Consigli Comunali dei ragazzi... e non solo

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Consigli Comunali dei ragazzi... e non solo
2004 - Anno 3 n°3 -Trimestrale - Euro 5,50
Poste Italiane Spa - Spedizione in abbonamento postale - D.L. 353/2003 (conv. in L. 27/02/2004 n° 46) art. 1 comma 2 - DCB/Gorizia
Tassa Riscossa - Terzo trimestre 2004
R I V I S T A
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R I C E R C A
E
F O R M A Z I O N E
P S I C O P E D A G O G I C A
2 6-32
editoriale
atti del convegno
ATTI DEL CONVEGNO
SPAZI DI LIBERTÀ
AUTONOMIA E SICUREZZA PER I BAMBINI
E LE BAMBINE IN CITTÀ
Piacenza - 13 maggio 2004
33-43 48
inchiesta
consigli comunali dei ragazzi ... e non solo
recensioni
INCHIESTA
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
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CRONISTORIA DEI CCR - CONSIGLI COMUNALI DEI RAGAZZI IN ITALIA
1979
In Francia in occasione dell’anno internazionale dei diritti dei bambini nascono i CCR - Consigli
Comunali dei Ragazzi, che raggiungono ben presto circa 1000 unità.
1991
Nel 1991 si costituisce l’ANACEJ, associazione francese di coordinamento.
Nascono i CCR “spontanei” in Italia a Tolentino e Morrovalle (Marche) con ampio clamore
mediatico ma non durano.
1992/93
Dopo un viaggio in Francia di Daniele Novara e Patrizia Londero il CPP - Centro
Psicopedagogico per la Pace e la gestione dei conflitti adotta il CCR e lo porta in Italia grazie
alla sperimentazione in Piemonte a Mosso, Cossato e Trivero da parte di Davide Bazzini, giovane pedagogista che elabora una particolare forma di Consiglio a carattere fortemente educativo.
1995
Nasce “Democrazia in Erba”, su iniziativa dell’ARCI Ragazzi, presieduta da Luigi Pagliarani, che
purtroppo morirà tre anni dopo. Pubblica il primo manuale italiano per la realizzazione dei
Consigli Comunali dei Ragazzi.
1995
Significativo il CCR a Corleone nell’ambito di un più ampio progetto di educazione alla pace e
alla legalità. È progettato dal CPP.
1996
È Piacenza la prima città capoluogo di Provincia a dotarsi del CCR. È anche una delle esperienze più prolungate (ancora attive ad oggi) di Consiglio Comunale dei Ragazzi in Italia.
1998
Si tiene il Convegno regionale dei CCR in Piemonte animato dal sociologo Claudio Caffarena
che nel 2002 pubblica per Erikson I Consigli Comunali dei Ragazzi.
1997/2003
Parte la Legge 285 che incentiva la nascita dei CCR. Impossibile stabilirne il numero, probabilmente si arriva a superare i 2000. La varietà delle forme e delle modalità organizzative è enorme
e impressionante per l’estrema differenziazione.
2000
Esce per i tipi delle Edizioni Gruppo Abele il volume I Consigli Municipali dei Ragazzi. Manuale
per la gestione pedagogica, il libro del CPP - Centro Psicopedagogico per la Pace e la gestione
dei conflitti sui CCR, che raccoglie l’approccio formativo ai CCR del CPP. È curato da Paola
Cosolo Marangon che ha sostituito Davide Bazzini nel settore già dal 1997.
2003
Esce il volume La democrazia s’impara a cura di Anna Baldoni e Valter Baruzzi di CAMINA,
edito da La Mandragora (Imola), con il Patrocinio della Regione Emilia-Romagna. È un primo
interessante e articolato tentativo di bilancio sia critico che storico.
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INCHIESTA
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
I CONSIGLI DEI BAMBINI
Come i bambini possono aiutare i politici adulti
a costruire una città migliore
Francesco Tonucci *
I
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l Consiglio dei bambini
non vuol essere né un
piccolo Consiglio
comunale né
un’esperienza di
educazione civica e
quindi una specie di
gioco di ruolo. Non è un gruppo di
bambini che si preoccupa dei
propri problemi o della
realizzazione di un proprio progetto
grazie al finanziamento del
Consiglio adulto. È un gruppo di
bambini che offre agli adulti il
proprio punto di vista, esprime i
propri bisogni e suggerisce proprie
proposte: che “dà consigli” al
sindaco per cambiare, migliorare la
città. È un gruppo di bambini che
lavora con gli adulti del
Laboratorio. Gli adulti stanno dalla
loro parte, dando loro la possibilità
di esprimersi e difendendo il loro
punto di vista. Il Consiglio dei
bambini nasce per volontà del
sindaco, che chiede ai bambini di
aiutarlo a tener presenti aspetti e
punti di vista che gli adulti spesso
dimenticano o preferiscono far finta
di non conoscere. Emblematiche le
parole del sindaco di Roma
quando, il 20 novembre del 2001
aprì in Campidoglio il primo
Consiglio dei bambini: “Ho bisogno
dei vostri consigli, del vostro aiuto.
Capita che i grandi si dimentichino
di quando erano bambini. Che non
ricordino le cose importanti e
necessarie per vivere bene questo
tempo della vita e che non si
ricordino quali siano i sogni, i
desideri, le speranze che si hanno
quando si ha tutta la vita davanti a
sé. Da oggi cominciamo a lavorare
insieme perché vogliamo cambiare
la città”.
Il Consiglio dei bambini
rappresenta la proposta più politica
del progetto “La città dei bambini”
che propone una nuova filosofia di
governo della città assumendo il
bambino come parametro di
valutazione, di progettazione e di
cambiamento della città stessa.
Il Consiglio si occupa quindi dei
problemi della città. I bambini ne
discutono partendo ovviamente
dagli aspetti che conoscono, che li
riguardano, denunciando eventuali
inadeguatezze o ingiustizie e
formulando proposte.
A seconda degli argomenti che
tratta il Consiglio dei bambini può
chiedere di incontrare i vari
assessori o dirigenti
dell’amministrazione. Almeno una
volta l’anno si incontra con il
Consiglio comunale, il sindaco e la
Giunta.
Naturalmente non tutte le richieste
dei bambini potranno sempre
essere accolte, ma è fondamentale
che si accolgano le loro esigenze,
perché sono sempre esigenze
inascoltate di cittadini. Riguardo
alle proposte spesso sono
concrete e fattibili e in questi casi
sarebbe opportuno accoglierle; in
altri casi l’amministratore può
discuterle con i bambini
proponendo cambiamenti e anche
migliorie che i bambini non
osavano chiedere o di cui magari
non conoscevano l’esistenza. Nel
caso di Roma per esempio, per
difendere la precedenza dei
pedoni sulle strisce pedonali, i
bambini del Consiglio arrivano a
proporre che quando un pedone
scende sulle strisce pedonali
escano automaticamente dei chiodi
dall’asfalto o scendano delle
barriere per fermare le macchine. È
evidente che queste proposte non
si possono attuare, ma servono a
far capire quanto è forte la
percezione del pericolo dei
bambini e quanto poco essi
abbiano fiducia nel cambiamento
dei comportamenti degli adulti. A
queste esigenze l’amministratore
deve dare risposta impegnandosi
per esempio ad applicare
rigorosamente le sanzioni previste
per gli automobilisti che non si
fermano ai passaggi pedonali (art.
