il punto - Centro Studi Calamandrei
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IL PUNTO Le notizie di LiberaUscita Luglio-Agosto 2005 - N° 15 SOMMARIO INTEGRALISMO - RELATIVISMO - LAICITA' 196 - Riparte la crociata sull'aborto - di Miriam Mafai 197 - Chi agita il fantasma di Zapatero - di Francesco Merlo 198 - Peccato sostenere chi vota l’aborto – di Marco Politi 199 - Aborto: la legge deve rappresentare tutti – di Livia Turco 200 - La falange antievoluzionista - di Flavio Grassi 201 - La bussola della chiesa - intervista di Achille Ardigò 202 - Relativismo, fondamentalismo e integrismo - di Umberto Eco 203 - La scienza la chiesa e la tentazione dell´assoluto - di G. Amato 204 – Aborto e droga, due "no" molto diversi – di Corrado Augias 205 - Laicita’ e bioetica, le nuove frontiere dell’Unione - di A. Parisi 206 - Ripensare la laicita’- di Vannino Chiti 207 - Quell´Italia maschia che il vescovo rimpiange - di F. Merlo 208 - Morale – di Eugenio Scalfari NOTIZIE UTILI 209 – Si’ della Commissione Sanita’ Senato al testamento biologico DA LIBRI 210 - La sana democrazia - di Luciano Zannotti 211 - La fede a occhi aperti - di Luciano de Crescenzo CI SCRIVONO.... 212 – Storie vere PER SORRIDERE... 213 – La vignetta di Brusco LiberaUscita Associazione per la depenalizzazione dell’eutanasia Sede: via Genova 24, 00184 Roma Tel. 0647823807 – 0647885980 – fax 0648931008 Sito web: www.liberauscita.it - email:[email protected] 1 196 - RIPARTE LA CROCIATA SULL' ABORTO - DI MIRIAM MAFAI da: la Repubblica del 2 luglio 2005 Fu l’onorevole Buttiglione per primo a proporre, all'inizio di questa legislatura, la revisione della legge 194 sulla interruzione volontaria di gravidanza. Provocò riserve e proteste anche tra esponenti della CdL e fu costretto a rinunciare all'iniziativa. Ma, diciamo la verità, Buttiglione aveva visto lungo. Era soltanto in anticipo sui tempi. Oggi, a quattro anni di distanza da allora la sua proposta di revisione della legge 194, è ripartita alla grande. Con una novità. In prima linea oggi non c'è soltanto la Chiesa, che da anni conduce una sua vigorosa battaglia sull'argomento, ma anche quello schieramento di "laici devoti" altrimenti detti "teocon" che, contro i referendari, hanno difeso ad oltranza la nostra pessima legge sulla fecondazione assistita in nome del principio della sacralità dell'embrione, già persona fin dall'inizio e quindi intangibile, meritevole di completa protezione. Anche a danno della salute della donna? Sì, anche a danno della salute della donna. Lo stesso schieramento, uscito vincente dalla battaglia dello scorso 12 giugno, si accinge oggi ad andare alI 'attacco della nostra legge sulla interruzione volontaria della gravidanza. Con qualche speranza di vincere anche questa battaglia. E infatti, se una legge, quella sulla fecondazione assistita, afferma la sacralità dell'ovulo fin dal momento della fecondazione, ancora più meritevole di protezione sarà, a rigor di logica, l'embrione o il feto già ospitato nel ventre della madre. Quale che sia la sua volontà o il suo stato di salute. Va ricordato subito che la nostra legge sulla interruzione volontaria della gravidanza, approvata dal parlamento nel 1978 e confermata dal referendum del 1981 non ignorava certo il valore della vita dell'embrione e del feto, ma, anche sulla base di una sentenza della Corte Costituzionale, realizzava un bilanciamento tra i due, interessi, quello della salute della madre, che è già persona, e quello della tutela dell'embrione che persona deve ancora diventare. L'aborto non è e non è mai stato un diritto da esercitare a piacimento. È un trauma, una sofferenza, fisica e psicologica che nessuna donna affronta con leggerezza. Secondo la nostra legge la donna può farvj ricorso, entro i primi novanta giorni della gravidanza solo quando "la prosecuzione della gravidanza, il parto o la maternità comportino un serio pericolo per la sua salute" (art.4) e, dopo i primi novanta giorni solo in casi rari e drammatici in cui sia a rischio non solo la sua salute ma la sua vita, o quando siano accertati processi patologici, "o gravi malformazioni del nascituro che determinino un grave pericolo per la salute fisica o psichica della donna" (art.6). E una legge equilibrata, una delle migliori in Europa, che ha cancellato la vergogna e la sofferenza degli aborti clandestini, e ridotto notevolmente quello degli aborti praticati nei nostri ospedali, numero che potrebbe essere ancora minore se nei confronti dei giovani venisse promossa una seria, massiccia campagna di informazione per il ricorso agli anticoncezionali. Non la si fa perché la Chiesa, come noto "è contraria anche aIl'uso della pillola e il ministro Sirchia prima e oggi il ministro Storace, sono più sensibili ai richiami delle gerarchie che alla esigenza di difendere la salute delle nostre adolescenti. La campagna che oggi si annuncia contro la legge 194 è una campagna contro la dignità, la libertà, la moralità delle donne, contro il loro diritto a decidere, responsabilmente, della propria vita. Sento riemergere nei toni dei suoi promotori il fondo misogino, mai del tutto sconfitto, della nostra società. La donna come immagine paurosa, titolare del diritto di vita e di morte sull' embrione e dunque su ognuno di noi, uscito dal suo ventre. La donna che non sarebbe degna del nome di madre quando rifiutasse di mettere al mondo un essere gravemente malformato e di accudirlo, in silenzio, per la vita. Solo chi non conosce questa sofferenza (qualcuno di noi la conosce) può condannare, dal punto di vita etico, una madre che, ricorrendo all'aborto terapeutico, vi si sottrae. In altro modo, mi sembra si riproporrà, anche in questo caso, attorno alla figura della donna e della maternità, quel contrasto tra pensiero laico e cattolico che ha contrassegnato, 2 almeno in parte e talvolta contro la stessa volontà di alcuni dei promotori, la campagna per la revisione della legge sulla fecondazione assistita. Con la conseguenza, inevitabile, di approfondire i contrasti ed esasperare le divisioni. Mentre una buona politica vorrebbe, su temi controversi e delicati come quelli proposti dalla insorgenza della bioetica, la ricerca paziente del compromesso possibile tra le diverse culture presenti nel paese. Ma c'è chi trova il compromesso disdicevole e adora il furore delle crociate. Prepariamoci dunque, anche questa volta, al peggio. 197 - CHI AGITA IL FANTASMA DI ZAPATERO - DI FRANCESCO MERLO da: la Repubblica del 4 luglio 2005 La Spagna di Zapatero spaventa i clericali italiani molto più di quanto affascini i laici italiani; spiace a loro senza troppo piacere a noi; è il loro dileggio ma non è la nostra bandiera. Sono i clericali che vi vedono infatti la sconfessione della loro strategia ideologica e politica, la decapitazione di un principio, quello del matrimonio eterosessuale fondato sulla volontà di Dio, allo stesso modo in cui il regicidio nella rivoluzione francese sconfessava il diritto divino della monarchia. Molto tiepidi, i laici italiani, nella loro maggioranza che è fatta di laici cristiani, colgono invece in Zapatero l'eccesso tipico della Spagna che vive «disvivendosi», una Spagna estremista tanto nel clericalismo quanto nell'anticlericalismo, il luogo estremo dell'Europa nel quale è stato celebrato sin dalle origini un matrimonio, questo sì pesante e incondizionato, tra la spada e l´altare, e basti ricordare che Franco fu sempre benedetto dall'aspersorio. E invece, frastornati senza gentili mediazioni da Zapatero, i nostri tradizionalisti clericali, affiancati dagli atei devoti, con la significativa esclusione su questo punto importante di libertà di Giuliano Ferrara, hanno lanciato una campagna fatta di vignette, di titoli di giornale e di editoriali contro i diritti dei gay e contro «la natura» dei gay, i quali a loro volta, di tanto in tanto, rispondono con volgarità uguali e contrarie. Così, all'inizio di un´estate già troppo calda, la «questione gay» sembra essere diventata il genius loci dell'Italia di destra contro quella di sinistra. E Liberazione, il quotidiano di Bertinotti, con l'intelligente direzione di Piero Sansonetti, discute e si appassiona alla «rivoluzione anale» quasi che essere gay significasse stare a sinistra, e che non si potesse, a sinistra, sentirsi "uomo" se non scoprendosi "omo". Laici ma non estremisti, gli italiani non sognano certo rivoluzioni sessuali, ma non approvano le sguaiatezze contro i gay, che il cardinale Ruini ha definito «disordine», dimenticando che sempre gli uomini chiamano disordine quel che non capiscono, sempre ricorrono alla parola disordine quando all'imperscrutabile ordine di Dio si trovano davanti. E bisognerebbe spiegare agli aggressivi colleghi di "Libero" e del Giornale, a Marcello Pera e a tutti gli altri, che l'ironia critica sul matrimonio omosessuale è facile perché esiste una infinita bibliografia polemica sul matrimonio in generale. A parte il Cantico dei Cantici, il matrimonio, quando scende dal cielo della mistica, è come la guerra, se ne parla solo male. Da Omero e Plauto sino alla bisbetica di Shakespeare, da Molière al Manzoni ai grandi capolavori del cinema, il matrimonio sempre argomenta ed esulcera la stupidità degli uomini. Perciò il dileggio del matrimonio gay è solo una variante del banale dileggio del matrimonio in sé, una polemica razzista che serve ad ingrossare la polemica sul matrimonio come istituzione. Dunque alla fine si tratta di pacchianeria volgare e pigra, di intelligenza morta che certamente offende Dio, il quale non tollera che sui suoi misteri si facciano battutacce, quel Dio che non è solo «con noi» perché di sicuro è anche «con loro», e anzi forse c´è più Dio nel loro «disordine», perché Dio è scandalo continuo, scandalo e misericordia. La guerra dei clericali italiani contro Zapatero, la voglia di Marcello Pera di proseguire nel suo "disordine" sino a sentirsi "castigliano", prima ancora che pretesto politico dell'eterna campagna elettorale italiana, è roba da psicoanalisi, una sorta di inconsapevole outing pubblico delle proprie ripulse private. Non si capisce perché una cosa che non ti riguarda 3 direttamente, come l'unione tra due omosessuali, debba essere così profondamente e sguaiatamente redarguita, al punto da sembrare l'esternazione dell'escluso. Perciò è penoso che le leggi approvate, liberamente e legittimamente, dalla Spagna di Zapatero vengano spacciate come una nuova rivoluzione bolscevica, un nuovo fantasma che si aggira per l'Europa. Zapatero è fenomeno tipicamente spagnolo, come è spagnola la novità dei vescovi che scendono in piazza. In Italia neppure Ruini lo farebbe, certamente non l'ha mai fatto. Noi italiani siamo francescani: eccediamo in mitezze. Mentre loro sono domenicani: eccedono in oltranze. Il regista omosessuale che ha rivoluzionato il cinema italiano si chiamava Luchino Visconti, mentre il loro regista è il cantore dei transessuali Almodovar. Gli spagnoli hanno dato al mondo l'anticlericale anarchico Buñuel mentre noi abbiamo dato De Sica, Rossellini e il cattolico paganeggiante Federico Fellini. Durante la guerra civile spagnola, i comunisti fucilavano le statue della Madonna mentre noi ci siamo compiaciuti della solidarietà di fondo tra Peppone e don Camillo, e abbiamo persino inventato il compromesso storico. Loro avevano Dalì, che fu una tempesta anche sessuale, e noi Guttuso, che è morto innamorato e con il crocifisso in mano. I laici italiani, pur disincantati rispetto al matrimonio, che non è poi così indispensabile per vivere bene, non hanno mai messo in agenda, in un programma o in un manifesto politico, l'adozione di bambini da parte di coppie gay. Certo, anche noi capiamo e approviamo le valenze istituzionali e sociali della reciproca difesa di una coppia gay, i benefici di un rapporto legittimato, quale che sia il nome che lo Stato voglia dare al riconoscimento di una coppia di fatto, al compendio dei suoi diritti civili, che vanno dalla sanità all'eredità, dagli sgravi per il partner "a carico" agli sconti-famiglia sui treni e sugli aerei. Se il termine matrimonio risultasse inadeguato, come sostengono tanti omosessuali, ebbene, gli si cambi pure nome, lo si chiami "pacs" come in Francia, o semplicemente contratto di convivenza. L´attore inglese Rupert Everett, che è un´icona intelligente del mondo gay, dice giustamente che «l´omosessualità non è un peccato ma neppure una medaglia». E aggiunge: «Il matrimonio gay è una grande stupidata, una scimmiottatura grottesca. Sono d'accordo nel concedere diritti alle unioni civili, cose tipo assistenza medica, sgravi di tasse, eccetera. Ma trovo veramente idiota la cerimonia in municipio». E´ dunque probabile che, dopo la prima fiammata di coppie omosessuali matrimonializzate, ci sarà una slavina di contumelie contro il