Natili_L`angoscia della bellezza - Ariele. Associazione Italiana di

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Natili_L`angoscia della bellezza - Ariele. Associazione Italiana di
Ariele
Colloquio 2015
Dal soggetto alla polis. Nuove frontiere della ricerca psicosocioanalitica
L’angoscia della bellezza (Bozza- scusate gli immancabili refusi)
“Dialogando nostalgicamente con Gino”
“Questa non vuole essere una lezione,
ma una conferenza nel senso di conferire,
di portare insieme.”
L. Pagliarani
“Sono venuto sostenendo che accanto alle angosce teorizzate e condensate dalla Klein, c’è una terza angoscia. Meltzer ne parla come collegata alla confusione e che io preferisco chiamare “angoscia della bellezza”.
Con questa frase L. Pagliarani apre bruscamente un capitolo della psicosocioanalisi, forse il più importante e
misterioso, nella misura in cui esprime un concetto costituzionalmente insaturo e ambiguo. I riferimenti alla
Klein e a Meltzer, per certi versi essenziali, per altri appaiono come collocazioni provvisorie di un pensiero
emergente destinato più a scombinare che a chiarire.
Intanto i due termini appaiono antitetici, quasi si trattasse di un ossimoro, nella misura in cui l’angoscia è
pensata come il dolore di vivere e la bellezza, al contrario, come il piacere supremo; il che è un punto di vista. Altrimenti è necessario interrogarsi per esempio intorno all’angoscia e al suo presentarsi alla mente, alla
sua funzione e alle sue ricadute all’interno degli eventi più o meno vitali che ci riguardano. D’altra parte
l’angoscia è assimilabile al dolore? O altrimenti l’angoscia è l’incapacità di soffrire il dolore, vivendo in una
realtà “conversativa”, in cui l’anestetizzarsi è la prassi: dalle droghe al politicamente corretto, dove
l’eventualità del dolore è drasticamente rifiutata?
“Il verbo greco estesein significa fondamentalmente sentire. – scrive L. Pagliarani – Nel nostro vocabolario
il termine “anestesia” significa appunto desensibilizzazione. Il più delle volte il nostro modo di vivere è nella
direzione del non soffrire le nostre emozioni. Anestesia, quindi. Secondo me il processo di analisi non è che
un addestramento a recuperare la capacità di sentire, di soffrire, nel senso di saper sopportare, vivere le emozioni invece di renderci insofferenti, cioè anestetizzati”. Vivere le emozioni, non è banale, significa l’essere
esposti all’imprevedibile, a ciò che accade al di là di ogni nostro consenso, sballottati all’interno un processo
vitale, che per essere tale richiede la nostra presenza.
In questa prospettiva non è più l’Io a condurre il gioco, Meltzer stesso sostiene che nel momento che W.
Bion relega il pensiero creativo nel processo inconscio del sogno, il modello di Freud viene profondamente
modificato: ”L’io diviene il cavallo che si impenna davanti ad ogni oggetto sconosciuto nel suo sentiero e
che vuole seguire la strada che ha già percorso; mentre gli oggetti interni inconsci diventano il cavaliere che
lo induce inflessibilmente verso nuove esperienze di sviluppo.” (Meltzer, Williams, 1989, p. 26). Nella misura in cui le emozioni emergenti dalle trasformazioni del sogno sono accolte, se non ci anestetizziamo, noi
siamo inondati e vivificati e, frequentemente, l’essere presenti a sé stessi veicola sensazioni dolorose.
Ho appena tenuto un ciclo di quattro giornate in un’azienda, con l’obiettivo di sviluppare in un gruppo di
giovani ingegneri una capacità progettuale rivolta soprattutto a se stessi e al proprio progetto professionale.