191 del Codice della strada), o
realizzando attraversamenti
pedonali rialzati, o modificando
l’ampiezza o il disegno delle strade
per ridurre la velocità.
INCHIESTA
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
U
N POSSIBILE PERCORSO
Il Consiglio dei bambini deve
essere costituito da un numero
limitato di bambini (preferibilmente
non più di venti) in modo che tutti
possano esprimere il loro parere
sui temi in discussione.
Come si diceva, ai bambini si
chiede di aiutare gli adulti a tener
presenti le esigenze di coloro che
sono più lontani dal loro modo di
vedere e dai loro interessi; è
quindi importante che siano il più
possibile diversi da noi. Per questo
si è preferito coinvolgere i bambini
delle scuole elementari.
I consiglieri vengono nominati
all’interno delle scuole della città in
modo che possano rappresentare
tutti i bambini. Si possono poi
aggiungere i rappresentati delle
diverse condizioni infantili presenti
nella città: bambini stranieri, Rom,
portatori di handicap,
ospedalizzati.
Per evitare l’enfasi sulle votazioni e
sui meriti personali, la nomina
avviene per sorteggio fra tutti i
bambini della classe o delle classi
se ci sono classi parallele. Se un
bambino rifiuta si procede ad altro
sorteggio, ma sarebbe bene
convincere i bambini che chiunque
è adatto per essere consigliere (il
bambino timido potrà
rappresentare tutti i bambini
timidi)..
Per creare una facile alternanza si
preferisce nominare due bambini
per ogni scuola, uno di quarta e
uno di quinta, un maschio e una
femmina. Alla fine di ogni anno
usciranno dal Consiglio i bambini
di quinta e all’inizio dell’anno
successivo verranno nominati i
nuovi di quarta.
I piccoli consiglieri hanno un
mandato di due anni, per aver il
tempo di imparare questo ruolo
per loro certamente nuovo.
In città di 40.000-50.000 abitanti il
Consiglio potrà rappresentare tutte
le scuole, in città più grandi si
dovrà valutare se procedere alla
nomina di Consigli di
circoscrizione o se limitare il
numero delle scuole coinvolte. Nel
caso che si abbiano Consigli di
circoscrizione si potrebbero riunire
periodicamente alcuni
rappresentanti di quei Consigli in
un Consiglio cittadino.
Il Consiglio dei bambini si riunisce
nei locali del Laboratorio “La città
dei bambini” o in altro locale
pubblico esterno alla scuola ogni
quindici giorni. Si può optare per
una scansione mensile se si
alternano le riunioni con un lavoro
di commissioni o di comunicazione
all’interno delle scuole.
Di solito le riunioni del Consiglio
dei bambini avvengono il
pomeriggio e i bambini vengono
da soli nella sede o accompagnati
dai genitori, che non assistono alla
seduta. In alcune città si sono
coinvolte le scuole ad un livello più
alto, proponendo il Consiglio come
esperienza di Educazione alla
democrazia e come tale inserita
nel POF. In questi casi le riunioni
avvengono in orario scolastico, ma
sempre in locali extrascolastici.
È opportuno che l’adulto che lo
coordina sia sempre lo stesso, un
secondo adulto può redigere il
verbale della riunione. È opportuno
documentare con riprese video le
sessioni del Consiglio: questo
materiale potrà essere prezioso
per la valutazione dell’esperienza
e la formazione degli operatori.
Nel periodo intermedio fra due
sessioni i bambini comunicano ai
loro compagni di scuola (non solo
di classe) i temi trattati e
raccolgono le loro opinioni e
proposte.
Si eviterà di adottare metodi e
atteggiamenti tipici della scuola
come l’alzata della mano, le
relazioni scritte, lasciando ai
bambini di scegliere le migliori
modalità per seguire i lavori e
riferire le opinioni raccolte fra i
compagni di scuola.
Si eviterà di adottare modalità e
atteggiamenti imitativi dei Consigli
degli adulti, come le votazioni o la
proposta di regolamenti elaborati
dagli adulti, costruendo
un’esperienza nuova a partire dalle
esigenze e dalle sensibilità dei
bambini. Il regolamento, se
necessario, sarà frutto delle regole
che insieme si valuteranno utili.
Di norma non si vota. Non si
cercano proposte maggioritarie,
ma quelle che meglio possano
difendere i diritti e i bisogni dei
bambini, anche se sono espressi
da pochi consiglieri. In questi casi
è opportuno che le proposte
vengano discusse e riconosciute
valide da tutti.
È importante che i turni di parola
siano rapidi, per questo si può
scegliere che su un argomento
parli uno dei due rappresentanti di
una scuola.
I bambini avranno dei materiali di
lavoro forniti dal Laboratorio come
una cartella, un blocco per
appunti, una penna, la
Convenzione dei diritti dei
bambini, un cartellino col nome.
Delle riunioni si redigerà un
verbale che, in forma breve verrà
inviato ai consiglieri. Sarebbe
opportuno che la convocazione
del Consiglio successivo arrivasse
a casa dei consiglieri e
contenesse il verbale della seduta
precedente e l’argomento di lavoro
previsto. Copia della convocazione
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INCHIESTA
dovrà essere inviata per
conoscenza all’insegnante di
classe in modo che possa favorire
la preparazione della seduta.
Il Consiglio potrà discutere su temi
di attualità per la città proposti
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dagli amministratori attraverso
l’operatore che coordina o su temi
proposti dai consiglieri. Il Consiglio
vigilerà sulla realizzazione delle
proposte precedentemente
presentate e accolte
dall’amministrazione.
Alle riunioni non partecipano
adulti, tranne gli operatori. L’unico
adulto che ha diritto a partecipare
ogni volta che lo desidera, per
chiedere o ascoltare, è il sindaco.
UN ESPERIENZA: IL CASO DI ROMA
Per Roma si è scelta un’organizzazione molto complessa in risposta alla grandezza della città. Si è individuata
una scuola elementare per ciascuno dei diciannove Municipi (così si chiamano oggi le circoscrizioni). In ogni
scuola si sono scelti, tramite sorteggio, un bambino e una bambina, uno di quarta e uno di quinta. Nelle stesse
scuole si sono scelti due bambini Rom, uno con handicap e uno con lunga esperienza di ospedalizzazione,
mentre il sorteggio aveva già fatto entrare alcuni bambini provenienti da paesi stranieri.