matrimonio scritta da omosessuali. E tuttavia il governo e il Parlamento spagnoli, che hanno concesso il matrimonio e anche le adozioni alle coppie gay, avevano il diritto politico e civile di farlo. In questa sua tenacia a favore delle prerogative dello Stato laico, Zapatero va difeso come fosse Cavour. E va difeso il re Juan Carlos, che ora è addirittura minacciato di scomunica, disconoscendogli la Maestà Cattolica, anche se promulga leggi che i laici italiani non promulgherebbero, e che forse neppure la maggioranza degli omosessuali approva interamente. Sin dalla fusione delle due Corone, di Castiglia e d'Aragona, in Spagna la Chiesa è stata il braccio spirituale del re, ha cercato e ottenuto il consenso attraverso una sistematica operazione di normalizzazione antieretica: il trono coniugato con il tribunale dell'Inquisizione. La Spagna infatti era un posto di confine, il luogo in cui si disputava l'egemonia dell'Islam o del Cristianesimo, il Paese della ´´reconquista´´, che fu innanzitutto religiosa, e solo in subordine militare. Attenzione dunque alla Spagna che sempre arriva allo scontro diretto quando il potere cerca nuove e più moderne legittimazioni. Il primo passo obbligato, per tutti i Zapatero di Spagna, è svincolarsi dall'amplesso clericale. E´ una politica di fiamme, questa spagnola, legittima e certamente pericolosa. Ma la nostra storia è un'altra, le nostre radici sono altre, gli eccessi della Chiesa da noi sono stati contrastati e vinti, e i preti buoni sono cari a tutti gli italiani, di destra e di sinistra. Noi, se si esclude la Sicilia, «dove c'è più Spagna che in Spagna», e ovviamente Roma, non abbiamo avuto l'Inquisizione, né a Napoli né a Milano. E quella sessuale per noi 4 rimane una dimensione privata e non un mezzo per reintrodurre surrettiziamente e a tradimento il peggiore clericalismo o il suo contrario. Neppure il movimento organizzato degli omosessuali, come ha spiegato più volte con ferma moderazione il suo leader Franco Grillini, ha in programma l'adozione come diritto delle coppie gay. Non c'è nessuno Zapatero nel nostro orizzonte. Gli italiani politicamente civili, intellettualmente eleganti, eticamente sobri e culturalmente ricchi, e tra questi c'è pure Famiglia Cristiana, sono pronti a battersi per il riconoscimento giuridico delle coppie gay e di tutte le coppie di fatto, ma sarebbe bene sottrarre «la questione gay» alle manifestazioni di piazza che sono pessimi surrogati del dibattito e del confronto. La sguaiataggine razzista del neoclericalismo è una trappola dalla quale tutti noi italiani dobbiamo difenderci. E´ vero che la civiltà italiana è nata nelle piazze, ma intese come luoghi di incontro, di scambio, di affari, e non come luoghi di amplificazione distorta delle ragioni private, di scorciatoia del pensiero. Purtroppo la piazza, da palestra gentile, troppo spesso diventa chiasso e girotondo. In piazza, chi ha un bisogno, invece di argomentarlo, lo grida. Ebbene, i gay italiani non facciano l'errore di trasformare le piazze in piazzate. Tanto più che l'identità sessuale non si esibisce, ma si coltiva. E se proprio si volesse celebrare l'orgoglio omosessuale, invece di sfilare su carri a volte osceni, basterebbe ricordare quanto è lungo l'elenco delle figure omosessuali che hanno educato gli eterosessuali, da Socrate sino a Proust, da Michelangelo sino a Keynes e, a quanto pare, ad Abraham Lincoln. ´´Frammenti di un discorso amoroso´´ di Roland Barthes è una trattazione dell'amore omosessuale che è diventata il libro cult delle coppie eterosessuali. Rileggerlo, magari dopo avere letto il simpatico nuovo catechismo del Papa tedesco, può forse contribuire a chiarirci le idee. 198 - PECCATO SOSTENERE CHI VOTA L’ABORTO – DI MARCO POLITI Da: la Repubblica dell’8 luglio 2005 Il Vaticano: guai ai politici che attentano a vita, giustizia e pace. E' «peccato grave» votare per un politico che sostiene l'aborto. Lo afferma il documento di lavoro (Instrumentum laboris) del prossimo Sinodo dei vescovi, in programma sul tema dell' eucaristia, e non è difficile prevedere che il nuovo comandamento dal sapore pacelliano si presterà a infinite strumentaIizzazioni durante la campagna elettorale di molti paesi. Specialmente in Italia. Il documento vaticano, redatto per l'assemblea internazionale dei vescovi che si terràdal 2 al 23 ottobre a Roma, rilancia dunque in maniera aggressiva una questione già emersa negli Stati Uniti durante le recenti elezioni presidenziali. In quell’occasione un gruppo di vescovi premette sul Vaticano perché venisse sconfessato pubblicamente il democratico John Kerry, che non faceva mistero della sua intenzione di difendere la legislazione sulla interruzione di gravidanza. Fu il cardinale Ratzinger, come prefetto della Congregazione.per Ia dottrina della fede, a frenare l'autunno scorso i vescovi americani più integralisti evitando cosi che la Chiesa cattolica venisse accusata di interferenza nelle elezioni. Ora, invece, il Vaticano sta imboccando la linea opposta: l'appello diretto a selezionare i candidati in base alla loro opposizione o meno alla legislazione abortista. Nello stesso paragrafo dell' Instrumentum laboris si parla anche di «atti gravi contro la vita» e ciò significa che il placet ecclesiastico per i candidati "eleggibili" si estenderà alle materie di bioetica, alle ricerche scientifiche sull'embrione e alle norme riguardanti il divieto o meno di diagnosi prenatale. E' vero che nel medesimo passaggio del testo si sconsiglia anche di votare coloro che sono contro la pace e la giustizia, ma su questi temi le scappatoie sono tradizionalmente numerose. Dal documento sinodale di novanta pagine emerge la preoccupazione che le scelte soggettive dei credenti corrodano l'autorità ecclesiastica. Si nota con allarme che «alcuni 5 ricevono la comunione pur negando gli insegnamenti della Chiesa o dando pubblicamente supporto a scelte immorali, come l'aborto, senza pensare che stanno commettendo atti di grave disonestà personale e causando scandalo». In questo senso il documento denuncia il comportamento di quei «cattolici che non comprendono perché sia peccato sostenere politicamente un candidato apertamente favorevole all' aborto o ad altri atti gravi contro la vita, la giustizia e la pace”. Altrettanto preoccupante appare al Vaticano il fenomeno “assai frequente” di cattolici che fanno la comunione “senza badare allo stato di peccato grave in cui possono trovarsi”. D'altronde viene riconosciuta la grande sproporzione fra i tanti che si accostano al sacramento e i “pochi che si confessano”. Tra i fenomeni negativi è citato il ricorso alla comunione dei divorziati risposati. “L'ammissione alla comunione.. di costoro - scandisce il testo - è un fenomeno non raro in diversi paesi”. E tuttavia su questo punto potrebbe aprirsi a ottobre una discussione da parte di quei vescovi che sono favorevoli a non punire in eterno i divorziati risposati. Il documento lamenta, infine, la perdita del mistero in tante celebrazioni e il comportamento poco riverente di certi celebranti, nonché gli abiti poco decenti, mentre manifesta l’intenzione di rilanciare il canto gregoriano e rivedere la distribuzione delle ostie nelle mani dei fedeli. 199 - ABORTO: LA LEGGE DEVE RAPPRESENTARE TUTTI – DI LIVIA TURCO Intervista di Renata Mambelli a Livia Turco – Da: la Repubblica dell’8.7.2005 “Credo che questa Chiesa insista troppo sulla radicalità dei valori e manchi invece di amorevolezza nei confronti della vita delle persone, anzi, prescinda dalla vita delle persone concrete: dimentica cosi che un messaggio di fede diventa incisivo quando si incontra con le contraddizioni e le sofferenze delle persone. Proclamare i valori con la spada rischia o di allontanare invece che convincere”. Livia Turco, cattolica, deputata Ds, da sempre allineata a favore della legge 194, non si sente affatto esclusa dalla comunione per le sue idee, anzi. Caso mai è la Chiesa, sostiene, che non sa fare i conti, in questo periodo della storia, con la vita della gente. E comincia col criticare il linguaggio dell'lnstrumentum Laboris del Sinodo: “Che cosa vuoI dire legge abortista? lo non dovrei andare a prendere la comunione perché ho sostenuto la legge 194? Quella non è una legge abortista. Mi sembra che il documento del Sinodo sia un po' astratto, un po' fuori dalla vita di tutti i giorni: in questo modo rischia di allontanare dalla Chiesa invece che avvicinare”. Si riconosce nel ritratto di “candidato apertamente favorevole all'aborto" che il documento chiede di non votare? lo penso che un cattolico non può che essere contro 1'aborto. lo, che sono una cattolica di sinistra, sul piano etico non ricorrerei mai a questa scelta, e ho sempre sostenuto che l'aborto non è solo un dramma per le donne ma soprattutto la messa in discussione di un progetto di vita. E infatti in qualsiasI disegno di legge, da quello, da quello sulla fecondazione a quello sull'aborto, si riconosce una qualche forma di dignità umana all'embrione. Ma non avverte una contraddizione tra le sue convinzioni religiose e il sostegno alla legge 194? Sul piano delle scelte personali credo che ci sia una contraddizione in termini tra essere cattolico e essere a favore dell'aborto. Ma dal punto di vista della responsabilità pubblica e politica si tratta invece di riscoprire ciò che si tende a dimenticare spesso: la distinzione di piani, il piano del convincimento religioso e quello della legge, che deve rappresentare una pluralità di punti di vista. Per questo io non mi sento in contraddizione tra l'essere contraria all'aborto e l'aver sostenuto la 194, che per di più non è una legge a favore dell'aborto, ma anzi lo vuole prevenire e superare nell'unico modo possibile, cioè facendo leva sulla responsabilità femminile. La Chiesa dovrebbe riflettere sul fatto che in questi anni si è ridotto drasticamente il ricorso all'aborto nel nostro paese. Si dimentica che il compito di 6 una legge non è solo ribadire i valori che proclama ma essere efficace. E questa legge è efficace. E riguardo al rifiuto della comunione ai divorziati risposati? Mi sembra che si tratti anche questo aspetto da un punto di vista astratto, incorporeo. Rispetto all'aborto è un argomento ancora più complesso. Bisogna tenere conto delle persone, delle loro difficoltà. Un grande amore può finire, una coppia sfasciarsi. Mi sembra che il divorzio l'abbia previsto per prima proprio la Sacra Rota. Torno a dire: è giusto affermare la radicalità dei valori ma bisogna fare i conti con la concretezza della vita delle persone. II grande messaggio che ci ha lasciato Papa Wojtyla è stata l’immagine di un corpo sofferente, mostrare il volto della sofferenza, e in questo tante persone si sono riconosciute. 200 - LA FALANGE ANTIEVOLUZIONISTA - DI FLAVIO GRASSI Da: New York Times Il cardinale Christoph Schönborn, teologo austriaco molto vicino a Benedetto XVI, definisce la posizione del cattolicesimo ratzingeriano a proposito dell’evoluzione, posizione che converge con quella dei neocreazionisti della destra evangelica americana. E – non a caso – lancia il suo anatema contro chi attribuisce alla chiesa cattolica «l’accettazione o almeno tolleranza» della visione scientifica darwiniana proprio dalle colonne del più prestigioso giornale americano. Questo il succo della dichiarazione di guerra: L’evoluzione nel senso di un’ascendenza comune può anche essere vera, ma l’evoluzione nel senso neo-darwiniano – un processo senza guida e pianificazione, basato su variazioni casuali e selezione naturale – non lo è. E, citando un documento redatto nel 2004 dalla Commissione teologica internazionale, ribadisce il dogma deista: Un processo evolutivo privo di guida, tale da porsi al di fuori della divina provvidenza, semplicemente non può esistere. Le reazioni sono state quelle prevedibili: entusiasmo da parte degli antievoluzionisti ma «confusione, sconcerto e anche rabbia» da parte di scienziati e insegnanti di scienze. Oggi il Times le riporta, insieme a ulteriori dichiarazioni del cardinale, in un servizio di prima pagina, che chiosa: I cattolici americani e la destra cristiana evangelica hanno formato un potente fronte unito nell’opposizione contro aborto, ricerca sulle cellule staminali ed eutanasia, ma finora si sono divisi sulla pena di morte e sull’insegnamento dell’evoluzione. L’articolo del cardinale Schönborn e i suoi commenti indicano che la chiesa potrebbe ora entrare nel dibattito sull’evoluzione appoggiando con forza le posizioni di coloro che si oppongono all’insegnamento esclusivo dell’evoluzione stessa. Rimane solo da aspettare la revisione delle posizioni sulla pena di morte. Poi finalmente potremo tornare ad avere gli spettacolari roghi degli eretici. Magari trasmessi in mondovisione, per la maggior gloria di Dio. (inviato da Urbano