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RASSEGNA STAMPA venerdì 15 gennaio 2016 L’ARCI SUI MEDIA INTERESSE ASSOCIAZIONE ESTERI INTERNI LEGALITA’DEMOCRATICA RAZZISMO E IMMIGRAZIONE WELFARE E SOCIETA’ DIRITTI CIVILI E LAICITA’ DONNE E DIRITTI BENI COMUNI/AMBIENTE CULTURA E SPETTACOLO ECONOMIA E LAVORO CORRIERE DELLA SERA LA REPUBBLICA LA STAMPA IL SOLE 24 ORE IL MESSAGGERO IL MANIFESTO AVVENIRE IL FATTO REDATTORE SOCIALE PANORAMA L’ESPRESSO VITA LEFT INTERNAZIONALE L’ARCI SUI MEDIA Da l’Espresso.it del 15/01/16 Svegliatitalia, la risposta al Family day di Roma Quaranta piazze in tutta Italia per chiedere il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali e per l’adozione anche per le coppie dello stesso sesso. Centinaia di adesioni per superare le discriminazioni. «La società è cambiata e se ne sono accorti anche i tribunali mentre il legislatore è ancora fermo» di Michele Sasso Un hastgag che diventa una parola d’ordine: Svegliati Italia. «Per fare un primo passo verso l'uguaglianza. Verso il riconoscimento dei diritti delle persone omosessuali, per l’adozione anche per le coppie dello stesso sesso, il disegno di legge Cirinnà è solo l’inizio» spiegano gli organizzatori della manifestazione capillare decisa per il 23 gennaio nelle principali piazze italiane. In occasione della discussione in Senato del disegno di legge sulle unioni civili (slittata al 28 gennaio) le associazioni nazionali Arcigay, ArciLesbica, Agedo, Famiglie Arcobaleno, Mit (Movimento identità transessuale) hanno chiamato a raccolta gli attivisti e le attiviste portando con sé orologi e sveglie per suonare idealmente la sveglia a un Paese che attende da troppo tempo il riconoscimento dei diritti delle persone Lgbt (lesbiche, gay, bisessuali e transgender). Allargando il perimetro della lotta per l’uguaglianza anche a realtà "laiche" come Amnesty International, Arci, Cgil ed Uaar, l’unione degli atei e degli agnostici razionalisti. «Gli organizzatori del family day scendono in piazza contro qualcuno, contrapponendo famiglie contro famiglie facendo leva sulla paura e la cultura dell’odio per togliere dei diritti», spiega Marilena Grassadonia presidente delle Famiglie Arcobaleno, l’associazione di genitori omosessuali. «Invece noi con il nostro amore non stiamo andando contro nessuno. Abbiamo figli di coppie omosex ormai maggiorenni. È il momento di guardare alla realtà, se ne sono accorti i tribunali e i giudici, il legislatore non può fare a meno di accorgesene». Mentre l e sigle organizzatrici del family day hanno voluto fare una piazza unica e una prova di forza, la contromanifestazione è basata sull’attivismo "liquido", in tanti luoghi per spiegare agli italiani che è venuto il momento di dare a tutti gli stessi diritti. Nessun muro contro muro. Adozioni legittimanti gay e matrimonio egualitario per le migliaia di coppie di genitori dello stesso sesso che vivono quotidianamente discriminazioni e regolamenti che non contemplano l’omosessualità: all’estero per partorire e una burocrazia che riconosce solo la madre biologica. «In queste ore – commenta Gabriele Piazzoni, segretario di Arcigay – apprendiamo dell'ulteriore slittamento in avanti della discussione in aula del ddl sulle unioni civili. Un fatto che è ormai una consuetudine nel dibattito parlamentare su questo tema ma che non intacca la nostra determinazione: il 28 gennaio con occhi e orecchie ben aperti presidieremo il dibattito dell'aula. Nessun passo indietro dovrà essere fatto rispetto all'attuale proposta di legge perché tanti sono i passi in avanti che il nostro Paese deve ancora compiere per tagliare il traguardo dell'uguaglianza». Un appello al Governo e al Parlamento per superare la discriminazioni a danno delle persone gay, lesbiche, 2 bisessuali e transessuali che non godono delle stesse opportunità degli altri cittadini italiani pur pagando le tasse come tutti. Misure concrete come la reciproca assistenza in caso di malattia, la possibilità di decidere per il partner in caso di ricovero o di intervento sanitario urgente, il diritto di ereditare i beni del partner, la possibilità di subentrare nei contratti, la reversibilità della pensione, la condivisione degli obblighi e dei diritti del nucleo familiare, il pieno riconoscimento dei diritti per i bambini figli di due mamme o di due papà, sono solo alcuni dei diritti attualmente negati. Questioni semplici e pratiche che incidono sulla vita di milioni di persone. E sui quali il governo Renzi si è impegnato a legiferare per uscire dal cono d’ombra dei diritti. Ecco l’elenco delle principali piazze in continuo aggiornamento . ANCONA 23 gennaio ore 16.30, piazza da definire AOSTA 23 gennaio ore 15.00, Piazza Émile Chanoux ASTI 23 gennaio ore 10.30, Piazza S.Secondo BARI 23 gennaio ore 16.30 piazza del ferrarese BOLOGNA 23 gennaio ore 16 piazza del Nettuno CASERTA 23 gennaio ore 17.30, piazza da definire. CATANIA 23 gennaio, ore 18.30 Piazza Stesicoro. CREMONA 23 gennaio ore 15.30, Piazza Roma (zona Pagoda) FIRENZE 23 gennaio ore 15, piazza da definire. FOGGIA 23 gennaio ore 17.00, Corso Vittorio Emanuele LUCCA 23 gennaio, ore 16.00, piazza da definire MANTOVA 23 Gennaio ore 17.00, piazza Mantegna MODENA 23 gennaio ore 16, piazza da definire. NAPOLI 23 gennaio ore 16, corteo cittadino NOVARA 23 gennaio, ore 15.30, piazza da definire. PARMA 23 gennaio ore 16:00, Piazza Garibaldi PAVIA 23 gennaio ore 15.30, piazza Della Vittoria PERUGIA 23 gennaio ore 15.30, Piazza Italia PIACENZA 23 gennaio ore 15.00, piazza da definire REGGIO EMILIA 23 gennaio ore 16, piazza Martiri del 7 Luglio ROMA 23 gennaio ore 15 di fronte al Pantheon (Piazza della Rotonda) SIRACUSA 23 gennaio ore 21, Largo 25 Luglio (tempio di Apollo) TARANTO 23 gennaio ore 20, piazza Maria Immacolata TRIESTE 23 gennaio ore 15.00, piazza da definire. UDINE 23 gennaio ore 15, Piazza San Giacomo VARESE 23 gennaio, ore 15.00, piazza Monte Grappa. VERCELLI 23 gennaio ore 15:00, piazza Cavour VIAREGGIO 23 gennaio ore 16.00, piazza Mazzini VICENZA 23 gennaio ore 16 piazza dei Signori Roma, presidio permanente al Senato dal 26 gennaio alle 16:00 al 28 gennaio alle 14:00 nella piazza delle Cinque Lune. http://espresso.repubblica.it/attualita/2016/01/14/news/svegliatitalia-la-risposta-del-mondolgbt-al-family-day-di-roma-1.246828 del 15/01/16, pag. 4 Così il team antimafia perse la partita 3 La polemica. Il «partito dell’onestà» contro la squadra di calcio sottratta ai boss e sostenuta da Libera Angelo Mastrandrea Non era mai accaduto, in Italia, che una squadra di calcio, sia pur di un campionato minore, fosse recuperata alla mafia. Il piccolo miracolo è avvenuto a Quarto, 40 mila abitanti alla periferia nord di Napoli che si è visto sciogliere il Comune per infiltrazioni camorristiche per due volte in vent’anni. Sequestrata nel 2012 dalla procura di Napoli perché sotto il controllo del clan Polverino, che si spartisce il territorio con i potenti Nuvoletta affiliati a Cosa Nostra, la Ssd Quarto era stata affidata a un commissario, Luca Catalano. A quest’ultimo il pm Antonello Ardituro, per non attendere i tempi lunghi della confisca, diede il mandato di affidare la gestione a una società creata ex novo, la Nuova Quarto per la legalità, della quale fu nominato «dirigente unico» Luigi Cuomo, già presidente dell’associazione anti-racket Sos Impresa. Fu messa in piedi una rete di piccoli imprenditori e azionisti (quota massima, tassativamente, di non oltre 5 mila euro a testa) e, con il sostegno di Banca Etica e dell’associazione Libera la squadra recuperata ripartì e, al suo primo campionato, fu promossa dalla Promozione all’Eccellenza. Il campo sportivo fu affidato dai commissari prefettizi che reggevano il Comune al singolare team, che si fondava su un rigoroso codice di comportamento da rispettare, in campo e fuori. In tre anni sul prato sintetico del Giarrusso hanno sfilato in tanti: la Carovana antimafie dell’Arci, una rappresentanza in maglietta e pantaloncini dell’Associazione nazionale magistrati, perfino la Nazionale di calcio allenata da Cesare Prandelli. La squadra anticamorra non ha però avuto vita facile. Fin dall’inizio è stata bersagliata da intimidazioni e attentati: una volta le reti delle porte bruciate, un’altra le panchine segate, un’altra ancora il furto notturno dei trofei vinti (tra i quali quello a un torneo per la legalità) nonostante le telecamere a circuito chiuso. Allenamenti e partite erano rigorosamente blindati, al punto che la Nuova Quarto era soprannominata «la squadra degli sbirri». Dopo una partita particolarmente difficile a Villa Literno, Cuomo era sbottato: «Ogni trasferta per noi si trasforma in una caccia all’uomo». L’utopia della Nuova Quarto è durata tre anni, fin quando ai commissari prefettizi è succeduto in Comune il partito dell’«onestà»: il Movimento 5 Stelle. È accaduto che la neosindaca Rosa Capuozzo, il cui nome in questi giorni è sulla bocca di tutti, appena insediata ha convocato i dirigenti della squadra presentando il conto della gestione dell’impianto: sei mesi di arretrati da versare più altri sei mesi di anticipo. Troppo per una società già in crisi, retrocessa in Promozione e abbandonata dal mister Ciro Amorosetti dopo che i giocatori migliori erano stati ceduti per le difficoltà economiche. Il 24 agosto scorso, nemmeno tre mesi dopo l’insediamento dei pentastellati, Cuomo ha riconsegnato le chiavi del campo sportivo al Comune e non ha iscritto la squadra al nuovo campionato, dichiarando con accento polemico: «La verità è che l’unico obiettivo della sindaca è stato di liberare lo stadio da noi». Per farci cosa? La vicenda sarebbe da relegare tra le tante esperienze positive del sud Italia durate lo spazio di un mattino, se la vicenda del Giarrusso non fosse al centro delle ipotesi investigative del pm napoletano Henry John Woodcock. Tutto ruota attorno alla figura di Giovanni de Robbio, con 840 preferenze il consigliere grillino più votato al Comune. È quest’ultimo a ricevere, in un’intercettazione tra il primo e il secondo turno delle comunali, l’indicazione di votare Capuozzo per fare in modo che lo stadio fosse affidato all’imprenditore di pompe funebri Alfonso Cesarano, considerato vicino al clan Polverino, noto per aver organizzato le spettacolari esequie del boss Vittorio Casamonica a Roma, le cui immagini la scorsa estate avevano fatto il giro del mondo. La prima cittadina, «parte lesa» nell’inchiesta in quanto vittima dei «ricatti» di De Robbio, si è difesa sostenendo che il M5S ha riportato lo stadio in mano pubblica senza 4 consegnarlo a nessuno. Ma allora perché accanirsi contro la Nuova Quarto? Il sospetto è che sia stata favorita un’altra squadra. Si tratta del Quartograd, interessante progetto di «calcio popolare» nato per iniziativa dei Carc (i Comitati di appoggio alla resistenza per il comunismo). Il Quartograd, che in pochi anni ha scalato i campionati minori dalla Terza categoria alla Promozione, è una squadra antifascista e antirazzista in cui giocatori, tifosi e azionisti sono alla pari. Ogni domenica attira centinaia di tifosi sugli spalti del Giarrusso e pure nelle trasferte, dove sventolano le bandiere con i due martelli incrociati su una stella rossa, simbolo della squadra. La star è il ventinovenne Diego Armando Maradona Sinagra, figlio tardivamente riconosciuto del pibe de oro e della napoletana Cristina Sinagra, che già giocava nella Ssd Quarto del presidente Castrese Paragliola. Quest’ultimo è oggi in carcere, e ha suscitato polemiche la recente partecipazione a un triangolare con la Quartograd di suo figlio Sabbatino, che dalla sua pagina Facebook ha poi osannato il genitore e la vecchia società. L’ipotesi è che Capuozzo abbia ricambiato un favore: i Carc hanno sostenuto i 5 Stelle, con una spericolata operazione di “entrismo” in un movimento considerato l’unica opposizione reale a Pd e Pdl. Ma il buco nella ciambella è riuscito solo in parte: volevano un assessore allo Sport e non l’hanno ottenuto. Da allora i rapporti paiono essersi raffreddati al punto che la Quartograd oggi denuncia che da quando il Giarrusso è tornato al Comune è costretta ad allenarsi senza corrente né acqua calda. Avrebbe potuto essere un derby tanto bello quanto insolito, quello tra le due squadre di Quarto. Peccato che si sia giocato fuori dal campo, con un arbitro apparso di parte: i 5 Stelle. E che attorno ad esso continui ad aleggiare l’ombra della camorra, che – questo è chiaro – non ha mai digerito lo sgarro di una squadra recuperata e restituita alla città. del 15/01/16, pag. VII (Firenze) Rossi: “Incontrerò i tre ragazzi gay, mobilitiamoci” Il governatore dopo la raffica di casi di omofobia sull’ultimo anche un’interrogazione in Senato SIMONA POLI ROSSI lo vuole incontrare, la senatrice del Pd Cantini presenta un’interrogazione parlamentare sulla sua denuncia e l’Arci Toscana prepara una campagna per rilanciare le iniziative per la prevenzione e il contrasto dell’omofobia. La storia che ieri su Repubblica ha raccontato il diciottenne di Pontedera Daniel Santucci, due volte aggredito e picchiato per la sua omosessualità, sta scatenando reazioni. «Depositerò un’interrogazione urgente al ministro Alfano per verificare il comportamento delle forze dell’ordine in merito ai fatti denunciati dal giovane Daniel Santucci al quotidiano La Repubblica. In modo particolare voglio appurare se il 113 chiamato dalla vittima dell’aggressione avrebbe derubricato la vicenda come “privata”. È chiaro che i sempre più frequenti casi di omofobia che si registrano anche in Toscana, vanno perseguiti in modo drastico, serve una legge ad hoc». Daniel sostiene di aver subìto un’aggressione a calci e pugni da parte di un gruppo di giovani qualche giorno fa nella piccola stazione di San Romano, vicino a Pontedera, mentre da solo aspettava sui binari il treno per Pisa. «Appena se ne sono andati», dice, «ho chiamato il 113, ero spaventatissimo. Ma i poliziotti mi hanno risposto che sono cose da risolvere “tra ragazzi” e allora ho deciso di denunciare la cosa pubblicamente». Su questo punto il questore di Pisa Alberto Francini dice: «Mi riservo qualsiasi valutazione sul 5 fatto dopo avere svolto gli accertamenti necessari che certamente faremo per fare chiarezza e se saranno confermate queste accuse saranno presi provvedimenti nei confronti dell’operatore». Il governatore toscano Rossi vuole incontrare personalmente Daniel: «Ci terrei molto a parlare con lui e anche con gli altri ragazzi che recentemente sono stati oggetto di violenze e sopraffazioni, quello aggredito a Castelfiorentino e l’altro che è stato contestato in un liceo di Pisa. Bisogna isolare i violenti e reagire con durezza e punire quando è giusto. Bisogna anche intervenire prontamente quando arrivano denunce. Parlerò con questi ragazzi, decideranno loro se l’incontro sarà in forma riservata o pubblica». Rossi pensa anche ad una iniziativa rivolta alle scuole: «Un tempo la gente scendeva in piazza per queste cose, credo che sia il caso di valutare di promuovere una mobilitazione insieme ad associazioni, enti e cittadini. Il prossimo anno dedicheremo all’omofobia uno dei due appuntamenti in cui la Regione coinvolge studenti e insegnanti, quello del 10 dicembre sui Diritti dell’uomo e il giorno della Memoria il 27 gennaio. Questi episodi non possono essere liquidati in modo sbrigativo come “ragazzate”, guai se lo facessimo». Tanti i commenti sul profilo facebook di Daniel: «Mi ha fatto tanta rabbia leggere sul giornale cosa ti hanno fatto», scrive un ragazzo che non lo conosce. «Perché tu come tutte le persone meriti di fare la tua vita come ti pare ». O ancora: «Spero che le persone che ti hanno fatto del male paghino. Certa gente di merda l’omosessualità la chiama “malattia”, io la chiamo innamorarsi di una persona per quello che è non per quello che ha tra le gambe. Forza Daniel». Maria Chiara Panesi, dell’esecutivo Arci Toscana e coordinatrice per l’associazione della commissione nazionale diritti civili e laicità, ricorda l’episodio delle presunte “favole gender” avvenuto a Massa: «Quella manipolazione della realtà dice molto sullo stato di consapevolezza di un paese che, non a caso, non riesce a fare una legge sull’omofobia. Servono politiche coraggiose che liberino le persone omosessuali dal timore di sentirsi sbagliate. Gli aggressori sono tutti giovanissimi ed è evidente che il contrasto all’omofobia va fatto in particolare nelle scuole. Le denunce sono una piccola parte del fenomeno, ancora resiste una mentalità che preferisce nascondere anziché mostrare il problema». Da Pisa Today del 14/01/16 La notte Rossa al Circolo ARCI di Putignano il 23 Gennaio Eventi a Pisa Circolo ARCI Putignano Dal 23/01/2016 Al 23/01/2016 Ore 16.30 Piazza Xxv Aprile, 17 · Pisa Putignano La Staffetta in collaborazione con il Circolo Arci di Putignano, il GAS Putignano, il BiOrto, Università del Saper Fare e il Circolo Arci Placido Rizzotto organizza la Notte Rossa dei Circoli Arci in Toscana alla Casa del Popolo di Putignano il 23 gennaio. Ecco il Programma: ore 16:30 Presentazione dell'evento e delle realtà organizzatrici al Circolo, inoltre durante il pomeriggio verranno organizzate attività ed esperienze con le bambine e i bambini. ore 18:00 Corso organizzato dall'Università del Saper Fare: Regole pratiche e consigli per un buon rapporto bancario; decreto sul Bail-in. ore 19:00 Proiezione a cura del Circolo ARCI Placido Rizzotto del documentario "Filorosso. Arrigo Diodati, la Resistenza, l'ARCI" della durata di 30 minuti dedicato ad Arrigo Diodati uno dei fondatori storici dell'ARCI 6 ore 20:30 Cena a base di Canapa a cura dell Associazione Biorto abbinato alla Hempathy, birra artigianale a base di canapa prodotta dalla Staffetta. ore 22:00 un'oretta con Simon&Garfunkel a cura dell'Associazione Arci La Staffetta. Durante tutto l'evento sarà possibile degustare e conoscere il mondo delle birre artigianali guidato dal Presidente dell'Associazione. Per info e prenotazioni mandate un'email a: [email protected] o [email protected] http://www.pisatoday.it/eventi/notte-rossa-putignano-23-gennaio-2016.html Da la Nazione del 14/01/16 Obiettori non in regola in Comune Il ministero "blocca" quattro giovani. Bufera dopo l’ispezione. Pd: "Fatto grave, sfiducia nel sindaco" Santa Maria a Monte, 15 gennaio 2016 - Quattro giovani del servizio civile venivano impiegati "in attività non previste dal progetto". Questo è quanto è stato riscontrato dagli ispettori del Dipartimento della gioventù e del servizio civile nazionale della presidenza del consiglio dei ministri che per due volte hanno effettuato controlli in Comune a Santa Maria a Monte dopo le segnalazioni dell’Arci nazionale. Le verifiche degli ispettori portano la data del 27 e del 28 ottobre 2015. La comunicazione ufficiale della presidenza del consiglio dei ministri con le contestazioni e gli addebiti porta la data del 2 novembre. Quattro degli otto giovani impegnati nel servizio civile in Comune a Santa Maria a Monte hanno perso questa opportunità (tra l’altro con conseguente ammanco economico di oltre 400 euro mensili). La sanzione irrogata al Comune è la «revoca dell’approvazione del progetto» per quattro degli otto giovani del servizio civile. I restanti quattro restano al loro posto. Evitata la cancellazione dall’albo del Comune. Gli ispettori della presidenza del consiglio dei ministri hanno accertato la destinazione dei volontari del servizio civile in una sede diversa da quella fissata nel contratto di servizio civile nazionale, con attività non attinenti a quelle indicate nel progetto. Come è noto, la vicenda del servizio civile al Comune di Santa Maria a Monte era emersa nello scorso mese di novembre. Erano stati gli stessi responsabili del progetto, che è gestito dall’Arci nazionale tramite l’Arci Valdera, a mettere in evidenza certe problematiche riferite, in particolar modo, all’impiego dei giovani in attività diverse da quelle del progetto e, in alcuni casi, riconducibili a lavori competenti a dipendenti da ritenere in pianta stabile del Comune. Tra questi, ad esempio, la segreteria del sindaco che risulta chiusa; gli altri tre erano stati destinati all’ufficio tecnico. Durissimo il commento dei consiglieri comunali della minoranza Pd, con il capogruppo Antonio Torrini. «Quanto accaduto è un fatto grave – attaccano i consiglieri comunali del Pd – Il sindaco Parrella e l’amministrazione devono dare spiegazione ai cittadini. Utilizzare i ragazzi in attività estranee a quelle del progetto, talvolta anche in mansioni che competono ai dipendenti comunali, è inconcepibile. Si è privato questi ragazzi di compiere serenamente un percorso culturale e di crescita ed ora sono stati rimossi. Il sindaco, nonostante le visite degli ispettori, ha sempre sostenuto di operare correttamente, anche quando le è stato fatto notare che la volontaria della sua segreteria oltre a svolgere un’attività improria ricopriva un posto in pianta organica. Come si può avere fiducia in un sindaco e in una amministrazione cosi?». gabriele nuti http://www.lanazione.it/pontedera/santa-maria-monte-obiettori-comune-1.1645988 7 Da il Friuli del 14/01/16 Cas'Aupa sospende l'attività Udine - "La chiusura del circolo è dovuta alle differenti interpretazioni dei regolamenti e delle normative vigenti tra Arci e autorità" Cas'Aupa si ferma, ma non si piega. Il Circolo Arici di Udine questa sera ha comunicato con una nota ufficiale pubblicata su Facebook che "le attività del circolo saranno sospese fino a tempo indeterminato. Cercheremo di garantire lo svolgersi delle iniziative programmate individuando luoghi adattati, esterni al circolo". "La chiusura di Cas*Aupa - continua la nota - è dovuta a delle differenti interpretazioni dei regolamenti e delle normative vigenti tra Arci e autorità ed è già previsto un confronto in merito. Il circolo è uscito da pochi mesi da una processo durato 5 anni, in cui siamo risultati assolti. Per la tutela dei soci, dei volontari, e del direttivo vogliamo evitare il ripetersi di questa situazione. "Ovviamente, questo periodo di interruzione creerà un gravissimo danno economico alla nostra associazione - continuano gli organizzatori -: se vi stanno a cuore tutte le attività svolte in questi ultimi sette anni a Cas’Aupa e volete continuare a sostenere questo progetto, partecipate numerosi agli eventi che continueremo ad organizzare. Noi vi promettiamo che lavoreremo per tornare ad essere la vostra casa quando siete fuori casa". http://www.ilfriuli.it/articolo/Cronaca/Cas-quote-Aupa_sospende_l-quoteattivit%C3%A0/2/150720 Da Estense.com del 14/01/16 Il rock ‘muore’ a Ferrara Ultimo party rock'n'roll al Renfe. Gli organizzatori: "Stava calando l'affluenza ma forse torneremo" Rock never dies. Non è sempre vero. O almeno non a Ferrara. Rimasta orfana di uno degli appuntamenti più amati da tutti i giovani rockettari di Ferrara e provincia: il Rock in Town. La celebre serata del Renfe chiude i battenti dopo 5 anni di onorata carriera a suon di pogo. L’ultima festa ad alto contenuto rock sarà domani, venerdì 15 gennaio, in compagnia degli Strike. Dopo il live della nota band ferrarese, tutti in pista per ballare fino alle 4 del mattino sotto le note dei grandi del rock vecchia scuola. Ed è proprio questo uno dei problemi che ha portato questa bella avventura al capolinea. “Il rock old school ha fatto il suo tempo, il punto di forza della serata è che aveva una bella identità che, però, non è riuscita ad adeguarsi ai tempi che cambiavano” commenta Michele ‘Sam’ Castellazzi, uno degli organizzatori che ha assistito, con rammarico, al “passaggio di tendenze dal rock duro e incazzato a quello più leggero e fresco”. “Ora la gente è più votata all’indie e, per questo, stava calando l’affluenza alle nostre serate” nota Sam che impugna la causa della chiusura anche alla mancanza di disponibilità degli stessi organizzatori: “Non c’è più tempo per starci dietro come a un figlio” scherza il ‘papà’ del fomat disco-rock che ne parla come se fosse una sua creatura. Ma è davvero un addio? “Per il momento è la fine del Rock in Town a cadenza mensile, ci prendiamo un po’ di tempo per pensare se e come si può riproporre” replica Sam che, insieme ai compagni di avventure Giori e Pedro, sta varando due possibili opzioni: “O un ritorno a spot