Si è così formato un Consiglio di 44 bambini, metà maschi e metà femmine, metà di quarta e metà di quinta. Il
mandato è di due anni. Alla fine di ogni anno scolastico decadranno i bambini di quinta e all’inizio del nuovo
anno scolastico verranno eletti i nuovi bambini di quarta. Il Consiglio si riunisce una volta al mese, in orario
scolastico, in un locale pubblico apposito coordinato da alcuni adulti. I due bambini e un insegnante
accompagnatore di ogni scuola vengono accompagnati da un’auto dei vigili urbani del Municipio di
appartenenza: la mattina del Consiglio venti auto dei Vigili parcheggiano di fronte alla sede del Laboratorio
“Roma la città dei bambini”. Dato il numero troppo elevato per permettere una adeguata partecipazione, il
Consiglio, dopo un’apertura collegiale, si divide in tre gruppi di lavoro e si riunisce alla fine di ogni seduta per
socializzare il lavoro svolto.
Il Consiglio lavora sui temi proposti dall’amministrazione e su quelli proposti dai bambini con opportuni
coinvolgimenti dei compagni delle scuole di appartenenza.
Per favorire una esperienza così complessa si è creato un gruppo di lavoro formato dagli insegnanti che
hanno in classe i bambini consiglieri, che segue le attività di coinvolgimento dei bambini delle rispettive scuole
nella preparazione dei lavori del Consiglio.
Ogni anno il Consiglio dei bambini si incontra con il Consiglio comunale in Campidoglio il 20 di Novembre e a
giugno, alla fine delle attività. Durante l’anno almeno una volta il sindaco incontra i bambini durante la seduta
del Consiglio e spesso partecipano gli assessori competenti degli argomenti su cui sta lavorando.
Si sta promuovendo l’apertura di Consigli nei singoli Municipi, che potranno operare più facilmente e più
deguatamente. Il Consiglio della città potrà allora essere formato dai rappresentanti dei Consigli municipali.
* Responsabile del Progetto internazionale “La città dei bambini”, Istituto di Scienze e Tecnologie della Cognizione del Consiglio Nazionale delle Ricerche
e-mail: [email protected]
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INCHIESTA
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CONSIGLI DEI RAGAZZI,
SCUOLA E PARTECIPAZIONE
Educare alla democrazia e alla cittadinanza
responsabile, usando la città e il territorio come
laboratorio per comprendere la realtà urbana e migliorarla
Valter Baruzzi *
I
diritti dell’infanzia, la
soggettività e le
competenze di
bambini e ragazzi, la
prospettiva della
loro partecipazione
e collaborazione ai
progetti e ai processi che li
riguardano nel presente e
prefigurano il futuro si sono da
tempo affermati come principi e
idee generali, ma se osserviamo la
realtà, anche nel nostro Paese non
li vediamo pienamente riconosciuti
sul piano culturale, né tradotti in
azioni e operatività diffusa.
Occorre tuttavia riconoscere che
da circa due decenni nei confronti
di bambini e ragazzi è cresciuta
un’attenzione che correla i loro
diritti non solo all’ambiente familiare
e ai servizi a loro direttamente
rivolti, ma anche all’ambiente
urbano e al territorio dove vivono.
Sono state promosse esperienze
innovative che hanno coinvolto
bambini e adolescenti,
valorizzando il loro sguardo su
persone e cose, sulle città e sul
mondo, sostenendone la crescita e
aiutando le “comunità” a
comprendere la complessità
sociale e a prendere decisioni che
ne tengano conto.
Si tratta di esperienze che creano
un clima di ascolto e dialogo,
aiutando tutti i soggetti coinvolti a
crescere e migliorare (anche gli
adulti) e preparando i ragazzi
all’esercizio di una cittadinanza
intraprendente e alla democrazia.
Fra di esse ci sono senz’altro i
Consigli dei ragazzi, esperienze
che in Italia sono promosse
prevalentemente da scuole e comuni.
A dire il vero ci sono anche
interessanti esperienze realizzate a
livello extrascolastico, ma
intendiamo in questa sede
1
esaminare solo alcuni aspetti, che
riguardano il rapporto fra consigli,
scuole e comuni. Vediamo
innanzitutto che cos’è e come
funziona un Consiglio comunale dei
ragazzi.
I CONSIGLI DEI RAGAZZI
I ragazzi che partecipano ad un
consiglio si comportano da cittadini
e cittadine che, pur essendo molto
giovani, interpretano se stessi,
entrando nel merito di alcune
questioni che li riguardano
direttamente, in quanto abitanti di
una città, di un paese o
semplicemente di un quartiere;
dialogando con i coetanei e con
altri cittadini (e fra questi anche
tecnici e amministratori pubblici),
per raccogliere informazioni e
pareri, per confrontarsi e fornire
suggerimenti o fare richieste che
rispecchino il loro punto di vista.
“I Consigli dei ragazzi, che
possono operare a livello
comunale, di circoscrizione o di
quartiere, rappresentano
un’innovativa modalità di
partecipazione dei ragazzi alla vita
della collettività sociale in cui
vivono, permettendogli di
contribuire alle scelte e alle
decisioni dalle quali finora sono
stati esclusi”. Essi, così il manuale
della legge 285/95 li presentava,
“costituiscono una modalità
educativa che permette ai ragazzi
di confrontarsi, di gestire la
conflittualità nella ricerca di
soluzioni che non soddisfino le
esigenze dei singoli ma quelle di
tutta la colIettività di cui si è parte,
rendendo in tal modo effettiva la
pratica della partecipazione
attraverso l’espressione delle
proprie idee, esigenze e dei propri
desideri, nell’esercizio consapevole
2
dei propri diritti.
I ragazzi che entrano a far parte di
un consiglio vengono scelti dai
compagni che li votano o
semplicemente sono sorteggiati fra
coloro che si sono dichiarati
interessati e resi disponibili. Un
consigliere si assume l’impegno di
portare in consiglio riflessioni, idee,
dubbi, domande e proposte
espresse dalla classe o dal gruppo
di riferimento.
Quando un consiglio funziona, i
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INCHIESTA
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ragazzi che vi partecipano in primo
luogo imparano a stare insieme,
perché ogni consiglio nasce come
insieme di persone che iniziano un
percorso e imparano a conoscersi
e diventano col tempo un gruppo
di lavoro. Fanno quindi attività di
esplorazione e indagine che li
aiutano a riflettere sulla realtà, per
meglio comprenderla, partendo da
se stessi e dalle relazioni con
coetanei e adulti, dalla vita
quotidiana, dal territorio conosciuto
(cortili, strade di percorrenza
quotidiana, parchi e altri luoghi di
incontro) e dai problemi a loro
vicini, per allargarsi
progressivamente all’ambiente
urbano più ampio e a tematiche più
complesse (ma ciò dipende
dall’età dei consiglieri e degli
elettori); realizzano indagini,
studiano e approfondiscono i nodi
e le questioni che incontrano sul
loro cammino, individuano risorse,
riconoscono problemi e si
adoperano per comprenderne le
cause e immaginare soluzioni.