Cipriani - 9.7.2005) 201 - LA BUSSOLA DELLA CHIESA - INTERVISTA DI ACHILLE ARDIGÒ da: la Repubblica del 7 luglio 2005 – Sezione Cultura - Intervista di Michele Smargiassi Cervia. Achille Ardigò dice «noi mistici» senza la minima ironia, però si gode l'attimo di sorpresa dell'interlocutore. Mezzo secolo da sociologo nelle aule universitarie e da politico nel mondo cattolico fanno del professore di Bologna, almeno all'apparenza, il contrario di un asceta. Ma la lezione di Giuseppe Dossetti, l’«onorevole di Dio», poi frate di Monte Sole, di cui Ardigò fu discepolo e collaboratore, non l'ha scordata: per un credente la politica è pensabile solo se illuminata dalla trascendenza. Proprio questo legame, per Ardigò, oggi rischia di essere spezzato dalla svolta ratzingeriana, dal nuovo interventismo delle gerarchie cattoliche non solo nella politica, ma anche nell'etica quotidiana, nei 7 comportamenti, nelle scelte di vita dei cittadini, fondato solo sul richiamo al «razionalismo» di un'asserita «legge naturale». Sulla scrivania del suo appartamentino balneare di Cervia, al terzo piano di un condominio, accanto al computer e agli appunti di un imminente libro «sulla devastazione della famiglia italiana», Ardigò ha l'intervista a Repubblica di un vecchio amico e condiscepolo dossettiano, Giuseppe Alberigo: la risposta alle critiche ecclesiali contro la sua storia del Concilio Vaticano II. Allora, partiamo da qui. Lei ricorda bene il Concilio, professore? Altroché. L'ho vissuto al fianco di Dossetti, ero all'Avvenire con Raniero La Valle, fu la grande stagione della nostra vita, gravida di enormi energie spirituali. Ci investì come un fiume in piena. Ricordo come fosse ora quando il cardinal Lercaro, con tono entusiasta e agitato, telefonò da Roma, alle tre di notte, a Dossetti che era il suo segretario: "Stanno succedendo grandi cose, venga subito, ho bisogno del suo aiuto". Naturalmente Dossetti non aspettava altro. Quindi fu svolta autentica, strappo, discontinuità? Si realizzò in quei mesi una tale concentrazione di intelligenze e spiriti che non poteva non accadere qualcosa di profondamente nuovo. Del resto papa Giovanni XXIII sapeva perfettamente cosa sarebbe successo convocando a Roma i migliori teologi e i più fervidi uomini di fede: sapeva che la Chiesa aveva bisogno di una scossa, e ne creò le condizioni. Ma oggi il cardinal Ruini sostiene che il Vaticano II rappresentò una “continuità nella tradizione”.... Fu un momento di grande comunione ecclesiale e di grande ispirazione divina, che cambiò profondamente il rapporto tra la Chiesa e il mondo. Se ne accorse proprio Dossetti, che qualche anno prima aveva lasciato il parlamento e la Dc spiegando a noi allievi costernati che l'unica condizione per un radicale rinnovamento della politica era un radicale rinnovamento della Chiesa. Quel rinnovamento ci fu, lasciò frutti, ma più tardi fu riassorbito. Temo che anche questa rilettura normalizzante del Concilio faccia parte del nuovo modo di interpretare il ruolo della Chiesa nella società. Come lo descriverebbe? (Sospira) - Vede, ogni mattina io prego umilmente lo Spirito Santo affinché induca il Papa e il cardinal Ruini a non perseverare nella loro teologia razionalista.... Razionalista papa Ratzinger? L'insistenza sul fatto che la "legge di natura", più che la parola di Dio, sia la bussola che deve orientare il comportamento sociale degli uomini, compresi i credenti, finisce per confinare l'etica in una dimensione naturalistica, dove tutte le norme morali necessarie all'uomo sono reperibili nella sua ragione, e la trascendenza non trova più posto». La ragione è pur sempre un dono di Dio, le risponderebbe il suo arcivescovo Carlo Caffarra. Altro grande razionalista... Certo, la ragione viene da Dio, ma se poi è solo l'uomo che la fa funzionare, è un Dio lontano, a cui non è necessario ricorrere. Insomma, la stessa Chiesa che propone ai laici di comportarsi "etsi Deus daretur" auspica una ragione che funziona come se Dio non esistesse? Rifiuto entrambi questi "come se", perché mettono in discussione il nucleo fondamentale della fede cristiana, ovvero il mistero della Rivelazione. Escludono il ruolo della trascendenza nell'agire umano; e questa, per una comunità di fedeli, mi sembra una rinuncia radicale, impossibile. Vede, per noi mistici è importante la sicurezza, anche se misteriosa, che ci offre la nostra Guida nella notte oscura. Parla come un profeta, professore, lei che fa politica da una vita... Le leggo una frase di Dossetti: "La comunità dei credenti non può seguire nessun anarchismo. Deve cercare la propria coesione non in un qualsiasi progetto sociale ad essa specifico, ma solo nella Parola di Dio. Come vede, tutto il contrario di un ricorso alla "legge naturale" che relega Dio sullo sfondo. 8 Non è invece un modo più laico di dialogare con la società civile? Il dialogo ha bisogno di rispetto, non di confusione dei ruoli. Ho avuto la fortuna di conoscere Habermas, filosofo marxista, e concordo col suo monito: la Chiesa non pretenda di occupare tutto il campo della ragione, e i laici abbandonino il sogno di far fuori la presenza spirituale della Chiesa nel mondo». . Un altro modo per dire: date a Cesare... Non è pensabile che l'agire del credente nella società si riduca a un problema di formazione delle opinioni, di opzioni organizzative, e magari di qualche scelta utilitaristica. Pensa al modo in cui è stata condotta la battaglia astensionista al referendum? Penso che quella scelta, tecnicamente vittoriosa e molto festeggiata, presto o tardi si rivelerà molto più dannosa che utile. Non crede sia stata l'unica scelta per una Chiesa che si sente minoritaria di fronte al laicismo "relativista"? Ma anch'io temo lo zapaterismo. Temo i danni che può fare l'oltranzismo laicista alla famiglia, oggi in condizioni quasi disperate. Non sto consigliando certo alla Chiesa di arrendersi, di rinunciare ai propri valori. . Infatti difende ogni centimetro del campo, con ogni mezzo. Molti avvistano una Chiesa sempre più invadente nel campo delle scelte di vita degli individui: preferenze sessuali, forme di vita familiare, opzioni genitoriali... Noto anch'io un interventismo sempre più pressante su specifici aspetti della vita sociale. Ma non è l'interventismo in sé il pericolo che vedo. Non trovo scandalo se la Chiesa testimonia la propria visione del mondo e si batte perché diventi opinione generale. È suo diritto farlo... . E' suo diritto indicare valori o anche dettare, o contrastare, norme legislative? Le rispondo con un esempio: il riposo domenicale. È un precetto religioso da rispettare, per i credenti; ma difendere il diritto al riposo è anche una battaglia sindacale, un'esigenza sociale, un contributo alla salute della famiglia: la coscienza cattolica non è obbligata ad occuparsi solo della santificazione della festa. Allora dove vede il pericolo? Nella volontà ormai esplicita delle gerarchie di scendere direttamente, in prima persona, sul terreno politico più operativo, quello dell'organizzazione, delle scelte tattiche, delle valutazioni di convenienza e opportunità, del fine che giustifica i mezzi. Insomma non le piace vedere i vescovi nei cortei contro una legge dello Stato, come in Spagna? La Chiesa è una comunità ricca di spiriti e di intelligenze, dal più remoto convento di clausura alla più piccola associazione parrocchiale. I vescovi dovrebbero avere fiducia in questo immenso patrimonio: se scendono in campo direttamente, vuoI dire che non ne hanno più. Forse perché non c'è più un partito cattolico al quale delegare la direzione dell'agire pratico? Può essere, ma la Chiesa non può farsi partito politico senza rischiare di dissolvere il proprio fondamento mistico. M'intenda bene: io capisco Ruini, capisco Ratzinger, i problemi che devono affrontare sono immensi, e i rischi di isolamento e di arretramento per la Chiesa sono reali. Ma non è questa la strada per affrontarli. Ce ne sono altre? Se c'è una cosa che mi addolora è la sensazione che Ruini non abbia più stima nei laici credenti. Come se ci ritenesse tutti incapaci di ricavare norme di comportamento personali e opzioni politiche positive dai principi indicati dalla Chiesa. Noto con dispiacere che vescovi e cardinali si fidano, lusingandoli, molto più dei cosiddetti “atei devoti”, i Ferrara, le Fallaci, che dello spirito e della mente dei credenti. L’unica speranza è che il laicato cattolico ricordi di possedere un mandato, lo rivendichi e lo eserciti. 9 202 - RELATIVISMO, FONDAMENTALISMO E INTEGRISMO - DI UMBERTO ECO da: L’Epresso del 15 luglio 2005 Sarà non tanto colpa della rozzezza dei media ma del fatto che la gente parla ormai pensando solo a come i media ne riferiranno, ma certo si ha l'impressione che ormai certi dibattiti (persino tra persone presumibilmente non digiune di filosofia) avvengano a colpi di clava, senza finezza, usando termini delicati come se fossero sassi. Un esempio tipico è il dibattito che oppone, in Italia. da un Iato i cosiddetti "teocons”, che accusano il pensiero laico di “relativismo", e dall'altro alcuni rappresentanti del pensiero laico che parlano, a proposito dei loro avversari, di "fondamentalismo" . Che cosa vuole dire "relativismo" in filosofia? Che le nostre rappresentazioni del mondo non ne esauriscono la complessità, ma ne sono sempre visioni prospettiche, ciascuna delle quali contiene un germe di verità? Ci sono stati e ci sono filosofi cristiani che hanno sostenuto questa tesi. Che queste rappresentazioni non vanno giudicate in termini di verità ma in termini di rispondenza a esigenze storico culturali? Lo sostiene, nella sua versione del "pragmatismo", un filosofo come Rorty. Che ciò che conosciamo è relativo al modo in cui il soggetto lo conosce? Siamo al vecchio e caro kantismo. Che ogni proposizione è vera solo all'interno di un dato paradigma? Si chiama "olismo". Che i valori etici sono relativi alle culture? Si era iniziato a scoprirlo nel Seicento. Che non ci sono fatti ma solo interpretazioni? Lo diceva Nietzsche. Si pensa all'idea che se non c'è Dio tutto è permesso? Nichilismo dostoevskiano. Si pensa alla teoria della relatività? Non scherziamo. Insomma sembra che il termine "relativismo" possa essere riferito a forme di pensiero moderno sovente in reciproco contrasto e si dice "relativismo" con la foga polemica con cui i gesuiti ottocenteschi parlavano di "veleno kantiano". Ma se tutto questo è relativismo, allora solo due filosofie sfuggono a questa accusa, e sono un neotomismo radicale e la teoria della conoscenza nel Lenin di "Materialismo ed empiriocriticismo". Strana alleanza. Quanto al fondamentalismo, esso è un principio ermeneutico, legato all'interpretazione di un Libro Sacro. Ci sono forme di fondamentalismo in tutte e tre le religioni monoteistiche del Libro, ma il fondamentalismo cristiano nasce negli ambienti protestanti ed è caratterizzato dalla decisione d'interpretare letteralmente le Scritture; da cui tutti i dibattiti ancora attuali sul darwinismo, rifiutato perché non racconta la stessa storia del Genesi. Però, affinché ci sia interpretazione letterale delle Scritture, occorre che le Scritture possano essere liberamente interpretate dal credente, e questo è tipico del protestantesimo. Non ci può essere fondamentalismo cattolico - e su questo si è combattuta la battaglia tra Riforma e Contro riforma - perché per i cattolici l'interpretazione delle scritture è mediata dalla Chiesa. Già presso i padri della Chiesa c'erano stati i dibattiti tra i partigiani della lettera e i sostenitori di un'ermeneutica più soffice, come quella di Sant' Agostino, il quale era pronto ad ammettere che la Bibbia parlava spesso per metafore e allegorie, e quindi gli andava benissimo che i sette giorni della creazione fossero stati anche sette millenni. E la Chiesa ha accettato questa posizione. Infatti la teologia cattolica non si è mai troppo scandalizzata per le teorie evoluzionistiche, purché si ammettesse che nella scala evolutiva si fosse verificato un salto qualitativo, quando Dio ha immesso in un organismo vivente un'anima razionale immortale. Quale è allora l'atteggiamento cattolico che oggi viene bollato come fondamentalismo? Non è fondamentalista il dibattito sugli embrioni e sulle origini della vita, perché caso mai la Bibbia, sino al momento in cui Dio insuffla l'anima in Adamo, ci parla di fango, pura materia non spirituale. Si è già scritto che la decisione di intraprendere una battaglia antedatando le origini dell'anima immortale è un fatto nuovo nella storia della teologia cattolica (salvo il caso di Tertulliano), che sembra motivato da altre preoccupazioni, come quella dell'aborto, questo sì criticabile in termini di una interpretazione delle Scritture. Quello che viene bollato come fondament3lismo è invece e piuttosto un classico atteggiamento (o tentazione perenne) del pensiero religioso (non solo cristiano ma anche 10 per esempio islamico) che è l'integrismo (o integralismo), e cioè la pretesa che i principi religiosi debbano diventare al tempo stesso modello di vita politica e fonte delle leggi dello stato. Il cardinal Biffi è un integrista, come Buttiglione e altri, non un fondamentalista. Bush e la sua gente sono dei fondamentalisti protestanti (tradizione antica) che stanno cedendo alla tentazione cattolica e alla pratica islamica (nuove per la democrazia anglosassone) dell'integrismo. Si dirà che è solo questione di parole. No, è questione di sottilissimi dibattiti filosofici, teologici e politici che non guadagnano nulla, né da una parte né dall'altra, a essere ridotti a una sassaiola di parole feticcio. 