecniche mentali.
Ci si chiedeva "Che cosa è il tempo-ritmo?" con quella curiosità e voracità,
quella sicurezza di ottenere comunque qualcosa, anche se non proprio una risposta,
che deriva dal fatto di veder subito lì davanti, sul pavimento, un'attrice o un attore
capace di reagire tramite un'azione.
Riportate sulla carta, queste domande sembrano oziose, o troppo difficili, o
d'ovvie risposte. Ma per l'appunto appaiono tali sulla carta. In una sala di lavoro che
raccoglie numerosi aristocratici e proletari del teatro, danno il via sia alla scienza, che
allo spettacolo della scienza dei teatri.
La Festa del bios scenico.
Poiché alle sessioni dell'ISTA vi sono persone presenti fin dall'80, ed altre che
invece sono approdate qui per la prima volta, diventa sempre più difficile conciliare
l'esigenza di non ripetere sempre le stesse cose e quella di fornire le informazioni di
base ai nuovi venuti. Dopo tanti anni (quando Sanjukta c’era ancora, e la sua morte non
aveva ancora aperto un lutto che forse non abbiamo ancora imparato a sopportare)
dopo tanti anni – dicevamo allora - sembra che non sia più il caso di vedere ancora
Sanjukta Panigrahi spiegare quali siano i principi tecnici del suo stile, o Eugenio Barba
mostrare come una danza possa essere assorbita nel corpo, riducendosi fin quasi
all'immobilità, ma conservando l'energia dei suoi dinamismi.
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Mi pare, però, che questo problema sia un po' troppo scolastico. E' a scuola che
ci si interroga su come conciliare la presenza di allievi più esperti con quella di allievi
che richiedono una maggior cura nell'essere introdotti alla materia. Tutto questo che
cosa ha a che vedere con il teatro? Qui non si tratta di nozioni, ma di visioni. Non c'è
da imparare le idee e gli schemi, ma da scoprire il modo più nutriente per vedere nodi
d'azioni. Forse che d'una poesia si dice: "L'ho già letta, dobbiamo andare avanti"?
A forza di ripetere e rivedere le cose già note, più che annoiarsi, si scopre invece
che non le si capisce. E' questo il modo più proficuo di farsi disorientare, quello che
richiede più vita del pensiero e meno effimera vivacità. Nell'aprire il seminario
intitolato "Le Maître du regard", nell'aprile dell'85, a conclusione della sessione
dell'ISTA di Blois e Malakoff, Eugenio Barba rievocava l'immagine del cane di cui
parlano Platone e Rabelais come figura del vero filosofo: il cane che ha trovato un osso
dal nutriente midollo, e lo guarda, gli gira intorno, torna a guardarlo, poi con
circospezione e precisione lo serra fra i denti, lo intacca, lo rompe e diligentemente lo
succhia. A che pro, tanta fatica? Solo per pochissimo ma prezioso nutrimento - dice
Rabelais - sustantificque mouelle, sostanzioso midollo.
Il tempo per non capire, e cioè per confrontarsi più e più volte con qualcosa
che prima è chiaro e poi ci disorienta è un'altra delle condizioni della ricerca intellettuale
e del lavoro creativo. In genere sono occasioni relegate all'esperienza solitaria. E' difficile
trovare un ambiente in cui le regole del disorientamento e dello spreco diventino regole
sottintese e comuni. Abbandonando l’illusorio discrimine fra l’utile e il disutile.
Il problema di non ripetersi e nello stesso tempo di fornire le necessarie
informazioni a chi non conosce i lavori dell'ISTA si è posto con particolare urgenza - o
impazienza - nelle giornate di dimostrazione pubblica o in certi periodi come la
seconda settimana nell'ISTA del Salento nell'87.
In realtà in quell'ISTA la questione di come trasmettere ai nuovi le conoscenze
già acquisite era emerso in maniera impacciata e concitata fin dai primi giorni. Barba
chiedeva al gruppo degli intellettuali presenti, che avevano già esperienze di più
sessioni, di farsi guida dei nuovi. Noi “vecchi” ci mostravamo riottosi e dubitosi. Una
sera durante la riunione quotidiana degli "intellettuali" Barba si arrabbiò moltissimo (o
fece le viste di arrabbiarsi). Reagì contro quell' apparente passività con una argomento
brutale e incontrovertibile: tutti coloro che erano lì avevano per un verso o per l'altro
qualche motivo di gratitudine nei suoi confronti. Facessero dunque il piacere di
mostrarla, la loro gratitudine, non a lui, ma trasmettendo ad altri l'esperienza acquisita.