un paio di volte l’anno o trasformarlo in qualcosa di nuovo”. E come verrà rimpiazzato il venerdì che rimane libero dalla programmazione? “Confermati gli appuntamenti reggaeton, Remember e Gimme Five, che rimangono in piedi e blindati, si 8 sta pensando a una serata funky e di riproporre l’appuntamento trash. In attesa di capire che fine faremo, manteniamo il marchio vivo: non vogliamo scomparire ma ragionarci sopra”. C’è ancora spazio per la speranza, la stessa che nel febbraio 2011 aveva portato i tre organizzatori a proporre questo format al Renfe. Sam aveva già organizzato due date rock al College, Giori veniva dall’esperienza dell’Urban che stava chiudendo e Pedro lavorava per lo Zoo come pr e voleva fare il salto di qualità: insieme hanno deciso di credere in questo progetto e hanno trovato il locale di via Bologna più che predisposto a realizzarlo. Da allora, decine di band hanno suonato nel circolo Arci e una miriade di giovani hanno cantato a squarciagola i pezzi dei Doors, Led Zeppelin, System of a Down, Clash, Kiss, Guns N’ Roses, Nirvana e Foo Fighters. Nella scaletta in stile Virgin Radio non potrà mancare un tributo a David Bowie. La chiusura della serata sarà dedicata al Duca Bianco con la proposta di “Heroes” come ultima canzone. Nella stessa settimana muore il re del rock e il Rock in Town. Non rimane che salutare degnamente l’ultimo Rock in Town di sempre con il live degli Strike e il dj set di Cuki e Paolo Ameschi che, fra l’altro, sono gli ideatori delle mani giganti di cartone. Un souvenir che è appeso in tutte le camere dei veri fan del party rockettaro del Renfe. Uno zoccolo duro che è duro a morire. A loro gli organizzatori lanciano un ultimo, rincuorante, messaggio: “Rock’n’roll will never die”. http://www.estense.com/?p=521300 Da il resto del carlino del 14/01/16 Cortei, il prefetto rassicura "Massiccio cordone di sicurezza" Di Bari: "Numerosissimi uomini ‘assoldati’ per la giornata di sabato, siamo fiduciosi che tutto si svolga nella massima serenità possibile" di VALENTINA REGGIANI Modena, 15 gennaio 2016 - «Grazie ai servizi predisposti, ai rinforzi repentinamente richiesti e alle misure valutate nel corso del comitato sicurezza pubblica – come sempre avviene per manifestazioni di questo genere – siamo fiduciosi sul fatto che la giornata si svolga nella massima serenità possibile». Il prefetto Michele di Bari ‘getta acqua sul fuoco’ in merito al presidio di Forza Nuova, previsto per le 16 di domani e legato alle minacce subite a Vignola da un gruppo di minori, ad opera di quattro giovani stranieri. Il prefetto, nel ricordare come sia stato rispettato il diritto a manifestare, spiega che saranno presi tutti gli accorgimenti tecnici necessari, al fine di mantenere la situazione il più serena possibile. «Il cordone di forze dell’ordine – commenta – sarà massiccio, grazie ai numerosissimi uomini ‘assoldati’ per l’occasione». Eppure l’aggettivo ‘traquillo’ o ‘sereno’ non si lega facilmente al clima che si respira in queste ore in città. Sono numerose le reazioni esplose ieri, a seguito della scelta del prefetto di consentire comunque la manifestazione e nel cuore della città, piazzale Redecocca. Dopo le scritte apparse mercoledì mattina sui muri del centro, che senza mezzi termini chiedono ai fascisti di restare lontani da Modena, ieri anche gli esponenti di Forza Nuova hanno fatto sentire la propria voce, spiegando di non essere intenzionati a rispondere alle provocazioni. «Proprio ieri è uscito il rapporto 2015 sul mercato del lavoro in Regione e la maglia nera per l’incremento della disoccupazione giovanile spetta a Modena, con un +9,1% di ragazzi e ragazze tra i 15 e i 29 anni senza lavoro. È su dati terrificanti, come quello sopra citato – affermano gli esponenti di Fn –, che Gian Carlo 9 Muzzarelli dovrebbe lavorare. Al contrario, il primo cittadino continua ad aizzare e scatenare l’ira dei centri sociali, che stanno imbrattando e devastando le mura del centro storico con frasi agghiaccianti». Insomma la tensione, inutile negarlo, è alta. Ogni ‘fazione’ che scenderà domani in piazza ha detto la sua, dichiarando ‘guerra’ agli esponenti di Forza Nuova. «Come gruppo antifascista modenese – scrivono i rappresentanti dello stesso – scenderemo nelle strade sabato per ribadire il nostro dissenso alla manifestazione di Forza Nuova. Il movimento è antagonista e dichiara in maniera ferma e irreversibile che il fascismo troverà a Modena una ferma opposizione; tutti e tutte saremo per le strade della nostra città a non permettere che le loro bandiere e i loro slogan possano essere ostentati». Intanto la sinistra invita la cittadinanza a partecipare al presidio organizzato da Anpi, Cgil, Uil, Arci contro la manifestazione, in programma domani alle 14.30 presso il Sacrario della Ghirlandina. «La manifestazione sarà in Piazza Redecocca, in quella stessa piazza nata dal bombardamento del 13 maggio del 1944, in cui persero la vita più di cento persone» spiegano i partiti. Anche la Lega non la ‘manda a dire’, accusando invece la sinistra di essere ufficialmente in crisi. Anche i marxisti-leninisti di Modena e provincia insorgono, condannando con forza la manifestazione. «Non ci spieghiamo come mai sia stato concesso, da questura e prefettura, a un movimento bandito dalla Costituzione italiana, suolo pubblico per esprimere liberamente le proprie idee cariche di odio». Da Gazzetta di Reggio del 14/01/16 Forza Nuova ottiene il via libera a Modena A Reggio Luca Vecchi si era limitato a definire la manifestazione della destra una «stupida provocazione» condita da «proclami aberranti», sottolineando l'inopportunità del suo svolgimento in un luogo che è simbolico per l'antifascismo reggiano. A Modena, invece, il sindaco Carlo Muzzarelli aveva chiuso la porta in faccia al gruppo d’estrema destra Forza Nuova, proponendo di impedire il comizio del suo leader, Roberto Fiore, che aveva chiesto la concessione della centralissima piazza XX Settembre per una manifestazione da fare sabato, come a Reggio. «Si tratta – aveva dichiarato Muzzarelli – di un'offesa alla città. Chiederò che non venga concessa a Forza Nuova nè piazza XX Settembre, nè alcuno degli altri luoghi carichi di significato per la storia antifascista». In questi casi, però, l'ultima parola spetta ai rappresentanti del Governo. Il prefetto Michele Di Bari ieri ha preso una decisione che soddisfa solo in minima parte la richiesta del sindaco. Forza Nuova non avrà a sua disposizione piazza XX Settembre, ma un altro luogo più defilato e meglio controllabile dalle forze dell'ordine, piazzale Redecocca. Il Comitato per l’ordine e la sicurezza della Ghirlandina s’era riunito per discutere l’iniziativa di Forza Nuova, che prende lo spunto dai fatti di Vignola, dove alcuni giovani italiani sono stati minacciati da quattro coetanei stranieri islamici. Cgil, Uil, Arci e Anpi formeranno nel pomeriggio un presidio antifascista, organizzato in piazza Torre. Una contromanifestazione sarà svolta al mattino dal Collettivo Guernica. (l.s.) http://gazzettadireggio.gelocal.it/reggio/cronaca/2016/01/14/news/forza-nuova-ottiene-ilvia-libera-a-modena-1.12780381 Da Tele Reggio del 14/01/16 Destra e sinistra domani in piazza 10 In piazza Martiri del 7 luglio, alle dieci, si sono date appuntamento realtà e associazioni di destra. Fino alle 13.30 manifesteranno il loro ‘orgoglio’, contesteranno l’amministrazione di centro sinistra esprimendo anche vicinanza alle persone denunciate dalla Digos per i blitz a sfondo razzista avvenuti nelle scorse settimane ai danni di sedi della Caritas, della Dimora di Abramo, di sindacati e di partiti avversari. L’iniziativa ha suscitato, oltre che a lunghi strascichi di polemiche, una viva risposta da parte delle associazioni e delle forze politiche antifasciste di Reggio. In piazza Prampolini, sempre a partire dalle 10, si terrà la manifestazione organizzata dall’Anpi. Al fianco dei partigiani ci saranno anche il sindaco e il presidente della provincia, assieme al Pd, i sindacati e a una schiera di associazioni, da Istoreco all’Arci. A porta Santa Croce si raccoglieranno i partecipanti dell’altra contromanifestazione, indetta dai centri sociali, alla quale hanno aderito anche la Fiom e l’Arcigay. Si tratta di un corteo, che sfilerà in direzione di Piazza Del Monte, e che potrebbe poi confluire nella vicina iniziativa davanti al Municipio, se verrà raccolto l’invito dei partigiani a una unirsi in una piazza antifascista forte e plurale. Ampio sarà il dispiegamento di forze dell’ordine. Principale compito degli agenti evitare parapiglia tra persone di orientamento opposto. Per questioni di sicurezza è stato fatto spostare in piazza Fontanesi il banchetto che la Lega Nord avrebbe dovuto allestire in piazza del Monte. di Andrea Bassi http://www.telereggio.it/2016/01/15/destra-e-sinistra-domani-in-piazza/ Da Reggio Online del 14/01/16 Destra e Sinistra in piazza: con l'Arci anche Massimo Zamboni e Mara Redeghieri Hanno risposto all'appello diversi artisti: tra gli altri Massimo Ghiacci (Modena City Ramblers), Fabrizio Tavernelli, Max Collini (Offlaga Disco Pax, Spartiti), Jukka Reverberi (Giardini di Mirò), Little Taver, Gasparazzo, Brigata Lambrusco, Olivier Manchion (Arzan) Massimo Zamboni REGGIO EMILIA - La contromanifestazione organizzata dall'Anpi e altre sigle legate alla Resistenza e alla sinistra per sabato mattina in piazza Prampolini a Reggio per replicare alla presenza della Destra in piazza Martiri (leggi), continua a raccogliere adesioni. Anche l'Arci sarà in piazza con l'Anpi per "manifestare l’inopportunità di consegnare piazza Martiri del 7 luglio a un raduno delle destre, si tratta infatti di uno dei luoghi simbolo dell'antifascismo nazionale, che la destra continua a chiamare “Piazza Cavour” negando così l'eccidio del 1960". Arci ha lanciato un appello ai musicisti e agli artisti affinché siano in piazza sabato mattina. Hanno già aderito all’appello dell’associazione Massimo Ghiacci (Modena City Ramblers), Fabrizio Tavernelli, Massimo Zamboni, Mara Redeghieri, Max Collini (Offlaga Disco Pax, Spartiti), Jukka Reverberi (Giardini di Mirò), Little Taver, Gasparazzo, Brigata Lambrusco, Olivier Manchion (Arzan), e altri che in queste ore stanno facendo pervenire la propria adesione. "C’è una canzone in particolare che ricorda bene quanto sia inopportuna la presenza della destra in piazza Martiri del 7 luglio - chiosa l'Arci - Si chiama Per i morti di Reggio Emilia e la scrisse Fausto Amodei il cui nome è legato indissolubilmente a quello dei Cantacronache. Questo brano scritto nel 1960 in occasione degli scontri reggiani tra gli operai e la Celere del governo Tambroni è ancora conosciutissima ed stata reinterpretata da decine di artisti". 11 Sul fronte opposto, Pietro Negroni, che della manifestazione “Libertà ed Orgoglio della Destra a Reggio Emilia” è uno degli ideatori, risponde agli attacchi accusando il sindaco Vecchi e le forze di sinistra di aver tentato di "cancellare una manifestazione legittima" e di aver creato un "clima di assurda tensione". http://www.reggionline.com/?q=content/destra-e-sinistra-piazza-con-larci-anche-massimozamboni-e-mara-redeghieri Da Sassuolo 2000 del 14/01/16 Giorno della Memoria: “Dalla notte all’alba della democrazia” e il pranzo a Novi di Modena GiornataMemoria-NoviNell’ambito della ricorrenza del Giorno della Memoria, sabato 23 e domenica 24 gennaio, al Circolo Arci Taverna di Novi di Modena sono in programma rispettivamente l’history telling “Dalla notte all’alba della democrazia” e il tradizionale pranzo dell’Anpi novese. La Storia e la Memoria ispirano lo spettacolo che va in scena sabato 23 gennaio alle ore 21. Si tratta dell’history telling “Dalla notte all’alba della democrazia”, ovvero il racconto di memoria, musica, parole e immagini di Stefano Garuti, Francesco Grillenzoni e Giovanni Taurasi che ripercorre la storia della provincia modenese tra guerra, Resistenza e dopoguerra. Uno storico (Taurasi) e due musicisti (Grillenzoni e Garuti, voce, chitarra e fisarmonica dei Tupamaros) ripercorrono il triennio tra l’8 settembre 1943 e il 2 giugno 1946, giorno del referendum per la Repubblica e dell’elezione dell’Assemblea Costituente, con una narrazione che si muove tra storia, memoria, testimonianze e musica, e tra la dimensione locale della provincia di Modena e la dimensione nazionale, nel periodo più cruciale della storia d’Italia. Lo spettacolo racconta in modo originale uno dei periodi cruciali della nostra storia, locale e nazionale, attraverso brani della tradizione popolare e contemporanei, arrangiamenti arditi e versioni dialettali inedite. L’history telling, giunto alla sua quinta tappa nel tour che sta attraversando la provincia modenese, si pone nel contesto delle celebrazioni del Giorno della Memoria. Per l’occasione, quindi, approfondirà in particolare i temi della deportazione e dello Shoah. Lo spettacolo organizzato dall’ANPI di Novi e Rovereto, è anche promosso da quest’ultimo, oltre che dal Comune di Novi di Modena e dall’Istituto storico di Modena. Le celebrazioni legate al Giorno della Memoria proseguono domenica 24 gennaio, alle 12.30, con il pranzo di tesseramento organizzato dall’Anpi di Novi di Modena. Si tratta di un momento conviviale ormai consolidato nell’agenda e legato fortemente alla ricorrenza, nonché occasione di incontro tra il passato costellata da tragici eventi e un presente in cui la memoria diventa occasione di rielaborazione, riflessione e progettazione. Per informazioni e adesioni al Pranzo di Tesseramento dell’Anpi di Novi di Modena – 24 Gennaio Fabio Gregori: 338-8702273 – Veles Gallesi: 338-3765509. http://www.sassuolo2000.it/2016/01/14/giorno-della-memoria-dalla-notte-allalba-dellademocrazia-e-il-pranzo-a-novi-di-modena/ 12 Da il mattino del 14/01/16 Matierno, dopo il raid arriva il fuoco di Rosanna Gentile Notte di lavoro per i caschi rossi di Salerno a Pastorano: alle 21.30 di mercoledì un vasto incendio divampa nel campo container di via dei Sanniti ed è subito caos. Completamente distrutti due moduli abitativi, salvato dalle fiamme un terzo. Per fortuna non si sono registrati danni a persone, solo attimi di agitazione e tanto spavento per i residenti, ancora sconvolti dal raid violento di domenica sera ai danni di alcuni cittadini stranieri del centro Sprar Arci di Matierno. Ancora una volta sirene nei quartieri collinari, dunque, ma dei vigili del fuoco, il cui tempestivo intervento ha scongiurato il peggio circoscrivendo il rogo ed evitando che si estendesse. Per domare le fiamme sono state necessarie più di due ore di lavoro, l’impiego di tre squadre e di rispettive autobotti. Sulla causa dell’incendio indagano, ora, le forze dell’ordine concentrate a seguire la pista del dolo. A suggerire questa ipotesi, da vari elementi come l’aver trovato recisa la catena che teneva chiuso il cancello della recinzione. Dettaglio, questo, che presenta ancora delle ombre: bisogna ancora capire se a tagliare la catena siano stati gli autori del rogo o semplicemente dei senza tetto alla ricerca di un posto dove trascorrere la notte. Realizzato nel 1980 all’indomani del devastante terremoto dell’Irpinia per dare momentaneo alloggio a coloro che avevano perduto la propria casa, il campo è stato abbandonato solo di recente. L’amministrazione comunale, non senza fatica, è riuscita a spopolare definitivamente il campo dissuadendo nuove occupazioni abusive delle casette, divenute negli anni inefficienti e fatiscenti. E proprio per evitare ciò l’area è stata totalmente transennata. http://www.ilmattino.it/salerno/matierno_dopo_raid_arriva_fuoco-1482975.html Da Il caffè.tv di Latina del 14/01/16 Quei 45mila stranieri che abitano a Latina e che vogliono restare Spesso sono visti con diffidenza e raramente si integrano ma, a conti fatti, sono una risorsa preziosissima: sono i 45.749 stranieri, comunitari o con regolare permesso di soggiorno, che lavorano, versano periodicamente i contributi e spendono nella nostra provincia. E’ quanto emerso dal dossier statistico immigrazione 2015, realizzato dal Centro Studi e Ricerche Idos, in partenariato con la rivista interreligiosa “Confronti” e con la collaborazione di Unar (Ufficio nazionale antidiscriminazioni razziali). I dati, frutto di una meticolosa ricerca racchiusa in un volume di 480 pagine, sono stati presentati, e poi commentati nell’ambito di un convegno organizzato dall’Arci di Latina da Elvis W. Koloko, dell’ufficio immigrazione nazionale, Raniero Camerotti, referente regionale del centro ricerche Idos, ed Ejaz Ahmad, giornalista e mediatore culturale. In un solo anno, il numero degli stranieri in provincia di Latina è aumentato del 6,8%, oltre il doppio rispetto all’incremento nazionale (3,3%) ed il triplo in rapporto alle altre province laziali, ma gran parte di questi nuovi arrivati è subito stato inserito nelle aziende agricole pontine la cui carenza di manodopera è diventata ormai cronica. Terre fertili, prodotti tipici e commercio agroalimentare non fanno più gola ai cittadini del posto che si stanno spostando in massa al nord, sia d’Italia che d’Europa (i pontini residenti all’estero, ovvero gli iscritti all’AIRE, alla fine del 2014 erano ben 26.348), incentivando così indiani e bengalesi a trasferirsi in 13 provincia di Latina con moglie e figli. A dimostrarlo il fatto che siano calati drasticamente i trasferimenti di denaro all’estero (-2,8%), che siano incrementate le nascite (678 i bimbi nati da genitori non italiani in un solo anno) e che sia cresciuto il numero degli studenti (6325, oltre il 7% del totale). E se lo sfruttamento è un fenomeno ancora troppo diffuso, sono molti coloro che ce la fanno e che, giorno dopo giorno, migliorano la propria posizione economica, lavorativa e sociale. Basti pensare che in provincia di Latina sono ben 3698 le imprese cosiddette a gestione immigrate, ovvero quelle in cui la metà dei soci e degli amministratori sono stranieri, per un incremento complessivo rispetto allo scorso anno di quasi il 10%. Indiani: gli stranieri più virtuosi Statistiche alla mano, il fatto che siano gli indiani gli stranieri più numerosi in provincia di Latina è una vera e propria fortuna. Secondo il rapporto dell’Unar infatti, spendono più rispetto ad altri immigrati nei luoghi in cui risiedono tendendo ad inviare denaro nella loro città d’origine soltanto quando non hanno altra scelta (a differenza dei cinesi che trasferiscono nella madre patria interi stipendi). Hanno inoltre un concetto molto profondo della famiglia, motivo per cui tendono a portare in Italia non solo mogli e figli, ma anche genitori e parenti lontani che vivono e spendono nel Bel Paese i propri risparmi. Stando ai dati, sono anche coloro che delinquono di meno (il dossier non tiene però in considerazione il fattore irregolari) e sono considerati dei gran lavoratori. Essendo extracomunitari e mettendo al primo posto l’ottenimento del permesso di soggiorno, gli indiani sono anche gli stranieri che evadono di meno le tasse. Basti pensare che sul totale dei non nati in Italia residenti in provincia, sono 14.662 i registrati all’Inail come occupati, ovvero quasi un terzo del totale, al contrario dei rumeni i quali, secondo i numeri, accetterebbero di buon grado anche un impiego in nero. http://www.ilcaffe.tv/articolo/20380/quei-45mila-stranieri-che-vogliono-restare Da il Giornale di Brescia del 14/01/16 Libri in movimento: si inizia con il Dono LIBRI IN MOVIMENTO Cinque temi e una ventina d’incontri per la prima edizione della rassegna letteraria itinerante «Libri in movimento», promossa dai circoli Arci Caffè Letterario Primo Piano, Colori e Sapori, Puerto Escondido - L’Altro, e la rivista «Inkroci» dell’associazione di promozione sociale Magnolia Italia. Tutti i venerdì sera, fino a fine maggio, nelle sedi dei tre circoli saranno presentati libri (e autori), secondo un calendario tematico a scadenza mensile, stimolando riflessioni e incontri. «Si tratta di un’iniziativa che consente di fare rete, sia territoriale sia culturale» commenta Laura Castelletti, vicesindaco e assessore alla Cultura del Comune, che ha concesso il suo patrocinio insieme a Provincia, Arci provinciale, Cgil, Anpi e Fondazione Asm. «È il format a essere particolare - chiarisce Lara Gregori, caporedattore di «Inkroci» -. Non si tratta di singole presentazioni di libri con scopo autopromozionale, bensì di una rassegna tematica durante la quale i libri diventano compagni di viaggio». Venerdì 15 gennaio il primo appuntamento, alle 20.30 nella sede di Puerto Escondido a Calvagese, in località Terzago 11. Il tema di gennaio, il Dono, sarà inaugurato dalla scrittrice Laura Mazzeri, autrice del volume «Tra due vite. L’attesa, il trapianto, il ritorno. Una storia vera». I prossimi mesi, invece, saranno dedicati al tema delle Maschere (febbraio), delle Migrazioni (marzo), delle Resistenze (aprile) e del Lavoro (maggio). Ai «venerdì della narrazione» si aggiungono un incontro seminariale sulla storia della 14 Resistenza italiana, sabato 2 aprile, e una due giorni conclusiva della manifestazione, l'11 e il 12 giugno, dedicata ai mestieri del libro http://www.giornaledibrescia.it/brescia-e-hinterland/libri-in-movimento-si-inizia-con-il-dono1.3059943 15 INTERESSE ASSOCIAZIONE Da Redattore Sociale del 14/01/16 Riforma terzo settore, il Forum: "Traguardo vicino ma attenzione a..." Documento del Forum sugli ultimi punti critici affrontati nella discussione parlamentare sul testo del disegno di legge delega. Il portavoce Barbieri: “Fisco, rappresentanza e autofinanziamento non vanno ignorati” 14 gennaio 2016 - 17:48 ROMA – L’autofinanziamento, il sistema fiscale, la questione della rappresentanza: anche dopo i passi avanti delle ultime settimane, restano ancora alcuni punti non chiariti che rischiano di rimanere tali e di essere rinviati al futuro, segnatamente ai decreti attuativi che toccherà al governo predisporre. A segnalare il rischio e a chiedere un supplemento di attenzione è il Forum del terzo settore, che presentando il documento “La riforma che vorremmo” chiama a Roma, in un incontro pubblico, il sottosegretario Luigi Bobba, il senatore Stefano Lepri, il deputato Paolo Beni a fare il punto della situazione sulla riforma del terzo settore. Provvedimento che pare destinato ad accelerare dopo essere rimasto impantanato per mesi in Commissione Affari costituzionali al Senato, dove era approdato dopo l’approvazione in prima lettura alla Camera il 9 aprile 2015. Quattro pagine per spiegare quello che va bene, i chiarimenti e le precisazioni che rispetto al testo Camera sono state concordate e che saranno votate nelle prossime settimane, e quei punti sui quali ancora il Forum chiede un supplemento di analisi. Il portavoce Pietro Barbieri segnala il tema dell’auto-finanziamento delle organizzazioni, segnatamente quelle di promozione sociale, che aiutano la comunità “senza gravare in alcun modo sulle tasche dello Stato”. Resta aperto il tema del volontariato, la necessità di consentirgli uno sviluppo permettendo ai cittadini di esprimere se stessi attraverso la partecipazione: “Dobbiamo regolare la gigantesca sperimentazione che di fatto è stata messa in campo a partire dalla legge 266 e vanno messe regole per impedire il lavoro nero e regolare i rimborsi spese”. Poi c’è il fisco: “C’è ancora una somma confusione su cosa si debba scrivere nel testo di legge, dice Barbieri, ma il sistema fiscale per il terzo settore è oggettivamente insostenibile per la gran quantità di norme che originano anche situazioni kafkiane: se si vuole sostenere il terzo settore e la sua capacità di spinta sociale, la questione fiscale va affrontata tutta”. E Barbieri sottolinea in particolare la situazione delle molte attività culturali o di sport per tutti che “oggi vengono equivocate” e senza le quali però “questo paese non avrebbe possibilità di far svolgere attività relazionali e sportive ad un gran numero di cittadinI”. Infine, il tema della rappresentanza. Il nuovo testo di legge conterrà un nuovo organismo, chiamato Consiglio nazionale del terzo settore: “Ben venga questo spazio istituzionale di incontro con le organizzazioni, visto che gli Osservatori che fin qui si sono avuti non hanno funzionato. Apprezziamo lo sforzo, anche se resta il fatto che questo mondo, che