203 - LA SCIENZA LA CHIESA E LA TENTAZIONE DELL´ASSOLUTO - DI G. AMATO da: la Repubblica del 19.7.2005 - Le Idee Con le firme di Piero Coda, Roberto Festa e Paolo Zellini, Repubblica ha pubblicato venerdì scorso un "Diario" sui rapporti fra scienza e religione. Un dossier equilibrato, all'insegna del dialogo e della consapevolezza delle ragioni che stanno da entrambe le parti e soprattutto dei rischi a cui si va incontro se questa consapevolezza, dall´una o dall'altra parte, viene meno. Dall'una o dall'altra parte: questa è la chiave che mi interessa di più del discorso così avviato. In esso non si segnalano soltanto il dogmatismo e l'irrazionalità latenti, sempre pronti a prendersi la rivincita contro la ragione, o comunque a fermarne i progressi. Una attenzione non minore si rivolge alla "fragilità e pericolosità della scienza", la quale si affida ai suoi strumenti e alla razionalità del suo calcolo e non sempre si chiede a che cosa con esso può approdare, dove porta, quali paure suscita. Trovo qui problemi che da tempo sento dentro di me. E ne ricavo il coraggio di formulare apertamente le domande che mi pongo, non sempre accompagnate dalle risposte, che in larga parte non ho. La prima domanda, e la più cruciale, è per me se si è o no d'accordo con Hans Jonas, quando distingue fra scienza, volta esclusivamente a conoscere la realtà che ci circonda e di cui noi stessi siamo fatti, e quella che lui chiama non scienza, ma tecnica, volta invece a introdurre mutamenti nella realtà, applicando le conoscenze via via acquisite. È vero che lo stimolo a conoscere è spesso determinato dal fine di cambiare, e che quindi l´homo sapiens lavora in genere in funzione dell'homo faber, eppure le due cose – dice Jonas – sono distinte. E la distinzione è importante proprio ai fini delle responsabilità che si evocano e dei rapporti che possono esserci con l'etica e con la stessa religione. All´homo sapiens che in base ad un uso corretto dei suoi canoni ha raggiunto un risultato conoscitivo nuovo, non si può dire che quel risultato è contrario all'etica o alla fede. Se Galileo dimostra che è la Terra a girare intorno al Sole, nessuno può condannarlo per questo, né dire che ha fatto un uso irresponsabile della libertà della scienza, mettendosi in urto con un principio della religione. Vale lo stesso per l´homo faber, che, avvalendosi dei risultati conoscitivi, li utilizza per modificare la realtà? Ha gli stessi sconfinati confini qui la libertà della scienza? O qui parliamo di qualcos'altro, che mette in gioco una responsabilità verso valori, limiti, fini, che anche altri ha il diritto di far valere? Gli scienziati che hanno scoperto i processi di composizione e di scomposizione dell´atomo e che li applicano alla costruzione di un ordigno di cui ignorano i possibili effetti (ma già - supponiamo - sospettano che possano essere devastanti) sono assistiti dalla incensurabile libertà della scienza se vanno comunque avanti, lasciando alla politica la responsabilità di fare uso o meno della loro invenzione? Possono dire che la loro unica responsabilità è quella di far progredire la scienza e a questa responsabilità essi comunque hanno assolto perché, in termini scientifici, mai si era ottenuto prima un risultato del genere, e quindi quell’ordigno è indubitabilmente un progresso? Oppure l'ordigno va misurato su un metro diverso e più complesso, di cui loro per primi sono responsabili e a fronte del quale esso non è affatto un 11 progresso? E qual è questo metro: il bene dell'umanità, la salvaguardia della vita umana, della vita sul pianeta, degli equilibri ecologici dello stesso pianeta? C'è inoltre, su un piano prima ancora morale che legale, un principio di precauzione, secondo il quale è bene fermarsi prima di attivare processi di cui non si sa se potranno danneggiare l´uno o l´altro di questi beni? E non valgono a maggior ragione queste stesse domande, quando l'uso della scoperta applicativa non è rimesso ad altri, ma è effettuato dai suoi stessi autori (o comunque da soggetti che appartengono alla medesima categoria), come accade in tutto ciò che ha a che fare con le biotecnologie e l'ingegneria genetica applicate alla vita umana? È qui che la religione si è dimostrata da ultimo più sensibile e preoccupata, richiamando a una intangibilità della vita da parte dell'uomo, che può raggelare scoperte e conseguenti processi applicativi ai quali la scienza annette risultati positivi importanti. Ma c´è una responsabilità degli stessi scienziati nel definire e nel far valere i limiti di tali tecnologie? Qui siamo lontani dall'ordigno. Al contrario, siamo nella sfera del principio con il quale da millenni si giustificano gli interventi modificativi della realtà naturale: la tutela stessa della vita con l'eliminazione del male che la può mettere a repentaglio, o che la assoggetta a patologie dolorose o deformanti. Per di più, le esperienze tragiche vissute nel secolo scorso ci hanno portato a distinguere con tutta nettezza fra l'intervento a fini sanitari e quello che si avvale di cavie umane in modi e per fini del tutto disinteressati alla loro salute. Eppure, a giudicare dalla reazione della Chiesa di fronte alle manipolazioni e agli interventi sulla fase iniziale della nostra vita, sembrerebbe che così non sia, o quanto meno che il confine fra le manipolazioni a fin di bene e quelle a fin di male non sia così chiaro, come potevamo pensare. Sbaglia la Chiesa, come sbagliò con Galileo, o è la scienza (in questo caso - direbbe Jonas - la tecnica) che si sta sottraendo alle sue responsabilità? Non sono certo di avere la risposta a questa domanda, ma dall'insieme delle domande precedenti emerge, quanto meno, che essa ha un fondamento. Alle domande precedenti mi sento infatti di rispondere che la libertà della scienza non incontra confini in tutto ciò che riguarda i processi conoscitivi ai quali la scienza lavora e nei quali l'etica a cui essa risponde è solo quella di condurli senza farsi condizionare da interessi diversi da quelli propri della conoscenza (gli interessi del committente, o quelli di un'ideologia o di una verità pre-costituita di cui si voglia dimostrare l'esattezza, non sono fra questi). Per converso, la libertà della scienza che applica la conoscenza a processi o ad atti modificativi della realtà, non coincide con quella riguardante la stessa conoscenza (il che non sempre è chiaro a chi la esercita) ed è invece segnata da una diversa responsabilità che si misura su un metro latamente morale, che mette in gioco il giusto e l'ingiusto, il bene e il male. Ho letto e sentito talvolta che questo è un metro che riguarda non lo scienziato, ma altri. Non è così. Chiunque noi siamo e qualunque attività svolgiamo, quando facciamo scelte produttive di effetti su altri, ricadiamo con esse sotto un giudizio morale. So che a partire da qui si apre una discussione nella quale non sono in grado di addentrarmi, la discussione che prima evocavo sul metro di un tale giudizio. Tutti noi siamo in grado di dire che la produzione di un ordigno di cui si sappia che può distruggere l'umanità è moralmente condannabile ed evoca una responsabilità difficilmente contestabile. Ma quando si entra nel campo delle tecniche di intervento sulla vita umana le cose sono assai meno semplici, e lo dimostra l'ammonimento che ci viene dai filosofi, quando ci dicono che il concetto stesso di vita è impossibile da comprendere al di fuori di schemi culturali di natura addirittura metafisica (lo scriveva Sebastiano Maffettone, nel suo libro Il valore della vita del 1998). E tuttavia posso azzardare almeno un'ipotesi e quindi un invito. L'ipotesi è che la particolare rigidità con cui la Chiesa ha reagito in questi anni alle biotecnologie applicate alla fase nascente della vita umana possa anche essere dovuta alla percezione di una corsa della scienza (applicata), pronta a sperimentare tutto ciò che risultasse funzionalmente fattibile, senza la necessaria attenzione ai limiti, non funzionali, ma morali del fattibile (quante volte mi sono sentito dire: «Ma questo è inutile che la legge ce lo proibisca. Noi non lo facciamo perché non funziona»). L'invito è alla scienza applicata 12 perché da essa per prima venga la smentita di questa percezione attraverso una chiara assunzione di responsabilità e quindi una doverosa ricerca del confine fra il bene e il male, avvertito e vissuto come confine non imposto, ma proprio. Il dialogo, possibile e auspicabile, parte da qui. «Se io non impongo assoluti, tu non mettere in campo assoluti», ha detto il cardinale Scola, aprendogli meritoriamente la porta. Ma questa sua regola è esattamente come lui l'ha enunciata. Non vale solo per lui, vale per tutti. 204 - ABORTO E DROGA, DUE "NO" MOLTO DIVERSI – DI CORRADO AUGIAS Dalla rubrica “Lettere”, su la Repubblica del 22.7.2005, riportiamo un articolo del nostro socio onorario, Corrado Augias, sulla questione dell’aborto. Caro Augias, lei teme il pericolo di mammane e ferri da calza qualora la legge 194 sull'aborto dovesse essere modificata. L'argomento non mi convince. Se si ritenesse l'aborto un reato, gli interventi clandestini non sarebbero argomento sufficiente a legalizzarlo. Faccio un esempio: supponiamo che circoli una droga che altera il comportamento delle persone rendendole pericolose a sé e agli altri. Ovviamente verrà promulgata una legge che la vieta. Supponiamo inoltre che per usare questa droga sia necessario un piccolo intervento chirurgico. Ci saranno le persone abbienti che potranno permettersi una clinica pagando. E ci saranno i poveri che dovranno affidarsi a praticoni e mestieranti con grave rischio per la salute. Il rischio è un argomento per autorizzare l'uso di questa droga? La risposta è no. lo penso che gli aborti clandestini, le mammane e tutto il resto non siano argomenti sufficienti a rendere legale l'interruzione della gravidanza. Il vero quesito è: un feto è un essere umano o no? Se la risposta è no l'aborto è lecito, se è sì – e quindi di omicidio si tratta - tutte le mammane del mondo non giustificano l'interruzione della gravidanza. lo sono antiabortista, ma siccome la scienza non dà risposte certe, ritengo corretto che il legislatore si sia espresso in maniera opposta. Mi piacerebbe che tutti si prendessero le proprie responsabilità e affrontassero i problemi in maniera diretta e razionale: la 194/78 è un capolavoro di ipocrisia e di eufemismi. Valerio Rinaldi [email protected] Risponde Augias Vedo con preoccupazione che l'offensiva contro la legge 194 che autorizza in alcuni casi l'aborto continua e si riaffaccia l'argomento principe già utilizzato per la legge sulla procreazione assistita: il feto, anzi l'embrione, è un essere umano completo fin dal momento in cui lo spermatozoo penetra la membrana dell'ovulo, ergo ogni aborto è un omicidio. Edoardo Boncinelli intervenendo sul 'Corriere della Sera' qualche settimana fa, argomentava: «La domanda su quando un embrione diventa persona e gode dei diritti spettanti a una persona...esula dalla.biologia e dalla scienza in generale». Si tratta cioè di un argomento non scientifico ma di fede e con la fede si legifera solo nei paesi dove asseriti principi divini e leggi dello Stato sono un tutt'uno. Prima di parlare di omicidio bisognerebbe essere un po' più cauti. L'argomento è suggestivo ma da un punto di vista razionale infondato, come minimo discutibile. Ricordo ancora con orrore che anni fa uno dei grandi scienziati italiani, Adriano Buzzati Traverso, venne accusato di nazismo dall'organo vaticano, per avere osato parlare di limitazione delle nascite e sostenuto l'opportunità della pillola; i ricercatori della London School of Economics, coordinati dall'italiana Silvia Pezzini, hanno ora accertato che proprio la pillola è stata il principale fattore di libertà per le donne. L'esempio della droga fatto dal signor Rinaldi non sta in piedi. Non si può paragonare un consumo voluttuario, pericoloso, costoso, nocivo come quello della droga, con una facoltà (una possibilità) che scaturisce spesso da esigenze drammatiche dove sono in gioco la 13 salute di un essere umano contro un progetto di vita ancora in fieri. La battaglia si annuncia dura, gli argomenti non sempre limpidi. 