Dialogano con i loro compagni di
scuola, coi quali tengono un
costante collegamento, circa
l’andamento dei lavori e sui temi
aperti; informano gli abitanti del
loro territorio sui risultati del loro
lavoro e, quando è possibile,
mettono a punto proposte concrete
costruendole insieme agli adulti, in
modo che accanto agli elementi di
creatività siano presenti le
condizioni che le rendano fattibili.
Mentre sono impegnati in queste
attività si trovano ad affrontare
divergenze di opinione e contrasti
dovuti, ad esempio, alla
compresenza di interessi
incompatibili nell’ambito della
collettività degli abitanti e dei
gruppi. Si scontrano - talvolta anche con le difficoltà dovute alle
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
procedure e al dialogo insufficiente
fra i diversi settori delle
amministrazioni comunali.
Accade a volte che fra i ragazzi
eletti e gli elettori non ci sia dialogo
e così i bambini eletti in un
consiglio fanno un’esperienza che
può essere anche molto
interessante, ma riguarda solo loro.
Si vanifica in tal modo la possibilità
di dare sostanza al concetto di
rappresentanza.
Si richiede quindi un concreto
impegno della scuola per evitare
l’isolamento dei delegati e
mantenere aperto un dialogo
costante con tutti i ragazzi e per
evitare di riproporre i riti un po’
formali dei consigli degli adulti,
negando nei fatti le premesse
educative.
I Consigli dei ragazzi sono
esperienze che mantengono le
promesse, quando sono sostenute
da una vitalità democratica, che
fornisce ai ragazzi anche occasioni
in cui il confronto e la discussione
illumina e precede le decisioni, in
quelle forme tipiche della
democrazia diretta che si fondano
sulla fiducia nella capacità di
governarsi da sé e funzionano
nell’ambito di gruppi di dimensioni
circoscritte, in cui ci si vede tutti e
si può parlare insieme, ci si
influenza reciprocamente, si hanno
opinioni che possono mutare, si
precisano, si rafforzano o si
abbandonano dialogando.
Come si intuisce non basta dar vita
a un consiglio e poi immaginarsi
che le cose vadano da sè: questo
tipo di esperienza richiede
attenzione educativa e va curato e
sostenuto nel tempo. Occorre
anche essere consapevoli che la
qualità delle esperienze che vivono
bambini e ragazzi (rappresentati e
rappresentanti) dipende dal
contesto nel quale un consiglio è
inserito, dipende dal clima della
scuola, da come è organizzata e
da come vi si svolge la vita
quotidiana e dipende anche dalle
dinamiche politico amministrative
di un territorio, dalla sua vitalità e
dagli spazi di partecipazione che i
cittadini (e quindi anche i ragazzi)
hanno nelle decisioni che
riguardano le cose pubbliche e da
come effettivamente li occupano.
LA SCUOLA OLTRE
LA DIDATTICA
Nelle intenzioni dei promotori, fin
dall’esordio dovuto
dall’intraprendenza di alcuni
amministratori pubblici francesi
(1975), le esperienze dei Consigli
dei ragazzi risposero e rispondono
a due esigenze principali che seppur con diverse centrature,
dosaggi e intensità - si possono
riassumere nella volontà di
“rispettare il diritto di bambini,
bambine, ragazzi e ragazze a
esprimere le loro opinioni, creando
contesti in cui queste vengano
debitamente prese in
considerazione dagli adulti;
educare alla democrazia e alla
cittadinanza responsabile, in
collaborazione con la scuola e con
modalità a essa complementari,
usando la città e il territorio come
laboratorio per comprendere la
realtà sociale e urbana e
adoperarsi per migliorare il
presente e progettare il futuro.”
La scuola, luogo istituzionalmente
vocato all’ascolto e alla tutela dei
diritti dell’infanzia, dove bambini e
ragazzi crescono e apprendono gli
strumenti culturali necessari a
prendere parte consapevolmente
alla vita democratica, è anche
ambiente sociale nel quale essi
INCHIESTA
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
possono sperimentare quelle forme
di partecipazione e di impegno,
indispensabili in un percorso di
educazione alla cittadinanza e alla
democrazia.
Diritti, apprendimento e socialità,
dunque, sono intimamente
connessi.
Come si conciliano apprendimento
individuale e vita sociale nella
scuola? Noi immaginiamo che si
compongano in un’esperienza in
cui impegno e studio individuale si
accompagnano all’esercizio
quotidiano e intraprendente di
capacità critiche e argomentative,
ad esperienze che potenziano la
coscienza di sé in quanto cittadini
in formazione: bambini e ragazzi,
cioè, che stanno acquisendo gli
strumenti del “prendere parte”, che
stanno maturando le motivazioni e
la volontà di “intervenire”, che
sanno di poterlo fare, perché
questo è uno degli scopi della
scuola ed è ciò gli adulti si
aspettano da loro.
Noi sappiamo che quanto appena
affermato presuppone una
partecipazione effettiva dei ragazzi
ai processi sociali della scuola, che
rappresentano tirocinio di dialogo e
confronto, occasione per imparare
ad apprezzare l’immagine di sé e
degli altri, in quanto persone
competenti nella gestione delle
cose che riguardano la comunità
della classe, la scuola, le cose
civiche, per maturare un senso di
vicinanza e di interesse nei
confronti della dimensione
pubblica e politica accanto a
quella privata e per avvicinarsi alla
comprensione del carattere
dialettico delle diverse visioni della
vita (competizione / cooperazione,
pluralismo / assimilazione,
individualismo / solidarismo…), per
imparare le regole e la cultura della
democrazia.
A questo punto sorge una
domanda: potrà la scuola
accompagnare e sostenere
l’apprendimento della democrazia,
senza testimoniarla
quotidianamente nelle relazioni fra
adulti, nelle relazioni fra adulti e
ragazzi e nelle relazioni dei ragazzi
fra loro?
I racconti di vita che ascoltiamo
abitualmente dai ragazzi che
frequentano le scuole medie
inferiori e superiori, ad esempio,
raccontano di una scuola dove
sono ancora molto diffusi metodi
prescrittivi e normativi imperniati
sulla trasmissione di informazioni,
concetti, nozioni, che separano
nell’apprendimento l’aspetto
razionale da quello emozionale,
limitandosi a una formazione
tecnicistica, che penalizza la
relazionalità.