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Il che tutti noi cercammo di fare, visto che il problema non era più di tipo
teorico o tattico ma etico e personale. E quindi serio.
Però quella riottosità non era priva d'interesse. Derivava da qualcosa di
essenziale (di pigrizia o inerzia non tengo conto, perché ci sono sempre): il sapere
dell'ISTA è mutevole, diverso da persona a persona, ricco soprattutto di lunghi momenti
in cui vige la sospensione del giudizio, rigati a volte da vere e proprie scoperte, altre
volte da fecondi equivoci. Altre volte ancora dal piacere di volgere di colpo le spalle a
un cammino bloccato. Ciascuno preferisce assorbire per poi lasciar metabolizzare.
Quasi mai si capisce che cosa si è capito, prima che l'esperienza si sia depositata, quando
ciascuno è tornato al proprio lavoro. E' quindi praticamente impossibile "aggiornare"
un nuovo venuto, dargli in poche ore un résumé dei lavori, senza spacciare una
sistematicità che non esiste o senza mostrargli come cammino programmato quello che
è invece un provvisorio orientarsi fra nuovi sentieri di mare. E' perfino difficile
introdurlo alle regole di quel modo di vivere senza sentirsi un po' buffi o senza indulgere
ad un tono burocratico e superorganizzato che verrà smentito prestissimo dai fatti.
Le scienze delle arti sono davvero ambigue: quando la ricerca empirica è
accanita, diventa spettacolo che non si dimentica. E così nutre l'illusione che non sia
davvero scientia. Quando invece resta senz'altro al suo stadio di ricerca "scientifica",
allora fa superficie, è “molto ma molto interessante”, ed è sùbito dimenticata.
Probabilmente ha a che vedere con tutto questo l'importante e poco indagato
tema del valore in qualche modo assoluto che possono assumere le "prove"
nell'esperienza teatrale. Ma su questo non ne so abbastanza.
Quel che so, è che fra le immagini di teatro che più mi si sono impresse nella
memoria alcune provengono dai momenti di ricerca empirica all'ISTA (alcune altre, è
vero, anche da "prove").
Le ore de “il fiume” nella seconda settimana dell'ISTA del Salento si tenevano
nella stessa vastissima sala da pranzo della colonia marina che ci ospitava.
Non c'è il raccoglimento che di solito caratterizza le nostre sedute di lavoro. Là
in fondo, dietro il bancone che separa la sala dalle cucine, le signore che fanno parte del
personale permanente della colonia preparano il nostro pranzo e apparecchiano, a
volte rumorosamente. (Sembra preistoria il periodo in cui eravamo tutti noi a dover
cucinare). Preparano ed apparecchiano, ma non dànno fastidio. E' come se il piccolo
crocchio dei teatranti (siamo circa 120 persone, ma in questo vasto refettorio non
sembriamo tanti) riuscisse ad isolarsi, assorto nella monotonia dei suoi lavori, di tanto in
tanto visitata da visioni.
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Qui vedo forse la cosa più bella che ho visto fare a Sanjukta Panigrahi (ma
quante volte ho ripetuto questa frase, sempre con quest'enfasi!), quando ripete la danza
della Bhagavad Gita che aveva improvvisato a Volterra nell'81. Non l'ha mai fissata, ed
ora la ripete ricordando lei stessa con il canto a mezza bocca i brani che il cantore
dovrebbe cantare. Finisce con un grande spettacolo di massa (agito sempre da lei sola)
che evoca sotto i nostri occhi caterve di morti, schiere di guerrieri saettanti, non un
macello, ma un dar morte come potrebbe darla la natura - o meglio: la maiuscola Natura
- allo scopo di ricominciare con più vigore daccapo.