205 - LAICITA’ E BIOETICA, LE NUOVE FRONTIERE DELL’UNIONE - DI A. PARISI Da: l’Unità del 24 luglio 2005 A proposito di laicità e bioetica e più in generale dei temi sensibili, condivido la necessità di inserire nel nostro progetto il riconoscimento dell'apertura per l'azione politica e l'attività di governo di nuove frontiere prima non adeguatamente esplorate. Tra esse si impone come tema non eludibile quello della bioetica, il tema della vita e della morte che già individuammo ma purtroppo non governammo adeguatamente nei programmi del 1996 e del 2001. Questi temi chiamano in causa il rapporto tra politica e religione, e debbono essere distinti da quelli che riguardano il rapporto tra stato e chiesa che abbiamo ereditato dal passato (penso all'8 per mille o al finanziamento della scuola privata cattolica, che mi è capitato di vedere confusi nello stesso elenco che comprendeva la fecondazione assistita). La soluzione di questi problemi, non può essere più rinviata alla semplice libertà di coscienza dei singoli parlamentari immaginando di sollevarci in questo modo della nostra responsabilità comune. Consapevoli della novità dei problemi e della nostra comune responsabilità politica credo che dobbiamo fondare la ricerca delle soluzioni in un ascolto reciproco e in un dialogo riconoscendo la fecondità del dubbio, dei dubbi che attraversano ognuno di noi, ma anche che questo ascolto e questo dialogo sono però finora mancati. Se tuttavia è vero che in questa ricerca il criterio il valore della libertà di coscienza si sono dimostrati insufficienti dobbiamo riconoscere che essa costituisce comunque il presupposto e la condizione irrinunciabile dell'esercizio di una responsabilità comune. Se in questi anni abbiamo fallito non è perché ci siamo fatti limitare dalla libertà di coscienza individuale, ma perché non abbiamo favorito tra noi regole, iniziative e un clima che questa libertà mettessero pienamente a frutto. Se in occasione della approvazione e del successivo referendum abrogativo della legge sulla procreazione assistita dentro la coalizione e dentro i singoli partiti, tutti i partiti, fossimo riusciti ad assicurare la libertà di coscienza, l'ascolto e il dialogo che ci eravamo impegnati a riconoscere ci troveremmo oggi di fronte ad una situazione ben diversa. Quindi pur riconoscendo che la libertà di coscienza non è sufficiente dobbiamo ribadire che essa continua ad essere comunque necessaria, direi più che mai necessaria. L'assunzione da parte della politica del nuovo modo di porsi del tema della vita e della morte ci impone una riaffermazione del valore della laicità. La laicità dello stato e delle istituzioni è per noi un valore condiviso al servizio di una società che non solo sappiamo non laicizzata ma che non vogliamo laicizzata perché riconosciamo il valore del confronto tra e con le fedi che al suo interno alimentano la convivenza comune. Perché questa è la novità che definisce la nostra identità. Mentre in passato la laicità dello stato era pensata come uno strumento per la laicizzazione della società, oggi la laicità dello stato è non solo rispettosa di una società che sappiamo non laicizzata, ma è garanzia del pieno dispiegarsi della libertà di fede e di religione. Accanto ai nuovi oggetti ad interpellare la nostra laicità sono infatti i nuovi soggetti, i nuovi cittadini che testimoniano nel nostro paese nuove fedi e confessano nuove religioni. È pensando ad essi che siamo chiamati a difendere la natura laica dello stato, come patria costituzionale, una patria fondata su un progetto ed un patto costituzionale e non invece come comunità di tradizioni e di sangue. (Arturo Parisi è Presidente dell'Assemblea Federale della Margherita) 14 206 - RIPENSARE LA LAICITA’ - DI VANNINO CHITI da: l’Unità del 20 luglio 2005 L’intervista del Patriarca di Venezia cardinale Scola sui temi della laicità, pubblicata dal Corriere della Sera, è di grande importanza. Sono, lo dico subito, da condividere l'impianto generale, la volontà di dialogo, I'apertura ad un confronto con tutti, con chi non è cristiano ed anche con quanti non condividono una fede religiosa. Dopo il referendum sulla fecondazione assistita alcuni, anche all'interno delle gerarchie ecclesiastiche, hanno dato l'impressione di una voglia di resuscitare antichi steccati. Il cardinale Scola mostra di non volerli e ne distrugge i fondamenti stessi di utilità e ragionevolezza. E’ positivo perché bisogna impedire artificiose e arcaiche separazioni tra cattolici e non cattolici, tra credenti-laici e laici-laici. AI centro dell'intervista del cardinale Scola viene posto il tema della laicità, la necessità di un suo ripensamento e rinnovamento. Sono persuaso che su questo occorra ragionare, insieme. Ho già avuto occasione di dire che la laicità è un principio cardine fondamentale per l'organizzazione della società, della politica, dello Stato: un valore della democrazia, non del solo Occidente, da estendere come uno dei criteri sulla base dei quali si è in grado di valutare il grado di libertà, di pluralismo, di tutela dei diritti umani esistenti nelle diverse società. Anche per me la laicità va ripensata per poterla non solo mantenere ma rafforzare. Il pensiero e l'esperienza liberale ci hanno consegnato una laicità fondata su due pilastri: l'autonomia tra Stato e Chiese, la loro diversità di responsabilità e competenze; il configurarsi della fede religiosa come di un fatto privato affidato alla scelta e all'autodeterminazione delle coscienze. Questo secondo pilastro non regge più: è stato superato dal concreto svolgersi delle vicende storiche. Il fenomeno religioso non solo non è scomparso: è presente come esperienza pubblica, collettiva, non segregata nel riserbo dei cuori. Questo pilastro deve perciò essere rivisto, modificato. La laicità deve saper prevedere ed organizzare l'esistenza di uno spazio pubblico, al cui interno si muovano in modo visibile le Chiese cristiane, le altre religioni, le culture estranee ad esse. La nostra iniziativa deve contribuire a questo esito. La nostra critica piuttosto deve rivolgersi a quelle tendenze ancora presenti in religioni - in primo luogo quella musulmana - che occupano interamente la dimensione pubblica, rendendo subalterni lo Stato e la politica. Su questi temi troppo a lungo si è stati incerti: giustamente sensibili a cogliere orientamenti in grado di ferire la laicità qui in Europa, si è spesso disponibili a non vedere l'oppressione del pluralismo e dell'autonomia della politica in tante aree del mondo. La laicità non può essere il luogo dell'indistinto, una specie di equilibrio dato dall'assenza di valori condivisi. Né può essere visto come una invasione di campo ogni intervento pubblico della Chiesa cattolica o delle altre confessioni religiose, in merito a leggi dello Stato o a decisioni su scelte che riguardano la vita dei cittadini. Non rimpiango il tempo nel quale la Chiesa cattolica aveva in Italia un partito politico di riferimento e chiedeva ai credenti di sostenerlo con il loro voto. Condivido l'impostazione alla quale si richiama anche il cardinale Scola: questo tempo storico non ha bisogno di un partito di cattolici. E dunque importante impegnarsi in un confronto di ampio respiro per costruire un nuovo «minimo comune denominatore» di valori a fondamento della laicità. Fin qui l'apprezzamento per le posizioni di grande apertura culturale, che muovono l'intervento del Patriarca di Venezia. Vi sono però anche necessarie puntualizzazioni da mettere in evidenza. Lo schema, proposto dal cardinale Scola - adesione alla laicità ed alla democrazia, confronto serio sulle scelte, in caso di divergenza decisione da parte dei cittadini con il loro voto - funziona a condizione che non si pretenda di dirimere cosi l'esistenza di diverse concezioni di vita, imponendone una, quella sorretta da una maggioranza di consensi, a tutta la società. Vi sono insopprimibili diritti delle minoranze, in alcun modo affidabili al semplice principio di 15 maggioranza, altrimenti la società cessa di essere democratica e pluralista e diventa autoritaria. Ciò vale anche per taluni principi di fede: legittimo anzi irrinunciabile che gli spazi di libertà garantiscano il loro sostegno e diffusione. Negativo se si volesse tornare ad affermarli con il braccio della legge: in un tale quadro lo Stato cesserebbe di essere democratico e si trasformerebbe in etico e totalitario. Non ho riserve sul fatto che la libertà, come dice il cardinale Scola, non presupponga per essere tale una adesione assoluta al «vietato.vietare». La libertà di distruggere, di autodistruggersi, di opprimere, di uccidere, non esiste: ne è anzi la negazione. AI tempo stesso non è «vietato vietare» che un convincimento di fede, proprio di una visione religiosa del mondo, divenga con il cinquanta più uno dei voti dei cittadini - o addirittura meno, con la semplice maggioranza di chi partecipa alle elezioni - dovere di comportamento imposto a ciascuno. Prendiamo il caso dei Pacs, sui quali si sofferma anche il cardinale Scola, con alcune aperture nuove sulle problematiche - così mi sembra - ma al tempo stesso con un rifiuto della proposta complessiva. Sono persuaso anche io che una legge non risulti solo dei dispositivi tecnici. Esprime al tempo stesso modelli di comportamento, una funzione in qualche modo educativa. I Pacs tuttavia non mettono sullo stesso piano diverse forme di matrimonio, quella prevista nella nostra Costituzione ed altre che riguardano coppie omosessuali. No, i Pacs si limitano a definire garanzie reciproche di solidarietà e di rapporto tra cittadini che abbiano deciso un contratto di convivenza. Proprio perché non si compiono operazioni di tipo valoriale o di equiparazione giuridica, a me sembrano una giusta risposta a concrete situazioni di vita. E’ possibile, per riempire di contenuti reali parole come confronto, andare a valutazioni di merito delle scelte proposte, senza arrendersi alla suggestione delle terminologie, alle distanze che impediscono di comunicare? Mi auguro sia possibile. Anzi l'intervento del cardinale Scola contribuisce a renderlo possibile. lo almeno l'ho letto così, come un contributo per individuare nuove vie, da costruire con pazienza e rispetto, da percorrere insieme. (Vannino Chiti è Coordinatore delle politiche istituzionali D.S.) 207 - QUELL´ITALIA MASCHIA CHE IL VESCOVO RIMPIANGE - DI F. MERLO da: la Repubblica del 22 luglio 2005 Odora di caprone maschio l'estate italiana, di quella "virilità" che il vescovo di Pistoia, come ha raccontato ieri su "Repubblica" Marco Politi, ha addirittura proposto come modello civile e come valore assoluto in una lunga e sdegnata lettera al consiglio comunale della sua città. Lo stesso afrore emana dai tre onorevoli maschi di Alleanza nazionale La Russa, Gasparri e Matteoli. Che in un bar di Roma, con una bella signora tenuta sullo sfondo, hanno appunto sfogato la loro arcaica e cameratesca virilità irridendo e delegittimando, non senza invidia, il loro capo Gianfranco Fini perché sarebbe «malato» di sesso, consumato d'amore, come lo fu Cesare tra le gambe di Cleopatra. Ed è in fondo, e sia pure per via indiretta, la stessa puzza di virilità che ci arriva dagli stupratori in serie, stranieri e italiani, che stanno selvaggiamente segnando le cronache di questa nostra stagione: al Sud, al Centro e al Nord d'Italia. Simone Scatizzi, classe 1932, è monsignore dal 1977, vescovo a Pistoia da ben 24 anni. Da sempre dunque ha consacrato a Dio la propria virilità, se ne è liberato, vi ha rinunziato, immaginiamo con una fatica e con un dolore ripagati dalla fede. Monsignore Scatizzi vorrebbe tuttavia che la virilità venisse restaurata e praticata dagli altri. Lamenta infatti «la femminilizzazione della società», denuncia «un'educazione purtroppo ormai in gran parte nelle mani femminili». Persino l´uso della droga e l'abuso dell'alcol, secondo questo battagliero vescovo, derivano da un allentamento dei freni inibitori del maschio, dalla perdita dell'identità maschile, dal declino fisico e culturale dell'universo maschiocentrico. 