nasce dal basso, fatica ad essere rappresentato in luoghi istituzionali”. “La riforma del terzo settore – conclude Barbieri - è una opportunità gigantesca per tutti, occorre arrivare presto ad un testo definitivo evitando il rischio di un percorso parlamentare infinito”. (ska) Riforma terzo settore, il governo: “Accelerare subito” 16 Il sottosegretario Bobba invita il Parlamento a cambiare passo: “Risolti nelle ultime settimane molti nodi critici, ora la vera emergenza non è sui contenuti ma sui tempi”. Fra gli emendamenti un fondo esclusivo dedicato alle associazioni: previsti 30 milioni di euro 14 gennaio 2016 - 17:31 ROMA – “La vera emergenza sulla riforma del terzo settore non è tanto sui contenuti ma sui tempi: bisogna prendere un altro passo, accelerare e arrivare all’obiettivo che all’inizio della primavera la legge possa essere definitivamente approvata”. Sono parole del sottosegretario al Lavoro e Politiche sociali, Luigi Bobba, che nel corso dell’incontro con il Forum del Terzo settore invita lo stesso Forum ad attuare una “robusta sollecitazione”, definita come “necessaria”. “E’ bene tirare fuori questo provvedimento dal limbo in cui è caduto al più presto”. Bobba passa in rassegna alcuni punti della riforma sulle quali si è concentrato il confronto delle ultime settimane, in particolare negli incontri con i due relatori della riforma, Stefano Lepri alla Camera e Donata Lenzi al Senato. E sottolinea una delle novità principali dei nuovi emendamenti presentati al Senato, la previsione di un nuovo fondo per le associazioni e le organizzazioni del Libro Primo del codice civile che promuova lo sviluppo di progetti sul territorio: l’emendamento Lepri prevede uno stanziamento di 30 milioni. Una previsione che si accompagna alla creazione di un “Consiglio nazionale del terzo settore” come forma di rappresentanza, che sostituiranno i vari Osservatori oggi previsti. Bobba sottolinea il chiarimento, con lo scioglimento delle ambiguità presenti nel testo della Camera, che le imprese sociali sono parte integrante degli enti di terzo settore ed esorta a non “inseguire fantasmi”: un riferimento all’impresa sociale e alla temuta “persecuzione” delle associazioni relativamente alle ai vincoli nel caso di attività di scambio di beni e servizi: “L’81% del fatturato del terzo settore è realizzato dal 4,5% degli enti: non c’è nessun rischio che i controlli si scatenino sull’altro 95,5% degli enti”. L’obiettivo è quello di incoraggiare le organizzazioni che hanno un bilancio consistente in produzione e scambio di beni e servizi ad assumere la forma societaria, cooperativa o non. Bobba parla di “emendamento equilibrato” sui Centri di servizio per il volontariato e sottolinea la novità maggiore sull’impresa sociale, per cui la destinazione degli utili è permessa entro i limiti della cooperazione a mutualità prevalente esclusivametne per le forme societarie, mentre chi fa impresa sociale come associazioni e fondazioni non avrà alcuna facoltà di redistribuzione degli utili. Sulla parte fiscale, infine, si lavora ancora: “Stiamo discutendo con i due relatori – dice Bobba - per trovare soluzioni equilibrate”. (ska) Riforma terzo settore, il relatore Lepri: “Vicini al traguardo” Il relatore al Senato conferma i passi avanti compiuti nelle ultime settimane con governo e deputati: “Sciolti molti punti critici, approvazione in Aula entro marzo”. Ancora da chiarire la parte fiscale, verosimile un suo rinvio ai decreti attuativi 14 gennaio 2016 - 17:22 ROMA – “Siamo vicini al traguardo, abbiamo fatto un duro e impegnativo lavoro, credo che l’obiettivo di un’approvazione definitiva entro la primavera possa essere raggiunto”. Il relatore al Senato della legge delega di riforma del terzo settore, Stefano Lepri, conferma l’impressione che il lavoro compiuto nelle ultime settimane si rivelerà decisivo: gli incontri dello stesso Lepri con il sottosegretario Bobba, la relatrice alla Camera Lepri e un ristretto 17 numero di deputati e senatori ha dato i suoi frutti: “La strada è in discesa, abbiamo chiarito in modo soddisfacente molti punti, puntiamo ad approvare un testo che non debba più tornare in Senato”. La calendarizzazione in Commissione Affari costituzionali al Senato c’è già, la votazione degli emendamenti partirà a breve dopo il contributo della Commissione Bilancio: “Ci vorrà un mese per la discussione, poi siamo pronti ad andare in Aula per approvare un testo che possa poi avere il via libera anche dalla Camera”. In questo modo l’approvazione definitiva arriverebbe nella primavera 2016, e dunque il governo avrebbe tempo poi fino alla primavera 2017 per i decreti delegati. Nel merito del testo, dagli incontri delle ultime settimane sono stati sciolti i dubbi su otto dei dieci articoli del testo: “Mi riservo di studiare meglio i suggerimenti dati dal Forum del terzo settore ed eventualmente ci sarà spazio per emendare ancora in Aula”, dice Lepri. Quanto agli articoli 4 e 9, che riguardano in modo particolare la normativa fiscale, la partita è ancora aperta: “E’ verosimile che i nodi aperti vengano rimandati ai decreti attuativi, ma certamente è necessaria una drastica semplificazione: dobbiamo fare in modo che le associazioni, soprattutto le piccole, possano operare con un sistema semplificato, anche se non va nascosta la necessità di un ulteriore sforzo verso una maggiore trasparenza”. Lepri precisa di ritenere fondamentale il superamento del concetto di ente non commerciale e di onlus, con la definizione di un unico regime che possa valere per tutti gli enti e che faccia riferimento alla tipologia di entrata e al fatto che vi sia o meno una distribuzione degli utili. Fermo restando che attività non economiche, contributi e donazioni sono esenti e non vanno tassate e che il regime fiscale ordinario si applicherebbe alle attività non di interesse generale: “Un modello – dice Lepri – che non aumenterebbe il carico fiscale nei confronti degli enti di terzo settore ma darebbe loro semplificazione e chiarezza”. (ska) Terzo settore, la riforma che da due anni sembra imminente Se ne parla da tempo ma i lavori sono andati molto più lentamente delle speranze del governo: quasi due anni di iter ma al Senato ancora si attendono le votazioni più importanti. Dall’impresa sociale al volontariato, passando per il servizio civile, ecco cosa c’è in ballo 14 gennaio 2016 - 10:33 ROMA - E’ una delle riforme intraprese dal governo Renzi di cui si parla meno, anche se di tanto in tanto è lo stesso presidente del Consiglio a ricordare la sua importanza, una riforma di quel terzo settore “che in realtà è il primo”, come ebbe a dire ormai quasi due anni fa, quando l’idea di dare una nuova cornice normativa al settore del non profit fu lanciata. Una riforma attesa da tempo e di cui nessuno negava la necessità: nelle previsioni del governo avrebbe dovuto diventare legge già sei mesi fa, ma la realtà ha riservato sorprese e complicato un processo che pareva più lineare. Prima le linee guida, poi una consultazione pubblica, poi la presentazione di un disegno di legge delega da parte del governo (era l’agosto 2014), poi l’inizio di un iter parlamentare che ancora è lontano dal concludersi. Alla Camera dal settembre 2014, l’approvazione in prima lettura è dell’aprile 2015, quella del Senato non arriverà prima di qualche altra settimana. Ammesso che la discussione in commissione Affari Costituzionali – dove il testo è incardinato – riesca effettivamente a sciogliere i nodi e ad arrivare ad un nuovo testo capace di reggere l’onda d’urto del ritorno in seconda lettura a Montecitorio. L’obiettivo del Partito Democratico, che finora ha seguito e guidato l’intera discussione, è infatti quello di arrivare ad una versione definitiva nel corso di queste settimane, con un lavoro congiunto fra deputati e senatori che possa restringere il più possibile – o perfino 18 eliminare – ogni ipotesi di ulteriori cambiamenti alla Camera dei deputati. Il governo, lo ha già ripetuto più volte, ha lavorato già ai decreti attuativi e il percorso, una volta approvata la legge delega, dovrebbe essere abbastanza rapido. Intanto nel primo pomeriggio a Roma (Hotel Nazionale, ore 14) il Forum terzo settore incontrerà i rappresentanti di Governo e Parlamento nel corso di un incontro dal titolo "La riforma che vorremmo". Ad aprire i lavori sarà il portavoce del Forum, Pietro Barbieri.E’ prevista la partecipazione del Ministro del Lavoro e delle Politiche Sociali, Giuliano Poletti e dei relatori della Riforma del Terzo settore alla Camera e al Senato, on. Donata Lenzi e sen. Stefano Lepri. Il testo. La legge delega il governo alla riforma del Terzo settore, dell'impresa sociale e alla disciplina del Servizio civile universale. Tante le esigenze sul piatto: semplificare il procedimento per il riconoscimento della personalità giuridica degli enti, razionalizzare il sistema di registrazione, definire il “terzo settore” individuando le attività di interesse generale che lo caratterizzano, indicare i requisiti per l’accesso alle agevolazioni previste (“separare il grano dall’oglio”, era stata in principio uno degli slogan più gettonati). La legge affronta il tema del volontariato (ma troppo poco e male, secondo le principali associazioni) e si concentra in particolare sull’impresa sociale, allargandone l’ambito di attività e aprendo alla possibilità di distribuirne gli utili: una previsione, questa, che è stata finora oggetto di numerose polemiche per una presunta apertura del non profit al profit. Ulteriore necessità affrontata dalla legge è quella delle funzioni di vigilanza, monitoraggio e controllo sugli enti del terzo settore, per le quali si è esclusa l’ipotesi di una Autorithy dedicata affidando invece le attività al ministero del Lavoro e delle Politiche sociali. Nel ddl anche la delega ad intervenire sulle misure fiscali e di riordino delle disciplina, con la definizione di ente non commerciale ai fini fiscali e la descrizione del regime di tassazione agevolato garantito in virtù delle finalità solidaristiche e di utilità sociale dell’ente. Nel testo, anche la nascita del “servizio civile universale”, che resta nell’alveo dell’art. 52 della Costituzione (“difesa non armata” della patria) per giovani fra 18 e 28 anni, con una durata del servizio fra otto e dodici mesi e un contingente previsto di 100 mila giovani in servizio ogni anno. Da Avvenire del 15/01/16, pag. 26 Riforma del Terzo settore Il Forum: «Fare presto» «Ma attenzione ad autofinanziamento e Fisco» LUCA LIVERANI ROMA Otto nodi su dieci sembrano sciolti. Per i due articoli rimasti, quelli sul fisco, il chiarimento arriverà probabilmente coi decreti attuativi. La sfida vera, secondo il governo, è un’altra: «L’emergenza non è tanto sui contenuti – dice Luigi Bobba – ma sui tempi: bisogna prendere un altro passo, accelerare e arrivare all’obiettivo che a inizio primavera la legge possa essere definitivamente approvata». «Siamo vicini al traguardo – replica ottimista il relatore Lepri – e la strada è in discesa». Sarà. Ma la riforma del Terzo settore, che sembrava cosa fatta sei mesi fa, fatica a tagliare il filo di lana. E il non profit chiede ancora ritocchi: per incentivare i cittadini al volontariato, valorizza- re le reti, chiarire i rapporti con gli enti locali, semplificare il fisco. 19 Il faccia a faccia arriva all’incontro organizzato dal Forum del Terzo settore, con il portavoce Pietro Barbieri, il sottosegretario al Lavoro e al Welfare Luigi Bobba, il relatore alla Camera del progetto, Stefano Lepri. È lo stesso Bobba a invitare il Forum ad attuare una «robusta e necessaria sollecitazione»: «È bene tirare fuori al più presto questo provvedimento – dice – dal limbo in cui è caduto ». Bobba sottolinea i progressi sui punti discussi negli incontri con i due relatori, Lepri e Donata Lenzi al Senato. Sottolinea le novità importanti, come il nuovo fondo per le organizzazioni che promuovano progetti sul territorio, 30 milioni nell’emendamento Lepri. Importante anche la creazione di un «Consiglio nazionale del Terzo settore » di rappresentanza. Bobba ribadisce che le imprese sociali sono parte integrante degli enti di Terzo settore. Esorta a non temere «persecuzioni » sulle associazioni riguardo ai vincoli nel caso di attività di scambio di beni e servizi: «L’81% del fatturato del Terzo settore – ricorda – è realizzato dal 4,5% degli enti: non c’è nessun rischio che i controlli si scatenino sull’altro 95,5% degli enti». L’obiettivo è incoraggiare le organizzazioni più impegnate nella produzione e scambio di beni e servizi ad assumere la forma societaria, cooperativa o non. «Abbiamo fatto un duro e impegnativo lavoro – assicura dal canto suo Lepri – e credo che l’obiettivo di un’approvazione definitiva entro la primavera possa essere raggiunto ». Come promesso dal ministro Maria Elena Boschi. «Così il governo avrebbe tempo – dice il relatore – fino alla primavera 2017 per i decreti delegati », cui è demandato il nodo fiscale. Barbieri però elenca vari punti delicati: l’auto-finanziamento delle organizzazioni, quelle di promozione sociale, che aiutano la comunità «senza gravare sulle tasche dello Stato»; gli strumenti per incentivare l’impegno nel volontariato; per chiarire gli eventuali rimborsi spese ma impedire abusi; per valorizzare le reti associative di secondo livello, preziose in una galassia frammentata; per puntualizzare i criteri su autorizzazioni e accreditamenti con le amministrazioni locali; per tutelare i lavoratori delle imprese sociali. Infine il fisco: dalla razionalizzazione degli obblighi formali, alla cancellazione dell’Iva per le Ong che acquistano beni da usare all’estero a scopo umanitario. Da fare ce n’è. Da Vita del 15/01/16, pag. 20 IN TRENTINO Il servizio civile guarda al profit «Pronti a coinvolgere le nostre imprese» "Ci sono tot giovani pronti a partire per il servizio civile? Bene, facciamo un bando ad hoc". Tanto semplice quando efficace: è la filosofia alla base del Scu, Servizio civile universale. Che nell'unica esperienza italiana dove è partito per davvero, nella Provincia di Trento - a cui il Governo (almeno nella denominazione) pare ispirarsi, - ha appena chiuso il primo periodo di .sperimentazione, dopo i primi invii dello scorso aprile: «Sette cali in 8 mesi, 150 progetti presentati, 414 ragazzi e ragazze avviati, il 60% per un servizio di 12 mesi, il 40% da 3 a 11 mesi». Numeri notevoli quelli che illustra Giampiero Girardi, direttore dell'Ufficio servizio civile della Provincia autonoma di Trento. I primi 30 giovani, tutti dai 18 ai 28 anni (come nel Servizio civile nazioanale - anche la diaria è identica: 433,80 euro mensili) hanno appena concluso l'esperienza con una soddisfazione che Girardi ha rilevato essere «molto alta sia per loro sia per le organizzazioni-coinvolte, che sono in continuo aumento», sottolinea. Un dato importante quest'ultimo «perché noi partiamo dai bisogni sociali dei ragazzi: vediamo il servizio come un'esperienza altamente formativa e non un modo per recuperare manodopera gratuita da parte degli enti. Che hanno capito e risposto positivamente, anche perché il beneficio di avere una persona motivata nel proprio organico è garantito». 20 Il Servizio civile universale provinciale trentino, è stato istituito con un provvedimento regionale, la cosiddetta legge Lunelli nel 2013, all'interno della Legge finanziaria della Provincia. Prevede due incontri annuali di restituzione con tutti i volontari in servizio O'ultimo si è svolto a metà dicembre 2015) e dà anche la possibilità a un ente di ripresentare lo stesso progetto, «perché se funziona bene non è necessario perdere tempo per riscriverlo », sottolinea il direttore. La tipologia di progetti avviati «riguarda nel 60% dei casi il settore socio-assistenziale, f>er il 30% quello culturale, il restante 10% altri settori». Cinque bandi su sette sono stati promossi utilizzando il Piano nazionale Garanzia giovani, mentre per il futuro l'Ufficio servizio civile trentino sta percorrendo una strada inedita: «Abbiamo incontrato le associazioni datoriali per chiedere loro se sono interessate ad accettare ragazzi e ragazze in servizio, pagandosi per intero la quota relativa», sottolinea Girardi, «abbiamo raccolto vivo interesse e nello stesso tempo ci siamo trovati con i sindacati per fare tutto alla luce del sole, perché se nel tempo ci saranno realtà aziendali non meritevoli per motivi specifici loro ce lo segnaleranno». Nessun tabù nella scelta di aggiungere esperienze profit alla classica visione non profit del servizio civile: «Ribadiamo che anche in questo caso l'obiettivo è la formazione del ragazzo: che essa avvenga in un'associazione, in μn museo o in una realtà produttiva, l'importante è che sia valida e spendibile», conclude Girardi. - Daniele Biella Da Avvenire del 15/01/16, pag. 10 Mafia e beni confiscati «Basta fango su Libera» Accuse a don Ciotti, si muovono le cooperative DIEGO MOTTA «È da molti mesi che attorno a don Luigi Ciotti tira una brutta aria. È giunto il momento di dire basta». Il mondo cooperativo fa quadrato intorno al fondatore di Libera, dopo le accuse pesanti lanciate da un magistrato antimafia, Catello Maresca, sulla gestione dei beni confiscati alle cosche e sull’impegno dell’organizzazione fondata dal sacerdote torinese. Le cooperative, cui sono stati affidati immobili e aziende agricole sequestrate ai boss, vengono peraltro chiamate in causa anch’esse dal pm, che le definisce «non sempre affidabili», «false e con il bollino», «multinazionali» che agiscono in regime di monopolio e in maniera anticoncorrenziale. «Basta coi giudizi generici da parte di persone che non sanno di cosa parlano – sbotta Mauro Lusetti, presidente nazionale di Legacoop –. Il contributo che Libera ha dato in questi vent’anni alla ricostituzione di un tessuto di legalità in tante parti d’Italia è stato fondamentale». «Non è la prima volta che si tenta di delegittimare e gettare fango sull’impegno di chi è in prima linea contro la criminalità – osserva il numero uno di Confcooperative, Maurizio Gardini –. Pur avendo il massimo rispetto per chi ha pronunciato quelle parole, sono rimasto sorpreso e preoccupato. Anche perché, insieme a don Luigi, siamo i primi ad essere parte lesa. Succede tutte le volte che, nelle maglie della legge, finiscono per inserirsi realtà che nulla hanno a che fare con lo spirito di legalità e trasparenza che portiamo avanti ». La paralisi amministrativa 21 Siamo di fronte a una solidarietà obbligata, motivata magari col fatto che molte coop hanno avuto in gestione terreni e ville sequestrati a Cosa nostra? No, è l’esatto contrario. Il terzo settore ha tutto l’interesse a reagire contro il rischio di infiltrazioni illegali, che è «reale», ha ammesso Ciotti. Sarà perché la ferita di Mafia Capitale è ancora aperta, sarà perché la voglia di fare pulizia dentro il settore è alta (sono state 100mila le firme raccolte lo scorso anno contro le false coop) fatto sta che la polemica scatenatasi intorno a Libera ha provocato una reazione immediata. «Chiariamo subito – osserva Lusetti –: se ci sono stati errori e infrazioni, vanno puniti. Ma rifiuto l’idea che migliaia di persone perbene, ragazzi e giovani che lavorano per stipendi mediamente bassi, possano fare affari con l’antimafia». Il nodo è un altro e attiene alle lentezze e ai ritardi della normativa: in questi vent’anni c’è stata infatti una fortissima azione di contrasto, attraverso i sequestri, da parte di polizia e magistratura contro i beni delle cosche. Ma dopo il contrasto sul campo, è subentrata la paralisi. Amministrativa, innanzitutto. «È rimasta un’inadeguatezza di fondo nel recupero, nella gestione e nella riassegnazione delle ricchezze bloccate. Ci sono state troppe difficoltà in questo campo – continua Lusetti –. Per questo chiediamo maggiore efficienza: ogni bene confiscato che non si riesce a portare a nuova vita è un’occasione persa». C’è una necessità stringente di «sveltire i processi e di ridurre i tempi che intercorrono dal sequestro all’affidamento» dice Gardini, senza dimenticare «il valore simbolico dello spregio consumato ai danni dei clan, nelle stesse terre in cui da sempre hanno dettato legge: che si tratti di agricoltura sostenibile, di ristorazione, di servizi a favore delle comunità, la vittoria della legalità in contesti sociali difficili dà sempre fastidio». Oltre le intimidazioni Quanto ai condizionamenti 'ambientali' per i dipendenti soci che lavorano in queste zone, «la nostra risposta è sempre la stessa: chiedere più partecipazione alla vita dell’impresa sociale, più formazione, massimo rigore » spiega il numero uno di Legacoop. «Possiamo contare su migliaia di giovani animati dal miglior senso civico e tutto questo è una grande ricchezza – spiega il presidente di Confcooperative –. Ma resta decisiva la visione e la conoscenza dei meccanismi d’impresa. Non ci si improvvisa alla guida di aziende agricole o di alberghi confiscati alle mafie. Per questo, occorre lavorare al nostro interno per garantire i massimi standard di professionalità». Tanto più che lo strumento giuridico delle cooperative è utilizzato con grandissima facilità da chi vuole approfittarne, per delinquere o fare affari sulla pelle delle vittime. Non va dimenticato che ogni giorno la cronaca è piena di intimidazioni, agguati, minacce nei confronti di chi prova a muoversi in un solco nuovo, fatto di legalità e solidarietà. «Libera in questi anni è stata pietra d’inciampo per molti – riconosce Gardini – spesso sostituendosi anche a soggetti istituzionali che hanno fatto fatica a restare a fianco dei cittadini». Servirebbe un colpo di coda di tutto il sistema, «un gesto di grande coraggio per dare un segnale che le istituzioni possono vincere e riaffermare la legalità». Gli attacchi di Franco La Torre prima e di Maresca poi, senza dubbio pesano, «ma se ci sono patologie vanno rese chiare, non va fatto un attacco generico. Siamo pronti a fare la nostra parte per difendere un patrimonio che, dal basso, ha dimostrato di poter cambiare l’Italia». 