Nello stesso angolo dello stesso refettorio, una mattina, Iben Nagel Rasmussen
mostra come costruirebbe la propria partitura per la scena del Carcere e della follia di
Margherita nel Faust. Margherita si materializza sotto i nostri occhi, non più patetica e
vinta come in genere la immaginiamo, semmai più simile alla Falconetti, un po' ferina,
un po' bambina piccolissima in balia di adulti crudeli, rapita da voci e visioni che sente e
intravede aldilà delle pareti e del soffitto della cella.
Poi Barba chiede a Sanjukta Panigrahi, a Katsuko Azuma ed alla balinese Svasti
Bandem di unirsi a Iben Nagel Rasmussen: improvvisano tutte e quattro la stessa scena,
una accanto all'altra, ma come se non si vedessero. Il personaggio di Margherita si
rifrange in quattro immagini diverse, quattro danze, quattro mondi, quattro pensieri
che trascinano la riflessione molto lontano dai problemi di tecnica teatrale, e la lasciano
nuotare nello spessore del racconto, del mito. E' la cima d'una montagna sommersa,
come se fosse il frammento di una regia d'Atlantide, uno di quegli spettacoli che
affiorano per un attimo e che nessuno ha mai visto e nessuno vedrà più.
E questo è forse il disorientamento più forte: c'è una disposizione mentale
molto diversa quando si osservano gli attori per capire i principi tecnici del loro lavoro
e quando invece li si osserva da veri e propri spettatori, per seguirli nelle storie che
rappresentano e per lasciar liberamente navigare la nostra testa fra le loro immagini.
Quando la ricerca empirica, accanendosi, lascia improvvisamente emergere un
frammento di teatro “perduto”, che accade in cima alla sua montagna sommersa, la
montagna d'Atlantide, l'osservatore deve correre mentalmente per trovarsi nella
posizione adatta ad assorbire con gli occhi quel che ora inaspettatamente gli si offre. E’
appena in tempo, e già il prezioso frammento s'è dissolto nell'aria.
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Un modo enigmatico di indicare
C'era una volta - dove? Ma in Oriente naturalmente! - un maestro che aveva
molti discepoli. Egli aveva un modo tutto particolare di dirigere l'attenzione alzando la
mano con l'indice teso, non si capiva bene se verso l'alto o indietro. Quando ebbe
insegnato tutto quel che poteva insegnare al suo miglior discepolo, s'accorse che costui
aveva appreso anche ad indicare nel modo enigmatico del Maestro. Costui, allora,
aggiunse l'ultimo insegnamento, e mozzò il dito al discepolo.
Con questo strano racconto Eugenio Barba iniziò i lavori nell'antico locale che
era stato la scuderia del re di Francia, presso Chambord, il 13 aprile dell'85. Era a
questo racconto che mi riferivo in sospeso alcune pagine fa, quando ho scritto che
l'ISTA di Blois si aprì, appunto, con uno strano racconto, e si concluse con un libro
strappato.
Qualcuno, fra i partecipanti, conosceva la storia in un'altra versione: il maestro
aveva un dito mozzo e il suo miglior discepolo gli chiese diverse volte quale fosse la
storia di quel dito, senza mai ottener risposta. Finché il maestro portò a compimento
il suo insegnamento, e nel congedare il discepolo d'un colpo solo gli tagliò il dito: un
modo molto chiaro di raccontargli il senso dell'amputazione.
Su questo tema possono esservi innumerevoli variazioni.
Un'altra la raccontò ancora Eugenio Barba l'ultimo giorno del lavoro a Blois e
Chambord, il 18 aprile. Arrivò col libro in italiano Anatomia del teatro, la prima versione
(a cura di Nicola Savarese) di quel che alla fine di un lungo processo di rifacimenti e
ampliamenti sarà The Secret Art of the Performer. Spiegò che era il libro in cui per il
momento era racchiusa la summa delle cose apprese all'ISTA, ne annunciò l'imminente
versione francese. Poi incominciò a farlo a pezzi. Intanto spiegava: aveva finalmente
compreso il significato della storia che lui stesso aveva raccontato il primo giorno. Era
il maestro, in realtà, che doveva tagliarsi il dito.