Come sappiamo, i modi
dell’insegnare e dell’organizzare la
vita comunitaria celano messaggi
valoriali impliciti (curricolo
nascosto), che vengono acquisiti
dai ragazzi insieme ai contenuti e
alle regole proposte
esplicitamente: temiamo fortemente
che i messaggi profondi che i
ragazzi ricevono alimentino in loro
la sensazione e la convinzione che
il loro punto di vista non conta, non
interessa.
Se consideriamo come indicatore il
fatto che i ragazzi appaiono oggi
tendenzialmente in difficoltà
quando debbono esprimere le loro
opinioni, “per paura del giudizio
degli amici o dei familiari, per
paura di risultare diversi dagli altri”,
comprendiamo che il problema è
serio.
Viene da chiedersi, allora, quanto
siano diffuse le esperienze
scolastiche dove, per dirla con
Morin, l’autorità dei docenti non è
incondizionata e si sono instaurate
“regole di messa in discussione
delle decisioni giudicate arbitrarie”. Quanto sono diffuse le
scuole dove si apprendono il
dibattito argomentato, le regole
necessarie alla discussione, la
“presa di coscienza delle necessità
e delle procedure di comprensione
dell’altrui pensiero, dell’ascolto e
del rispetto delle voci minoritarie e
devianti”, dove l’apprendimento
della comprensione svolge un ruolo
fondamentale nell’apprendimento
della partecipazione democratica?
È attraverso un vissuto di questa
natura che si può
trasmettere/apprendere la capacità
di partecipare, un saper fare che
richiede sviluppo delle “capacità di
pensare e procedere
autonomamente, attraverso una
continua ricomposizione del fare e
del pensare (…) come condizione
indispensabile per un fare che sia
incisivo, orientato a gestire il
cambiamento e non semplice
scarica di tensione o di
frustrazione”.
Questo tema è ben sviluppato in un
testo di Ferdinando Maria Ciani,
dove si propone “la scuola del
gratuito”, una scuola che “motiva
alla scoperta e alla ricerca senza
ricorso a ricatti e costrizioni. Non si
limita a istruire ma educa, cioè
aiuta a far emergere le capacità e
le diversità dell’individuo. Favorisce
le differenze e produce quindi una
ricchezza di esperienze, idee e
scambio di doni. Pone al suo
centro gli ultimi perché ricchi di
diversità e richiamo alla centralità
della persona. Fonda il suo metodo
sulla relazione, sull’ascolto e la
partecipazione. Non giudica, ma
valorizza. Non si fa determinare dai
programmi ma dai bisogni
39
INCHIESTA
individuali. Non trasmette il sapere
ma lo discute. Non usa
l’autoritarismo ma è autorevole
perché stimata. Non pone in
competizione ma sviluppa il gusto
del vivere insieme. Non emargina
ma crea integrazione e solidarietà.
Non ignora i conflitti ma propone
modelli pacifici di risoluzione degli
stessi. È luogo di fiducia dove
perde senso il sistema del dubbio
3
e della bugia tra ruoli opposti”.
Se i consigli dei ragazzi diventano
la ciliegina da mettere su una torta
insipida, che cosa succede? Forse
occorre occuparsi anche della
torta/scuola; oggi più di ieri, di
fronte al rischio (quasi realtà) che
la torta riformata si trasformi in un
vassoio di vecchi pasticcini,
venduti come freschi.
LA PARTECIPAZIONE COME
ESPERIENZA DI CRESCITA E DI
DEMOCRAZIA
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Chiediamoci ora che cosa
incontrano bambini e ragazzi,
quando entrano a contatto con le
dinamiche amministrative di un
comune, e si trovano (per loro
intraprendenza e/o per scelta
dell’amministrazione) nella
condizione di collaborare con i
tecnici alla progettazione di
un’opera pubblica - anche piccola,
ma sempre pubblica - che li
riguarda come cittadini e come
ragazzi (cittadini, cioè, di età minore).
Ci pare necessario ricordare che il
4
tema della partecipazione - nella
fase di transizione che stiamo
attraversando, nella quale si stanno
ridisegnando i rapporti tra
economia, politica e società rientra a pieno titolo nel dibattito
sulla governance: termine col quale
si intende quell’insieme di regole,
meccanismi e prassi che
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
influiscono sull’articolazione dei
diversi poteri esercitati
(government), aprendo il processo
decisionale delle amministrazioni
pubbliche, per consentire la
partecipazione dei cittadini (e fra
essi bambini e ragazzi) e delle
comunità (la società civile) alle
decisioni che li riguardano. Ed è in
questa direzione che ci pare
vadano le esperienze in cui la
scuola si apre al territorio
nell’ambito di attività correlate
all’Agenda 21 o nei percorsi di
progettazione partecipata di aree
verdi, piazze, cortili, giochi, ma
anche affrontando tematiche legate
alla viabilità e alla mobilità. Attività
che riguardano spazi e strutture,
ma sempre più spesso chiamano
in causa comportamenti e stili di
vita, e che possono essere avviate
direttamente dalle classi oppure
attraverso percorsi di
partecipazione più articolati,
promossi nell’ambito dei Consigli
dei ragazzi. Nell’uno o nell’altro
caso troviamo un ente locale che
mette a disposizione temi e oggetti
progettuali per affrontare i quali è
necessario mettere in gioco
metodologie fondate sull’ascolto e
sull’esercizio della cittadinanza
attiva.
Entrando nel cuore del tema,
riconosciamo che la partecipazione
ad attività di rilievo sociale nelle
quale sono spesso coinvolti i
Consigli dei ragazzi favorisce la
crescita e il cambiamento (di
bambini e ragazzi, di giovani e
adulti), ma siamo altrettanto
convinti che attraverso esperienze
cosiddette di “partecipazione
promossa dall’alto” si possono far
passare decisioni già prese altrove,
si possono perseguire obiettivi di
cui bambini e ragazzi, le altre
persone e le comunità coinvolte
non sono pienamente o per nulla
consapevoli. È sempre presente il
rischio che si realizzi una sorta di
teatro della democrazia, su un
palcoscenico che rappresenta una
realtà fittizia ben illuminata,
mantenendo in ombra il livello delle
decisioni e delle ragioni che le
motivano, sconosciuto ai più.
Tutto ciò è noto ed è stato spiegato
in modo convincente e
5
documentato. Sherry Arnstein, ad
esempio, in un saggio del 1969,
analizzando le esperienze
partecipative statunitensi, elaborò
una scala della partecipazione
strutturata in otto tipologie,
classificate in ordine crescente
dalla manipolazione fino al
controllo dei risultati da parte degli
abitanti, descrivendo così anche le
modalità attraverso cui si conquista
in modo ingannevole il consenso.
Roger Hart, su mandato
dell’Unicef, adattò la scala alle
esperienze con i bambini,
pubblicando i risultati nel testo
Children’s participation. From
tokenism to citizenship (Unicef,
Firenze, 1992).