L’azienda, li aveva assunti per le loro potenzialità, e si aspettava che individuassero autonomamente il ruolo
da assumere tra una serie ampia di ruoli dati. Si è pensato, nel programmare queste giornate, a un approccio
teorico/metodologico che considerasse il sogno come il momento centrale dell’attività progettuale. Veniva in
pratica, richiesto ai partecipanti, lavorando a coppie, di raccontarsi vicendevolmente il loro “sogno” professionale. Il gruppo dei partecipanti aveva il compito di “associare” liberamente sul sogno dei colleghi emersi
dal colloquio.
Non credo di aver mai sperimentato una situazione di gruppo in cui la sofferenza presente fosse nello stesso
tempo così densa e così intensamente vissuta come un qualcosa di liberatorio e di necessario. Era come se il
gruppo, soffrendo, scoprisse per un verso un legame profondo al suo interno mai sperimentato prima, un legame che consentiva di contenere il dolore, dall’altro si percepiva l’aleggiare dello stupore non solo rispetto
al ritrovarsi, ma all’opportunità, immediatamente percepita, di riappropriarsi di sé al di là di ogni convenzione conversativa. Mi è sembrato a un certo punto di rilevare che la sofferenza, avesse il potere di sciogliere
l’angoscia per aprire a un’atmosfera che rendeva possibile l’emergere del sogno.
La sofferenza era legata credo, al trovare dentro di sé ma soprattutto in un ritrovato incontro con l’altro, ciò
che li aveva portati a rendere la propria vita inautentica, a riscoprire insomma l’origine lontana di quel sogno
non sognato che era diventato la loro angoscia, angoscia che era stata il sottofondo più o meno consapevole
di una vita tradita e che ora si scioglieva in un dolore condiviso e in lacrime liberatorie. Questo per dire che
l’angoscia non è soltanto antitetica al piacere della bellezza, ma è ciò che implacabilmente attanaglia, quando
si dimentica la bellezza. Scopriamo così nell’angoscia una complicità con la bellezza, nel senso che non saremmo così angosciati se a un tratto quel nostro discostarci dalle nostre emozioni e dall’“altro” che pure ci è
accanto, non ci facesse sentire così soli e impotenti.
D’altra parte, era proprio nel momento in cui l’angoscia si rendeva evidente nel silenzio che seguiva la domanda: “Allora qual è il tuo sogno?”, che emergeva la possibilità dell’“Altro” non più come pericolo da controllare con i riti consueti di una “conversazione educata e complice”, ma piuttosto dell’“Altro”, che pur nella diversità, si presentava come possibilità di cura. Anche se ciò implicava la necessità di un abbandono che
gradualmente assumeva il senso di un reciproco affidarsi, senza riserve a un’affettività emotivamente densa.
“L’incontro con l’amore – scrive L. Pagliarani – è un incontro totale, per il quale bisogna saper rischiare tutto.” Il gruppo nel momento in cui decideva di uscire dall’anestesia, accingendosi a soffrire il dolore, trovava
nella circolarità dell’amore la risorsa che l’avrebbe sostenuto.
“Freud diceva – scrive Pagliarani – che i verbi fondamentali sono amare e fare. Su questa falsariga mi capita
di pensare che i verbi fare e amare sono più o meno regolari. Grammaticalmente e sintatticamente li sappiamo coniugare abbastanza facilmente: in tutti i modi, in tutte le forme (attiva, passiva, riflessiva), e in tutti i
tempi. Ma nella vita rendiamo questi verbi difettivi. Per esempio non siamo capaci della forma riflessiva
(amarsi) oppure coniughiamo per lo più al tempo passato. Per esempio “abbiamo amato” o ci riproponiamo
di amare in futuro, ma non siamo in grado di amare adesso. Io sostengo che il tempo presente è più difficile.
Il ricorso alla teoria, non per meglio capire quello che mi succede, ma per inquadrare il nuovo che mi sta
succedendo, e quindi sfuggire all’esperienza estetica presente, è spesso un modo di non stare nel presente.”