22 ESTERI Da Vita del 15/01/16, pag. 16 COOPERAZIONE INTERNAZIONALE Frigenti: <<Mediterraneo e Africa le mie priorità>> Intervista alla neo-direttrice dell’Agenzia Il nuovo anno inizia con la nascita della nuova Agenzia italiana per la cooperazione internazionale. Un soggetto cruciale la cui direzione è stata affidata a Laura Frigenti, giunta pochi giorni fa a Roma dagli Stati Uniti per insediarsi nella sede di via Contarini. Nel momento in cui realizziamo l'intervista il nostro Governo è ancora privo del viceministro per la cooperazione internazionale. Ciò malgrado, esordisce la neo direttrice «devo dire che le stutture politiche esistenti all'interno del ministero mi hanno dato un grande appoggio nelle persone del ministro, dei due sottosegretari e del direttore generale della Cooperazione Svilippo (Dgcs)». - Concretamente, come intende gestire questa fase iniziale? I lavori sono stati avviati il giorno ·dopo la mia nomina in novembre. Esistono due tipi di preoccupazione. Da un lato, la necessità di garantire la continuità delle attività in corso. L'Agenzia è nuo va, ma in realtà eredita tutta una serie di programmi e progetti già esistenti. Nessuna di queste attività deve soffrire per rallentamento. Ci sono poi le sfide che riguardano il passaggio dalla Dgcs all'Agenzia e la sua implementazione. - In che modo intende contribuire alle bozze dei decreti attuativi preparate dalla Dgcs e con quali appoggi? La Direzione ha svolto un grande lavoro preparatorio di cui sono molto grata. Posso contare sui colleghi che hanno avuto fino al 31 dicembre per decidere di passare o meno all'Agenzia - se ne contano almeno un centinaio - e che assieme a me stanno lavorando su queste bozze. Tra loro ci sono esperti, il personale comandato e il persone di ruolo della Dgcs. L'Agenzia prevede poi la presenza . di due vicedirettori, uno con mansioni tecniche, il secondo con mansioni giuridico- amministrative, che saranno affiancati da 16 dirigenti. In tutto ci sararino circa 200 persone a Roma e un centinaio all'estero. - Nel 2016 l'Agenzia dovrebbe disporre di circa 290 milioni di euro. Un po' poco, non crede? Rispetto alle sfide che ci attendono sì, ma i fondi tornano a crescere. Detto que- Etiopia, l'acqua potabile di ActionAid nel nome di Vicky Alcuni bambini della città di Lera, nel distretto di Azernet in Etiopia, in fila per poter raccogliere l'acqua potabile ad uno dei chioschi di distribuzione costruiti in diversi punti della città, attraverso il progetto Vicky "firmato" da ActionAid. L'iniziativa nasce nel 2006, quando Vicky, una ragazza inglese di 28 anni che sosteneva ActionAid attraverso l'adozione a distanza di un bambino, perde la vita in un incidente stradale sto, la questione non è quanto sono voluminose le risorse degli aiuti pubblici allo sviluppo, ma il modo con cui si riesce ad utilizzarle per far convergere flussi finanziari privati a favore dello sviluppo. È questo il challenge, la sfida, principale dei nuovi Obiettivi di sviluppo sostenibile approvati dalle Nazioni Unite, indipendente dal livello di crescita economica di un Paese. ~· - Quali sono i criteri affinché il settore privato acceda ai fondi pubblici in modo paritario rispetto alle Ong? È ormai chiaro a tutti che gli Aps non sono più gli unici flussi da prendere in considerazione. Abbiamo un'enorme quantità di risorse che si muovono - dal settore 23 privato alle Ong passando per la filantropia - gli Aps dovrebbero avere un ruolo catalitico in cui far convergere attori dotati di modalità operative e obiettivi diversi. L'agenda con il settore privato va ben oltre la semplice gestione dei fondi degli Aps. Nel caso delle imprese, devono fare da leva per investiinenti molto più importanti. - Come vede il ruolo del Consiglio nazionale della cooperazione allo sviluppo? È un foro importantissimo in cui con frontarsi con tutti gli stakeholders della cooperazione e assieme ai quali discutere delle questioni di fondo della cooperazione. - E quello della Cassa Depositi e Prestiti? Tra tutti i modelli esistenti, mi sembra che la Banca di sviluppo tedesca Kfwsia stato un detonatore fondamentale per amplificare gli obiettivi della cooperazione tedesca. Spero che riusciremo a creare le stesse convergenze anche in Italia. - Quali le aree geografiche e gli assi prioritari dell'Agenzia? Quelli definiti dal ministero degli Affari esteri e della cooperazione internazionale nel documento di programmazione triennale. Vista la posizione geografica del nostro Paese, non posso non condividere la scelta del Maeci di fare del Mediterraneo e dell'Africa delle priorità assolute, con una particolare attenzione al versante delle migrazioni. Non bisogna poi tralasciare terni importanti su cui l'Italia si è impegnata come i minori, le opportunità ai giovani, ecc. - Qual è la sua visione del futuro della cooperazione italiana all'interno del sistema internazionale? Oggi lavoriamo in .un cerchio di attori molto ampio e variegato. Con la nuova agenda post2015, la decisione sulle azioni da implementare e la gestione dei vari flussi finanziari si spostano dalle capitali dei Paesi del Nord alle capitali dei Paesi beneficiari. Ogni Paese sarà responsabile dell'implementazionè dei Sustainable Development Goals. I Paesi beneficiari dovranno quindi dotarsi di capacità istituzionali in grado di gestire queste risorse e monitorarne l'utilizzo. È altrettanto fondamentale creare a livello locale una società civile forte e capace di controllare l'uso di questi fondi. Su questa sfida, da cui dipende la trasparenza degli aiuti, l'agenzia sarà impegnata, sulla scia di quanto già fatto dalla Dgcs e in linea con il documento programmatico del Maeci. - Joshua Massarenti del 15/01/16, pag. 14 Kamikaze nel cuore di Giacarta “L’Is voleva un’altra Parigi” Sotto attacco il centro della città: sette morti e venti feriti. Nel mirino Starbucks e un cinema. Caccia ai membri del commando in fuga RAIMONDO BULTRINI GIACARTA. Ci sono ancora transenne e soldati a bloccare la strada dove passanti e curiosi si accalcano a tarda sera nel luogo dove ieri un numero ancora imprecisato di kamikaze si è fatto esplodere spostando, dopo Parigi e Istanbul, il terrore a Oriente, nel Paese islamico più popoloso del mondo: l’Indonesia. Sei esplosioni e una battaglia fra terroristi e polizia hanno sconvolto la capitale Giacarta alle prime ore del mattino, nel cuore del lussuoso distretto commerciale di via Thamrim, che ospita negozi e ristoranti frequentati dagli stranieri e diversi uffici delle Nazioni Unite Le vittime, sette, sono soprattutto membri del commando, ma anche un turista canadese e 24 un passante indonesiano. Tutto è iniziato quando il primo kamikaze del commando si è fatto eplodere davanti a uno Starbuks, seguito da altri due: mentre i vetri andavano in frantumi decine di persone hanno cominciato a scappare e si sono trovate di fronte altri terroristi che hanno sparato. Qui ci sono state le due vittime, mentre i terroristi attaccavano la stazione di polizia al centro di un incrocio. Subito dopo aver colpito il bar, gli stessi uomini armati insieme ad altri terroristi imbottiti di esplosivo hanno assaltato il retro del grande magazzino Sarinah, il primo del genere aperto nella metropoli da 10 milioni di abitanti nel lontano 1962. Qui la battaglia è stata cruenta: le forze dell’ordine ci hanno messo ore ad aver ragione dei terroristi. Nel frattempo altri due membri del commando si sono fatti esplodere poco lontano, ma le testimonianze sono confuse. «Abbiamo ucciso 2 uomini del commando, tre si sono fatti saltare in aria, e altri tre sono stati arrestati », hanno detto le autorità. Ma il gruppo dei terroristi secondo alcune fonti era molto più numeroso, almeno 14 persone sostengono i media locali. «Nel giro di 10 minuti è stato l’inferno », dice un dipendente del bar che è tornato a vedere gli effetti delle esplosioni detonate una dopo l’altra nelle poche decine di metri che separano lo Starbuks dal Sarinah. Se il bilancio alla fine non è stato più drammatico sembra solo il frutto del caso e della massiccia presenza di forze dell’ordine allertate da giorni, a sentire le descrizioni che circolano dai racconti di testimoni e vittime. In ogni caso gli ideatori dell’impresa sono riusciti nell’intento di riportare questo Paese a maggioranza sunnita al centro degli obiettivi dell’Islam fondamentalista, anche se manca ancora ogni prova certa sulla matrice dell’attacco. Nessun gruppo locale ha rivendicato ufficialmente l’impresa, ma l’Is si è attribuito attraverso un sito simpatizzante la paternità degli attacchi contro “un assembramento di crociati” delle “forze anti Stato islamico”: la mente sarebbe Bahrun Naim, arrestato nel 2011 per traffico di armi, rilasciato e dall’anno scorso segnalato a Raqqa, capitale del cosiddetto Stato Islamico, in Siria. Ma diversi ex membri della Jamaat Islamya reclamano di essere i potenziali rappresentanti locali dell’Is, come il gruppo capeggiato da Abu Wardah, noto come Santoso, leader di una formazione chianata East Indonesia Mujahedin affiliata da tempo all’Is. Santoso potrebbe nascondersi nelle isole delle Sulawesi centrali, a Poso. Da giorni la polizia segnalava l’intensificarsi del rischio attentati in Indonesia: un allarme rosso era stato diffuso in tutto il Paese dopo la scoperta di una rete in azione formata da ex soldati dello Stato islamico rientrati in Patria dopo aver combattuto in Siria e Iraq, un numero imprecisato ma alto, tra i 200 e gli 800. Pochi giorni fa un militante dei fondamentalisti uighuri dello Xinjang cinese era stato arrestato assieme ad altri con una cintura esplosiva ed era stata la conferma che qualcosa di terribile stava per accadere. «I terroristi avevano annunciato che ci sarebbe stato “un concerto” in Indonesia, ha detto un portavoce della sicurezza». E così è stato. Ma nonostante l’allarme e i timori per le recenti proteste contro la detenzione del leader di Jamaat Abu Bakar Bashir, accusato di essere il padre del terrorismo islamico nell’arcipelago, la notizia degli attentati è caduta come un macigno sulla popolazione di Giakarta che non si aspettava un’azione così immediata ed eclatante. La stessa zona di Thamrim e le altre strade del centro a traffico sempre intenso e caotico sono rimaste quasi deserte per gran parte del giorno, nel terrore di nuovi attacchi da parte degli altri membri spariti del commando. Quando è sera la polizia dice che la situazione è ormai sotto controllo. Ogni angolo attorno al luogo dell’attentato, nelle vicine ambasciate, la sede delle Nazioni Unite a pochi passi dal Sarinah e ogni possibile target dei terroristi sono sorvegliate da pattuglie di uomini armati: i controlli andranno avanti per tutta la notte, dopo il messaggio del capo dello Stato 25 Joko Widodo che ha invitato la popolazione alla calma e ha definito l’attacco «un atto di terrore per disturbare la pace e l’armonia della nostra gente». del 15/01/16, pag. 14 Lo scenario. In Indonesia l’attivismo islamico estremista risale alla lotta contro i colonizzatori. Poi gli attacchi negli anni 2000. Oggi la fascinazione del Califfato JASON BURKE Povertà, predicatori d’odio e amministrazioni corrotte così la Jihad contagia l’Asia IL 2016 non è iniziato bene. Ogni settimana ha portato con sé nuovi attentati e minacce. Chi sperava in una pausa dal ritmo incessante della violenza è rimasto deluso. All’inizio di questa settimana le prime pagine dei giornali hanno aperto con gli attentati terroristici in Egitto e Istanbul. L’ultimo, un attentato suicida contro turisti tedeschi in una delle mete più celebri d’Europa, ha accentuato la sensazione di pericolo immediato per l’Occidente. Ieri, però, c’è stato un piccolo spostamento nel quadro globale: l’epicentro degli attentati si è spostato a Oriente, in Indonesia, dove sono stati presi di mira un edificio delle Nazioni Unite e uno Starbucks. Senza dubbio l’epicentro degli attentati si sposterà ancora, ma intanto il mondo è tornato inaspettatamente a guardare verso l’Asia. Dove all’improvviso sembra essersi aperto un nuovo fronte nella guerra globale contro lo Stato Islamico. Che stiano emergendo problemi in questa parte del mondo islamico che si espande a Est dell’Iran, era prevedibile. In Europa dimentichiamo spesso che è lì che vive almeno la metà dei musulmani. Tutti i più grandi paesi a maggioranza islamica si trovano a Est dell’Afghanistan: inclusi Pakistan (200 milioni), Bangladesh (150 milioni) e Indonesia (270 milioni). Senza dimenticare i 160 milioni che vivono in India. Se aggiungiamo le comunità di altri paesi come Malesia e Afghanistan e le minoranze islamiche di Myanmar, Thailandia e Filippine, il totale tocca gli 800 milioni di musulmani. Solo una piccola parte di loro è dedita alla violenza: ma la minoranza di una maggioranza può diventare un problema enorme. Non deve stupirci. I fattori chiave della militanza islamica in Medio Oriente sono presenti anche nel Sudest asiatico e nella regione pacifica. Dove c’è un alto numero di giovani disoccupati. Le amministrazioni corrotte e inefficienti non garantiscono i servizi basilari alle popolazioni. E predicatori pagati dai paesi arabi da decenni propagandano l’Islam più conservatore e intransigente, spingendo ai margini letture più tolleranti e sincretiche. Come in Europa, anche qui molti giovani giudicano superati i valori religiosi tradizionali, ma trovano sgradevole ed alieno il consumismo capitalistico occidentale. E c’è una generazione intera cresciuta in mezzo ai conflitti esacerbati dagli attentati del 2001 in America, nutrita dall’infiammata retorica carica d’odio che da quei conflitti è scaturita. Naturalmente ogni paese ha le sue specificità: il Pakistan ha un rapporto problematico con i gruppi militanti islamici sponsorizzati dallo Stato; gli indiani musulmani sono solo il 14 per cento di un’enorme e variegata nazione a maggioranza hindu; il Bangladesh ha una storia complessa di guerra civile e liberazione che influenza ogni sua forma di partecipazione; l’attivismo filippino ha una componente criminale e legami internazionali che vanno molto 26 indietro nel tempo. Ma questi paesi hanno anche molte cose in comune: come l’attivismo islamico estremista profondamente radicato. In Indonesia il fenomeno risale alla resistenza opposta dai gruppi musulmani ai colonizzatori olandesi e poi ai vari governi laici successivi. I disordini settari degli anni 90 e 2000 hanno alimentato la crescita di ideologie violente che, all’inizio del millennio, ha partorito un movimento estremista vigoroso e relativamente grande chiamato Jamaa Islamiya. Lo stesso che provocò gli attentati ai nightclub di Bali del 2002, una delle azioni terroristiche più spettacolari post 11 settembre e che nei 5 anni successivi ha portato avanti la sua azione lanciando una campagna terroristica in tutta l’Indonesia. Nel 2009 quest’ondata di attivismo in Asia e in Europa sembrava smorzata. Fino all’ascesa dello Stato Islamico nessuno pensava si sarebbe ripresentata. Come accaduto altrove, l’Is ha dato nuovo slancio a un movimento quasi scomparso grazie al suo mix di risultati concreti sul terreno e soluzioni utopiche alla questione dell’ummah, la comunità islamica globale. In questo Internet ha aiutato, riversando un fiume di propaganda sugli smartphone della regione pacifica, e bersagliando nello specifico i musulmani indonesiani. Ripercorrendo a ritroso la storia della violenza in Indonesia emerge però una diversa verità. Che dimostra come l’Is non crea tanto problemi nuovi, quanto resuscita i vecchi. C’erano situazioni di violenza radicata vecchie di decenni in tutti i luoghi dove oggi la violenza è associata alla militanza islamica. In Nigeria Boko Haram opera in una regione dove le ondate di revivalismo si susseguono da decenni. In Egitto la violenza jihadista è iniziata più di 40 anni fa. In Thailandia la violenza dei musulmani malesi nell’estremo Sud del paese è passata nel giro di alcuni anni da una lotta separatista ed etnica di sinistra, a un fenomeno di jihadismo criminale ed efferato. Per ora qui ci sono pochi segnali di penetrazione da parte dell’Is, ma il potenziale è evidente. Negli ultimi anni una costante dei politici occidentali è stata la scarsa attenzione verso ciò che accade al di là del golfo Persico. Comprensibile, certo. L’Europa ha storicamente avuto maggiori interazioni – positive e negative – con il Medio Oriente e il Nordafrica rispetto a quella con governi e paesi musulmani più distanti. Nell’ultimo mezzo secolo, le risorse di carburante hanno dato al Medio Oriente un’ovvia importanza. Per un decennio Al Qaeda ha riservato la sua attenzione al Pakistan, dove aveva sede, e sul vicino Afghanistan: ma l’avvento dello Stato Islamico, le ha soffiato il posto di più seria minaccia contemporanea all’Occidente. L’Is ha le sue basi in Siria e Iraq, con forti legami emergenti in Egitto, Yemen, e Libia: ed è dunque in direzione di questi paesi che dobbiamo rivolgere oggi la nostra attenzione. Per fortuna, la maggior parte degli estremisti ignora la metà dell’ummah che vive a Est del territorio dell’Is. Il progetto propagandistico degli estremisti privilegia il Medio Oriente sopra ogni altra regione, perché è qui che è nata la fede islamica, qui sorgono i suoi luoghi più santi, e qui si sono avvicendati i califfati fondati dalla morte del Profeta Maometto in poi. E privilegia anche l’arabo e gli arabi. Questo potrebbe rivelarsi un inconveniente enorme per il jihadismo in Asia. Anche se in Siria combattono per lo Stato Islamico battaglioni internazionali – comprendenti anche una brigata mista di indonesiani e malesi – la visione complessiva dei suoi leader resta in sostanza provinciale, malgrado tutta l’eloquenza universalistica. Ed è proprio questa sua limitatezza, al pari della sua orrenda violenza e della sua intolleranza reazionaria, a far sì che la stragrande maggioranza degli 800 milioni di musulmani asiatici continuerà a respingerne l’ideologia e il messaggio imbevuto di odio. ( Traduzione di Anna Bissanti) 27 del 15/01/16, pag. 13 L’Islam dei teologi dialoganti (nel Paese delle sei religioni) Ma la tolleranza è nel mirino L’Indonesia è il maggior Paese musulmano. E un laboratorio politico Paolo Salom Il più popoloso tra i Paesi musulmani — 255 milioni di cittadini, l’87% dei quali di confessione sunnita — è anche una democrazia. Ma non è uno Stato islamico. Una distinzione rilevante per una nazione frantumata in diciassettemila isole bagnate dai caldi mari del Sud-Est asiatico, dove la rivelazione di Maometto è giunta a partire dal NonoDecimo secolo, grazie soprattutto ai mercanti indiani e non per conquista (araba). «La parola chiave, in Indonesia, è pancasila — ci spiega Andrea Riccardi, fondatore della Comunità di Sant’Egidio, da poco rientrato da un viaggio a Giacarta —. Una dottrina politica ma anche un filosofia che predica tolleranza, giustizia e rispetto delle diversità. Lo Stato riconosce sei differenti religioni, e l’Islam è la più praticata». Riccardi aggiunge come la fede — per quanto certamente importante — abbia un ruolo di «apporto spirituale» alla vita nazionale, che si fonda su una sorta di ossimoro, «laicità religiosa» che aiuta a comprendere perché tolleranza e dialogo restino i cardini nel rapporto tra le diverse comunità di questa nazione-mosaico. E la verità è che l’Indonesia è un laboratorio interessantissimo su quello che potrebbe essere il futuro dell’Islam politico, altrove dilaniato da sanguinose lotte intestine e incapace di confrontarsi con realtà spirituali diverse. Ecco dunque un Paese che non ha mai cancellato i legami con le culture preesistenti — buddhismo, animismo, culti locali — mescolando sapientemente le differenti visioni di realtà e ultraterreno, dove il collante principale viene naturalmente dal Corano, il cui successo nei secoli fino a oggi appare indiscutibile. Ma quale Corano? Se il Libro della fede è certamente identico in tutto e per tutto a quello letto nelle moschee del Medio Oriente, è quanto gli gira attorno che appare straordinario. Intanto le figure religiose di riferimento: in Indonesia convivono beatamente Imam (maestri di dottrina) e «sanro», sorta di stregoni-sciamani che, in assenza di un approccio più scientifico ai bisogni interiori, sostituiscono serenamente lo psicologo nel momento del bisogno. «Le differenze pratiche — ci ha detto Sharyn Graham Davies, antropologa all’Università tecnologica di Auckland, in Nuova Zelanda — sono state incorporate in un sistema duttile e pragmatico che permette la coesistenza di figure sacre apparentemente incompatibili». Dunque, arti occulte e religione: altro che le «streghe» giustiziate senza pietà nei territori dello Stato Islamico. Magia bianca e magia nera sono parte del paesaggio, peraltro — al di là della megalopoli Giacarta — contraddistinto dai profili incerti di villaggi contadini immersi nella caligine equatoriale. Ma anche la tolleranza dolce del Buddhismo, o semplicemente la predicazione d’amore del Cristianesimo: tutto coesiste e si confonde nell’animo gentile degli indonesiani. Che, forse unici nel mondo islamico, riescono a immaginare un’idea di convivenza che sta proiettando la loro nazione tra le tigri dell’Asia: Pil in crescita del 5% e classe media in continua espansione. L’infrastruttura della religione, la sua diffusione, è demandata in particolare a due confraternite, la Muhammadiyah e la Nahdlatul Ulama: congregazioni che esprimono il contrario di quanto vanno predicando le scuole più retrive dell’Islam mediorientale. Dunque, per queste organizzazioni, ciò che conta è l’impegno sociale, il dialogo interreligioso e la diffusione dell’idea democratica. 28 Ma sbaglieremmo a considerare l’Indonesia un Paradiso della tolleranza senza se e senza ma. Purtroppo le influenze del radicalismo che sta infiammando il mondo islamico più ampio — con il fulcro nel Medio Oriente — sono arrivate anche nel Sud-est asiatico. E l’Isis, oggi, può vantare un migliaio di seguaci in Indonesia mentre sono almeno 600 i cittadini del Paese che attualmente combattono in Siria: un via vai drammaticamente pericoloso. D’altro canto, negli anni Duemila, gli autori dei massacri di Bali e altri attacchi si identificavano con Al Qaeda e l’organizzazione dominante era la Jemaah Islamiyah. Nessuno, a Giacarta, insomma, nasconde il pericolo rappresentato da queste minoranze estremiste. Che certo non possono tollerare un mondo all’antitesi del loro credo fanatico. Ma il cuore di questa nazione asiatica pulsa verso la coesistenza. Ecco forse la ragione principale di tanto sangue. del 15/01/16, pag. 17 Al Qaeda: l’Italia pagherà per la Libia Messaggio di minacce al nostro paese di Al Anabi in vista della missione: “Roma ricolonizza Tripoli, se ne pentirà” Lo Stato Islamico attacca a Est, nell’area delle installazioni petrolifere: in fiamme un oleodotto. “Rapite 150 guardie” VINCENZO NIGRO ROMA. Nuove minacce all’Italia in un lungo video di un gruppo jihadista che agisce fra Libia e Algeria. Il numero due di “Al Qaeda nel Maghreb Islamico”, l’algerino Abu Ubaydah Yusuf Al Anabi, in un messaggio di 23 minuti sostiene che «l’Italia romana che ha occupato Tripoli: si dovrà pentire di quello che ha fatto». Il capo terrorista cita poi «un generale italiano» che secondo lui sarebbe «a capo di un governo fantoccio di cui fa parte gente della nostra razza che ha venduto la sua religione», così come è successo in Iraq con «la nomina di Paul Bremer dopo la campagna criminale di George Bush». Il terrorista dunque è informato del ruolo di un generale italiano che non “comanda Tripoli”, ma che effettivamente esiste e lavora per l’Onu nell’assistenza al nuovo governo libico, anche in preparazione di una forza internazionale che potrebbe essere chiamata a intervenire in Libia. Per Al Anabi, che gli Usa nel 2005 hanno inserito nella lista dei terroristi più ricercati al mondo, «l’Italia vuole ricolonizzare la Libia, ma non avrà mai le ricchezze del paese senza passare sui nostri cadaveri, non ci arrenderemo mai, sarà la vittoria o la morte ». Anabi minaccia i «nuovi invasori, i nipoti di Graziani», riferendosi al generale fascista che comandò le truppe di occupazione in Libia: «Vi morderete le mani pentendovi di essere entrati nella terra di Omar al-Mukhtar». La retorica roboante può far sorridere qualcuno, ma il video è la conferma del fatto che in Libia l’Italia è nel mirino dei jihadisti, di gruppi terroristici che dal Daesh (lo Stato Islamico nel suo acronimo arabo) ad Al Qaeda, ad Ansar Al Sharia vedranno l’Italia come un ostacolo non appena aumenterà l’azione di sostegno di Roma al nuovo governo libico. Questo aiuta a capire che per l’Italia credere di essere “fuori dal mirino” è purtroppo un’illusione. Nel frattempo in Libia lo Stato Islamico continua a manifestare un attivismo sfrenato: ieri sera è stato fatto saltare un oleodotto a Sud di Ras Lanuf, nell’Est del paese, in quella “mezzaluna petrolifera” dove sono le maggiori installazioni petrolifere della Libia e che il 29 Daesh ha messo nel mirino ormai da settimane. Ludovico Carlino, senior analist dell’IHS a Londra aggiunge che ieri pomeriggio sono stati rapiti dei soldati della “Petroleum Guard”, la milizia che fa capo a Ibrahim Jadran e che combatte contro il Daesh nella regione di Agedabia e Ras Lanuf. Le persone sequestrate dall’Is a Ras Lanuf, tra militari e guardie, sarebbero 150 e Daesh minaccia di giustiziarne alcune già da oggi. Anche se il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, spiega che «al momento della notizia del rapimento non ci sono conferme ». E sulle minacce all’Italia dice: «Stiamo lavorando per la stabilità. È l’unica risposta». Nel frattempo Carlino segnala un movimento molto pericoloso: truppe dell’Is sarebbero in marcia verso Sud, verso Sebha. «Ci sono tutti gli indicatori che ci dicono che quella sarà la prossima tappa dell’espansione del Daesh », dice Carlino, elencando come “indicatori” gli attentati, il movimento di truppe, le uccisioni mirate, la conquista di paesi e villaggi da cui lanciare nuovi attacchi. «Il Daesh chiaramente sta cercando un attacco occidentale in Libia; questo perché pensa di poterlo gestire, visto che gli occidentali non metteranno truppe a terra; pensa di poter dividere la Libia e i libici, e parallelamente di poter unificare gruppi jihadisti rivali che fino ad oggi si sono combattuti fra di loro». Inoltre un attacco dell’Occidente in Libia moltiplicherebbe il reclutamento in Libia e nell’Africa subsahariana, il Daesh avrebbe centinaia di nuove reclute. L’Europa e l’America sono quindi di fronte a un’alternativa del diavolo: rimanere fermi in attesa della formazione del governo libico, mentre il Daesh si espande. Oppure attaccare, con la certezza che l’attacco ucciderà molti miliziani ma mobiliterà centinaia di nuovi sostenitori del Califfo? del 15/01/16, pag. 7 Messaggio di al Qaeda all’Italia. L’Is avrebbe rapito 150 persone: «Li giustiziamo» Secondo le informazioni della sicurezza libica, 150 persone (soprattutto soldati) sarebbero stati catturati dall’Isis all’interno dei territori dove si troverebbero diversi pozzi petroliferi. Una fonte della sicurezza citata dai media libici affermerebbe che i 150 sono detenuti nella prigione di Nawfaliya. Il Califfato avrebbe annunciato la loro prossima «esecuzione». Nel frattempo dalla Libia arriva un messaggio all’Italia. Con gli accordi di Shkirat, in Marocco, la Libia «si è venduta agli stranieri» e l’Italia ha occupato il Paese e Tripoli: «Ve ne pentirete». Si tratta di un passaggio del messaggio audio che sarebbe stato diffuso da Abu Yusuf al Anabi, uno dei leader dell’Aqmi, il ramo nordafricano di al Qaeda, e diffuso ieri dall’agenzia mauritana «al-Akhbar», che afferma di aver ricevuto copia del messaggio. Al termine del messaggio Anabi lancia una vera e propria minaccia «ai nuovi invasori, i nipoti di Rodolfo Graziani». Da notare come quest’ultimo, dalle agenzie che hanno riportato la notizia e dai quotidiani on line che hanno ripreso il messaggio, venga definito come «il generale che ricoprì diversi incarichi di comando in epoca fascista e durante le guerre coloniali italiane», tralasciando il ruolo di conquistatore di (parte) dell’Etiopia, ad esempio, facendo uso di «armi chimiche come l’iprite (che causa orrende piaghe su tutta la pelle), il fosgene (che blocca le vie respiratorie) e le arsine (che distruggono i globuli rossi)», come ha ricordato sul proprio sito «Giap» il collettivo di scrittori Wu Ming che da tempo prova a ricordare quanto realmente accaduto durante il periodo coloniale italiano, al di là delle rimozioni storiche nel nostro paese. 