Arnstein e Hart descrivono come la
manipolazione, primo gradino della
scala, sia una forma illusoria di
partecipazione che si ha quando
adulti e ragazzi vengono coinvolti
in un processo decisionale, nel cui
ambito essi non hanno nessuna
reale possibilità di influenza sulle
decisioni e anzi - con la loro
presenza - rafforzano le relazioni di
potere esistenti. Spesso, tuttavia,
anche le situazioni in cui si
forniscono informazioni o si
consultano cittadini (adulti e/o
bambini) sono gestite in modo da
disincentivare le domande
imbarazzanti, l’espressione di
dubbi o ipotesi di proposte
alternative e sono gestite in modo
INCHIESTA
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
formale e asettico, per consentire
ai decisori di affermare che i
cittadini erano informati ed erano
stati consultati.
L’informazione è il gradino della
scala che introduce una possibilità
di accrescimento di
consapevolezza e di
riconoscimento dei diritti dei
cittadini. Ma diviene esperienza di
partecipazione quando essi hanno
la possibilità di contribuire
all’analisi dei contesti alla
descrizione dei problemi, alla
scelta degli ambiti d’azione,
intervengono nella definizione degli
obiettivi, interagendo con tecnici e
decisori, o - se già parzialmente
definiti - propongono modifiche a
programmi o progetti ipotizzati.
Non solo sono consultati, quindi,
ma coinvolti in un processo di
“costruzione” delle decisioni, lungo
il quale si prendono in
considerazione anche le loro
proposte. Si determina così una
reale possibilità di influenzare le
decisioni nel corso di processi di
negoziazione e i partecipanti (adulti
o bambini) riconoscono il loro
contributo nella realizzazione di
programmi o progetti.
Un oggetto progettuale di rilievo
non è, per fare un esempio, un
parco giochi che
un’amministrazione ha deciso di
dedicare ai bambini, mostrando
con ciò una visione asfittica
dell’infanzia e del gioco, del suo
rapporto con la città e l’ambiente.
Un intervento importante potrebbe
prendere avvio con un’indagine
sugli spazi verdi di un quartiere o
di una città, per capire le
condizioni in cui si trovano, chi e
come li frequenta, la loro
accessibilità e come ciò
interagisca col desiderio dei
bambini dei ragazzi di gioco e vita
all’aria aperta, con il loro bisogno
di autonomia e le loro competenze,
con la loro mobilità, con la
percezione del rischio da parte
degli adulti, con gli interessi e i
bisogni di altre fasce di cittadini,
con le risorse di cui il comune
dispone, eccetera. E i ragazzi, in
percorsi del genere, possono
essere coinvolti e hanno titolo per
intervenire, fin dalle fase di analisi,
muovendo dalla conoscenza della
loro vita quotidiana, dai problemi
che percepiscono e dai desideri
che avvertono.
Non dimentichiamo poi che la
partecipazione di bambini e
ragazzi a un progetto è autentica
quando essi comprendono le
intenzioni del progetto, conoscono
chi ha preso le decisioni riguardo
al loro coinvolgimento e perché,
hanno un ruolo significativo (non
solo decorativo), si offrono
volontariamente per il progetto
dopo che è stato chiarito di che
cosa si tratta.
Potrebbe sembrare ovvio, ma non
lo è, aggiungere che possiamo
individuare alcune condizioni che i
promotori debbono soddisfare, per
garantire l’autenticità e la
correttezza di un processo di
coinvolgimento dei cittadini, che
immaginiamo nella prospettiva di
un approccio intergenerazionale,
dove bambini e adolescenti
collaborano con gli adulti.
Gli amministratori pubblici e gli
operatori debbono:
! percepire che il coinvolgimento
dei cittadini (e fra essi bambini e
ragazzi) nei processi decisionali
è legittimo; ciò significa che non
ci si accontenterà di una
presenza simbolica, ma ci sarà
promozione di dialogo autentico
e riconoscimento di ruolo
reciproco;
! mettere in gioco un progetto
aperto, con scelte e decisioni
che debbono essere prese; ciò
significa che i ragazzi saranno
posti di fronte a domande
legittime (von Foerster), che
sollecitano un percorso di
dialogo, ricerca e impegno
creativo, per la costruzione di
risposte possibili e condivise;
! coinvolgere cittadini che
rappresentino età e generi,
diverse provenienze culturali e
stili di vita, molteplici punti di
vista, compresi quelli delle
persone disabili; ciò significa che
i ragazzi saranno sollecitati a
maturare una visione che tenga
conto anche degli altri e della
complessità;
! coinvolgere cittadini in tutte le
fasi del processo, dalla
costruzione di scenari condivisi
alla realizzazione e gestione delle
trasformazioni; ciò promuove
consapevolezza della storia dei
problemi e una visione delle
risposte in termini di processi;
Dal punto di vista metodologico i
promotori e coordinatori di queste
esperienze debbono:
! accettare la complessità,
resistendo alla tentazione di
semplificarla; una tentazione che
risponde al desiderio di
accelerare i tempi, dà l’illusione
di mantenere la situazione sotto
controllo, agevola nell’opera di
emarginazione di chi pone
questioni importanti, ma difficili
da affrontare…;
! evitare di ricorrere a parametritipo e criteri standard che non
tengono conto delle esperienze e
delle condizioni materiali di vita,
delle contraddizioni e dei
conflitti, della storia e dello
spessore sociale della città e del
territorio;
41
INCHIESTA
! saper sostare nell’incertezza,
senza precipitare nell’affannosa
ricerca delle conclusioni e della
conferma dei propri punti di
vista;
! non temere l’esplicitazione di
opinioni, desideri, interessi
divergenti e quindi il conflitto, ma
attraversarlo cogliendolo come
opportunità per evidenziare
l’esistenza di opzioni
incompatibili tra loro e proporre
la costruzione negoziata di
soluzioni che tengano conto
delle diverse esigenze.
I consigli e le altre forme di
partecipazione sociale, di cui sono
protagonisti i ragazzi,
presuppongono consapevolezza
politica ed educativa in chi le
promuove.
La democrazia, per non ridursi a
vuoto e formale involucro, va nutrita
costantemente coi valori su cui si
fonda il rispetto dell’umanità che è
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
in noi e negli altri, ravvivata con
l’esercizio di una cittadinanza
intraprendente e con uno sguardo
caldo e attento sul bene pubblico.
Si comprende, quindi, quale
importante ruolo giochi
l’educazione in questa partita. Ma
occorre essere chiari a questo
proposito. L’educazione non va
identificata con la didattica: i
Consigli dei ragazzi e le altre
esperienze cui abbiamo fatto
riferimento non sono riconducibili
alla didattica, che anzi le nega, col
suo fondarsi prevalentemente su
domande illegittime.