Braque, il pittore, che io considero un grande filosofo per i suoi pensieri lapidari, avverte: “Pochi possono
dire sono qui”. “A questo proposito – continua Pagliarani – è forse necessario che dica qualcosa sul tempo. I
Greci avevano due parole per indicare il tempo: una è entrata nella nostra lingua ed è Chronos (cronometro,
cronaca, cronista) ed è il tempo contato dall’orologio, dal calendario. Poi avevano un’altra parola Kairòs che
i latini traducevano con opportunitas, cioè occasione, possibilità. Noi, spesso, in questa nostra cultura, rischiamo di essere schiavi di Chronos e di non stare attenti, come sarebbe giusto, alle occasioni, al Kairòs che
la vita ci offre, anche la più disagiata.”
Quindi la necessità di vivere finalmente il “presente”, perché il sogno non è qualcosa di depositato, qualcosa
di negletto confinato nelle pieghe del passato o proiettato in un futuro al di là di ogni vita possibile, ma ciò
che scaturisce nel qui e ora. Un tempo presente non tiranneggiato da un Chronos scandito dalla frettolosità
impellente e compressa di un conversare post-moderno, teso a soffocare l’angoscia del vivere, ma il presente
liberatorio del Kairòs, che lascia espandere la mente, fino a rendere udibile il richiamo di ciò che internamente ribolle, che è poi la dimensione sognante della mente. Il sogno che il gruppo produceva non era un sogno riposto chissà quando, ma il sogno incessante, che il Puer e il Figlio interno di ciascuno dei partecipanti,
non cessa mai di sognare.
“Che cos’è per me l’angoscia della bellezza? – scrive L. Pagliarani – Io sostengo che l’angoscia della bellezza è fatta sia di incertezza circa il proprio valore, il valore della vita, la propria capacità di amare ed è fatta
nello stesso tempo di certezza. L’angoscia del poeta non è semplicemente derivante dal suo interrogarsi se la
cosa che farà piacerà o no al mondo. Questa è l’esperienza dell’incertezza che può essere primaria o secon-
daria. L’altro aspetto dell’angoscia del poeta è l’angoscia della certezza. Il poeta sa in modo vago e dispotico
nello stesso tempo cosa dovrebbe essere quel che deve nascere e finché non corrisponde al progetto vago che
ha in testa non è contento. Solo quando raggiunge quella forma che sentiva e non poteva configurare è contento.”
Ecco! Questo è l’aspetto dell’angoscia che interessa! L’angoscia legata alla possibilità di un’autorealizzazione mancata, o, altrimenti all’angoscia che implacabile incalza anche il poeta sul filo di un’opera
ancora incompiuta. Ecco allora che l’angoscia è il vuoto di un’esistenza mancata che può provocare si
l’anestesia che consente di bordeggiare la vita senza mai viverla pienamente, ma anche il segnale inequivocabile del fallimento che ci opprime, il segnale che indirettamente ci richiama alla bellezza, divenendo allora
l’angoscia della “certezza”, testimone cioè, di ciò che preme dentro di noi a lungo inascoltato. Non a caso
per Kierkegaard l’angoscia è il sentimento della possibilità.
E questo spiegherebbe l’atteggiamento del gruppo di cui vi ho parlato, quando a un tratto consapevole
dell’angoscia sottostante alle loro conversazioni incuranti, che sgorgavano leggere e fatue, quando
quell’angoscia a un tratto ha invaso la scena del gruppo c’è stato come un rifiuto di quella calma piatta e rassicurante e le prime emozioni erano la consapevolezza, finalmente, di una mancanza ad esistere che apriva
alle sensazioni di un dolore salvifico, a un improvviso amore per la vita che, se pur a lungo tradita, riaffiorava ai bordi di quell’angoscia che sommersa da sensazioni dolorose perdeva il centro della scena, facendo
riaffiorare il dolore.