Al di là di tutte queste allegorie, il problema concreto che Barba mise al centro
della sessione dell'ISTA di Blois, e che in seguito si svilupperà in tutte le successive
sessioni, fu quello dell'insegnamento silenzioso. Il problema, cioè, di trasmettere
l'esperienza senza sistematizzarla, senza ridurla ad uno schema ortodosso, come una
disciplina scolastica. Eppure senza i tempi lunghi, lunghissimi, della trasmissione
organica fra maestro ed allievo. Bisogna infatti aggiungere che “insegnamento
silenzioso” equivale a dire “insegnamento sarcastico”. (E se ricorro al mio libro
magico, il Dizionario etimologico, scopro che “sarcastico” ha etimologicamente a che
vedere con la lacerazione o le piccole amputazioni).
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Nel suo libro La canoa di carta, Barba ha adottato la soluzione di alternare squarci
autobiografici e dotte galoppate attraverso la storia segreta del teatro, per raccogliere
esempi simili in contesti spettacolari diversi. Né le galoppate né le pagine
autobiografiche possono essere ridotte ad un "trattato", benché il sottotitolo del libro
sia proprio Trattato d'Antropologia Teatrale, così come l'ISTA è un' "International School".
Nelle sessioni dell'ISTA la soluzione che fino ad ora ha prevalso per dar vita
all'ossimoro d'un insegnamento sarcastico, consiste nel porre al centro del lavoro la rete
delle relazioni fra i partecipanti, con la quale Barba dialoga per costruire in pochi
giorni uno spettacolo assieme allo staff artistico composto dagli attori asiatici e da
quelli dell'Odin Teatret.
I partecipanti a volte entrano nello spettacolo come coro o comparse, ma la
loro principale funzione è di permettere la dialettica fra Disordine e Ordine (Kaosmos è
anche il titolo d'uno spettacolo dell'Odin Teatret) che caratterizza il processo creativo,
la sua mente collettiva.
Le sessioni dell'ISTA, sia quelle lunghe un mese o due, come a Bonn o a Volterra,
sia le successive d'una o due settimane, hanno sempre mantenuto la stessa struttura: la
vita in comune; la divisione della giornata in momento del lavoro costruttivo,
momento della ricerca e momento dell'esposizione (dimostrazioni e spettacoli serali); la
distinzione fra un periodo dedicato al lavoro interno, fra i partecipanti, e un periodo
dedicato ad attività pubbliche, di carattere didattico o spettacolare.
La sessione di Blois segnò un crinale. In séguito il posto del lavoro costruttivo
consistette non più nel training, ma nel lavoro collettivo per uno schizzo di spettacolo.
Come dire: dalla danza delle energie fisiche alla danza delle energie mentali.
Il lavoro per lo spettacolo non è più, dunque, com'era a Volterra, una delle
attività settoriali, ma l'attività unificante, ciò che strutturalmente prende il posto che a
Bonn e Volterra era stato occupato dal lavoro comune sul training.
Se mi è permesso di usare il termine "filosofia" nel senso vaghissimo odierno,
direi che nell'ISTA s'è fatta largo la stessa "filosofia" che caratterizza la storia dell'Odin
Teatret, la cui "anima" era rappresentata in un primo periodo dai modi di formazione
dell'attore, per poi identificarsi negli spettacoli. Nel primo caso, l'anima era la ricerca
d'un'etica e d'un metodo. Nel secondo si rivela in un enigma. Questa filosofia venne
assunta dall'ISTA quasi per forza propria, per una logica che non derivò da programmi,
ma dall'esigenza di risolvere degnamente un problema pratico dopo l'altro, sicché le
forme della centralità dello spettacolo son state assai diverse, a volte persino opposte,
da quelle tipiche dell'Odin, benché equivalenti nella sostanza.
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Che il teatro - esaltato perché impuro da alcuni fra i più intelligenti, da Savinio a
Peter Brook - che il teatro sia anche nobile oggi è difficile ricordarselo. "Impuro", anzi, è
un altro modo per dir nobile. L'impuro è allegro e ribelle. Lo svilito è sempre pulitino.
Il teatro - nel senso d'arte d'attore - è svilito in diversi modi: dai successi
sovvenzionati, dall'assenza quasi universale di spettatori in grado di disgustarsi per la
cattiva qualità, dai sorrisi di scherno per chi pretende di trovarvi qualcosa di più della
normale mondanità colta, dai buoni risultati raggiunti dai registi che surrogano con altri
mezzi la pochezza degli attori cui si accompagnano.