30 Il messaggio del rappresentante di al Qaeda si chiude con un avvertimento: «Vi morderete le mani pentendovi di essere entrati nella terra di Omar al-Mukhtar». Anabi rappresenta una forza fascista e pericolosa per la zona, ma ricorda anche un periodo storico che dalle nostre parti è infiocchettato da una visione storica parziale. del 15/01/16, pag. 17 Il jihad minaccia? l’Italia risponde: Molto nemico, molto onore di Wanda Marra La conferenza sulla Libia si è tenuta a Roma, la prima visita del nuovo premier libico, Fayez el Serraj, è stata a Roma, i feriti di Misurata sono al Celio, e Al Quaeda minaccia l’Italia, dicendo che ha occupato Tripoli. Secondo Palazzo Chigi sono tutti segnali (persino l’ultimo, che, ovviamente, si sottolinea “non è vero”) che il ruolo di primo piano del nostro paese in Libia non è in discussione. E questo, nonostante l’attivismo dei paesi vicini (a cominciare dalla Francia, ma anche Inghilterra e Stati Uniti). Chi segue la situazione da vicino esclude che, almeno formalmente, ci siano forze straniere già sul campo. Ma ammette le operazioni di ricognizione. Non senza notare che l’uomo di fiducia scelto dall’inviato Onu, Martin Kobler, è un italiano, il generale Paolo Serra. Ed è lui che sta conducendo le ricognizioni più importanti, quelle che dovranno portare a capire se ci sono le condizioni perché il governo che nascerà si insedi a Tripoli. La situazione però non è lineare. Ieri il presidente del Copasir, Stucchi ha esortato: “L’Italia intervenga con gli altri attori occidentali”. Più diplomatico il presidente della Commissione Difesa del Senato Latorre: “Escludo che la supremazia della missione possa esserci tolta perché sarebbe un fatto molto grave. Ma serve un coordinamento europeo”. E pure il ministro degli Esteri Gentiloni ha dovuto smentire frizioni con Parigi. C’è l’accordo di Skhirat, ma il governo libico ancora si deve insediare. Data prevista, domenica. Si vedrà. Da Palazzo Chigi ribadiscono che, secondo la risoluzione Onu del 23 dicembre, saranno i libici a chiedere il tipo di intervento di cui hanno bisogno. A Roma non si esclude nulla, teoricamente neanche “gli scarponi sul campo”. Ma alla fine si pensa si tratterà di una missione di Nation Building, o di addestramento. Una volta che si è stabilito il percorso politico, qualsiasi iniziativa unilaterale sarebbe devastante, ragionano a Palazzo Chigi. Ma senza concedere all’Isis di prendere la Libia. Per questo il Capo di Stato Maggiore della Difesa, Claudio Graziano, sta lavorando a vari scenari. Se la situazione precipita, l’Italia si deve muovere. Dal governo monitorano: è solo questione di tempo. E neanche troppo. Sergio Mattarella parte per Washington il 6 febbraio: con Obama parlerà anche di questo. E Renzi farà una “missione di sistema” in Argentina e poi Stati Uniti a marzo. 31 del 15/01/16, pag. 18 Iran. Spettacoli teatrali, film, mostre e stamperie alternative: così negli appartamenti privati fiorisce una nuova vita culturale incoraggiata dalla svolta sul nucleare. E tra i moderati cresce l’ambizione di battere i falchi Il test a febbraio con il voto per Parlamento e Assemblea degli esperti Nelle case di Teheran dove si recita il futuro E il presidente Rouhani sogna la Guida suprema VANNA VANNUCCINI TEHERAN IN un appartamento al quinto piano di un palazzo sulla via Karim Khan una ventina di giovani sono venuti a vedere un corto, Koshtargar (mattatoio), applaudito a Cannes e in programma in questi giorni al festival di Praga. Sembra un documentario ma è fiction, è stato girato tra i ragazzi di Ahwas, nel sud ovest dell’Iran. Il tema è la droga, la povertà, la vita quotidiana in una giornata apparentemente uguale a tutte le altre. Dopo la proiezione il regista, Behzad Azadi, anche lui giovanissimo, racconta al pubblico di aver scelto non attori professionisti ma ragazzi della periferia di Ahwas che conoscevano bene il mondo della droga e della malavita e di essersi limitato a dar loro delle indicazioni di massima lasciandoli improvvisare. Perché fossero più affiatati gli aveva pagato un viaggio, tutti insieme una settimana al Caspio, e ne erano tornati amici. Il pubblico, tutto di giovani, ascolta attento e fa domande, seduto sulla scalinata costruita dagli organizzatori del centro in una stanza lunga e stretta dell’appartamento. Questa “Casa d’arte e di cultura Afarideh” ha cominciato le sue attività culturali due mesi fa, dice il giovane alla porta. Nel mese di gennaio ogni martedì presentano un corto, poi comincerà la serie dei gruppi di teatro. Afarideh è uno dei tanti teatri underground che sono spuntati in tutta la città nell’ultimo anno o due. Luoghi privati dove si fa musica, teatro, si proiettano film e documentari. Afarideh ha avuto il permesso dell’Ershad, il ministero per la guida islamica, tiene a dire l’organizzatore, ma la gran parte degli altri agiscono underground — sull’esempio dei gruppi rock che furono i primi ad affittare cantine e garage, ridipingerli e arredarli alla meglio per dare concerti. La musica viene infatti spesso vietata in Iran, mentre le performances che si vedono in questi teatrini di solito non hanno nulla di politicamente scorretto. Ma le infinite perdite di tempo per chiedere per ogni cosa un permesso hanno convinto i giovani iraniani a organizzarsi underground, facendosi pubblicità via instagram o telegram. Ormai sono in tanti, perfino attori famosi. Come il comico Mehran Modiri che quando il suo show in tv è stato interrotto ha deciso di continuare a produrlo a sue spese vendendo i dvd sul mercato. Il successo è stato tale che ormai può pagare la troupe più di quanto la pagasse la televisione. È nata quasi una moda. Anche molti scrittori stampano i loro libri in autonomia e li distribuiscono attraverso reti informali. Poemi satirici o erotici, ma anche gialli, romanzi sperimentali, disegni e lito di pittori famosi il cui contenuto è considerato scabroso, un nudo per esempio, si vendono così dappertutto. Se il sogno dei giovani fino a qualche anno fa era partire, tanti oggi cominciano a cambiare idea. Dopo l’accordo sul nucleare hanno ritrovato la speranza che le cose, lentamente, non possano che migliorare. Mentre allo stesso tempo le notizie che arrivano dai loro 32 amici già emigrati all’estero non sono confortanti. «La nostra generazione era piena di ideali, volevamo restare nella società in cui eravamo per cambiarla. Ma abbiamo fallito», dice Susanne Shariati, una donna dal viso dolce che è la figlia del famoso ideologo della rivoluzione khomeinista. È venuta in una delle diverse librerie di Book City a presentare il romanzo “L’autunno è l’ultima stagione dell’anno”, opera prima di una scrittrice trentaduenne, Nassim Marashi, che racconta la storia di tre ragazze che hanno sogni diversi, nessuno dei quali si realizza. Anche il presidente Rouhani ha un sogno, scherzano i suoi sostenitori. Potrebbe puntare a diventare lui un giorno il nuovo Leader supremo, per garantire così che il suo corso di moderazione non venga travolto. Khamenei continua a sostenere il presi- dente, ma gli ultraconservatori non hanno rinunciato alle provocazioni per far fallire il suo disegno di apertura al mondo — per esempio con l’assalto all’ambasciata saudita, che ha rischiato di rendere l’Iran ancora una volta la pecora nera della politica internazionale. Quanto forte sia la posizione di Rouhani lo si vedrà alle prossime elezioni. Il 26 febbraio gli iraniani sono chiamati a votare per il rinnovo del Parlamento e dell’Assemblea degli Esperti, un organo molto importante perché ha il compito di nominare o di revocare il leader supremo e sta in carica otto anni. «Quando non sarò più di questo mondo, l’Assemblea degli Esperti sceglierà il mio successore», ha detto Khamenei ai religiosi di Qom, menzionando per la prima volta la sua successione. Moderati e riformatori sono i favoriti alle elezioni, e hanno speranze di uscire vincenti anche grazie al fatto di presentarsi uniti. La loro alleanza aveva già portato nel 2013 all’elezione di Rouhani e si è consolidata in un patto di ferro tra gli ex presidenti Khatami e Rafsanjani. Il problema per Khamenei è come mantenere saldo il regime senza far perdere credibilità al processo elettorale come era accaduto invece nel 2009. Tutto dipenderà dai veti del Consiglio dei Guardiani, che in elezioni passate aveva perfino cancellato in blocco tutti i candidati riformatori. Oggi, almeno così sperano gli insider, l’orientamento potrebbe essere diverso. L’orizzonte auspicato sarebbe quello di arrivare alla formazione in Parlamento di due gruppi forti: uno di riformatori e moderati, l’altro di conservatori moderati — due gruppi capaci di formare una “grosse Koalition” sulle questioni di interesse nazionale come è già successo per l’accordo nucleare. Non ci sarà perciò da sorprendersi se Ali Larijani, conservatore moderato che si è molto impegnato per far approvare l’accordo nucleare alla attuale maggioranza conservatrice del Parlamento, rimarrà presidente del Parlamento anche nel prossimo Majlis. Gli hardliners sono quelli che hanno più da perdere alle elezioni, visti gli orientamenti della popolazione tutti favorevoli all’accordo sul nucleare e all’apertura all’Occidente e pro riformatori. Ma il Consiglio dei Guardiani si adopererà probabilmente per fare entrare una piccola percentuale di hardliners, utile nella visione del regime per creare con i conservatori una maggioranza su tutte quelle questioni sociali e culturali che il regime considera identitarie. Gli ayatollah vedono i media, il cinema e Internet come una specie di cavallo di Troia dell’Occidente per travolgere i principi della rivoluzione e allontanare gli iraniani dall’islam. Inutilmente il presidente ribadisce che è inutile opporsi alla modernità: «Sembra che siamo ostili a ogni nuovo sviluppo, per poi accettarlo vent’anni dopo. In passato ci opponevamo anche ai fax», ha ricordato il suo ministro più liberale, Ali Jannati. Oggi, diversamente dal 2012, nessuno parla più di boicottare le elezioni parlamentari e per il regime islamico l’affluenza massiccia alle urne significa dare al mondo la prova della propria legittimità. 33 Da Avvenire del 15/01/16, pag. 21 Nucleare. L’Iran ferma il reattore di Arak NEWYORK ELENA MOLINARI Primi passi concreti verso l’implementazione dello storico accordo sul nucleare iraniano, che ha tenuto anche alla prova dello sconfinamento di due navi americane in acque di Teheran. L’agenzia atomica iraniana ha annunciato ieri di aver rimosso il nucleo del reattore di acqua pesante dell’impianto di Arak, come previsto dall’intesa siglata il 14 luglio con i Paesi del 5+1. L’accordo entrerà però formalmente in vigore nel fine settimana, aprendo la strada alla revoca delle sanzioni economiche che hanno paralizzato l’economia della repubblica islamica. L’Iran si aspetta infatti che i blocchi alle esportazioni e all’entrata nei circuiti bancari internazionali vengano rimossi «oggi o domani». Intanto il Consiglio Ue ha prorogato fino al 28 gennaio la sospensione di alcune sanzioni, in attesa di mettere a punto i dettagli tecnici che porteranno alla cancellazione delle misure. Che l’accordo passi dalla carta ai fatti (l’Agenzia internazionale per l’energia atomica dovrebbe confermare oggi stesso che l’Iran ha tenuto fede ai propri impegni), è una vittoria per Barack Obama, che ha investito pesantemente nella riapertura del dialogo fra Stati Uniti e Iran dopo decenni di ostilità reciproca. Ma a rivelare quanto profondo sia stato il riavvicinamento (non si può ancora parlare di fiducia) fra Washington e Teheran è la soluzione in meno di 24 ore di un incidente diplomatico come la cattura di due navi americane e di dieci marinai da parte di Teheran. Sono bastate una mezza dozzina di telefonate fra i ministri degli Esteri dei due Paesi per portare alla liberazione dei marinai che ieri hanno detto di essere stati «trattati in modo fantastico». Sono stati i due architetti principali dell’accordo di Vienna, il segretario di Stato Usa John Kerry e il ministro degli Esteri iraniano Javad Zarif, ad aver deciso insieme di trasformare l’involontario sconfinamento da un possibile disastro in una «ottima storia» che mettesse in buona luce entrambe le nazioni. I leader iraniani, compreso l’ayatollah Ali Khamenei, hanno evidenziato l’aspetto compassionevole dell’islam, mentre Kerry ha sottolineato la velocità con cui ha portato a casa i militari. Anche se parte dell’opinione pubblica Usa resta convinta che Obama abbia «indebolito l’America» con l’accordo iraniano. del 15/01/16, pag. 17 Colpiscono ovunque, ma al Qaeda e Isis restano concorrenti Gli “eredi” di Bin Laden nel Nordafrica minacciano Roma: avete occupato Tripoli, ve ne pentirete di Fabio Mini 34 Attacchi suicidi a Parigi e Istanbul, attacchi armati in Egitto e Indonesia, minacce all’Occidente per la sua crociata antislamica, minacce all’Italia per la presenza di un generale italiano nella delegazione Onu incaricata di mettere d’accordo Tripoli e Bengasi. Tornano alla ribalta i modelli terroristici di al Qaeda prima dell’11 settembre, quando la strategia antiamericana prevedeva di colpire gli statunitensi all’estero, e quella dello stesso 11 settembre quando al Qaeda riuscì ad attaccarli a casa loro. Oggi la strategia antioccidentale sembra voler colpire ogni turista o uomo d’affari all’estero e a casa propria. Torna il modello di Mumbai del 2008 quando un gruppetto di qaedisti tenne in scacco l’intera megalopoli asiatica (impressionante è la somiglianza di atteggiamento e abbigliamento del terrorista di Giacarta con l’omologo Ajmal Amir Kasab di Mumbai). Tornano le rivendicazioni premature e preconfezionate in franchising da parte di qualsiasi organizzazione in corsa per il primato terroristico. E nel lessico del maghrebino Yusuf AlAnabi (avete occupato Tripoli, ve ne pentirete“) riaffiorano le rivendicazioni di Gheddafi che, con il pretesto della colonizzazione fascista, pretese e ottenne i danni di guerra da un governo italiano più attento allo spettacolo che alla dignità politica. Non è affatto peregrina la sensazione che l’occidente, la nostra cultura e il nostro modello di vita siano sottoposti ad accerchiamento da parte di alieni coalizzati. La miriade e la frequenza di episodi terroristici rivendicati puntualmente dai soliti “noti” inducono a pensare che esista una regia occulta, unitaria, planetaria, efficiente e straordinariamente organizzata. Eppure non è vero niente. Non siamo sotto assedio, non siamo in pericolo di esistenza, la nostra democrazia e i nostri valori non sono minacciati dall’esterno; semmai siamo noi stessi a metterli in pericolo subendo senza minimo spirito critico ogni cupa visione che ci viene dispensata. E non è vero che tutto sia riconducibile a un piano, a una strategia, a una mente criminale e a un cuore di pietra. Quello che facciamo passare per continuità fra le varie sigle terroristiche islamiste degli ultimi quarant’anni (dai mujaheddin afghani ad al Qaeda fino al cosiddetto Stato Islamico) è solo una nostra semplificazione rivolta a concederci la “grazia” di una sola guerra, contro un solo avversario. Comprensibilmente, il presidente Obama fece della guerra ad al Qaeda il proprio cavallo di battaglia anche quando al Qaeda era stata smembrata, decapitata e superata. Doveva spacciare per successori di quella sigla i nuovi militanti dello Stato Islamico per giustificare sia la continuazione della guerra iniziata e non vinta dal suo predecessore, sia la prospettiva che non sarebbe stata nè vinta nè conclusa facilmente. In realtà Obama sapeva benissimo chi e perchè aveva dato vita all’Isis e soprattutto perchè fosse “sfuggito di mano”. Anche se la diffusione globale dei fenomeni terroristici sembra rifarsi a uno scopo politico unitario, la realtà è molto diversa. Ogni area in preda al terrorismo è preda dello sfruttamento e del malgoverno. Anche se la concentrazione in zone particolari del globo può far pensare a una contiguità geografica e politica, la realtà è diversa: ogni caso e ogni luogo hanno caratteristiche diverse. Purtroppo non c’è un solo nemico, non c’è una sola ragione ideologica o economica, non c’è una testa da tagliare o un cuore da trafiggere. Non si può pensare che il terrorismo di Parigi o Colonia, o Istanbul sia solo eterodiretto e che ci si possa dimenticare dei problemi di Parigi, Colonia e Istanbul. Un successo a Roma non può eliminare il terrorismo in Belgio, o la morte di un capo dell’Isis in Siria non può risolvere i problemi in Nigeria o Libia. Il terrorismo unitario, anche solo nella matrice ideologica, è un teorema assurdo che tende a distorcere il fenomeno e dilatarlo nel tempo e nello spazio rendendolo irrisolvibile. Si rende evanescente un fenomeno che andrebbe affrontato in ogni sua più minuta e dettagliata realtà: quella che ciascuno di noi ha la capacità di vedere anche in maniera precoce. Cerchiamo conforto nelle operazioni militari fingendo di credere che, senza neppure parlarsi, i grandi eserciti riescano a individuare il nemico assoluto: preferibilmente in casa d’altri. Per battere un avversario reso imbattibile 35 dallo stesso teorema della generalizzazione globale ci stringiamo fiduciosi in coalizioni internazionali formate da membri che non riescono e spesso non vogliono vedere il nemico di casa propria. del 15/01/16, pag. 11 Si accende la sfida all'Isis nel Nord Africa "Ma il Califfo resta più forte di Al Zawahiri" I due gruppi si contendono militanti e fondi: Al Qaeda punta sul Maghreh E rispunta l'erede di Bin Laden che minaccia l'Arabia per le esecuzioni Giordano Stabile Un vecchio network, più rigido e lento nelle reazioni, che viene svuotato dal nuovo soggetto, agile, spregiudicato, con una struttura decentralizzata. La rivaliti, fra Al Qaeda e Isis può essere vista come la competizione fra due multinazionali. La «base» tradizionale ha ancora due roccaforti, lo Yemen e il Nordafrica, e sta tentando una reazione. Ma è destinata a essere rimpiazzata. Ieri ha battuto due colpL Il videomessaggio sulla Libia che arriva dall'Aqmi. i nuovi messaggi, due audio e un testo, del leader supremo Ayman al Zawahiri. L'erede di Osama bin Laden promette vendetta all'Arabia Saudita per l'esecuzione di 47 terroristi, 43 dei quali erano estremisti sunniti, la maggior parte di Al Qaeda. Poi definisce il Sud- Est asiatico, e l'Indonesia, «maturo per il jihad». infine parla della Siria e torna a condannare l'Arabia Saudita. Piramide e franchising Al Zawahiri si nasconde ancora nei tradizionali rifugi fra Afghanistan e Pakistan ma è proprio in Asia meridionale che l'Isis sta conducendo la campagna più aggressiva. «L'assalto a una base dell'aeronautica del 2 gennaio a Pathankot, nel Punlab, è un ulteriore salto di qualità - spiega Colin P. Clarke, analista della Rand Corporation -. L'Isis sta risucchiando militanti ad Al Qaeda in tutto il Sud-Est asiatico, che vede come il terreno più fertile per i reclutamenti. Anche l'attacco a Giacarta si inserisce in questa strategia». Le ultime roccaforti dove Al Qaeda resta competitiva, secondo Clarke, sono «lo Yemen e il Nord Africa». Questo perché le due branche locali hanno sempre avuto una forte autonomia e leader carismatici locali, come gli yemeniti Nasir al-Wuhayshi (morto nel 2015) e Qasim al-Raymi, capace di crearsi una sua «capitale» a Mukallah. Lo struttura piramidale di Al Qaeda l'ha penalizzata in tutte le altre zolle. L'Isis è stata più abile nel franchising. Come in Sinai, dove Al Bayt al Maqdis ha creato un proprio wilaya, provincia, e conduce una guerriglia implacabile contro l'esercito egiziano, oltre ad aver abbattuto un aereo russo, con 224 persone a bordo. In Libis la situazione è simile, con gruppi e tribù locali che si sono affiliate e hanno ricevuto centinaia, forse migliaia, di nuove reclute dalla Tunisia e da Siria e Iraq. Più a Ovest, nel territorio desertico fra Libia, Algeria, Niger, Mali e Mauritania, domina ancora l'Aqmi e la situazione è molto fluida. Il caso di Mokhtar Belmokhtar, forse il comandante più famoso, è emblematico della competizione fra i due gruppi. E come, in questo caso, un approccio più «tradizionalista », abbia favorito Al Qaeda. Belmokhtar è un figliol prodigo. Cacciato con l'accusa di essersi intaccato parte dei fondi che arrivavano dalle casse centrali di Al Qaeda, ha fondato un suo gruppo, i Mourabitounes, si è avvicinato all'Isis, anche se non è chiaro se abbia fatto giuramento di fedeltà, ha tentato l'avventura in Libia. Poi ha ripiegato in Mali, dove ha messo ha segno, in collaborazione con l'Aqmi, l'assalto all'Hotel Raclissondi Bamako, il 20 novembre. 