Come conduttore del gruppo mi sentivo a mia volta avvolto in quell’atmosfera, e non potevo non pensare,
che in quel mio presente, avrei dovuto sostare in un luogo contiguo a quell’ammassarsi di pensieri, restituendo al gruppo ciò che a un tratto sembrava condensarsi per poi sciogliersi di nuovo nel flusso dei pensieri. Il
formatore, mi veniva da pensare, è colui che sosta in un punto decentrato della scena, assecondando lo svolgersi della narrazione di cui è un co-protagonista, atteggiandosi mentalmente a una forma di attenzione scevra da ogni selettività, perché non è possibile conoscere neanche con un attimo di anticipo il farsi della storia, quella storia di cui può essere solo un attore partecipe e “accogliente”.
Nell’accenno che fa Pagliarani a Meltzer quando dice: “c’è una terza angoscia, Meltzer ne parla come collegata alla confusione e che io preferisco chiamare “angoscia della bellezza”. Probabilmente si riferisce
all’articolo di Meltzer “La comprensione della bellezza”, dove effettivamente Meltzer parla di uno stato della
mente a cavallo fra la posizione schizo-paranoide e depressiva, da ciò la confusione a cui Pagliarani alludeva. In ogni caso, rimane indimenticabile in quell’articolo la frase conclusiva di Meltzer che accenna a un:
“Processo evolutivo nell’intero arco della vita lotta per reintegare ciò che il fragile Io del bambino non può
sopportare e da cui è lacerato, così che la bellezza dell’oggetto possa essere contemplata direttamente, senza
procurare “danno all’anima” come temeva Socrate.”
La contemplazione della bellezza, in termini più generali, può implicare un’evoluzione che investe tutto
l’arco di una vita, e l’oggetto può essere un bel panorama, un quadro, una musica, dice R. Sorrentino in un
articolo pubblicato sul corriere: “E’ il cervello che ascolta che crea la musica, non solo chi suona, e ognuno
di noi lo fa a modo suo. Che si tratti di Mozart, dei Pink Floyd, del jazz o di altro poco importa, in quanto è
nel cervello che la moltitudine dei suoni, delle note sentite si saldano, si uniscono e diventano poi brano
compiuto”. Contemplare la bellezza, non consiste in un guardare o in un sentire, ma nel compiere un atto
creativo che coinvolge la profondità dello spirito.
Quel lungo processo evolutivo, diventerà addirittura interminabile quando lo stesso Meltzer introdurrà il
concetto di “conflitto estetico”: “L’elemento tragico dell’esperienza estetica risiede non tanto nella sua fugacità, quanto nella qualità enigmatica dell’oggetto: Gioia che tiene sempre sui labri/la mano a dire addio” (…)
Il conflitto estetico si differenzia dall’agonia romantica in questo: la sua esperienza centrale di sofferenza risiede nel dubbio, che tende alla sfiducia, inclina al sospetto.” (Meltzer, Williams, 1988, p. 47). Il soggetto/i
con cui ci relazioniamo al fine di perseguire la bellezza, perché la bellezza è sempre relazione, se conservano
un lato oscuro che può precipitarci nell’angoscia per un altro verso sono la nostra occasione di bellezza.
L’angoscia della bellezza è un sentimento ambiguo, nella misura in cui l’ambiguità inerisce al linguaggio,
che se per un verso costituisce la realtà che abitiamo, dall’altro non può trascendere la sua finitezza rispetto
alla complessità del sentire. Questo elemento costitutivo, che è l’ambiguità, del nostro universo simbolico
dove inconsapevolmente siamo immersi, come pesci nell’acqua, se per un verso è il nostro spaesamento,
dall’altro è la nostra possibilità di conoscenza. Il conflitto estetico è bionianamente la pre-concezione di una
forma che irriducibilmente, osservata da prospettive diverse ci parla in maniera contrastante, ma la stessa
forma resiste a ogni tentativo riduzionista mantenendo la sua compattezza.