Separata da tutto questo, l'ISTA è - prima ancora che un campo di
apprendimento e di ricerca - un ritiro dove l'arte dell'attore mette alla prova il suo val-lapena.
Spettacoli dell’Isola d’Atlantide
Isolamento?
Le isole sono forse isolate?
Mentre si svolge la sessione salentina dell'ISTA, nella prima quindicina di
settembre '87, gli ergastolani ammutinati dell'Isola d'Elba si stanno arrendendo e
restituiscono gli ostaggi con i quali hanno sfidato lo Stato; il governo italiano decide di
mandare navi da guerra nel Golfo; alcuni noti industriali vengono arrestati per traffico
clandestino di armi – i servizi segreti sembra fossero conniventi: vendita di mine italiane,
impiegate nel Golfo; vi è implicata la FIAT che non sa niente e si limita a possedere il
50% delle azioni dell'industria colpevole; russi e americani si avviano intanto ad uno
storico accordo sulla riduzione degli armamenti. E noi, circa 120 persone, quasi tutti
divoratori di giornali, quasi tutti politicamente impegnati, cileni che hanno ancora
Pinochet e italiani usurpati dai partiti, sensibili alla vita pubblica, stiamo due settimane
senza quasi leggere i fatti internazionali quotidiani, lavorando 16-18 ore al giorno,
dormendo poco, senza tempo per i telegiornali, in realtà senza voglia.
Le notizie non ci eccitano in questo nostro clima. Le notizie Tv, i giornali, sono
come il peperoncino sulle giornate normali, tolgono loro lo sciapo, le ricollegano ai
forti sapori della cronaca planetaria. Ma nei giorni in cui già per noi i sapori forti
predominano, i giornali per logico contrappasso diventano sciapi. In una situazione in
cui si è attivi tutto il tempo, scema l'interesse a parlare o a scandolezzarsi per ciò su cui
non si è in grado di intervenire in maniera diretta. Il quotidiano ozio - bisogna
riconoscerlo - sarà sì il padre di tutti i vizi, ma è anche il custode del civile interesse per
l'informazione aggiornata e per tutto ciò che è fuori della nostra portata.
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Non c'è dubbio che le sessioni dell'ISTA siano anche periodi di isolamento. Ma
che cosa li giustifica questi provvisori isolamenti?
La scena più ricca di nutrimento, nello schizzo su Faust, all'ISTA del Salento,
era quella in cui Eugenio Barba intrecciava due diversi piani drammaturgici e
temporali: il delirio di Margherita nel carcere dopo l'infanticidio, e le scorribande di
Faust e Mefistofele.
Il titolo dello schizzo era Faust, ovvero il mondo può essere rovesciato (veniva da una
proposta di Claudio Meldolesi), ma al centro aveva ancora - come a Volterra un'immagine della distruzione dei figli. O degli eredi. (I tre figli di Faust muoiono
appena nati o giovanissimi: il primo ucciso lattante da Margherita; l'altro, Euforione,
nato dalla congiunzione di Faust con Elena di Troia, morto come Icaro; il terzo è
Homunculus, che proprio figlio di Faust non è, visto che è un risultato alchemico del
famulo Wagner, ma in realtà essendo artificiale e figlio del sapere ha tre padri e nessuna
madre: oltre Wagner, ha per padri Faust e Mefistofele. Muore divenendo parte del
mare).
Nello spazio sabbioso fra i pini, il Mefistofele di Sanjukta Panigrahi è radioso.
Faust è aggrondato - Katsuko Azuma: camicia rossa e jeans di lusso, il polso fasciato
dove ha attinto il sangue per firmare il patto.
Vengono avanti, si inginocchiano sulla sabbia.
Dietro di loro, Margherita danza il suo delirio accanto al grande tronco d'un
pino. Margherita è Kanichi Hanayagi, attore esperto nelle tecniche dell'Onnagata
kabuki, specializato cioè in parti femminili. Ma ora non usa le partiture che conosce.
Margherita sogna, si protende verso le fronde del pino (o verso il cielo), cade. Rivive
l'amore e l'abbandono. Dell'infanticidio non si ricorda. Ha le veste di una fanciulla
primaverile inizio Novecento: un cappello di paglia ornato da un nastro di raso, un
abitino bianco senza maniche, a balze, ricamato, scarpette estive bianche coi mezzi
tacchi.