36 L'Aqmi ha sottolineato che, a differenza dell'Isis, gli assalitori del Radisson hanno avuto cura «di separare con cura cristiani da musulmani» in modo da non «versare l'inviolabile sangue islamico». Ciò in contrasto con l'attacco di Parigi del 13 novembre. Anche lo stile della comunicazione è molto diverso, con l'Isis che «ha un marketing più aggressivo» nia può «urtare gli ambienti più conservatori». Libia, nuovo Afghanistan In ogni caso la spregiudicatezza dell'Isis sta pagando. Con il controllo di un territorio in Siria e Iraq, lo Stato islamico ha una base solida per espandersi, come Al Qaeda non ha mai avuto. E, secondo Clarke, punta moltissimo sulla Libia, «che oggi è quello che era l'Afghanistan nella seconda metà degli anni Novanta, un santuario, una calamita per gli jihadisti». E una minaccia «concreta e seria» per l'Italia. Da non sottovalutare dal punto di vista militare perché «gli islamisti hanno messo le mani so sistemi anti-aerei Sam dell'arsenale di Gheddafi». del 15/01/16, pag. 6 «Belle epoque» della dittatura e jihadismo Indonesia. L’Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali Emanuele Giordana Può rassicurarci, oltreché allarmarci, sostenere che Jakarta è come Parigi e Istanbul. Che Daesh ha un progetto globale e che il Paese delle 13mila isole è il tassello più gustoso del Califfato allargato. Ma la targa Stato islamico sull’attentato di Jakarta non deve farci dimenticare di che Paese parliamo. Ogni nazione ha una storia nella quale il jihadismo, al netto dell’imperscrutabile richiamo che esercita soprattutto su alcuni giovani musulmani, può giocare un ruolo eterodiretto. E non solo da Raqqa. L’Indonesia, fino ad allora sopratutto meta turistica e, per i più edotti l’ex regno di una dittatura ultratrentennale, fece parlare di sé nel 2002 con la bomba di Bali. Duecentodue morti in maggioranza stranieri quando ancora colpire i turisti era una novità. Le indagini, indirizzate sulla Jemaah Islamiyah e sul controverso guru islamico Abu Bakar Bashir, rivelarono piste che puzzavano di bruciato. Alcune infatti portavano più in là del jihadismo locale, tutto sommato un fenomeno — oggi come allora — residuale. Portavano a figure oscure che si muovevano tra la potente malavita indonesiana, ricchi businessman, settori dell’esercito, l’unico soggetto in grado di possedere esplosivi e che vantava una lunga storia di infiltrazioni nei movimenti islamisti e settari perché servissero a scatenare il caos: prima in funzione anti comunista, poi — dopo il golpe del 1965 e con l’avvento di Suharto — per controllare possibili ribelli. Poi ancora — nella nuova e fragile stagione di una neonata democrazia — per poter di nuovo servirsi del caos e instillare l’idea che un ritorno della vecchia guardia al potere fosse la panacea: ordine, la stessa parola che aveva segnato la stagione del dittatore che l’aveva appunto chiamata Orde Baru, «ordine nuovo». Dunque malavita, potentati economici legati al crony capitalism della famiglia Suharto, pezzi dei servizi militari deviati e riconducibili al periodo della dittatura. Questa società nascosta e segreta aveva e ha in odio la nuova stagione democratica. Se n’è fatta in parte una ragione ma rimpiange la belle epoque della dittatura. 37 Legami diretti tra la stagione stragista iniziata nel 2002 (e ripetutasi sino al 2009 con le bombe negli alberghi e poi ancora, solo qualche tempo fa, con un’esplosione davanti alla casa del sindaco di Bandung) non sono mai stati dimostrati ma a tratti i nomi di qualche businessman o di qualche agente o di qualche militare saltava fuori. Poi — complice una magistratura molto morbida — le sigle Al Qaeda e Jemaah Islamiyah coprivano tutto. Se dietro ai fatti di ieri ci sia qualche burattinaio locale è presto per dirlo ma nel conto bisogna metterci anche questa ipotesi se non si vuole che il brand Daesh serva a insabbiare possibili piste dove si muovono i protagonisti di un’epoca che ancora non è passata. Anzi, proprio il nuovo segno della politica indonesiana, incarnata dall’outsider Joko Widodo, deve mettere in guardia. Quando si presentò alle presidenziali del 2014 sfidò nientemeno che un genero di Suharto, primo marito di Titiek, la più giovane delle figlie dell’ex dittatore ormai defunto. A Prabowo Subianto, ex generale e uomo d’affari, guardava proprio il vecchio mondo del crony capitalism e dei nostalgici della dittatura. Jokowi vinse. Ma quelle forze oscure che rimpiangono il passato sono tutt’altro che sconfitte: prova ne sia che a distanza ormai di cinquantanni è ancora vietato discutere del golpe del 1965 e delle stragi che ne seguirono. È in quell’oscura trama di interessi che Daesh o chi per lui può trovare alleati. Ancor prima che tra qualche giovane dei sobborghi di Jakarta o di Bandung abbagliato dall’utopia jihadista di Al Bagdadi. Da Avvenire del 15/01/16, pag. 10 La Turchia spara sul Daesh «In Siria e Iraq 200 morti» È stallo a Ramadi: truppe Usa anche per Mosul Ancora quattrocento i bambini yazidi in ostaggio LUCA GERONICO Il bombardamento, dopo l’attentato. Una sequenza da guerra mondiale a pezzi che frammenta e complica ulteriormente il 'pantano' siriano e iracheno. In 48 ore le forze armate turche hanno colpito, in Siria e in Iraq, circa 500 obiettivi del Daesh «neutralizzando» 200 jihadisti, tra i quali alcuni leader del Califfato. Il premier turco Ahmet Davutoglu risponde così all’attentato di lunedì a Istanbul: «La Turchia continuerà a colpire il Daesh via terra e userà le forze aeree se necessario», ha dichiarato davanti a numerosi ambasciatori in cui ha chiesto a tutti i Paesi di dimostrarsi risoluti nella lotta contro il Califfato islamico. Dura le replica di Mosca: la politica «distruttiva» della Turchia in Siria rischia di determinare una ulteriore escalation nella regione, ha dichiarato il portavoce del ministero degli Esteri rurro Maria Zakharova. Una guerra civile regionale che continua a sconvolgere pure l’ordine interno alla Turchia: ieri sei persone sono morte e 39 sono rimaste ferite da un’autobomba del Pkk contro un commissariato di polizia a Cinar, nel sud-est della Turchia. Davutoglu, nel condannare l’attacco, ha ribadito la lotta della Turchia «contro ogni forma di terrorismo ». Alta tensione dunque in Siria dove nei giorni scorsi le prime colonne di aiuti umanitari hanno raggiunto Madaya, la città siriana vicina a Damasco per mesi sotto assedio da parte del governo. Il segretario generale dell’Onu, Ban Ki-moon, ha affermato che «l’uso della fame come arma di guerra è un crimine di guerra». Se in Siria si rischia un potenziale effetto domino dagli 38 esiti incontrollabili, l’Iraq sembra sprofondare lentamente in un “pantano” militare e politico. Il Daesh ieri ha preso il controllo di Tel Ksabh e Alambid, a 30 chilometri circa ad est di Tikrit, consentendo così agli uomini del Califfato di controllare la strada che collega il capoluogo Tikrit con Kirkuk: almeno 11 membri delle forze governative, fra cui due ufficiali, sono rimasti coinvolti in due attentati suicidi nella regione. Intanto a Ramadi, riconquista da Baghdad due settimane fa, le forze di sicurezza irachene hanno evacuato oltre 600 civili intrappolati nei quartieri periferici di Sichariyah e Sufiya, dove si segnala ancora la presenza di miliziani islamisti. Le forze antiterrorismo di Baghdad hanno annunciato di aver ripreso il controllo della facoltà di Agraria, del liceo femminile e della direzione dei ser- vizi di sicurezza. Tuttavia non tutti i quartieri sono completamente sotto il controllo dell’esercito iracheno. Movimenti e combattimenti pure a Mosul, la capitale del Daesh in Iraq: da mesi ormai si annuncia una controffensiva decisiva che, però, viene sempre rimandata. Nella notte tra mercoledì e giovedì l’aviazione francese un centro di telecomunicazioni dei miliziani del Daesh nei pressi di Mosul. Martedì 200 unità delle forze speciali Usa sono arrivate in Iraq per condurre operazioni contro il Califfato in collaborazione con le forze irachene. Un dispiegamento, ha rivelato il segretario alla Difesa Ashton Carter, che rientra in uno sforzo più ampio degli Stati Uniti per accelerare la campagna contro il Daesh. «L’invio di forze speciali annunciato nel mese di dicembre è ormai in atto e i soldati si apprestano a lavorare con gli iracheni per iniziare nuovi attacchi contro i militanti e i leader dell’Isis», ha dichiarato Carter parlando da Fort Campbell, in Kentucky. Si amplia, intanto, il bilancio degli orrori compiuti dal Califfato: sono 400 i bambini yazidi rapiti a Sinjar, nel nord dell’Iraq, liberata a metà novembre dai peshmerga curdi, che verrebbero addestrati per diventare potenziali attentatori kamikaze. Lo hanno denunciato fonti governative curde, spiegando che i bambini rapiti erano in realtà 600, ma circa 200 sono riusciti a fuggire. del 15/01/16, pag. 7 Duecento arresti in 48 ore. Esplosione a Diyarbakir Turchia. Erdogan accusa il Pkk e la «struttura parallela» di Gulen Fazila Mat ISTANBUL Duecento membri dello Stato islamico «resi inoperativi» in 48 ore. Cinquecento postazioni colpite e attaccate con cannoni e tank in Siria e Iraq. Con queste espressioni il premier turco Ahmet Davutoglu ha illustrato ieri, durante un incontro con gli ambasciatori turchi ad Ankara, «la posizione determinata» assunta dall’esecutivo contro l’orgnizzazione jihadista, a seguito dell’attentato suicida che ha colpito Istanbul martedì scorso. Davutoglu ha assicurato che gli attacchi continueranno fino a quando il gruppo non abbandonerà le aree di confine del Paese. Mentre l’opinione pubblica turca continua a interrogarsi sul perchè lo Stato islamico (Isis) non abbia rivendicato l’attacco, il ministro dell’Interno Efkan Ala ha comunicato che il numero degli arresti dei presunti membri Isis collegati dalle autorità all’attentato di Sultanahmet è salito a sette. Ma nel Paese l’escalation di violenza è continuata anche nelle tarde ore di mercoledì. 39 Un’autobomba è stata fatta esplodere a distanza in una postazione di polizia a Cinar, un distretto della provincia sudorientale di Diyarbakir, uccidendo 6 persone, inclusi tre bambini. L’attacco, attribuito dalle autorità al Partito dei lavoratori del Kurdistan (Pkk), rappresenta l’ennesima ferita aperta nella zona già martoriata dagli scontri tra gli autonomisti curdi e le forze dell’ordine turche che da diverse settimane hanno raggiunto i centri urbani della regione. E il premier Davutoglu ha infatti ribadito che la lotta all’Isis andrà di pari passo a quella condotta contro il Pkk come quella mandata avanti contro «la struttura parallela» — il nome adottato dall’esecutivo e dal presidente Tayyip Erdogan per definire il movimento dell’imam e magnate Fethullah Gulen, incluso da oltre un anno nella lista terrorismo del governo. «È necessario tenere in considerazione il collegamento di questa organizzazione con l’organizzazione terroristica (Pkk, nda)», ha poi aggiunto il premier, ricordando che «il 2015 è stato un anno in cui siamo stati costretti a lottare contro diverse crisi» non escluse «le attività accusatorie degli armeni». Il premier si è infine scagliato anche contro il gruppo degli «Accademici per la pace» (Baris icin Akademisyenler, in turco) che ha chiamato l’esecutivo a riprendere le trattative di pace con i curdi. «Dopo aver assistito agli esempi in Siria e Iraq, frantumati a causa delle richieste identitarie, non mi cimenterò in dibattiti intellettuali con chi vuole mettere la Turchia nella stessa situazione, anzi li combatterò in quanto premier della repubblica turca», ha affermato Davutoglu, garantendo che «ciascuno avrà quanto meritato in questa lotta». Ma secondo diversi osservatori questo «atteggiamento» e «linguaggio volto alla violenza» espresso dal premier, come dal presidente Erdogan, sono ben lungi dal potere creare un terreno adatto a risolvere la drammatica situazione in cui si trova la Turchia. «Si è dentro a un tale clima di violenza che il Paese è diventato aperto agli ‘atti terroristici’», scrive su Radikal il gionalista Cengiz Candar. «Ma i governanti lungi dall’aver imparato una lezione dagli ‘atti terroristici’ ha inasprito il proprio linguaggio, rendendolo sempre più violento (…) E con tutto ciò non ha preso di mira ‘la fonte più importante del terrore’ ossia l’Isis, dando invece man forte ad ‘un’azione per schiacciare e tenere sotto pressione i curdi’, giustificandosi con la ‘lotta al Pkk’» scrive il giornalista aggiungendo che «nemmeno l’attentato di Sultanahmet ha creato una rottura in questa linea. Per questo motivo, la ‘situazione’ in cui ci troviamo risulta molto più grave dell’attacco di Sultanahmet». Intanto, a complicare la situazione, sopraggiungono anche nuove teorie complottistiche avvallate dalla stampa pro-governativa, come il quotidiano Sabah che — basandosi sull’arresto di tre presunti membri Isis di nazionalità russa — ha indicato la Russia — in combutta con l’Iran e il regime di Bashar al Assad — come il responsabile dell’attacco di Sultanhmet. La teoria secondo cui la Russia non vorrebbe che l’Isis fosse danneggiata trova eco anche nelle affermazioni del premier turco che si è «lamentato» del fatto che dopo l’abbattimento del bombardiere russo l’aviazione turca non può di fatto più entrare nello spazio aereo siriano «per bombardare l’Isis». del 15/01/16, pag. 1 Teste di turco Maledetta guerra. Perché il «conto» del Califfo al Sultano ci riguarda Tommaso Di Francesco 40 Come appare evidente, l’attentato di Istanbul ha cambiato le carte in tavola del conflitto in corso. È infatti il primo in territorio turco che si ritorce direttamente contro gli interessi del regime di Erdogan e dell’Akp, il partito islamista moderato al potere. Diversamente dall’attentato di Ankara dell’ottobre scorso, una strage di stato contro una marcia pacifista della sinistra e dei kurdi che ha provocato più di cento vittime già dimenticate con le indagini sulle responsabilità. Così ora non c’è giornale o media che si rispetti che non indichi l’agguato kamikaze a Sultanahmet — ai margini del massacro in Siria — come «il conto» che lo Stato islamico presenta al Sultano Erdogan, il leader che ha istruito le milizie dell’Isis sui campi di battaglia dell’intera regione mediorientale. Purtroppo è una mezza verità, poco meno di un esercizio di retorica vuota, da testa o «testata» di turco. Dunque non basta, anzi. In primo luogo perché i giornaloni che ora scoprono questa «sensazionale» verità — che qualcuno ripete in solitudine da quattro anni — sono gli stessi che, sempre accreditando la guerra, erano saliti sugli aerei della Nato quando bombardava la Libia di Gheddafi, o sul carro della rivolta armata contro il regime di Assad, chi incitando alla guerriglia, chi baciando bandiere dei rivoltosi, sempre accreditando la guerra che dilaniava quei Paesi. E non importava si trattasse di forze più o meno democratiche o di jihadisti estremi, magari legati ad al-Qaeda e poi al Califfato dilagante dall’Iraq distrutto dalla precedente guerra di Bush. Decisiva per la nascita dello Stato islamico e a suo tempo anche quella sponsorizzata dagli stessi giornaloni indipendentemente filogovernativi che oggi propongono editoriali «luminosi» su Erdogan. In secondo luogo perché a forza di indicare le uniche malefatte del premier di Ankara, si nascondono quelle del raffinato Occidente «pagatore», europeo ed americano. Vale a dire il ruolo dell’Alleanza atlantica della quale la Turchia è il baluardo mediorientale. Perché Erdogan, che sembra non voler fare la fine del limone spremuto come fu per Saddam Hussein, non ha mosso un dito nella regione senza che la Nato sapesse e approvasse. Dalla guerra in corso contro i kurdi del Pkk, del Rojava in Siria, a quelli in Iraq, al posizionamento provocatorio a Mosul, fino alla strage di Ankara attribuita sbrigativamente alla manovalanza dell’Isis che però da troppo tempo è controllata dai Servizi turchi. Senza dimenticare l’abbattimento del jet russo. E ancora nell’elenco di malefatte, la gestione dell’addestramento nelle basi della Nato degli insorti inutilmente finanziati da Usa e Arabia saudita, visti i rovesci subiti, per passare al traffico di petrolio, testimoniato da inchieste giornalistiche con tanto di reporter subito incarcerati. E al traffico di armi e profughi; fino al transito dei foreign fighters arrivati per la maggior parte da decine di capitali europee nel silenzio assoluto delle intelligence nostrane. Adesso, solo adesso, scrivono che «il Califfo chiede conto al Sultano». Ma il Sultano era ed è atlantico. E, ahimé, il conto ci riguarda. E ci riguarderà sempre di più se l’attuale «non belligeranza» italiana diventerà avventurismo militare in Libia, sempre suggerito dal giornalismo embedded. Che impegna subito e a tutti i costi il governo Renzi a trasformare un trasporto al Celio di feriti dell’ultimo attentato a Misurata rivendicato dall’Isis, come fosse la prova generale del nuovo intervento armato italiano. Naturalmente «contro gli scafisti», cioè perché un governo libico inventato di sana pianta diventi garante del «posto sicuro» per rinchiudere in nuovi campi i migranti e fermare così la loro disperazione. Il tutto sulle ceneri caldissime dell’ultimo disastro della guerra del 2011 e della memoria, lì difficilmente oscurabile e cancellabile — e più pericolosa se ricordata «con rigore» provocatorio e minaccioso dall’Isis, com’è accaduto ieri — delle imprese criminali del colonialismo italiano. 41 del 15/01/16, pag. 15 Ezgi, Mehmet e i mille anti-Erdogan «È un regime, noi non taciamo più» La rivolta dei 1.128 accademici si allarga. «Perseguitati come traditori. Non c’è libertà» DAL NOSTRO INVIATO ISTANBUL Non è più la Turchia della giunta militare, però sta tornando una dittatura che perseguita il pensiero libero e chiunque osi criticare il presidente-Sultano islamicoconservatore Recep Tayyip Erdogan. Sono trascorse più o meno quattro decadi dal regime dei colonnelli, ma per Ezgi Basaran (35 anni) e Mehmet Karli (36), la lotta per il libero pensiero mantiene la stessa drammatica urgenza. Moglie e marito assieme in prima linea. «Non c’è libertà oggi nel nostro Paese. Siamo vittime di un regime che non tollera alcun dissenso e utilizza qualsiasi pretesto, incluso l’allarme terrorismo, per far tacere ogni critica interna», denunciano all’unisono. Per loro «democrazia» è ben più di un’idea, un concetto, ma piuttosto una fede comune, un’etica dei rapporti sociali, un impegno che cementa anche il loro legame. «Abbiamo chiamato nostro figlio di due anni Deniz. Lo stesso nome di un famoso studente universitario impiccato dai militari nel 1971 solo perché aveva partecipato ad una manifestazione di protesta». Lei, dipendente del gruppo che controlla i quotidiani Radical e Cumhuriyet , è tra le centinaia di giornalisti perseguitati. Tanti in carcere, oggi almeno 32. E molti di più licenziati o a rischio impiego. Nel 2015 ne sono stati arrestati 156 per periodi più o meno brevi, quasi 500 investigati. L’accusa? «Siamo descritti come traditori dello Stato solo per il fatto che denunciamo la repressione contro le minoranze, i curdi in testa, o condanniamo in pubblico la repressione delle opposizioni politiche», spiega Ezgi. Lui se ne sarebbe forse rimasto un distaccato professore di scienze politiche all’Università Galatasaray di Istanbul (è autore di un volume sulla politica estera di Erdogan), se non fosse stato per le notizie sempre più gravi che provengono dalle province sud-orientali. «Sono ormai mesi e mesi che arrivano informazioni drammatiche dalle regioni a maggioranza curda. Molti dei miei studenti che vengono da quelle aree sono stati arrestati. Alcuni proprio non possono raggiungere Istanbul a causa del coprifuoco e dei posti di blocco militari. Ci sono popolazioni intere isolate, prive di cibo, acqua, assistenza medica. E il grave è che i nostri media non ne parlano», racconta Mehmet. Anche adesso avrebbe preferito evitare problemi. Tanto che lunedì scorso, quando 1.128 accademici turchi hanno firmato una petizione dal titolo eloquente, «Non saremo complici dei vostri crimini», lui era rimasto nell’ombra. Ma sono state poi le critiche durissime del governo, inclusi alcuni personaggi legati alla malavita locale, che lo hanno spinto a firmare. «Ho dovuto prendere posizione. Le minacce di Erdogan e dei suoi tirapiedi sono state troppo volgari, troppo offensive. Il noto mafioso Sedat Peker ha dichiarato pubblicamente di volersi fare la doccia con il sangue degli intellettuali. Intimidazioni aperte, senza risposta da parte delle autorità. Ovvio che non potevo più tacere. Così ho aggiunto il mio nome alla lista. Se ho ben capito in poche ore siamo diventati ben oltre 2.000 firmatari». Ezgi viaggia spesso per lavoro nelle province curde. L’ultima volta è stato un mese fa. «Noi due siamo musulmani sunniti, non curdi. Però siamo convinti che la soluzione sia quella della convivenza e del dialogo. Il braccio di ferro militare porta solo tragedie e lutti, come è già avvenuto infinite volte nel passato», tiene a sottolineare. Il punto per loro non è infatti difendere la causa dell’autonomia curda, o tanto meno levare le accuse di 42 «terrorismo» che il governo ripete ad ogni occasione contro gli estremisti del Pkk, il Partito dei Lavoratori curdo che ricorre spesso alla lotta armata. Sono però convinti che Erdogan abbia precipitato la crisi quando in primavera ha scelto di tagliare il dialogo avviato 4 anni fa con i moderati curdi. «Da allora è l’inferno. Abbiamo notizie di squadracce della morte chiamate Esedullah che torturano, rapiscono, uccidono impunemente. Chi denuncia è una spia perla polizia», commenta. Drammatici i numeri dai campi della guerra civile: fonti filogovernative parlano trionfalmente di 3.000 guerriglieri del Pkk uccisi da metà estate, i morti delle forze di sicurezza sarebbero ben oltre 200. Incerto il numero delle vittime civili. Lorenzo Cremonesi Da Avvenire del 15/01/16, pag. 22 Dopo il volontariato con gli scout a Sderot e contatti con i piccoli che crescono in zone di guerra, la 19enne ha fatto obiezione di coscienza. Ha anche rifiutato l’alternativa del servizio civile «No a leva (e violenze)»: israeliana finisce in cella SUSAN DABBOUS GERUSALEMME In prigione per essersi rifiutata di prestare il servizio militare obbligatorio. Dal 10 gennaio, una diciannovenne israeliana si trova nel carcere militare numero 6 di Tel Aviv per aver scelto l’obiezione di coscienza. Si chiama Tair Kaminer, viso tondo e occhi vispi dietro una grande montatura di occhiali neri. «Qualche mese fa – aveva scritto sulla sua pagina Facebook prima di essere portata in cella – ho concluso un anno di volontariato con gli scout israeliani a Sderot. Tra pochi giorni andrò in prigione», perché in Israele il servizio militare è obbligatorio. A Sderot, cittadina di confine con Gaza, Tair ha lavorato a contatto con bambini che vivono in una zona di guerra. Vedendo in loro «insidiarsi l’odio, sin dalla tenera età», la giovane volontaria ha deciso di non prestare il servizio militare che ha luogo comunemente dopo le scuole superiori. La punizione per diserzione, prevista dalla legge israeliana, prevede 20 giorni di carcere, rinnovabili finché l’obiettore non cambia idea. È così che hanno fatto avanti e indietro in prigione, per anni, noti disertori che, oggi, hanno il supporto del (davvero esiguo) movimento di obiettori di coscienza. Gruppi come Yesh Gvul, Mesaravot (letteralmente: coloro che si rifiutano) e altri ancora, tutti in contatto nella pagina Facebook “Refusal to serve in the Idf” (Israeli defence forces). Tair viene da una famiglia particolarmente sensibile al tema dei diritti palestinesi, anche suo cugino, Matan Kaminer, spese complessivamente due anni in prigione per non aver prestato il servizio militare 13 anni fa. In Israele l’unico modo per evitare il militare è addurre delle motivazioni che riguardano la salute, oppure fare il servizio civile in diversi settore dello Stato, molto spesso lavorando per l’esercito sul piano amministrativo. Va detto che per la maggior parte dei giovani il militare è un percorso scontato, non particolarmente terribile, né traumatico, a volte persino “istruttivo”. Così ci spiega una riservista, trentenne, che dopo aver finito la leva obbligatoria si è iscritta nelle liste dei volontari che possono essere chiamati dall’esercito con scarso preavviso in caso si verifichi un’emergenza. 