Il gruppo, di cui vi ho accennato, nel momento in cui si consentiva di soffrire il dolore, viveva il conflitto
estetico, attraversandolo, collocandosi in una posizione esistenziale che indagava la cesura fra l’angoscia che
era il vuoto dell’incontro mancato, ma anche la bellezza possibile, nel qui e ora, di un incontro felice con il
gruppo e con gli uomini e le donne che lo componevano, dove il sogno poteva finalmente far breccia, nel suo
articolarsi sia in una dimensione gruppale, che in una dimensione più intima dove ciascuno poteva, scandagliando nella profondità del sé, inventare, sognandola, la forma di una relazione diversa con il mondo, che
sarebbe stata non il progetto da perseguire, ma l’avventura di cui finalmente innamorarsi.
Scandagliare la profondità del sé nella psicosocioanalisi significa, mettersi in relazione con il Puer, il demone il genio che, incessantemente proteso verso l’ignoto, fa zampillare i pensieri del sogno, che il Figlio, colui
che è generato in ogni istante della sua esistenza, proteso verso l’“Altro da se”, che inventa la forma che consente, ibridandosi, di trovare nell’incontro con l’altro la bellezza. E questo incontro è possibile se all’interno
del gruppo si dispiega la circolarità dell’amore che consiste nell’amare, nell’amarsi e nell’essere amato. Sopra il gruppo di cui vi ho parlato, alla fine di una giornata piena, che faceva sentire a tutti noi una sensazione
di stanchezza e di appagamento, sembrava scendere la penombra e il gruppo era vagamente raccolto, pensieroso e consapevole.
Quel gruppo era consapevole che quell’immersione dentro di sé, alla ricerca di pensieri nascenti e di forme
mai esperite, quei sogni condivisi, tradotti spesso in narrazioni in cui tutti si erano riconosciuti, avevano generato sofferenze appena sopportabili, perché aveva voluto dire riattraversare il loro essere mancanti e difettati e tutta l’imperfezione della loro capacità di amare. Ma soprattutto avevano dovuto ancora una volta soffrire l’ambiguità dell’oggetto d’amore che da sempre presentava le sue polarità che si connotavano
nell’angoscia e nella bellezza, e che soltanto attraversando interstizi soffocanti e percorsi pieni di vertigine
avevano alla fine trovato la strada di una bellezza possibile.
La possibilità della bellezza, come afferma L. Pagliarani, aveva allora la possibilità di diventare l’angoscia
della certezza. Nel momento stesso in cui i membri del gruppo si erano consentiti, incoraggiandosi affettivamente tra loro di svelarsi finalmente reciprocamente l’oggetto del loro amore, che attraverso il sogno aveva acquisito una forma, in quel momento scoprivano pure che l’oggetto amato e sconosciuto li avrebbe costretti ad avventure dall’esito incerto, lungo un cammino che non avrebbero più potuto abbandonare. E che
quel dolore li avrebbe sempre seguiti lungo il percorso accidentato di una vita tutta da costruire.
Il percorso verso la bellezza è interrotto solo da rapidi lampi di felicità, perché lungo quel percorso avrebbero di frequente ritrovato le sofferenze che avevano appreso a tollerare e a benedire, perché avevano il potere
di interrompere a tratti la persistenza dell’angoscia, e di intravvedere il momento in cui dolorosamente a un
tratto un improvviso fiorire della bellezza li avrebbe ripagati per un attimo delle fatiche dell’avventura. Perché quell’attimo li avrebbe convinti di poter vivere pienamente il loro essere nel mondo, magari solo per un
attimo.
Vorrei terminare con gli stessi versi (di Valery) con cui Gino termina il suo discorso sull’“angoscia della bellezza”, che riportato nella raccolta dei suoi scritti, felice di aver contribuito a questo lavoro di riscoperta, che
mi ha consentito fra l’altro di continuare con lui, mio maestro, una conversazione ininterrotta:
“Amore è nullo se a colmo non cresca;
crescere è legge a lui, pena il morire,
e muore chi non sa morir d’amore.