Dietro di lei, il coro e l'orchestra, con attori-musicisti dell'Odin, indiani e
giapponesi, canta la ninna-nanna che Goethe compose per Margherita, traendola da una
fiaba crudele. La musica è dolcissima, ripetitiva:
Mammina la puttana
è lei che m'ha ammazzato.
Papà, quel malandrino
è lui che m'ha mangiato.
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Ed è la sorellina
che ha raccolto le ossa
nell'ombra d'una fossa.
Ma io son diventata
un uccellin di bosco.
Vola! Vola via!
Davanti, in primo piano, Mefistofele e Faust sono inginocchiati nella sabbia,
cercano qualcosa. Il radioso Mefistofele di Sanjukta Panigrai prende un pugno di
sabbia, lo mostra a Faust. Come da una clessidra rotta, i granelli di sabbia volano via dal
pugno di Mefistofele: così passano le gioie, così le tragedie. Faust ha il coltello. Fruga
con esso nella sabbia. Anche le mani di Mefistofele cercano e scavano. Trovano fasce
di neonato, una vestina. Lì li seppellì Margherita. Il sorriso di Mefistofele non è più
quello comprensivo di amante e di madre. E' ora il sorriso degli dèi quando
contemplano la Vita manifestarsi attraverso morti e distruzioni. Mefistofele mostra la
vestina sporca disseppelita. Il suo sorriso non umano dice: “Così è! Così!”.
Questa è una delle rappresentazioni del doppio sole salentino, sotto i pini, sulla
riva del mare, nella luce fresca e cristallina d'un mattino d'estate.
Nel 1990, anche la Villa Guastavillani, in un grande parco sulle fresche colline
dei ricchi, sopra Bologna, era un ambiente sereno e confortevole. Di lì, tutta la gente
dell'ISTA scese il pomeriggio del 14 luglio per barattare teatro in un luogo dell'inferno
urbano, una vasta fabbrica abbandonata, occupata da immigrati nordafricani,
mendicanti, qualche vagabondo ex-internato negli ospedali psichiatrici.
Questa volta gli spettacoli che vennero offerti in cambio delle danze indiane e dei
"numeri" dell'Odin Teatret non erano dilettanteschi. Avevano la precisione e la
competenza dei professionisti della strada: il mangiatore di vetro e di fuoco, il
suonatore ambulante. Ad essi si intrecciava la presenza di Eugenio Ravo, perno
organizzativo di questo luogo dell'emarginazione, anarchico, uno degli ultimi giovani
allievi di Etienne Decroux.
Eugenio Ravo suonava tubi, tubi veri, di quelli per gli impianti idraulici d'un
tempo, abbandonati nell'ex-fabbrica, tubi di molti metri, magiche e tristi tube.
Un artista aveva disposto alcune biciclette ricoperte di tela di sacco al centro
d'una delle spianate interne dell'ex-fabbrica. Sembrava una di quelle idee che hanno a
volte gli artisti e che non riescono ad esser altro che un'idea. Ma le biciclette ricoperte
stavano solo aspettando. Divennero viva immagine quando presero tutte fuoco. Allora
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nel caldo torrido della fabbrica semidistrutta, dal pavimento pieno di sassi e di cocci, nel
caldo ulteriore del fuoco e del petrolio, le biciclette che bruciavano e si contorcevano
mostrarono che cos'è una Metropoli.
Avevano organizzato questa visita o questo “baratto” Gerardo Guccini e Cristina
Valenti. Eugenio Ravo aveva detto loro che la presenza dell'ISTA, con il suo prestigio
internazionale, li avrebbe - sì - aiutati di fronte all'amministrazione comunale ed alla
prefettura che voleva sloggiarli, ma che più di tutto in quel momento avevano bisogno
di denaro. Alla fine degli spettacoli, Eugenio Barba disse a tutti che non sarebbe
andato in giro con il cappello per raccogliere offerte, ma con un grande sacco di iuta. E
riuscì a farlo pieno.