43 «Abbiamo molti benefit – ammette la donna –: mutui con basso interesse e prestiti agevolati dalle banche per aprire attività commerciali». Per gli obiettori come Tair, invece, tutte le porte dei lavori statali resteranno chiuse, e pesanti sono anche i pregiudizi che gravano sugli obiettori, malvisti da buona parte della società israeliana, ossessionata dal problema della sicurezza. Paradossalmente gli unici “alleati” degli obiettori, laici e pacifisti, sono i religiosissimi ultra-ortodossi, a cui il parlamento israeliano ha recentemente imposto di fare il servizio militare, da cui erano stati esentati negli anni passati. «Parlando con alcuni amici – ha detto Tair in un videomessaggio sui social network –, sono stata accusata di ferire la democrazia non obbedendo alle leggi dello Stato. Ma i palestinesi nei Territori occupati – ha osservato la diciannovenne – vivono sotto le leggi del governo israeliano anche se non l’hanno eletto». Dal movimento Mesaravot fanno sapere che al momento «Tair è l’unico obiettore di coscienza in prigione in Israele. Avrebbe potuto scegliere il servizio civile, evitare il carcere e non fare clamore, ma ha deciso con di dare l’esempio a chi come lei vorrebbe contestare il servizio militare, l’occupazione e non ne ha il coraggio». del 15/01/16, pag. 6 «Ambiente familiare in mezzo alla natura»: turismo nelle colonie Protesta palestinese. Airbnb che mette in collegamento i viaggiatori con quanti mettono a disposizione appartamenti e camere da letto, propone alloggi a poche decine di minuti da Tel Aviv o da Gerusalemme negli insediamenti ebraici costruiti illegalmente nella Cisgiordania occupata Michele Giorgio GERUSALEMME Sorrideva l’altro giorno Avital Kotzer Adari, dell’Ufficio Nazionale Israeliano del Turismo, mentre snocciolava i dati dell’affluenza dei turisti stranieri nel suo paese. «Il 2015 si è chiuso con 3,1 milioni di visitatori da tutto il mondo, di cui 2,8 milioni turisti. Per quanto riguarda quelli provenienti dall’Italia, che è il sesto Paese al mondo per utenza, abbiamo avuto un +91 mila visitatori, di cui 84 mila turisti», ha riferito presentando le iniziative rivolte ai pellegrini nell’Anno del Giubileo della Misericordia. Un interrogativo è sorto spontaneo ascoltando quelle cifre: quanti di quei turisti, anche italiani, hanno trovato alloggio nelle colonie israeliane in Cisgiordania? Già perchè comincia a dare i suoi frutti la campagna per la normalizzazione degli insediamenti colonici che i governi israeliani, non solo gli ultimi tre presieduti da Benyamin Netanhyahu, portano avanti da anni. Le agenzie locali promuovono sempre più spesso pacchetti turistici nelle colonie dove «apprezzare la natura e bere buon vino, vivere in un’atmosfera pastorale e in un ambiente familiare». Una delle più gettonate è Psagot, tra Gerusalemme e Ramallah, ma sono sempre di più gli insediamenti israeliani in Cisgiordania che si rendono disponibili per i fine settimana. I tour operator locali, rivolgendosi ai cittadini stranieri, sorvolano sul fatto che quelle «comunità» in realtà sono colonie costruite in violazione del diritto internazionale in un territorio che è stato occupato militarmente e dove gli abitanti palestinesi intendono proclamare il loro Stato indipendente. In scia si sono inserite alcune agenzie internazionali, non interessate alla politica e al diritto e desiderose solo di realizzare buoni profitti. 44 Si è scoperto qualche giorno fa che il ben noto sito internazionale Airbnb che mette in collegamento turisti e viaggiatori con quanti vogliano mettere a loro disposizione appartamenti e camere da letto – la sua app per smartphone viene scaricata in ogni parte del mondo – propone case immerse nella natura, a poche decine di minuti da Tel Aviv o da Gerusalemme, a prezzi molto convenienti, anche nelle colonie ebraiche. Lo stesso vale per le Alture del Golan, un territorio siriano sempre occupato da Israele. Un responsabile di Airbnb non ha confermato ma neppure smentito: «Seguiamo le leggi e le disposizioni relative a dove noi possiamo fare affari e ci preoccupiano di indagare quando qualcuno manifesta preoccupazioni riguardo determinate inserzioni», ha dichiarato a un quotidiano locale. Un sito d’informazione della sinistra israeliana, Siha Mekomit, spiega in una sua inchiesta che a turisti stranieri ignari è proposto di pernottare in colonie ebraiche senza chiarire che quelle località non sono in Israele bensì nei Territori palestinesi occupati. Un po’ come avviene con le etichette “Made in Israel” visibili sulle merci prodotte negli insediamenti colonici, in violazione delle norme che regolano il commercio internazionale. Siha Mekomit ha anche riferito la vicenda di alcuni coloni che hanno respinto la prenotazione di un statunitense di origine palestinese, promettendo che «In un futuro più tranquillo saremo felici di ospitarla». È difficile immaginare che le proteste possano indurre Airbnb a spiegare in modo accurato che certe offerte arrivano da un territorio occupato militarmente. Tutto ciò mentre le città e località turistiche palestinesi, a cominciare da Betlemme, soffrono le conseguenze dell’occupazione, della costruzione del Muro di separazione e dell’espansione delle colonie. In questo contesto emerge una inchiesta pubblicata di recente dai ricercatori del centro Shabaka — Nur Arafeh Samia al Botmeh e Leila Farsakh – che vuole dimostrare l’impatto che la colonizzazione ha avuto sull’economia palestinese sottraendo alla popolazione importanti risorse naturali, a cominciare dall’acqua (599.901 coloni utilizzano sei volte più acqua che tutta la popolazione palestinese della Cisgiordania, composta da 2.86 milioni di abitanti) e creando una massiccia disoccupazione. I ricercatori di Shabaka sottolineano anche la condizione di quei lavoratori palestinesi che sono stati obbligati a guadagnarsi da vivere proprio nelle colonie e l’appropriazione da parte di Israele di luoghi turistici e archeologici assieme allo sfruttamento di cave, miniere e risorse del Mar Morto. del 15/01/16, pag. 38 Taiwan Una donna contro Pechino Per la prima volta nella storia dell’isola “ribelle” il voto politico di domani può eleggere una presidentessa: Tsai Ing-wen, la “Hillary Clinton di Taipei”. Il suo partito punta al distacco totale dalla Cina Creando così un possibile effetto domino in Asia GIAMPAOLO VISETTI DAL NOSTRO INVIATO TAIPEI Igiardini immensi e perfetti del Memoriale di Chiang Kai-shek sono deserti. Soltanto un gruppo di anziani, davanti alla porta della Rettitudine, esegue gli esercizi mattutini del Tai Chi, incurante di una pioggia leggera. Nessun visitatore chiede oggi di onorare la memoria 45 del Generalissimo, fuggito qui nel 1949 dopo aver perso la guerra civile contro Mao Zedong. Nemmeno a Pechino le colonne di cinesi che ogni giorno sfilano davanti al Mausoleo del Grande Timoniere sono spontanee. L’indifferenza che seppellisce l’eroe rivale di Taiwan non è però alimentata, come in Cina, dall’oblio inevitabile della storia: il simbolo dell’indipendenza è stato trasformato nell’icona paradossale di quella «riunificazione» che l’«isola ribelle» sembra ora decisa ad allontanare disperatamente un’altra volta. A Taipei ignorare Chiang Kai-shek significa oggi opporsi a suoi eredi del Kuomintang (KMT), il partito al potere da quasi 67 anni, artefice del riavvicinamento alla «madrepatria »: e l’ex Formosa, con il voto cruciale di domani, si prepara ad una svolta destinata a rompere gli equilibri sempre più fragili dell’Asia. Per la prima volta una donna è a un passo dal diventare presidente e per la prima volta il Partito democratico progressista (DPP) sembra prossimo a conquistare anche la maggioranza in Parlamento. Gli ultimi sondaggi sono concordi: i filo-cinesi del presidente Ma Ying-jeou, all’addio dopo otto anni, sono accreditati del 20-25 per cento dei consensi, rispetto al 40-45 dell’opposizione indipendentista. Soltanto tre elettori su cento si sentono cinesi: sessanta si dichiarano taiwanesi. Per la ventennale democrazia dell’isola si profila così un altro debutto: la prima alternanza al governo dopo il doppio mandato del democratico Chen Shui-bian, finito nel 2008 e seguito dall’arresto per corruzione. Nella capitale l’aria della «storica svolta» è evidente. Pochi anziani nel quartiere di Wanhua seguono in silenzio il corteo di Eric Chu, leader del KMT, candidato in extremis alla successione di Ma Ying-jeou e accusato di mazzette per estromettere dalla corsa la vice del “ Legislative Yuan”, Hung Hsiu-chu. Una folla fragorosa di giovani, davanti al Memoriale della Pace, acclama invece la minuta Tsai Ingwen, presidente del DPP, avvocatessa di formazione anglosassone, già lanciata come la «Hillary Clinton di Taipei» e favorita alle presidenziali. Sarà un caso, ma anche il secondo evento di queste ore suggerisce che Taiwan vuole festeggiare all’americana il ri-allontanamento dalla Cina e la rinnovata fedeltà al patto di difesa che la lega agli Usa: oggi e domani è in cartellone il concerto dell’orchestra sinfonica di Chicago, diretta da Riccardo Muti. «Per Pechino — dice Chen Yu-fang, direttore del Centro di studi elettorali di Taipei — il problema non è la sconfitta del Kuomintang: è la fine della tregua nello Stretto di Taiwan, la porta sbattuta in faccia alla Cina e quella riaperta a Giappone e Stati Uniti». La vittoria annunciata di Tsai Ing-wen, che in autunno è stata ricevuta a Tokyo e che promette di volare presto alla Casa Bianca, minaccia di generare nel Pacifico l’effetto di una bomba. Nell’ultimo confronto elettorale televisivo, ignorando il tentativo del KMT di trascinare pure lei nel vortice di tangenti e inchieste, ha promesso di mantenere lo «status quo» nelle relazioni con la Cina: a poche ore dal voto, Pechino avverte però i taiwanesi che «spingere i rapporti con il continente al livello più basso dal 1949 avrà conseguenze disastrose». Per Xi Jinping si profila il primo stop internazionale. A novembre il presidente cinese, a Singapore, ha fortemente voluto il primo vertice con un leader di Taiwan dopo 66 anni, basato sullo statuto del «Consenso del 1992», che riconosce il principio di «una sola Cina». Non sono stati i missili sparati da Jiang Zemin, nel fallimentare tentativo di influenzare le presidenziali del 1996, ma il messaggio che Pechino vincola la propria amicizia alla prospettiva della riunificazione è risultato inequivocabile. Lo storico faccia a faccia con Ma Ying-jeou, seguito dall’annuncio- beffa che Washington venderà a Taipei due fregate lanciamissili, rischia domani di rivelarsi un boomerang. Il trionfo dei democratici anticipa infatti un sorprendente accerchia- mento regionale della Cina: proprio mentre la Corea del 46 Nord della corsa atomica si rivela sfuggita al suo controllo, il Giappone si riarma grazie all’alleanza con gli Usa, il Sudest asiatico è sul piede di guerra per la contesa degli arcipelaghi nel Mar Cinese Meridionale, la Corea del Sud accetta di rinforzare le basi americane in chiave anti- Pyongyang, Hong Kong è scossa dalla repressione di Pechino e Myanmar spinge al potere la democratica Aung San Suu Kyi. «Concludere che la vittoria del DPP a Taiwan sancirà l’isolamento della Cina e la nuova avanzata degli Usa in Asia — dice Huang Chun-Hsien, docente di politica internazionale all’università Chengchi di Taipei — è prematuro. Si può osservare però che la strategia della pazienza scelta da Pechino è fallita, con le minacce della sua esibita corsa alle armi: e che il radicamento della democrazia e della libertà a Taiwan coinvolge come minimo lo scottante dossier di Hong Kong». Questo voto non è però solo un referendum politico tra Cina e Usa, una scelta culturale tra Oriente e Occidente, ennesimo revival della Guerra Fredda. Sulla culla globale del boom tecnologico degli anni Ottanta pesa anche lo spettro di una recessione senza precedenti. Nel 2015 la crescita reale è riuscita a stento a raggiungere l’1%, mentre Bloomberg prevede un 2016 con il segno meno e un dollaro taiwanese ai minimi dal 2009. «I prezzi delle case esplodono — dice il leader studentesco Lin Wei-ting — i salari crollano, i giovani sono disoccupati, invecchiamento e bassa natalità ingrossano il debito. Per la prima volta Taiwan non è più sinonimo di innovazione». Sarà che ogni Paese cerca di scaricare all’estero la colpa dei fallimenti interni, ma anche a Taipei lo spettro della crisi finisce sul conto del Kuomintang e dunque del suo sponsor cinese, che vale un interscambio annuo da 170 miliardi di dollari. I sostenitori di Tsai Ingwen alzano migliaia di salvadanai vuoti per suggerire che il KMT ha dissanguato l’isola, arricchendo i poteri forti e impoverendo la gente: importando, con 23 accordi in otto anni, la frenata che dopo trent’anni gela la crescita della Cina. «La vittoria dei democratici — dice Joseph Wu, segretario del partito d’opposizione — nasce nella primavera del 2014, quando la «rivolta dei girasoli» e l’occupazione del parlamento costrinsero Ma Ying-jeou a congelare il patto di libero scambio mascherato con Pechino». I filo-cinesi di Eric Chu, radicati nel mondo degli affari, agitano invece in queste ore l’incubo opposto. «Export, turismo e investimenti — dice l’imprenditore Ringo Lee — scontano l’instabilità, non l’alleanza con la super-potenza che mantiene il tasso di crescita più alto del pianeta. Business e diplomazia delle vacanze non sono un ricatto, ma la vendetta della Cina non sarà certo compensata dalla riconoscenza degli Usa». Nel piatto di Taipei, come in quello in Hong Kong, finisce così non solo la scelta tra «cinesizzazione» e indipendenza, tra autoritarismo e democrazia, ma pure quella decisiva tra il capitalcomunismo di Pechino e il capitalismo finanziario di Washington, alternativi ormai in tutta l’Asia. «Eleggere una presidente ostile all’assorbimento di Taiwan da parte della Cina — dice Gordon Sun, direttore del Centro di macroeconomia — può sembrare antistorico, ma lo spirito dominante nell’isola non è l’odio verso l’altra sponda dello Stretto, o il timore di diventare la “Crimea asiatica”: il problema è il tenore di vita e per non farlo crollare i taiwanesi pensano che sia necessario un cambiamento ». Nessuno sa come, umiliando Pechino e i suoi lobbysti del KMT, la rinascita del «fenomeno-Taiwan» sarà realizzabile. I nostalgici della «madrepatria » azzardano addirittura che proprio il trionfo pilotato del DPP nel pieno della crisi, seguito da «un inevitabile disastro », accelererà «il passaggio naturale del ricongiungimento ». Il rassegnato deserto pro-cinese del Memoriale di Chiang Kai-shek contro la folla filo-occidentale che già esulta sotto quello della Pace: a Taipei il palcoscenico per celebrare la prima sconfitta elettorale del modello che la Cina rappresenta, davanti al parlamento, è già montato. La realtà resta però più complicata delle apparenze e chiunque vinca le elezioni, per il mondo sarà un problema. 47 INTERNI del 15/01/16, pag. 10 “Fi ai minimi, Silvio molla la politica” Il pressing di Confalonieri e Letta su Berlusconi: questo partito al 10 per cento non serve più alle tue aziende Il Cavaliere: ma non posso lasciare campo aperto a Salvini. A Roma vuole candidare Bertolaso CARMELO LOPAPA ROMA. L’ultimo assalto al fortino, i più intimi lo hanno portato in questi giorni. Al tavolo da pranzo di casa Berlusconi, Fedele Confalonieri, Gianni Letta e Nicolò Ghedini sono tornati alla carica: «Silvio non puoi andare oltre, i sondaggi sono in caduta, il partito allo sbando, ma che te ne fai di Forza Italia al 10 per cento? Non conviene neanche alle aziende questa guerra a Renzi». Il Cavaliere, raccontano, resta turbato. Ribatte che lui non può «lasciare campo libero a Matteo Salvini», non può essere lui il candidato premier, occorre prima trovare il “moderato” che possa guidare il centrodestra. Ma i dubbi lo assalgono. Ha spiazzato perfino i fedelissimi la notizia del sondaggio di dicembre per testare Fi al fianco di Renzi e delle sue riforme. Risultato: il partito crollerebbe al 5, ma col voto contrario di martedì prossimo al Senato lo stesso sondaggio non riconosce più del 10. L’indiscrezione di un incontro segreto Berlusconi- Verdini nelle ultime 48 ore a Roma è smentita ufficialmente da entrambi i fronti. Di certo, l’assemblea coi gruppi di mercoledì ha sortito l’effetto di un rompete le righe («Potrei essere alle Bermuda», «Scusate ma tra poco ho il Milan»). Così, tra i fedelissimi è scattata la corsa disperata al si salvi chi può. Per oggi a pranzo Antonio Tajani ha convocato una decina di parlamentari a Roma per una riunione «ristretta» per decidere dove riparare. Martedì al ristorante Archimede sempre a Roma hanno pranzato Paolo Romani, Mariastella Gelmini e Maurizio Gasparri, con lo stesso interrogativo: lombardi e ex An stanno provato a serrare il blocco della “vecchia guardia”. Poche ore dopo, martedì sera, in un altro ristorante, una decina di senatori e “nuovi dirigenti” che si riconoscono nell’ex campione olimpico Marco Marin, coordinatore veneto. E in questo scenario c’è chi, come i big Giovanni Toti e Mara Carfagna lavorano sulle primarie. Il fatto è che il leader che quest’anno veleggia verso gli 80, resiste ancora nel fortino. L’ultimo colpo assestato è di queste ore: avrebbe quasi convinto Guido Bertolaso, ex sottosegretario e capo della protezione civile, ad accettare la candidatura a Roma. Sarebbe lui il «super candidato col quale, se accetta, vinciamo», annunciato due giorni fa ai parlamentari. Chiunque, pur di mettere fuori gioco Giorgia Meloni. del 15/01/16, pag. 13 Primarie, Giachetti cerca rivali nel Pd “A Roma senza il confronto ai gazebo la mia candidatura non esiste”, dice il vicepresidente della Camera I bersaniani lo bocciano ma non presenteranno un loro nome. E nel partito scatta il pressing su Tocci TOMMASO CIRIACO 48 ROMA. Si fa presto a dire primarie. E se la sfida di Roma non decolla? E se nessun big scende in campo contro Roberto Giachetti? «Non mi sembra che in giro ci sia Adenauer, uno per cui tutti possono dire “che bello, stiamo tutti con Adenauer” – sussurra agli amici il vicepresidente della Camera – quindi voglio costruire al meglio il mio percorso. Nelle primarie, naturalmente, perché senza la mia candidatura non esiste». L’unico contendente reclama un duello vero, insomma. Ma per ora i potenziali sfidanti si nascondono, tentennano, si tengono lontani dai gazebo. Per timore o per calcolo, pare quasi che le minoranze anti renziane giochino a sfilarsi. «Noi bersaniani non presenteremo un nostro nome – confida Davide Zoggia - Quanto a Giachetti, non va: è mancata una discussione dal basso». Pessimismo o boicottaggio, fatto sta che sono in pochi ad andare controcorrente: «Vedrete - promette il capogruppo alla Camera Ettore Rosato - saranno primarie vere. Contendibili, come a Milano». Il balletto va avanti da mesi: partecipa Ignazio Marino, anzi ci sta pensando Walter Tocci, in realtà toccherà a David Sassoli. L’unico dato fino a ieri sicuramente in pista, il veltroniano Roberto Morassut, adesso sembra aver cambiato idea. Nessuno vuole bruciarsi: «Diciamo pure la verità – rigira il coltello Stefano Fassina – pochissimi dem vogliono davvero disturbare Renzi. Marino? Lui è nel Partito democratico, eventualmente parteciperà alle primarie. Io ho un progetto diverso». A dire il vero il sindaco sfiduciato dal notaio non ha ancora sciolto la riserva. Però giorni fa ha ripreso la tessera del Pd, segno che la ricandidatura lo stuzzica. In alternativa, pensa di schierare una fedelissima come Estella Marino oppure un altro ex assessore, Paolo Masini. L’unico potenziale sfidante davvero di peso resta comunque Tocci. «Se lui accetta – rivela il ras della sinistra dem romana, Marco Miccoli - tiene assieme la minoranza del Pd e pure l’area di Marino». In effetti è proprio così, tutti corteggiano l’ex vicesindaco di Rutelli. Piace al governatore Nicola Zingaretti. Ai bersaniani come Zoggia: «Speriamo di convincerlo». E anche a Sel: «Ci metterebbe in difficoltà», ammette il deputato Filiberto Zaratti. Pure Fassina tende la mano: «Tocci e Cuperlo propongono un campo largo e senza simboli. Interessante, ma il Pd del Nazareno ha già detto di no». Dovesse sciogliere la riserva, comunque, lo farebbe il prossimo 23 gennaio al teatro Brancaccio, assieme ai presidenti dei municipi del centrosinistra romano. Si ritroveranno per chiedere unità. E invocheranno un nome per battere Giachetti. Altrimenti che primarie sono? del 15/01/16, pag. 3 Referendum con le comunali, l’impossibile blitz del governo Governo. La consultazione sulla riforma costituzionale a giugno con le amministrative? Renzi ha interesse ad alzare la partecipazione, ma il comitato del no può bloccare la corsa semplicemente chiedendo di raccogliere le firme dei cittadini. La questione già risolta nel 2001 da Amato: non si possono violare i diritti dei promotori Andrea Fabozzi ROMA 49 C’è agitazione tra gli avversari della riforma costituzionale, che martedì sarà approvata in seconda lettura dal senato. Al comitato del No si teme che al governo possa riuscire un’ennesima forzatura: la convocazione del referendum confermativo — per il quale Renzi ha interesse a un’alta partecipazione — nello stesso giorno delle prossime amministrative. Una strada impercorribile, per chi conosce la legge del 1970 che regola i referendum; ma la notizia che il segretario generale di palazzo Chigi Paolo Aquilanti abbia «perorato la causa dell’armonizzazione del referendum con le comunali», riferita in aula dal senatore Mario Mauro, spaventa ugualmente. Perché l’abile Aquilanti è considerato in grado di trovare qualsiasi soluzione tecnica — è grazie alle sue invenzioni che il disegno di legge di revisione costituzionale ha scavalcato le insidie dell’ostruzionismo. Renzi in realtà ha detto più volte che il referendum per il sì o il no alla riforma costituzionale si terrà «ragionevolmente» in ottobre, e così anche la ministra Boschi. Ci vorrebbe una seria forzatura rispetto alla legge e ai precedenti per anticipare la consultazione. Ma non sarebbe la prima. La data possibile per l’election day amministrative più referendum è una sola, il 19 giugno. L’aspetto interessante della vicenda è che la possibilità di impedire questa forzatura è quasi interamente nelle mani degli stessi promotori del comitato per il no. Se infatti si affretteranno a depositare alla Corte di cassazione l’annuncio della raccolta delle firme per promuovere il referendum, alla maggioranza renziana non basterà depositare la stessa richiesta da parte dei senatori o dei deputati per accelerare i tempi. Uno sguardo al calendario. Il disegno di legge di revisione costituzionale potrà essere approvato definitivamente dalla camera non prima del 14 aprile. La legge potrà essere pubblicata il 18 in Gazzetta ufficiale, con il previsto avvertimento che non essendo stata raggiunta la maggioranza dei due terzi si potrà dare luogo al referendum. Facciamo due ipotesi. Se la forzatura voluta dal governo — che si suppone stia perorando il segretario generale di palazzo Chigi — andrà in porto, la Cassazione si accontenterà della richiesta dei parlamentari filo governativi, non aspetterà i tre mesi previsti per eventuali altre richieste, «brucerà» anche i 30 giorni previsti per le verifiche e già il 22 aprile ammetterà la consultazione. A quel punto il primo consiglio dei ministri convocherà le urne il prima possibile, (tra i 50 e i 70 giorni), appunto il 19 giugno. Ma è un’ipotesi che non tiene conto che un gruppo di cittadini — il comitato del no — può decidere di proporre la raccolta di 500mila firme per giungere per quella via al referendum. La richiesta è un atto ufficiale: permette la costituzione formale dei comitati e viene pubblicato in Gazzetta ufficiale. I precedenti in questo caso pesano particolarmente, perché sono solo due. Nel 2006 contro la devolution il centrosinistra depositò le firme dei cittadini pochi giorni prima della scadenza dei tre mesi. Nel 2001, contro la riforma del Titolo V, la Casa delle libertà annunciò l’intenzione di raccogliere le firme, la Cassazione ammise i referendum appena depositata la richiesta dei parlamentari, ma il governo attese comunque tre mesi per indire il referendum. Attese invano, perché le firme non furono raccolte, ma il presidente del Consiglio Amato (raffinato costituzionalista ora alla Consulta) spiegò che «non si può interrompere la procedura senza violare i diritti costituzionali dei promotori». Tornando al calendario, in questa seconda ipotesi il referendum non potrebbe tenersi prima del 18 settembre. Poi certo c’è il dibattito nel comitato del no sull’opportunità, e la praticabilità, di raccogliere effettivamente le firme dei cittadini, atteso che quelle dei parlamentari di opposizione sono già garantite. Ma è un’altra questione. 