Eppure i consigli e la progettazione
partecipata, per essere vissuti
pienamente dai ragazzi,
presuppongono il possesso di
strumenti e capacità culturali,
quegli strumenti e quelle capacità
che si suppone spetti alla scuola
fornire e che nelle esperienze
partecipate possono essere
valorizzati, potenziati e arricchiti di
senso. E certamente i ragazzi
vivendo queste esperienze
imparano, ma si tratta di
apprendimento esperienziale e di
riflessioni (cui, come abbiamo
visto, può e deve contribuire anche
la scuola), nell’ambito di un ampio
respiro politico ed educativo, nel
quale gli adulti che promuovono e
coordinano le attività sono
sostenuti da motivazioni e
competenze centrate sull’ascolto,
l’osservazione e il dialogo.
Ai livelli più alti della scala della
partecipazione, dunque, ci stanno
esperienze di collaborazione e
condivisione fra adulti e ragazzi.
Ma le esperienze condivise sono
piuttosto rare, segnalava Hart,
soprattutto per la scarsa presenza
di adulti attenti ai particolari
interessi di ragazzi e adolescenti e
capaci di dialogare con loro. Ma
allora eravamo negli anni Novanta
del secolo scorso.
NOTE
1 A chi fosse interessato ad avere informazioni più organiche e riflessioni più approfondite ricordiamo che nel 1995 l’associazione Democrazia in Erba ha
prodotto il Manuale dei consigli comunali dei ragazzi, edito dal Centro stampa della Provincia di Perugina. Altri testi su questo tema:
- Paola Cosolo Marangon (a cura di) 2000, I Consigli municipali dei ragazzi, Edizioni Gruppo Abele, Torino
- Valter Baruzzi, Anna Baldoni 2003, La democrazia s’impara. Consigli dei ragazzi e altre forme di partecipazione, Quaderni di Camina/Regione Emilia
Romagna, 3, La Mandragora editrice, Imola
I quaderni di Camina si possono scaricare gratuitamente dal sito www.camina.it oppure richiedere all’editrice La Mandragora [email protected]
2 Centro nazionale di documentazione ed analisi sull’infanzia e l’adolescenza 1998, Infanzia e adolescenza, diritti e opportunità. Orientamenti alla
progettazione degli interventi previsti nella legge n. 285/97, Istituto degli Innocenti, Firenze, pag. 47
3 Francesco M. Ciani 2001, La scuola di Pinocchio, verso un’educazione del gratuito, Ed. Esperienze, Fossano (Cn)
4 A questo tema è stato dedicato un gruppo di lavoro nell’ambito del convegno Future città, nuovi cittadini, promosso dalla Regione Emilia Romagna e dal
Centro Camina, tenutosi a Bologna il 4 e il 5 febbraio 2004, di cui sono in corso di pubblicazione gli atti.
5 Sherry Arnstein 1969, The Ladder of Citizen Participation, Journal of the Institute of American Planners, vol. 35, 4
* Pedagogista (Camina) - e-mail: [email protected]
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INCHIESTA
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
DA UNA ESTETICA DELLA
PARTECIPAZIONE A UNA PEDAGOGIA
DELLA PARTECIPAZIONE
Come raccontiamo, descriviamo, valutiamo
l’esperienza CCR? Quale la ricaduta formativa ed
educativa su ragazzi e mondo adulto? Domande aperte
Davide Bazzini *
L
a crisi del tradizionale
modello di Welfare,
unitamente al venir
meno del potere
dello Stato-Nazione
nell’occuparsi delle
politiche territoriali e
sociali ha indotto una crescente
enfatizzazione delle azioni condotte
nella dimensione locale, diventate
di conseguenza attente al contesto
territoriale, all’integrazione con il
territorio, alla costruzione di
partenariati locali, all’incremento
della partecipazione.
È in questo contesto che,
implicitamente, si colloca
l’esperienza partecipativa dei
Consigli Comunali dei Ragazzi.
Il rischio che vedo è quello di
enfatizzare la dimensione
partecipativa accontentandosi però
della sua declamazione, evitando
nel contempo di confrontarsi con la
fatica di costruire nuove
competenze, con il coinvolgimento
di molteplici attori, con la
modificazione dei ruoli tradizionali.
La domanda che dobbiamo porci
allora è: ma i CCR sono una
esperienza partecipativa? Servono
a fare partecipazione? Quale tipo
di partecipazione promuovono?
Per tentare di rispondere, parto dal
constatare che se c’è una
necessità di partecipazione, essa
non è fine a se stessa ma è
fondata su ed evidenzia la
necessità di:
! ricostruire percorsi di definizione
dell’identità;
! attivare forme di facilitazione alla
partecipazione;
! sperimentare forme di
educazione civica attiva.
Detto altrimenti, la domanda di
partecipazione è sterile se non la
leggiamo in relazione alla necessità
di sperimentare nuove forme di
legami sociali. I CCR sono una
possibile risposta a questa
necessità, nel senso che
sicuramente sono un’esperienza
molto interessante rispetto alle
costruzioni (ed alle ricostruzioni) di
nuove forme di legame sociale;
bisogna però anche partire dal
considerarne tutta una serie di
limiti.
Il tentativo che intendo condurre è
relativo alla esplorazione di questi
limiti, attraverso quattro
interrogativi.
Prima domanda: una esperienza
autonoma e nata dal basso?
Il primo ambito da esplorare è
relativo appunto all’autonomia
organizzativa; provo a
esemplificarlo in questo modo: a
20 anni dall’avvio dell’esperienza
francese e a 10 anni dall’avvio di
quella Italiana, il grosso dei
Consigli Comunali dei Ragazzi o
Consigli Municipali che dir si
voglia ha avuto inizio con il primo
triennio, della legge 285.Da alcune
esperienze pilota, che erano
autogestite ora dai Comuni, ora
dalle scuole, ora da queste due
entità insieme e ora da altri
ancora, si è passati
improvvisamente a una crescita
esponenziale - per altro
auspicabile e ancora
incrementabile - ma che è dovuta
semplicemente al fatto che ci sono
stati dei finanziamenti da utilizzare.
Nel momento in cui viene meno
questo canale, che resta di questa
esperienza? Che cosa ha
sedimentato?
Intendo dire che la
sperimentazione di approcci
bottom-up, orientati a valorizzare e
43
INCHIESTA
a far crescere le competenze
presenti all’interno della società
locale, è riuscita nel caso dei CCR
a mettere solo parzialmente in
discussione il modello top-down,
caratterizzato dalla volontà di
“calare dall’alto” decisioni e
strategie “applicandole” ai contesti
locali. Per autonomia dei CCR
intendo la possibilità di descriverli
a partire dai due differenti
approcci top-down e bottom-up .