“Il viaggio nella Terra del Rimorso è ora terminato: un viaggio che volle essere
comprensione storica di un paesaggio umano, e che sperimentò come problema
entrambi i termini del rapporto, i visitati e i visitatori, la terra percorsa e i suoi non
occasionali pellegrini”: la frase di Ernesto De Martino avrebbe potuto concludere il
Dialogo Teatrale con la Fabbrika Occupata. Ex stabilimento industriale per la
produzione di infissi e serrande, abbandonato negli anni Ottanta funzionava dall’89
come centro sociale autogestito e come circuito alternativo di sperimentazioni e
aggregazioni spettacolari di base. La Fabbrika è una sorta di Beaubourg dell'emergenza
e da qualche tempo è anche un dormitorio semiimprovvisato. Paradossalmente è
ufficialmente riconosciuto. Il Comune di Bologna ha chiesto infatti nei mesi scorsi agli
occupanti di accogliere una trentina di extracomunitari regolarmente registrati ma
sprovvisti di posto letto. La Fabbrika ha accettato a condizione che gli spazi destinati a
riceverli fossero resi vivibili. Il Comune ha alzato dei muretti di mattoni in uno dei
capannoni, ricavandovi delle celle corrispondenti ad altrettanti posti letto: ed il luogo è
stato così promosso vivibile (traggo le notizie da un articolo di Cristina Valenti nel
n.175, settembre '90 del mensile "A - rivista anarchica").
Eppure in quell'ambiente che sembrava 1997: Escape from New York o Blade
Runner, Sanjukta Panigrahi sembrava perfettamente a suo agio. E non solo perché
l'India metroplitana pare stia già nel nostro futuro. Non ho mai visto nessuno che possa
stare dovunque quasi fosse fatto apposta per esser lì come Sanjukta Panigrahi quando
danza.
Lei veste di seta e di colori vivaci, ha ornamenti d'oro, 4 o 5 giri di sonagli alle
caviglie, una tripla cintura in filigrana d'argento, la ricca chioma nera pettinata con
signorile negligenza (negli spettacoli ufficiali è invece incoronata da fiori bianchi a
raggiera). Eppure in quell'anticamera dell'inferno suburbano Sanjukta Panigrahi
danzava perfettamente inserita nell'ambiente, fra il cemento e i finestroni incorniciati di
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ruggine, dai quali gli operai non credo davvero potessero intravedere il cielo. Danzava
come se fosse proprio la danzatrice di quel popolo di dispersi che occupava l'exfabbrica. E per il momento lo era la loro danzatrice, perché tutti abbiamo ed hanno
bisogno d'una Regina nella chiusa piazza del cuore.
Concretamente che significa, quando si parla della bellezza come d'un valore
assoluto? Assoluto vuol dire sciolto. Non “dimentico”, né tanto meno “isolato”. Sciolto:
liberato dai legacci e dalla manette.
L'occupazione della Fabbrika di Bologna, quella sorta di Beaubourg
delll'emergenza, terminò il 28 dicembre del '90. Cristina Valenti ne riferisce nel n. 179,
febbraio 1991, di "A":
A porre la parola fine [...] sono stati, all'alba di quel venerdì festivo, dieci furgoni blindati
pieni di poliziotti e carabinieri, quindici ruspe, un bulldozer e decine di operai e facchini
promossi per l'occasione "teste di cuoio", con il volto coperto da passamontagna e alla
guda di automezzi utili con la targa coperta: uno straordinario spiegamento di forze e di
mezzi per sgomberare il "covo" di pochi artisti, una dozzina di senzatetto, undici cani, un
gatto e un cavallo.
A volte si crede di esplorare freddamente una serie di procedimenti tecnici
quand'ecco che da essi emerge improvvisamente un frammento luminoso e
conturbante, simile a una beffarda benedizione. E' come se un angelo-diavolo sfiorasse
con la sua ala i nostri occhi attenti e curiosi e li aprisse su un altro mondo. Facciamo
appena a tempo a vederlo e già il prezioso frammento s'è disciolto nell'aria, mentre
l'atteggiamento empirico-scientifico riprende il sopravvento.
Queste gioie improvvise le chiamo frammenti di spettacoli d'Atlantide: come se
fossero le reliquie d'un teatro sommerso, nutrito dalle nostre nostalgie. Uno di quei
pesci legati alle ere preistoriche, che sale su dai mari dimenticati mostrando per un
attimo l'angolo d'una pinna, il baluginio di un occhio, la cresta tagliente del dorso. E
torna per sempre ad inabissarsi.