16 Anche monsignore rilancia dunque l'odore del maschio, che fu il mito arcaico della peggiore Italia, quella dell'onore e del disonore, un mito al quale noi meridionali abbiamo fornito intelletto e cultura. Ma il vescovo si spinge ancora più lontano e propone un modello di società maschile da Arabia Saudita, dove più conseguentemente e più seriamente di lui, le autorità religiose, libri sacri alla mano, vietano alle donne anche la guida dell'auto. E mettono i gay in prigione. Ma, come dicevamo, l´'dore del maschio italiano in questa estate è ubiquitario. Nel partito meno femminile d'Italia, quei tre maschi al bar hanno ferito il padre, hanno azzannato il capobranco, che è vicepremier e ministro degli Esteri, non solo dandogli del tremebondo, come ha raccontato un cronista del quotidiano "Il Tempo" armato di registratore, ma solfeggiando e danzando attorno al totem della virilità. Ci hanno raccontato i colleghi del "Tempo" che la parte più rivoltante e animalesca della registrazione di quel turpiloquio è stata censurata dalla direzione del giornale per motivi di decenza, trattando esplicitamente e dettagliatamente di una intensa, presunta passione fisica del capo. Ebbene, quei tre maschi al bar che irridevano licenziosamente sono gli stessi che piacciono al monsignore di Pistoia e, alla fine, anche a quel partito della psicologia coatta nel quale militano gli stupratori che sono diventati gli odiosi protagonisti non solo della cronaca nera, ma anche del dibattito politico. I leghisti, guidati dal ministro Calderoli, li vorrebbero castrare, ma solo quando sono stranieri. Qualcun altro li vorrebbe invece simbolicamente mandare a sostituire le insegnanti donne che, secondo il vescovo, «difettano di virilità» e dunque «confondono i generi», con danno irreversibile alla psiche dei futuri uomini, femminilizzati o gay. Eppure, sino a qualche anno fa, sarebbe stato impensabile immaginare rigurgiti di questo genere. Ci pareva infatti che le elucubrazioni sulla virilità fossero rimaste sepolte in quel feroce passato del nostro sud, dove la virilità era valore ma solo perché non c'era spazio per coltivare altri valori di civiltà, come la cortesia, la dolcezza, la cultura, il pudore, la fragilità, insomma quella gentilezza dei costumi maschili che è la femminilità. Tuttavia dobbiamo essere grati al vescovo di Pistoia che ha indirizzato spropositi, luoghi comuni e banalità arcaiche al consiglio comunale della sua città. Solo in superficie la sua lettera ha per scopo la condanna dell'istituzione dei registri civili comunali per le unioni di fatto, anche tra partner gay. In realtà l'ambizione è quella di rifondare tutta l'etica quotidiana in nome di una restaurazione del catechismo. Monsignor Scatizzi cerca infatti di dar forma di sistema morale a tutto l'imprendibile del nostro tempo. Viene fuori allo scoperto la sua intolleranza verso una cristianità e un gregge che sono fatti di mille minoranze non previste dal vecchio codice tradizionalista. Manifesta con chiarezza l'incapacità di capire e di affrontare quelle macchine di desideri che sono i giovani di oggi. È il suo disorientamento che lo spinge a straparlare con presunzione scientifica di un Dna eterosessuale predeterminato dalla natura oltre che da Dio. Abbiamo il sospetto che questo trattatello di filosofia pistoiese sia figlio della "nuova" chiesa di Ruini e del Papa tedesco, e davvero ci domandiamo se questa chiesa riuscirà a riformare la cristianità o se sarà invece la cristianità a svegliare questa chiesa così ingessata, a restituire alla nostra simpatia tutta la sua ricchezza morale e culturale. Monsignore non denunzia infatti il peccato, come fece ingenuamente Rocco Buttiglione davanti al Parlamento europeo, ma la caratura civile e politica dei gay, intesi come femminilizzazione del maschio, come deriva nichilista, come perdita della virilità. Alla fine, spingendosi sino a paragonare gli omosessuali ai pedofili, ai mafiosi e ai terroristi, il vescovo dà l'impressione di essere non fuori dal mondo, ma contro il mondo, ricostruito e rappresentato a partire dai propri pregiudizi. È infatti legittimo che il monda possa non piacergli, ma prima dovrebbe conoscerlo. Ebbene, caro monsignore, ci sono a questo mondo gay virili e persino donne che amano i gay virili, i duri con le movenze femminili. E ci sono anche femmine virili, dove la virilità è una risorsa psicologica e morale, come ci sono maschi virili dove la virilità è invece un disvalore. Credere che la virilità sia il sesso è tipico dello stupratore. Perché, e monsignore 17 non lo sa, il sesso è un gioco complesso dove sicuramente non c'è spazio per la virilità, ma per la mascolinità e la femminilità. Se al monsignore hanno detto un'altra cosa, visto che conosce l'amore sessuale per sentito dire, allora l'hanno imbrogliato. E quella sua lettera ai consiglieri comunali di Pistoia non è, come lui dice, sfogo e ansia civile di un cittadino come gli altri, ma la confessione e il lamento di un imbrogliato, di un raggirato nel mercato della vita. Caro monsignor Scatizzi, ci creda, non è dell'afrore del maschio che abbiamo bisogno. Dicono che dopo le lucciole stiano scomparendo anche le farfalle. In compenso, ci stiamo ripopolando di caproni. 208– MORALE - DI EUGENIO SCALFARI Da: la Repubblica dell’8 luglio 2005 - La guerra dei mondi: il terrorismo è viltà. “Intanto bisogna interrogarsi sul perché le grandi religioni monoteiste siano occasione di guerra. È un tema estremamente delicato, ma le religioni che mettono l'accento su verità assolute, perché rivelate, contengono in sé un principio di intransigenza. Si sentono depositarie di una verità assoluta da insegnare agli altri per la salvezza dell'anima. lo non credo nella verità. Esiste solo quella di ciascuno, utile a dare un senso precario alla nostra esistenza. Ma mentre mi do un senso per sopravvivere, devo sapere che quel senso non c'è...” Commento: Al termine di una intervista sulla strage terroristica alla metropolitana di Londra e sulle motivazioni che ne sono alla base, Eugenio Scalfari ha tratto questa morale, valida non solo per gli atti di terrorismo ma anche per l’aborto, il divorzio, la fecondazione assistita, il controllo delle nascite, il testamento biologico, l’eutanasia, i crocefissi negli uffici pubblici, l’insegnamento della religione, il riposo domenicale, e così via. Inevitabilmente, chi nella società si comporta in base a verità rivelate diviene intransigente e pretende di imporre agli altri le sue convinzioni, anche se gli altri non credono nelle stesse verità. Così molti credenti si comportano come “integralisti” e si ritengono nel giusto, dimenticando che la base della convivenza civile è la laicità della politica e delle istituzioni. La laicità è il vero valore della democrazia e della cultura “occidentale”. Per difendersi dal terrorismo e dalle guerre di religione non è sufficiente schierarsi per la pace nel mondo: occorre innanzi tutto comprendere le ragioni degli altri e perché nascono i conflitti. Senza trasformarci in nuovi crociati....(gps). 209 – SI’ DELLA COMMISSIONE SANITA’ SENATO AL TESTAMENTO BIOLOGICO Comunicato emesso da LiberaUscita sabato 16 luglio 2005 h. 01.55.33 Leggiamo su "Libero" del 15 luglio un'intervista ad Antonio Tomassini, Presidente della 12° Commissione Igiene e Sanità del Senato, sul tema del testamento biologico. Tomassini informa che la Commissione ha approvato in sede referente, con modifiche, il disegno di legge 2943 da lui presentato in materia di dichiarazioni anticipate di trattamento sanitario (testamento biologico). Nel riportare in allegato le dichiarazioni rilasciate da Tomassini, il testo del suo ddl ed il resoconto sommario della seduta del 13 luglio con le modifiche apportate al ddl stesso, non possiamo fare a meno di notare che: - Tomassini ritiene che la legge sul testamento biologico - che "nega assolutamente ogni apertura all'eutanasia" - rappresenti un "punto di equilibrio" valido anche per l'eutanasia. Secondo Tomassini, quindi, non si parlerà più dell’eutanasia; - Tomassini ha dichiarato che chi sostiene la legalizzazione dell'eutanasia insegue il mito "dell'eterna vita", mentre è vero esattamente il contrario; - Tomassini ritiene che l'alimentazione e l'idratazione forzata siano usi "compassionevoli" che non si negano neppure agli animali e alle piante. Di conseguenza, non costituendo "terapia sanitaria", secondo Tomassini non possono essere sospesi. Sembra però che si possa evitare l'intubazione se è rifiutata per iscritto ed in precedenza, mentre non sarebbe 18 possibile sospenderla una volta attivata su decisione medica in mancanza di direttive anticipate. Nonostante ciò, il sen. Pedrizzi di AN, noto integralista religioso che si è battuto allo stremo per l'astensione ai referendum sulla fecondazione assistita, ritiene che la legge "nella migliore delle ipotesi sarebbe inutile e nella peggiore sarebbe un passe-partout per la legalizzazione del suicidio assistito e dell'eutanasia". Evidentemente la sconfitta nel referendum ha dato l'impressione ai clericali ed ai teo-con che i laici siano ormai evirati e incapaci di ogni reazione, per cui è il momento opportuno per vendicarsi di vecchi torti quali l'aborto e il divorzio. LiberaUscita è convinta invece che di fronte a simili pretese la coscienza laica degli italiani saprà ritrovarsi e risvegliarsi. Seguiremo gli sviluppi della situazione e segnaleremo eventuali comportamenti politici contrari ai principi della laicità e della pietà. Fortunatamente, le elezioni sono vicine. 210 - LA SANA DEMOCRAZIA - DI LUCIANO ZANNOTTI Estratto dal libro: La sana democrazia, verità della Chiesa e principi dello Stato - di Luciano Zannotti - ed. G. Giappichelli, Torino - maggio 2005 - €. 25. La democrazia è flessibilità, compromesso, con-sapevolezza di poter raggiungere solo punti d’equilibrio incerti, aggiustamenti precari, accomodamenti provvisori. La democrazia non ammette decisioni ir-revocabili; consapevolmente rinuncia all’onnipotenza e alla perfezione, perché l’idea di perfezione offende il rapporto che ogni individuo ha con se stesso e con i suoi simili; rifugge dalle forme di esaltazione e riposa sulla mediocrità, sul grigiore dell’uguaglianza e sul ragionare paziente. In democrazia il di-scorso politico procede per decisioni prese sulla base della maggioranza. La democrazia non è il regime della verità, rifiuta che la legge possa avere una o-rigine extrasociale: una società democratica deriva dal fatto che nessuno ha il dominio dei significati, che nessuno è al di sopra della legge e tutti ne sono al di sotto. Le norme che regolano la convivenza civile non ricalcano un codi-ce ereditato dalla tradizione, ma sono il frutto di un patto collettivo. Il diritto positivo è l’oggetto e lo strumento dell’integrazione sociale. Registra gli avan-zamenti come gli arretramenti dell’umanità. E utile finché serve. Nulla garantisce nulla. Non basta neanche la volontà per garantire che le sorti della storia siano inevitabilmente magnifiche e progressive come abbiamo imparato da quella teoria filosofica chiamata “eterogenesi dei fini”, secondo cui l’ordine delle cose spesso non è prevedibile, è per lo più spontaneo e ininten-zionale perché i buoni propositi individuali, mescolandosi, possono generare risultati disastrosi per la collettività, allo stesso modo che da singole azioni non desiderate e magari negative possono nascere conseguenze positive per tutti. (dalla pagina conclusiva del libro). Viviamo tutti nell’età dell’incertezza, un’incertezza che la democrazia anzi istituzionalizza. Stiamo barattando gran parte delle nostre sicurezze con una maggiore libertà. Gli inconvenienti della nostra condizione risultano uniti in modo inestricabile a quelli che pensiamo siano i suoi vantaggi. Dubbio e fati-ca nel tentare di costruire qualcosa che non ci è stato insegnato, sono i natura-li compagni di strada dell’autonomia e della emancipazione. Questa nostra società che sembra condurre allo scetticismo e all’individualismo è anche una società più libera di cercare il senso del suo progredire, magari più dispersa ma forse più adulta, che può trovare i motivi dello stare insieme proprio ri-mettendo in discussione tutte le separazioni storiche sinora imposte. Non esistono scorciatoie al confronto democratico, nulla si può escludere a priori. Tutto si decide insieme e quello che si decide dipenderà dal livello di approfondimento maturato, dalla disponibilità di ascolto delle ragioni altrui, dalla capacità di persuasione, di conquistare i consensi con gli argomenti che si riterrà liberamente di utilizzare. Il futuro sviluppo della società religiosa e di quella civile risiede proprio in questo difficile, ma anche 19 inevitabile, con-fronto tra verità religiose e principi democratici, tra una Chiesa che in linea di principio esclude dal suo orizzonte la possibilità di modificare la propria na-tura e cifra strutturale e tuttavia non può fare a meno di interagire con la so-cietà civile, con le sue idee e con le sue istituzioni, e un sistema politico aperto e imperfetto che sopravvive solo a queste condizioni e che sta a ad ognuno e a ciascun fenomeno sociale contribuire a definire e a migliorare. Certo nessuno può prevedere gli esiti di processi così lunghi e complicati. Recita un detto: in fondo le strade le fanno quelli che ci camminano. (segnalato da Urbano Cipriani). 