Mi sembra che ci troviamo di
fronte ad esperienze, talora anche
interessanti e ben gestiste, che
però rispondono a quello che
viene definito un meccanismo topdown, ovvero proposto e generato
dall’alto: a fronte della disponibilità
di finanziamenti la scuola o nella
maggior parte dei casi i Comuni
decidono di fare un Consiglio dei
Ragazzi, lo propongono, mettono a
disposizione delle risorse per
attivarlo e condurlo.
Ma ci sono delle esperienze
bottom-up? Cioè qualcosa che è
nato con un’ altra direzione di
crescita, dal basso verso l’alto. E
se esistono in che maniera si
autofinanziano?
Seconda domanda: esiste un
sistema di verifica?
44
La seconda considerazione, il
secondo ambito a mio giudizio
problematico riguarda i sistemi di
verifica. I CCR sono attivi ormai da
una decina di anni. In che modo è
finora storicizzata questa
esperienza . Come la raccontiamo,
la descriviamo, la valutiamo? Quali
sono gli indicatori che possiamo
condividere? E quindi qual è la
ricaduta educativa e formativa su
una distanza che permette già di
fare considerazioni di questo tipo?
Credo che non possiamo
accontentarci della trasposizione
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
di strumenti di verifica
semplicemente mutuati dalla
didattica. Credo invece che si
debba immaginare un sistema di
verifica e valutazione che sia
anch’esso partecipato.
Infatti, le azioni finalizzate
all’incremento della partecipazione
sono sicuramente attività
complesse: tanto sono molteplici le
variabili in gioco quanto
imprevedibili gli esiti delle azioni.
Prevediamo allora la costruzione di
un sistema complesso di
osservazione / valutazione /
verifica all’interno del quale oltre
alle similarità (che permettono di
classificare e riconoscere strutture
comuni) contano le differenze, i
segni - più o meno evidenti - che
permettono di ricostruire ciò che è
successo, sia rispetto alla qualità
del processo che alla congruenza
dei prodotti e dei risultati.
In quest’ottica, sottolineare punti di
forza e di debolezza delle azioni e
delle relazioni è da considerarsi
più come una possibilità a
disposizione per la precisione
progettuale in itinere delle stesse
azioni e relazioni che non,
semplicemente, come analisi ex
post dell’avvenuto.
Si tratta di attivare un vero e
proprio sistema di valutazione che
permetta - prima, durante e dopo il controllo delle singole azioni e
dell’intero processo da parte sia
degli operatori che dei partecipanti
coinvolti.
Ritengo pertanto importante
precisare che la scelta di
individuare in maniera partecipata
il set di indicatori per descrivere
l’esperienza CCR rappresenti la
volontà progettuale di innescare il
controllo delle azioni e del
processo da parte di tutti i
partecipanti.
Terza domanda: i CCR producono
cambiamento ed innovazione
amministrativa?
Come ho già affermato
precedentemente, nella quasi
totalità dei casi il CCR parte
dall’alto, dall’idea di alcuni adulti
che decidono scientemente e
consapevolmente di progettarlo e
di attivarlo. In che maniera poi
quegli adulti cambiano le loro
pratiche, educative, relazionali,
amministrative e gestionali, a
fronte dell’attivazione di un
Consiglio dei Ragazzi? Che
cambiamento produce l’ascolto?
Dove sono i cambiamenti e le
innovazioni generate dal Consiglio
dei Ragazzi? Perché se misuriamo
quella che è stata la ricaduta
educativa sui ragazzi dobbiamo
vedere anche se su di noi, come
adulti, ci siamo coeducati, se
siamo cambiati, almeno un po’;
perché altrimenti viene meno uno
dei fondamenti, quello
coeducativo, dell’aprire un canale
di ascolto coi ragazzi.
Ad esempio, non possiamo
accontentarci che i tecnici
comunali ci forniscano delle
informazioni, ci diano ascolto,
siano disponibili ad un incontro
con i ragazzi. Il problema è : in
che maniera poi la sua pratica si
struttura in una maniera diversa? In
che misura contempla nel suo
agire l’innovazione rappresentata
dal contatto con il CCR? Perché se
no, se resta un’operazione
straordinaria, se non produce
innovazione nel sistema, tra due
anni, quando si ripresenterà la
classe nuova dovremo riattivare
tutta quella procedura straordinaria
affinché ci sia un canale di
collegamento tra, gli uffici tecnici e
le scuole.
INCHIESTA
RIVISTA ITALIANA DI RICERCA E FORMAZIONE PSICOPEDAGOGICA
Gradi di potere dei cittadini
8 - Controllo da parte dei cittadini
7 - Delega del potere
6 - Partenariato
Gradi di partecipazione simbolica
5 - Consultazione
4 - Informazione
3 - Attenuazione, contenimento
Mancanza di partecipazione
2 - Trattamento terapeutico
1 - Manipolazione
Quarto punto: una partecipazione
estetica o una pedagogia della
partecipazione?
Con il termine partecipazione
possiamo descrivere un intero
universo di significati; molte volte
controversi .
Un utile strumento di analisi delle
dinamiche partecipative è la “scala
della partecipazione” redatta dalla
Arnstein. La scala descrive la
partecipazione in termini di livelli di
coinvolgimento nei programmi e
nei processi. Ogni gradino
rappresenta il livello crescente di
intensità della partecipazione.
La scala della partecipazione, se
non altro, ci propone una
pedagogia della partecipazione.
Essa infatti non è né un dato di
partenza e nemmeno una
situazione di arrivo che
raggiungeremo un giorno in cui
tutto sarà luminoso e felice. È
invece un processo del tutto
umano e raggiungibile che è fatto
di gradini, di obiettivi successivi
uno all’altro, di impegni e di
consapevolezze, di apprendimenti
personali ed organizzativi. In altri
termini, la partecipazione non è un
obiettivo “escatologico”, un fine
ultimo: facciamo partecipazione
tutte le volte che da una situazione
precedente di coinvolgimento
andiamo in una anche
minimamente più alta. Senza una
pedagogia della partecipazione, il
rischio è di appiattirsi su una
dimensione “estetica” della
partecipazione, sul “partecipare è
bello”, perdendo di vista i reali
rapporti di potere che informano i
momenti decisionali.
Una partecipazione estetica non
mette in discussione i meccanismi
di delega che creiamo, i poteri che
cerchiamo di trasferire,
l’educazione a rapportarsi con il
potere, la capacità di accettare e
gestire i conflitti. Si accontenta
della contemplazione di se stessa,
del suo essere leggera e
piacevole. Del suo rappresentare
le dinamiche decisionali,
incentivando il ruolo di spettatori
anziché diventare consapevoli di
esse, in un ruolo di potenziali
attori.
NOTE
1 S.R. Arnstein, A leader of citizen partecipation, in “Journal of the American Institute of Planners”, vol. 34, n. 4, 1969
* Disef - Dipartimento Scienze dell’Educazione e della Formazione - Università di Torino - e-mail: [email protected]
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