Un giorno di maggio del 1995, per esempio, un maggio con la neve, nel
corso della sessione di Umeå, nel Nord della Svezia, è affiorato il personaggio-simbolo
del teatro greco e del teatro occidentale: Edipo. Il frammento d'un Edipo desolato come
può esserlo un bambino.
Eugenio Barba stava lavorando con il grande attore-danzatore balinese I
Made Djimat. Era uno dei momenti consueti delle ricerche empiriche dell'ISTA: quando
Barba collabora con un maestro di teatro per ottenere l'assorbimento d'una danza o
d'una partitura fatta di grandi movimenti. Assorbimento vuol dire che mentre tutti gli
impulsi fisici, le tensioni, i dinamoritmi della danza o della partitura originaria vengono
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conservati intatti, le dimensioni dei movimenti vengono enormemente ridotte. Barba
chiede, per farsi capire, una riduzione del 50 o dell'80 %. Nel linguaggio di Zeami si
direbbe che l'azione si svolge allora per il 50 o per l'80% nel “tempo” cioè nel senso
cenestesico dell'attore, e solo per il rimanente 50 o 20% nello spazio.
Con questo tipo di lavoro, che non ci si stancherebbe mai di osservare, si riesce a
comprendere sperimentalmente che cosa voglia dire “danza delle energie” e come
quest'espressione si riferisca a qualcosa di estremamente concreto.
Accade anche che quando una danza viene ridotta, essa perda i suoi contorni
ornati, la forma e lo stile codificato e lontano dal comportamento ordinario, ed
assomigli al comportamento quotidiano, ma conservando tutta la sua forza preespresiva extra-quotidiana. La danza infatti non si perde: resta occulta. L'osservatore
che ha seguito l'intero processo la riconosce nelle sue spoglie mutate. Lo spettatore che
osserva solo il risultato ha spesso l'impressione di vedere qualcosa di potentemente
“realistico”. Mi chiedo se il potente ed impressionante realismo di alcuni grandi attori,
testimoniato da spettatori scossi ed ammirati, non sia sempre stato questo: una danza
compressa ed occulta, più che una prodigiosa capacità d'imitare la cosiddetta “realtà”.
I Made Djimat, dunque, ha “assorbito” una delle sue danze e la ripete
miniaturizzata seduto su una sedia. Invece di volare nello spazio, ora sembra restare
immobile e fremere. In realtà i suoi piedi, le sue mani, le singole dita, il tronco, i suoi
occhi seguono micropercorsi diversi e simultanei (gli stessi che, molto più in grande,
avevano composto la sua classica danza balinese). E noi spettatori, come sempre accade
quando osserviamo una complessità di microazioni, siamo irresistibilmente tratti a
interpretarle come sintomi d'un'intricata reazione psicologica. Le mani di Djimat si
alzano quasi controvoglia (cioè con un controimpulso) verso il volto. Barba gli chiede
allora di continuare a seguire la propria danza occulta, ma di rimodellare appena appena
i movimenti delle mani, come se esse andassero agli occhi per toccarli. Gli porge una
spilla affinché per noi la nuova scena diventi chiara.
Ed infatti Djimat diviene Edipo, un Edipo che sembra visto da occhi non umani,
come se improvvisamente non fossimo umani noi, gli spettatori. Un Edipo che si
acceca con strani sorrisi infantili, con espressioni vezzose, come se carezzasse le gote
della madre che lo allatta. Come se l'essersi scoperto figlio della casa in cui è stato marito
re e padre lo riducesse a un bambino. A ciò che non è stato e avrebbe potuto essere.
Come se accecarsi fosse un fragile, ingenuo atto d'amore. Un amoroso malestro da
figlio discolo e ribelle.
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Questo Edipo immaturo che affiora dal mare dura solo qualche minuto, il
tempo per desiderarne di più, quanto basta per vedere che potrebbe esserci e si perde.
Nuovi attori e nuovi spettatori, atterriti e sghignazzanti.
Questa è la lontananza stretta: del teatro dal teatro. La lontananza dell’abbraccio.
Della Festa. Fors’anche del mitico bacio del Lebbroso, del bacio di Tristano, di quello di
Giuda - o del Principe al rospo.
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