211 - LA FEDE A OCCHI APERTI - DI LUCIANO DE CRESCENZO da: Storia della filosofia greca – Ed. Mondadori - Capitolo: il maestro Riccardo Colella Il maestro Colella mi accolse a casa sua, nel pomeriggio, con grande cortesia. «Caro ingegnere, io sono un soldato del Dubbio» esordì Colella non appena restammo soli. «Credo nel Dubbio come regola di convivenza civile. Ognuno ha la sua religione personale e la mia religione è il Dubbio. Venite con me: vi voglio far vedere una cosa.» E così dicendo si avviò nel corridoio. Qui incrociai di nuovo la signora Amelia che ancora una volta mi biascicò sottovoce uno «scusatelo tanto», e finalmente ci sedemmo in una stanza semibuia dove un pianoforte giganteggiava in mezzo a un mare di partiture musicali, dischi, libri e portacenere non svuotati. «Guardate qua» disse il maestro, mostrandomi un quadro coperto da una tendina di seta damascata. «Questo è il mio Santo!» Tirò una cordicella, la tendina si alzò, e comparve un grande punto interrogativo tutto fatto di lampadine mignon. Subito dopo il maestro girò un interruttore e le lampadine cominciarono ad accendersi e spegnersi a intermittenza, come quelle degli alberi di Natale. «Scusatelo tanto.» Mi voltai e vidi la signora Amelia, sulla soglia, che con lo sguardo implorava comprensione. «Amè, facci parlare» esclamò il maestro, invitandola a uscire. Poi m'indicò una poltroncina di plastica e mi disse: Ingegné, sedetevi e seguitemi con attenzione: nel mondo ci sono i punti interrogativi e i punti esclamativi, i soldati del Dubbio e quelli della Certezza Assoluta. Quando Incontrate un punto interrogativo, non abbiate paura: è slcuramente una brava persona, un democratico, un uomo con il quale potete discutere ed essere in disaccordo. I punti esclamativi invece sono pericolosi: sono i cosiddetti uomini di Fede, quelli che prima o poi prendono le "decisioni irrevocabili". Ora ricordatevi quello che vi dico: la Fede è violenza, qualsiasi tipo di Fede, religiosa, politica e sportiva. Dietro ogni guerra c'è sempre un uomo di Fede che ha sparato il primo colpo. In Irlanda, in Libano, in Iran, la Fede si aggira con la falce tra le mani e i vestiti lordi di sangue, e quando uccide lo fa sempre in nome dell'amore. A me papà insegnò che il Dubbio è il padre della Tolleranza e della Curiosità. I giovani sono curiosi, ma non sono capaci di essere tolleranti, i vecchi sono tolleranti, ma hanno perso il gusto della curiosità, i grandi uomini invece sanno essere curiosi e tolleranti nello stesso tempo. Chi ha Fede è come se già sapesse tutto in anticipo: non ha dubbi, non è capace di meraviglia, e come dice Aristotele: "La meraviglia è il principio della ricerca". Chi ha Fede non è disposto a riconoscere i propri errori, e noi senza l'aiuto degli errori non siamo nessuno. La Fede è obbedienza pronta, cieca e assoluta. Papà mio era professore di filosofia. Quando qualcuno telefonava a casa e gli chiedeva "Siete voi il professor Colella?", rispondeva sempre "Può essere", e non lo faceva per fare dello spirito, ma perché veramente non era sicuro di esserlo.» Ed io: «Un minimo di Fede ci vuole, però, per iniziare un'impresa. Senza la Fede non avremmo scoperto l'America e la penicillina.» «Sì, però deve essere una Fede che nasce dal Dubbio» ribatte il maestro «che sappia imparare dagli errori: quella che io chiamo "la Fede a occhi aperti".» 20 212 - STORIE VERE LiberaUscita si batte per il diritto di tutti gli esseri umani di morire con dignità. Siamo convinti, infatti, che questo diritto sia negato a tantissime persone, molte di più di quanto comunemente si creda. Per dimostrare questo assunto, abbiamo lanciato la rubrica "STORIE VERE", diretta a raccogliere le testimonianze di quanti hanno vissuto o visto vivere episodi reali. Mentre ci impegniamo a diffondere fra tutti i nostri soci e simpatizzanti le storie che ci perverranno, chiediamo soltanto che siano firmate e contrassegnate con la rispettiva email. Non solo per garanzia di autenticità, ma anche per consentire risposte dirette dei singoli lettori. La prima storia ci è pervenuta da Elena Dobici, con il titolo "il diritto di morire in pace". La alleghiamo alla presente e ringraziamo Elena per quanto ha fatto per il suo papà. Coraggio Elena, hai fatto quanto potevi, e ne devi essere orgogliosa. Ma ora puoi e devi, senza dimenticare il passato, riprenderti la tua vita. Da: Elena Dobici - <[email protected] Oggetto: Il diritto di morire in pace Data: domenica 17 luglio 2005 17.37.25 A: " <[email protected]> In questo racconto di uno squarcio di vita vissuta in prima persona, ometterò nomi di persone e di luoghi, che non hanno alcuna importanza in sé: ciò che invece è importante è capire la sofferenza, l’angoscia e la rabbia di chi vede i propri cari e se stesso privati di uno dei diritti fondamentali dell’essere umano: quello di poter disporre della propria vita. Mio padre non aveva visto un medico per 70 anni, diceva sempre che avrebbe preferito morire piuttosto che diventare non autosufficiente o vivere con sofferenze fisiche e psicologiche; era fisicamente fortissimo, ma due anni dopo la morte di mia madre cominciò ad accusare sintomi che inizialmente furono scambiati per influenza e successivamente per epatite, rendendo necessario il ricovero. La TAC evidenziò un colangiocarcinoma (tumore alle vie biliari), con grave compromissione del fegato. Il primario mi disse che mio padre era operabile e che avrebbe avuto una buona qualità della vita, quindi entrambi decidemmo per l’intervento. Subito dopo l’operazione, il primario mi chiamò di nuovo per dirmi che la situazione era gravissima, in realtà i tumori erano due, era presente anche un adenocarcinoma biliare non operabile allo stadio terminale. Mi dette una probabilità di sopravvivenza tendente a zero, che mi indusse a telefonare ad un avvocato penalista per sapere se vi fosse la possibilità di far staccare i tubi della rianimazione. La risposta fu ovviamente no. Contrariamente alle aspettative di tutti, mio padre si riprese rapidamente, ma mentre stavamo uscendo dall’ospedale fui chiamata da un medico che mi consegnò la lettera di dimissione, priva della prescrizione di qualsivoglia antidolorifico e, contestualmente a questa, dei moduli per la richiesta di assistenza domiciliare e di ricovero per malati terminali, poiché per la medicina mio padre era condannato. L’oncologo dell’ospedale disse a mio cugino (io ero fuori per motivi di studio) che mio padre era un caso disperato, che la chemio e la radio sarebbero state inutili e anch’egli consigliò l’assistenza domiciliare, anch’egli non si curò di prescrivere antidolorifici. Seguirono giorni e notti di angoscia, perché mio padre era tornato a condurre una vita normale, ma era ostacolato nei movimenti dalla sacca per il drenaggio della bile, che lo faceva sentire invalido fisicamente e psicologicamente. Al controllo in ospedale mi trattarono con arroganza e sarcasmo quando chiesi se avessero potuto applicargli una sacca con un tubo più corto, al punto che decidemmo di non tornare più in quell’ospedale, di provvedere alle medicazioni da soli con l’aiuto di amici infermieri, di applicare la sacca da passeggio, di contattare un oncologo privato. Quest’ultimo medico, che allora era anche responsabile del day hospital oncologico di un 21 altro ospedale, cambiò la nostra vita ridandoci un po’ di serenità, sottopose mio padre ad una chemio leggera, che lo faceva stare bene senza effetti collaterali e riuscì a farlo migliorare anche psicologicamente, al punto che i cattolici di nostra conoscenza parlavano di miracolo. Il medico ci mise in contatto con alcuni suoi colleghi chirurghi di un altro ospedale che giudicarono mio padre operabile, gli tolsero la sacca, la via biliare e la parte di fegato interessate dal cancro. Sembrava che tutto procedesse bene, ma poco tempo dopo la seconda operazione, mio padre cominciò ad avere ittero e astenia, al punto che tornammo in ospedale (il secondo) per chiedere il ricovero. Al reparto ci dissero che ormai la questione non era più di loro competenza e ci mandarono in ambulatorio, il cui responsabile telefonò ai colleghi del reparto per un ricovero immediato, poiché sospettava un’occlusione meccanica delle vie biliari dovuta ad un malfunzionamento del sistema di drenaggio per qualche errore commesso durante l’intervento. Tornammo quindi al reparto, ma i medici in questione mi dissero, prendendomi in disparte, che non c’era alcun problema nel drenaggio, che l’ittero e l’astenia erano dovuti alla malattia che stava progredendo, che non c’era bisogno di alcun esame e che il ricovero di mio padre avrebbe tolto il posto ad un altro malato che aveva chance di vivere, mentre lui non ne aveva più e l’unica cosa che avrebbe potuto fare era quella di chiedere l’assistenza domiciliare. Risposi a quei medici che conoscevo benissimo la situazione di mio padre e che più della morte temevo i dolori che il suo stato in genere comporta; aggiunsi, inoltre, che in base al suo carattere, piuttosto che vivere come un vegetale, mio padre l’avrebbe fatta finita prima. Mi misi immediatamente in contatto con il suo oncologo, con il vice primario di un’altra divisione di quello stesso ospedale, tramite questo ottenni il ricovero che mio padre accettò, aggiungendo, però: “Non farmi morire in ospedale, voglio morire a casa nostra”. Finalmente, mediante approfondite radiografie, fu riconosciuto un problema nel sistema di drenaggio, dovuto ad un errore umano, non alla malattia. Mio padre subì, quindi, un terzo intervento, dopo del quale stava fisicamente bene, ma psicologicamente a terra. Tornato a casa mangiava poco, era sempre più pigro, nonostante avesse la forza fisica per fare tutto, diceva sempre a me e ai nostri parenti che non avrebbe mai immaginato quanto fosse forte il mio carattere, quanto fossi caparbia e decisa, ma diceva anche che da troppo tempo lui stava sacrificando la mia vita, che non potevo uscire con gli amici a causa sua, che gli mancava sempre di più mia madre, che non accettava più il suo aspetto fisico, ormai troppo magro. Si stava lasciando andare e io cercavo di impedirglielo in tutti i modi, ma non ci sono riuscita, neanche quando gli ho detto che se fosse morto mi sarei uccisa anch’io. Sono tornata da sola dall’oncologo per sapere la verità, credendo che il medico avesse taciuto qualcosa in sua presenza, ma il dottore mi disse che clinicamente stava bene e avrebbe iniziato la chemio a giorni. Ho allora tentato il tutto per tutto dicendo a mio padre: “Ci sono tre possibilità, ma la terza non te la dico: dipende tutto da te, dalla tua mente, dalla tua forza di volontà; o reagisci e guarisci o chiedi l’assistenza domiciliare. Considera che se non reagisci morirai presto perché permetterai alla malattia di prendere il sopravvento”. Mi guardò intensamente e mi rispose “Ci ammazziamo”. Ormai avevo capito tutto: aveva accettato di curarsi, di reagire alla malattia e di affrontare tre interventi solo perché pensava che fossi troppo debole per cavarmela da sola; stava vivendo per me, ma la sua voglia di vivere ormai se ne era andata insieme a mia madre ed ora che aveva avuto una grande prova della mia forza, voleva andarsene anche lui. Nei due giorni seguenti rimase a letto, non faceva altro che chiedermi dove fosse mia madre, cominciava ad avere confusione mentale a causa del peggioramento dell’insufficienza epatica, rifiutava del tutto il cibo; mio zio, l’unico fratello attualmente vivente e la moglie, mi esortavano con vigore a forzarlo a mangiare, a portarlo in ospedale o, in alternativa, a 22 sostenerlo con flebo ricostituenti. Mi rifiutai, rivendicando il diritto di ognuno di noi di scegliere il momento di morire e, soprattutto, di morire in pace. Fino all’ultimo è stato autosufficiente, alzandosi dal letto per andare in bagno, fino all’ultimo è stato un bell’uomo, nonostante la magrezza. Una sera, l’ultima, dissi al suo oncologo che stava morendo, il dottore non mi ha creduto, poiché appena una settimana prima l’aveva trovato bene, pregai sua cugina di andar via, rimasi con lui da sola, rispondevo alle sue domande ormai prive di senso, l’ascoltavo mentre chiamava i genitori, i suoi fratelli defunti, mia madre, lo aiutavo mentre espettorava una sostanza scura, ma soprattutto gli chiedevo continuamente se avesse dei dolori, essendo pronta ad intervenire. No, non aveva dolori fisici, ma morali, quelli che hanno indebolito le sue difese immunitarie favorendo il nascere ed il diffondersi della malattia. Gli misuravo spesso la pressione, che scendeva, mentre le pulsazioni cardiache salivano, finché capii, alle 4.15, che era giunto il momento: durante un forte conato gli misi il braccio sotto la testa mentre si addormentava per sempre, lo pulii, gli cambiai il pigiama ed osservai che era ancora bello. Chiamai mio cugino che si precipitò e mi abbracciò mentre gli dicevo: “E’ finita, non ha avuto dolori, è vissuto dignitosamente, è morto in maniera altrettanto dignitosa, a casa sua, con me, in pace”. Voglio morire anch’io dignitosamente, voglio che sia riconosciuto anche a me e a tutti gli esseri umani un diritto che nel nostro paese è riconosciuto solo agli animali, la dolce morte, quella che ho concesso a mio padre, per diritto, per pietà, per amore. Elena Dobici Da: Gianni Buganza <[email protected]> Data: lunedì 18 luglio 2005 10.03 A: <[email protected]> Oggetto: Storie vere bellissimo!! Gianni Da: Luigi Cugliandro <[email protected]> A: <[email protected]> CC: <[email protected]> Oggetto: Storie vere Data: Mon, 18 Jul 2005 15:19 Cara Elena, mi ha colpito molto il tuo racconto, che mi ha mosso a compassione, nel senso etimologico del termine: ho provato più o meno le stesse cose, e te le voglio raccontare nella speranza che in qualche modo ti sia d'aiuto, se ha senso parlare di condoglianza. All'associazione scrivo per conoscenza per la rubrica "storie vere". Mio padre aveva una cirrosi epatica che, come spesso capita, aveva sonnecchiato dentro di lui per un decennio prima di esplodere improvvisamente, a dispetto di un decennio di controlli medici periodici, in tutte le sue manifestazioni estreme. La prima fu un'emorragia all'esofago: lo accompagnai in ospedale, e lui mi disse " da qui non ne esco vivo". I medici non erano così pessimisti: bastava un trattamento antiemorragico. Ma la cosa provocò due infarti intestinali consecutivi, ognuno dei quali comportante un intervento chirurgico ad altissimo rischio. Già la prima operazione, con cui venne asportato un bel pezzo di colon, era a scarse possibilità di sopravvivenza, ma qualche giorno dopo, i dolori resero chiaro (la sedazione era lasciata bassa, perché con quell'ascite il dolore era l'unico modo per capire, mi è stato spiegato) che ne era necessario un altro. Allora, con mio padre in rianimazione, fermai in corridoio il luminare, l'epatologo di così chiara fama da far parte della Commissione nazionale dei trapianti, per manifestargli che, conoscendo mio padre, e 23 pensandola esattamente come lui, sapevo che avrebbe preferito morire dignitosamente subito e senza dolore che vivere qualche mese in ospedale senza intestino. Il luminare mi rispose che capiva il mio dolore di figlio, ma loro dovevano tentare tutto quello che potevano, e dobbiamo cercare tutti di capire dove finisce la preoccupazione per l'altro e comincia il nostro egoismo... L'egoista ero io, cioè, e sulle prime sembrò avere ragione: il malato sopravvisse, e anzi pareva riprendersi. Si doveva solo rimettere lentamente in piedi per rimandarlo a casa, il problema era che la letteratura medica non aveva molti casi di sopravvivenza in quelle condizioni, e ogni terapia che aggiustava certi valori ne guastava altri. Così, loro cambiavano terapie, spesso di filosofie opposte, in contraddizione l'una con l'altra, e poi registravano cosa succedeva (mentre il poveretto stava attaccato alla flebo claveare per non avere più vene praticabili in braccia e gambe). Fino a che una tossina endogena non più sintetizzata dal fegato gli arrivò al cervello inducendolo al coma. Dapprima reversibile: ho così potuto rivederlo e scherzarci l'ultima volta (era un ragazzino di 64 anni...). Ero al suo capezzale quella notte, ma lui non aveva sonno. I medici avevano detto che di solito questo genere di crisi una volta superate non si ripresentano. Solo non bisognava dargli da bere, anche se aveva sete. E lui aveva sete, ed io tutta la notte a bagnargli le labbra con una pezzuola, o dargli piccoli sorsi da risputare. L'addome era ancora più gonfio del solito, e caldo. Ma lui non aveva più dolore. Si voleva alzare, ed io a braccia a tirarlo a sedere sul letto, ma poi si stancava subito e toccava risdraiarlo. Poi cominciò con richieste sempre più frequenti (pochi minuti, spesso secondi) e senza senso. Ed alle mie risposte replicava con uno sguardo interrogativo, e talvolta con un gesto di oscillazione delle due mani vicine verso l'alto, le cinque dita unite a carciofo, come a dire "chi vogliamo prendere in giro, ormai?". La voce era sempre più flebile, il gesto sempre più ironico ed amaro. E mostrava insofferenza, quasi rabbia verso me che non capivo. Forse voleva dirmi qualcosa di importante, prima di morire, ma la tossina glielo impediva. All'alba il torpore infatti lo vinse, e sembrò addormentarsi, ma invece andava verso il coma irreversibile. I medici intanto, però, gli avevano ordinato di bere un litro d'acqua con dentro chissà che farmaco. Ingozzarlo d'acqua dopo averlo fatto soffrire la sete tutta la notte, è stata la degna conclusione di due mesi di terapie a tentoni: per la nostra scienza medica il malato (specialmente chi non deve sopravvivere a qualcosa e invece sopravvive, ma anche tutti gli altri) non è una persona, è un caso. Non c'è da stupirsi del successo delle cosiddette medicine alternative: anche quando sono ciarlatani, almeno loro ti trattano come un unico sistema complesso chiamato essere umano, ti mantengono un'identità! Lui invece lo hanno trattato per due mesi da cavia, e poi lo hanno lasciato otto giorni e otto notti (soltanto, per fortuna!) ad ansimare, gli occhi spalancati storti verso l'alto, la bocca spalancata e storta a deformare tutto il viso in una smorfia paradossa che sembrava l'urlo di Munch, poi parve che il respiro tardasse un po', poi inciampò di nuovo, poi si diradò e approfondì fino alle viscere. Mi avvicinai per sussurrargli all'orecchio "basta, hai fatto quello che potevi, ora riposati", o qualcosa del genere, ovviamente in dialetto. Tra un atto respiratorio e l'altro passava sempre più tempo. Poi lo vidi tutto d'un colpo prendere un bel fiato, sollevare di scatto il collo dal cuscino, sgranare gli occhi e tossire violentemente, accompagnando il tutto con una smorfia di schifo, come di chi ha bevuto qualcosa di amarissimo, e ricadere sul letto. Mia sorella, che intanto era arrivata ed aveva passato tutto il tempo a tenergli la mano e il polso, accompagnò quel gesto con un "bravo, sputala 'sta vita, che fa schifo", poi disse "ha finito". Dopo mi hanno spiegato che non è sempre così, che mio padre ha fatto tanta fatica perché aveva ancora un cuore giovane e forte, difficile da fermare. Ma io so che lui avrebbe preferito morire sotto i ferri la prima volta, che attraversare quasi 4 mesi crocifisso a tubi e macchine: non gli è stata, non ci è stata, detta la verità. Dovevano ammettere da subito: "questa è una cosa da cui non se ne esce vivi, volete che ci proviamo con quel poco che ci capiamo? Sappiate che al 99% camperete malissimo per qualche mese e poi morirete uguale. In alternativa, morirete tra qualche giorno al 100%, ma tra qui ed allora facciamo 24 tutto quello che possiamo per accompagnarvi all'evento con dignità e senza dolore". Mio padre avrebbe sicuramente scelto quest'ultima via, potendo scegliere. Luigi Cugliandro Da: Alessandra Sannella <[email protected]> Data: lunedì 18 luglio 2005 18.02 A: <[email protected]> Oggetto: Storie vere questa rubrica mi sembra eccellente e dignitosamente terapeutica per chi non ha avuto la fortuna di dare all'ultimo respiro un sorriso goliardico. Alessandra Sannella Da: Paola Galli <[email protected]> Data: venerdì 29 luglio 2005 15.55 A: <[email protected]> Oggetto: un'altra storia vissuta Persuasa che le esperienze personali influenzano più di ogni altra cosa il nostro pensiero relativamente a scelte di vita importanti, vorrei raccontarne brevemente una, che risale a circa dieci anni fa, quando la salute della mamma, che allora aveva passato da poco gli ottant’anni, cominciò a declinare in maniera pesante. Aveva da poco avuto l’inserimento della protesi all’anca destra, un’operazione andata bene, secondo l’opinione del chirurgo. Certo la ferita si era presto rimarginata, ma il muoversi e soprattutto il camminare erano ben lontani da come avrebbero dovuto essere, secondo le rosee previsioni del chirurgo. In realtà da allora in poi lei camminò in casa col deambulatore e per quel poco che potevo portarla fuori (l’appartamento era a piano terra) col bastone da una parte e il mio braccio dall’altra. Di questa situazione di decadimento approfittò il fuoco di S. Antonio, l’herpes zoster, che la fece soffrire molto per alcuni mesi, quanto durò il decorso della malattia, protraendosi però anche dopo per i postumi dei dolori nevralgici che non le davano tregua. Di fatto era così debilitata che non si alzava più dalla poltrona e dovevamo usare una sedia a rotelle per trasportarla dalla camera al salotto dove passava stancamente in una condizione di grande avvilimento le ore del pomeriggio che pareva non finissero mai. Ricordavo le parole del babbo che, quando lei aveva avuto qualche piccolo disturbo, diceva un po’ spazientito: “Si sa che tu sei fatta per star bene”. Era vero. Lei che aveva avuto sempre tanta salute, tanto buon umore, che a ottant’anni dipingeva ancora quadri a olio e trafficava nel giardino coi suoi amatissimi fiori, contenta di poter relazionare con la gente che veniva a trovarla o che incontrava per strada, ora non si riconosceva più nella persona che era diventata. Tutta la bellezza della vita era andata perduta. “Mamma, c’è un bel sole oggi. Ti porto in giardino”, dicevo alla ricerca di una frase di alleggerimento. Faceva un sorrisetto stirato e una volta rispose “Ma ora non frizza più”. La sua dottoressa, affettuosa e attenta, mi dava le ricette per la morfina e gliela facevamo, ma senza risultati apprezzabili. Mi veniva da pensare che ormai il male era nella testa. La portai al reparto di algologia dell’ospedale di Careggi, dove aspettavamo anche due ore. Nemmeno in questo caso però posso lamentarmi del medico, un bravo algologo dall’aria paterna, che un giorno, mentre introduceva nella schiena il lungo ago e io seguivo con dolore il rivoletto di sangue che scorreva giù per il corpo magro mi disse quasi sottovoce: “Non la porti più; non vede che non vuole più vivere”. Così restammo solo noi due a consumare tutte quelle ore vuote, anzi piene di cose che quando si sta bene non si pensa nemmeno lontanamente che ci toccherà un giorno 25 sopportare. Io andavo e venivo, lei passava col suo fardello di guai dalla camera al salotto e ritorno. Cominciai a trovarla, la mattina quando arrivavo, colla testa sotto al guanciale. “Ma che fai? – cercavo di scherzare – Giochi a nascondino?” “Forse potrei anche morire senza accorgermene – borbottava quasi scusandosi – così dolcemente”. E poi: “Ci fosse una pasticchina. Sarebbe tanto semplice, no?”. Ero così turbata che ne parlai a una conoscente, medico in un ambulatorio. “Non lo pensare neanche, – mi disse allarmata – tu non lo potresti mai fare, sarebbe un trauma profondissimo per tutta la vita”. “Però è inumano e indegno – risposi – che nessuno possa o voglia aiutare una donna vecchia e malata”. Poco tempo dopo, la mamma in un breve momento che era sola nel bagno cadde dalla carrozzina rompendosi il femore. All’ospedale, dopo ore di attesa, fatta la radiografia dissero che non era operabile, date le cattive condizioni generali di salute. Volle tornare a casa e decidemmo per la mattina seguente. Passai tutta la sera con lei e ogni tanto cercavo di metterle la maschera dell’ossigeno perché respirava male. Lei l’allontanava ogni volta con decisione. Se ne andò poche ore dopo nella nottata. Ho idea che un barlume di sollievo fosse entrato finalmente in lei quando aveva capito che il momento tanto desiderato era ormai vicino. Paola Galli, Firenze. Da: Elena Dobici <[email protected]> Data: venerdì 29 luglio 2005, 20.16 A: " <[email protected]> Oggetto: un'altra storia vissuta Ciao Paola, sono Elena, non so se hai letto la mia storia; se l'hai letta non c'è bisogno che ti dica come capisco te e la tua mamma quando parlava della pasticchina per andarsene nel modo migliore. I nostri genitori sono stati sfortunati, hanno dovuto soffrire inutilmente prima di morire. Spero che noi riusciremo a vedere l'approvazione dell'eutanasia in Italia, ma personalmente, se dovessi ritrovarmi in determinate condizioni, in assenza della legge saprei cosa fare per me stessa. Ti auguro ogni bene. Ciao. Elena Da: Paola Galli <[email protected]> Data: domenica 31 luglio 2005 10.20 A: "Posta Liberauscita" <[email protected]> Oggetto: Storie vere Per Elena Dobici Cara Elena, certo che avevamo letto la tua storia che c'era sembrata molto coinvolgente. Non so se noi riusciremo dove non sono riusciti i nostri genitori, però non c'è dubbio che non bisogna perdere un minuto. Mi piacerebbe conoscerci di persona e spero che prima o poi capiti. Buon'estate. Paola Galli. * * * * * 26 213 – LA VIGNETTA DI BRUSCO 27