50 del 15/01/16, pag. 13 Il capo della campagna Usa 2012 ha incontrato il premier a Roma mercoledì scorso Contratto da 100 mila euro, lavorerà anche per le elezioni E per il referendum Renzi si affida a Messina il guru di Obama CLAUDIO TITO ROMA. «Le migliori soluzioni si basano sui migliori dati». Nell’homepage del suo sito, questo è uno degli slogan che usa. Ma non è solo un motto. I “Big data” sono il metodo di Jim Messina, capo della campagna elettorale di Obama nel 2012. Quella che ha portato alla rielezione del presidente americano. Un curriculum lungo. Con consulenze ad alcuni degli attuali leader mondiali. Dall’attuale inquilino della Casa Bianca, appunto, al premier britannico David Cameron. Da Washington, dove ha sede la sua società – la MessinaGroup – nei prossimi mesi si trasferirà in Italia. Sarà lui, infatti, il “guru” di Matteo Renzi per i prossimi impegni elettorali. O meglio, per il prossimo appuntamento referendario sulla riforma costituzionale. Quello su cui il presidente del consiglio ha deciso di giocarsi la testa. «Se lo perdo – ha detto martedì scorso - lascio la politica». Messina e il capo del governo si erano già conosciuti lo scorso anno. Ma l’incontro finale per firmare l’accordo c’è stato mercoledì scorso a Roma. Il suo datore di lavoro fino ad ottobre sarà dunque il Pd. Il rapporto, infatti, non è con il governo ma con la segreteria del partito democratico. Si tratta di una consulenza di natura politica e non istituzionale. Nel faccia a faccia di due giorni fa, i due hanno già iniziato a fissare alcuni punti fermi della prossima campagna. Il concetto di fondo sarà il “door to door”, il classicissimo porta a porta. Fu una delle mosse più azzeccate studiate nel 2012 per Obama. L’idea è di trasferirla anche nel nostro Paese. Tornare al metodo più antico, ma con sistemi moderni. Messina, però, non sarà un vero e proprio responsabile della “propaganda” referendaria. Suggerirà una strategia di fondo. Soprattutto metterà a punto i criteri per organizzare i comitati per il sì. In modo particolare preparerà i “sostenitori” che gireranno casa per casa. Si concentrerà su una sorta di “formazione” per i “volontari del referendum”. Spiegherà dove bussare e quando farlo. E quale tipo di messaggio trasmettere. Il tutto basato sui metodi americani di analisi dei dati. Per Messina, infatti, la vera bussola è da cercare nei “Big data”. Raccogliere il maggior numero di informazioni, scomporle, riaggregarle e poi analizzarle. Il primo passo, ad esempio, sarà lo studio della distribuzione territoriale degli elettori. Se fossimo negli Stati Uniti si tratterebbe di segnalare i flussi e i punti deboli di ogni singolo collegio. L’obiettivo è organizzare i famosi “focus group” provincia per provincia. Accompagnati da sondaggi su base nazionale e locale. Due dei suoi “soci” – le basi operative resteranno a Washington e Londra - si trasferiranno stabilmente a Roma da aprile. Non è un caso che proprio Renzi nei giorni scorsi abbia annunciato l’avvio della campagna referendaria subito dopo l’approvazione in Parlamento della riforma costituzionale. Una circostanza che obbligherà il ”super-esperto” a stelle e strisce a tener conto anche delle elezioni amministrative che si terranno a giugno. La sovrapposizione dei due impegni è evidente. E seguirà con attenzione anche la “corsa” dei candidati democratici a Roma, Milano, Torino e Napoli. 51 Messina ha garantito la sua presenza nei momenti chiave. Il “campaign maker” statunitense del resto vola spesso nel nostro paese. Come si capisce dal suo cognome ha origini italiane e uno degli episodi che preferisce raccontare è legato alla sua vita privata: «A Firenze ho chiesto a mia moglie di sposarmi». Anzi, da allora proprio in Toscana ha deciso di comprare casa e di trascorrere parte delle sue vacanze. Renzi non è il primo a ricorrere ai grandi consulenti americani. In passato lo fece già Francesco Rutelli nel 2001 con Stanley Greenberg, lo stratega di Bill Clinton. Nel 2006 Silvio Berlusconi accettò il consiglio di George Bush e si affidò ai servizi di Karl Rove, l’uomo-ombra dell’allora presidente Usa. E nel 2013 Mario Monti si rivolse a David Axelrod, uno degli artefici delle campagne di Clinton e dello stesso Obama. Ma ancora più di recente addirittura il sindaco di Lecco, Virginio Brivio, chiamò lo scorso giugno Mike Moffo, altro uomo dello staff obamiano, per la conferma al comune. Messina, che potrebbe essere lo “stratega” anche di Hillary Clinton se vincerà le primarie dei democrats, arriva in Italia dopo tre successi. La conferma, appunto, del presidente Usa nel 2012. La vittoria del premier inglese Cameron nell’ultima competizione elettorale e in quella cruciale nel referendum per l’indipendenza della Scozia. Un precedente che ha pesato non poco nella scelta del segretario democratico. È stata determinante la circostanza di aver già sperimentato una competizione referendaria in cui non si cura l’immagine di un candidato ma di un progetto. E in cui gli elettori sono chiamati a una scelta univoca: si o no. Ovviamente il ”guru” renziano non lavorerà in Italia a titolo gratuito. Il contratto, stipulato dal Pd, prevede un compenso che si avvicina ai 100 mila euro. Ma c’è anche un’opzione: in caso di vittoria, ci sarà anche la conferma per le prossime elezioni politiche. del 15/01/16, pag. 16 Referendum, contro la stretta del governo c’è il ricordo all’Onu Riccardo Magi, Mario Staderini La riforma costituzionale Renzi-Boschi è un requiem per il referendum abrogativo. Gli ostacoli che nel corso degli anni lo hanno di fatto reso impraticabile, a partire dal quorum elevato e dalle procedure borboniche di raccolta firme, si aggravano anziché essere rimossi. Introdurre una parziale riduzione del quorum per chi raccoglie in tre mesi 800mila firme autenticate da un pubblico ufficiale, significa permettere i referendum esclusivamente ai grandi partiti che dispongono sul territorio di un esercito di consiglieri comunali. I comitati di cittadini così come i movimenti di minoranza, privi di apparati parastatali, non avrebbero chance. Un istituto di democrazia diretta nato per garantire ai cittadini il diritto di abrogare le leggi votate dal parlamento, è stato così trasformato in uno strumento riservato per lo più ai gruppi di maggioranza che proprio quelle leggi hanno approvato. Più che un paradosso è un grave vulnus al principio democratico e di uguaglianza. Si tratta, in realtà, dell’ultimo atto di un sabotaggio antireferendario che prosegue da settant’anni, rispetto al quale lo stato italiano dovrà rispondere, su nostra denuncia, nel giudizio dinanzi al Comitato diritti umani dell’Onu per violazione del patto internazionale sui diritti civili e politici. Il ricorso, presentato nello scorso mese di luglio con l’assistenza del professor Cesare Romano e della Loyola Law School di Los Angeles, trae origine da quanto accadde nel 52 2013, in occasione dei referendum promossi da Radicali italiani, tra cui l’abolizione del reato di clandestinità e la depenalizzazione per le violazioni di lieve entità della legge sugli stupefacenti. La nostra campagna non raggiunse le 500mila firme, oltre che per il mancato impegno dei partiti della sinistra ufficiale, a causa di procedure restrittive e omissioni delle istituzioni, dall’assenza di autenticatori ai Comuni chiusi per ferie passando per la mancata informazione. Entro aprile il governo italiano dovrà presentare le sue difese all’Onu, sia rispetto alle condotte di allora che alle leggi che ostacolano il diritto a promuovere referendum, già in vigore e in corso di approvazione. Se la politica, le istituzioni hanno perso autorevolezza è anche per come hanno trattato l’istituto referendario. Su 197 richieste di referendum nazionali presentate, il 66% non è nemmeno arrivato al voto, negli altri casi sono stati il quorum o il parlamento a vanificare la volontà di decine di milioni di italiani. Discorso analogo le leggi di iniziativa popolare, per le quali la riforma Boschi triplica il numero di firme necessarie nonostante dal 1979 solo l’1,15% di quelle depositate sia stata poi approvata dal parlamento. Il rischio per la credibilità dell’intero sistema è alto: se si impedisce ai cittadini di partecipare alla vita politica con la democrazia diretta, si convinceranno che anche la democrazia rappresentativa non serva a nulla. La modifica costituzionale, purtroppo, non inverte la rotta ma produce effetti antidemocratici. In parte superabili, ad esempio rimuovendo gli ostacoli che rendono la raccolta di 800mila firme — e quindi l’accesso al quorum ridotto — un’impresa impossibile ai più. Basterebbe una legge ordinaria che superi le disposizioni vessatorie e irragionevoli della legge del 1970. Dopo quarant’anni, è arrivato il momento di un intervento organico che, sul modello di Svizzera e California, garantisca l’informazione e semplifichi le procedure, consentendo di firmare online e ampliando la platea degli autenticatori. Occorre un Referendum Act, subito, per restituire ai cittadini un diritto fondamentale da troppo tempo compromesso. In caso contrario sarà l’Onu, nel condannare lo stato italiano, a imporre quei rimedi complessivi necessari per rientrare all’interno degli standard democratici internazionali. Il 23 e 24 gennaio a Napoli, nell’ambito degli Stati generali delle città e del federalismo, ci incontreremo con tutti coloro che vorranno partecipare alla stesura del Referendum Act e alla campagna per la sua approvazione. * Gli autori sono rispettivamente: Segretario di Radicali italiani e Autore del ricorso all’Onu contro lo Stato italiano del 15/01/16, pag. 6 Appalti, con la riforma codice «leggero» e premi alle imprese efficienti Il Senato ha approvato la legge delega, decreti attuativi entro il 18 aprile - All’Anac poteri di vigilanza e regolazione ROMA Mai più appalti in deroga (se non per calamità naturali), stop alle varianti che fanno esplodere i costi delle grandi opere, imprese valutate sulla base della reputazione conquistata in cantiere o nello svolgimento dei servizi, freno ai ricorsi che bloccano le opere e monopolizzano le aule dei Tar, spinta all’innovazione con un forte impulso all’uso del Bim, software di progettazione che consente di anticipare gli imprevisti durante i lavori. E soprattutto una drastica semplificazione normativa abbinata alla scelta di mettere al 53 centro del nuovo sistema l’Autorità Anticorruzione guidata da Raffaele Cantone, che avrà il doppio compito di scrivere le regole flessibili («soft law») incaricate di calare nella realtà del mercato il nuovo impianto normativo e indirizzare amministrazioni, imprese e professionisti con atti finalmente vincolanti. In una brutale sintesi è quello che promette la legge delega per la riforma degli appalti approvata ieri a larga maggioranza dal Senato (con il sì di Forza Italia e voto contrario dei Cinque Stelle che invece in prima lettura avevano optato per l’astensione). Una promessa da mantenere in fretta, attraverso il decreto legislativo chiamato ad attuare i principi contenuti nella delega (forte di ben 72 criteri direttivi) in norme cogenti. Il decreto deve essere approvato entro il 18 aprile, data in cui scade il termine per recepire le tre direttive europee (23, 24 e 25/2014) che hanno dato il la alla riforma e che il ministro delle Infrastrutture Graziano Delrio ha ribadito di voler rispettare. «Da oggi il Paese ha una legge che consente trasparenza, efficacia e legalità nelle opere pubbliche - ha twittato il ministro - Governo, Parlamento, Anac, imprese, insieme per questa importantissima e innovativa riforma. Ora tempi rapidi per la sua attuazione in norme semplici». A scrivere materialmente il decreto, che non dovrebbe superare la misura di 120-150 articoli, rispetto agli oltre 600 attuali, sarà la commissione di 19 esperti nominata da Delrio lo scorso settembre. La guida Antonella Manzione, capo del Dipartimento affari giuridici di Palazzo Chigi. Qualche bozza circola già, ma si tratta di documenti preparatori, già a prima vista ancora largamente incompleti. La delega approvata ieri mette in moto la seconda riforma degli appalti nel giro degli ultimi venti anni. A innescare la prima, con la legge Merloni del 1994 poi ampiamente rimaneggiata e sfociata nel codice del 2006 fu Tangentopoli. Anche oggi, le inchieste che negli ultimi mesi hanno attraversato il mondo dei lavori pubblici - dall’Expo commissariato a Mafia capitale, fino all’ultimo capitolo degli appalti Anas - hanno lasciato il segno. «La corruzione è uno dei motivi principali che hanno impedito la corretta esecuzione delle opere pubbliche in Italia - ha spiegato in Parlamento Delrio -. Questo codice sarà una ricetta efficace». Non è un caso allora la scelta di far girare il sistema intorno ai (tanti) nuovi compiti dell’Anticorruzione. Con la riforma che contribuirà a scrivere attraverso la «soft law» attuativa del nuovo codice, Cantone sarà dotato di poteri di intervento cautelari (possibilità di bloccare in corsa gare irregolari), mentre il rispetto degli atti di indirizzo al mercato (bandi-tipo, linee guida, pareri) diventerà vincolante per amministrazioni e imprese. In questa chiave va anche letta la nascita di un albo nazionale dei commissari di gara e il divieto di prevedere scorciatoie normative, bypassando o semplificando le gare, per la realizzazione di grandi eventi. Le deroghe alle procedure ordinarie (90 quelle concesse per la realizzazione dell’Expo) potranno essere ammesse soltanto in risposta a emergenze di Protezione civile. All’Anac spetterà anche il compito di qualificare le stazioni appaltanti, che saranno abilitate a gestire i bandi per fasce di importo in base al grado di organizzazione e competenza. Per frenare la deriva dei tempi infiniti dei cantieri arriva la stretta sulle varianti da cui passa l’aumento dei costi in due casi su tre nelle grandi opere, con la possibilità di rescindere il contratto oltre certe soglie di importo. Anche qui è prevista una tagliola di Cantone, che potrà sanzionare le Pa inadempienti sugli obblighi di comunicazione. Importante anche la scelta di valutare le imprese sulla base di un rating di reputazione che terrà conto del comportamento tenuto nei contratti precedenti. Chi dimostrerà di saper rispettare tempi e costi, evitando la prassi del contenzioso per alzare il prezzo in corso d’opera sarà premiato. Per gli altri potrà scattare invece il cartellino rosso. Un modo per allinearsi agli standard anglosassoni dove conta molto come viene eseguito il contratto e 54 non - come finora accaduto in Italia - se sono state (spesso solo) formalmente rispettate le complicatissime procedure dettate dal codice. Mauro Salerno del 15/01/16, pag. 3 Crocetta e il carrozzone dei giornalisti “fasulli” Assegno da un milione all’ente non riconosciuto, parcheggio di politici trombati di Giuseppe Lo Bianco L’istituto superiore di giornalismo è in “disarmo” dal 2014, i dieci dipendenti sono in aspettativa facoltativa, non ha un sito web e dai fasti di un palazzo nobiliare del centro di Palermo ha trasferito la sede a Ganci, un paese delle Madonie, a casa del fratello del sindaco, guarda caso, vicino a Crocetta. Che oggi, con la famigerata tabella H (contributi a pioggia a enti e associazioni) gli assegna un milione 199 mila euro, un cadeau insperato per un carrozzone che finora ha inghiottito centinaia di migliaia di euro per illudere generazioni di aspiranti giornalisti con un’impossibile formazione senza alcuno sbocco professionale per l’assenza di una convenzione con l’Ordine. L’ultimo scandalo targato Crocetta porta a galla la sua furia moralizzatrice a corrente alternata nei confronti dei giornalisti (ne licenziò 23 dall’ufficio stampa della Presidenza) visto che oggi premia un ente trasformato in un’area di parcheggio per politici trombati: lo presiedette fino alla fine del 2014 Maria Grazia Brandara, deputata regionale eletta nella lista Casa della Libertà – Cuffaro Presidente, lo guida oggi l’editore Sebastiano Roccaro, proprietario di otto emittenti ad Avola, ospitate, dicono i colleghi della zona, in una sola stanza, il quartier generale del suo comitato elettorale alle ultime regionali, quando Crocetta lo indicò nella sua squadra di assessori. Gli andò male e a Palazzo d’Orleans Roccaro non entrò mai, in cambio ha ricevuto la presidenza dell’istituto che accettò con enfatico entusiasmo: “Qui si sono formate le migliori firme del giornalismo italiano”, disse in un’intervista, ma si attendono ancora i nomi. Nell’intervista ne fece uno solo, quello del presidente di Rcs Libri, Mieli (“i corsi di aggiornamento devono partire al più presto e se sarà necessario chiameremo docenti come giornalisti del calibro di Paolo Mieli”) che però non arrivò mai. Così come non partirono i corsi, e l’inattività, oltre a spingere verso l’aspettativa volontaria i dieci dipendenti, costrinse l’istituto a lasciare i fastosi locali del palazzo nobiliare di via Maqueda, per trasferire la sede a casa di uno dei revisori contabili, Santo Ferrarello, in un paesino delle Madonie, Ganci, il cui sindaco, eletto in una lista collegata al Megafono di Crocetta, è il fratello: Giuseppe Ferrarello. Con il nuovo cadeau di Crocetta, pari a un milione e 200 mila euro, Roccaro pensa di rilanciare i corsi di giornalismo, avvalendosi non solo della sua esperienza di editore, ma anche di giornalista pubblicista, autore di programmi come Sputa il rospo, andato in onda anni fa in tarda serata su Rai2 e Quattro amici al bar, nella più locale tv Amica di Avola. Suscitando più d’una perplessità nell’Ordine regionale dei giornalisti, che alla regione che chiedeva di nominare un componente nel cda dell’istituto, rispose con un rifiuto: “Non ci hanno mai informato sui programmi e sugli obiettivi organizzativi – dice il presidente 55 Riccardo Arena – si sono fatti vivi solo in occasione della spartizione di posti, e abbiamo risposto: no, grazie. Che il presidente dell’istituto, poi, sia un editore mi sembra poco compatibile”. Il dubbio è che avessero poco da raccontare sulla formazione dei giornalisti: sette anni fa l’istituto venne trasformato in una dependance dell’Università Kore di Enna, fondata da Mirello Crisafulli. In un’aula di piazza Ignazio Florio, a Palermo, gli studenti potevano assistere alle lezioni dei corsi ennesi di Scienze della comunicazione multimediale. In pratica, la Regione dava 608 mila euro all’istituto per risparmiare agli studenti un fastidioso pendolarismo. E in un’intervista, il coordinatore didattico dell’istituto, il criminologo Nicola Malizia, ammise: “Da qui non escono giornalisti, ma dal prossimo anno organizzeremo corsi di aggiornamento per giornalisti e pubblicisti”. del 15/01/16, pag. 20 Cancellati dal codice decine di reati 30.000 processi in meno Ma il provvedimento non riguarderà la clandestinità Depenalizzazioni, ultimo atto. Il governo trasforma oggi per decreto una serie di reati minori da materia penale a questioni amministrative. Per dirne una, l’ingiuria (articolo 485 del codice penale: chiunque offende l’onore o il decoro di una persona presente) non sarà più un reato con i canonici tre gradi di giudizio, ma un veloce procedimento amministrativo che porterà a multe fino a 8mila euro se ingiuria semplice, fino a 12mila se aggravata. DA REATI A ILLECITI AMMINISTRATIVI La depenalizzazione interesserà quei reati che già ora non venivano puniti con il carcere, ma solo con una multa. Saranno trasformati in illeciti amministrativi, con sanzione pecuniaria immediatamente eseguibile. Se il reato avrà la forma aggravata, però, non c’è depenalizzazione. CASI DUBBI: DAL CONTRABBANDO ALLA COLTIVAZIONE DI CANNABIS Un caso su cui gli avvocati s’interrogano, ad esempio, è il contrabbando di tabacchi. Se «lieve», potrà essere risolto con una multa. Se «grave», resta reato. Viene depenalizzata anche la coltivazione di piante proibite, tipo la cannabis, ma solo nel ristretto caso di quegli enti di ricerca (alcuni istituti universitari e l’Istituto farmaceutico militare di Firenze) che siano stati autorizzati dal ministero della Salute per la produzione a scopo terapeutico. COSA SUCCEDE SE SI GUIDA SENZA PATENTE? Altro esempio è la guida senza patente. S’intende quando la patente non è mai stata conseguita, oppure è stata revocata, o ancora quando uno straniero sia trovato alla guida con la patente del suo Paese ma non riconosciuta in Italia: si passa da una multa comminata dal giudice penale fino a 9mila euro, a una multa amministrativa fino a 30mila euro che va pagata subito, salvo vedersela con Equitalia. Ciò accadrà soltanto alla prima infrazione; per i recidivi, scatterà anche la denuncia penale. E qui si parla di guidatori che non hanno causato danni. Se si causa un omicidio stradale, essere senza patente è una seria aggravante. Non c’entra nulla il caso di chi si trovi con la patente scaduta; rischia una mini-multa da 159 a 639 euro. Come ormai ampiamente noto, la depenalizzazione non riguarda il reato di immigrazione clandestina. Il governo vuole pensarci bene e riscrivere il reato, non semplicemente abolirlo. Abrogati invece alcuni reati molto particolari tipo l’appropriazione di cose smarrite 56 o di un tesoro; l’appropriazione di parti comuni da parte di un comproprietario; la falsità in scrittura privata; la falsità in foglio firmato in bianco. GIUSTIZIA PIU’ LEGGERA Secondo stime del ministero della Giustizia, la depenalizzazione interesserà circa 30mila procedimenti l’anno, pari a un 2,5% di quelli all’attenzione dei gip. È esclusa dalla depenalizzazione, infatti, una larghissima serie di reati che abbia a che fare con l’urbanistica, l’ambiente, gli alimenti, la salute, la sicurezza pubblica, i giochi d’azzardo, le armi, il finanziamento ai partiti, la proprietà intellettuale. «Desta rammarico – dice Mirella Casiello, presidente dell’Organizzazione unitaria dell’avvocatura – l’esclusione di ampie categorie di reati previste dal codice penale, in particolare la fattispecie delittuosa relativa all’ingresso e soggiorno illegale sul territorio dello Stato». 57 LEGALITA’DEMOCRATICA del 15/01/16, pag. 11 Quarto, indagato il marito del sindaco per la casa abusiva E Di Maio accusa il Pd L’abitazione irregolare al centro del ricatto a Capuozzo Il big M5S: diffamano perché nei sondaggi batto Renzi DARIO DEL PORTO CONCHITA SANNINO NAPOLI. Era l’arma di ricatto usata contro di lei. Ora è un’altra tegola che cade sul capo del sindaco ribelle. La Procura indaga il marito di Rosa Capuozzo, primo cittadino di Quarto, con le accuse di falso violazione della normativa edilizia. Al centro del nuovo filone, la trasformazione e l’ampliamento di quel sottotetto diventato l’appartamento dove il sindaco vive con il coniuge, Ignazio Baiano. E mentre la maggioranza ex pentastellata perde i pezzi, la Capuozzo torna davanti ai magistrati come teste per la sesta volta. Quasi cinque ore di faccia a faccia con il procuratore aggiunto Giuseppe Borrelli e il pm Henry John Woodcock. Ma la sua posizione resta quella di persona informata dei fatti. Il procuratorre Borrelli si limita a commentare: «La teste ha fornito risposte che riteniamo allo stato esaustive, naturalmente non si possono escludere ulteriori approfondimenti». Il sindaco resta dunque parte lesa della tentata estorsione contestata al più votato della lista pentastellata, Giovanni De Robbio. E tra i nodi affrontati nell’ultima deposizione comparirebbero sia i termini e le circostanze in cui furono esercitate le pressioni di De Robbio contro il primo cittadino, sia i successivi passaggi del sindaco, anche in relazione ai suoi contatti con esponenti nazionali del Movimento. Nelle stesse ore, si apre ufficialmente anche l’indagine sugli abusi edili realizzati nella casa della Capuozzo. Su mandato del pm Francesca De Renzis e del procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso, i carabinieri sono tornati in mattinata al Comune. I magistrati ipotizzano i reati di falso e violazione della normativa edilizia. Al centro dell’inchiesta, la dichiarazione in base alla quale l’opera (una mansarda di uso industriale, trasformata in ampia abitazione) risultava completata e l’appartamento abitato entro il 31 marzo 2003, ultimo giorno utile per ottenere il condono. Ma l’ipotesi della Procura è che questa dichiarazione non corrisponda al verità. Proprio facendo leva sull’abuso, il consigliere comunale ex grillino De Robbio aveva tentato di ricattare la Capuozzo mostrandole in tre circostanze la foto dell’area in cui si trova l’abitazione. «Rosa, hai un problema », le disse De Robbio. È questo lo scenario su cui divampa il caso che scuote il Movimento. Anche il fronte politico resta agitato. Il capogruppo Cinque stelle, Alessandro Nicolais, si è dimesso da consigliere: «I motivi sono personali e riguardano tutto quanto accaduto in questi giorni», ha scritto su Facebook. Poi ha aggiunto: «Sono stato eletto col 5 Stelle, questo Sindaco è stato eletto col 5 Stelle, oggi sono cambiate le condizioni e non mi è più possibile continuare. Questo simbolo era ed è un’opportunità per cambiare le cose, soprattutto in luoghi difficili come Quarto, ringrazio chi mi ha dato questa occasione. Ora tocca ad altri. Le buone idee restano. A Quarto il Movimento 5 Stelle c’è». Ma all’Huffington Post racconta di un incontro a dicembre tra il componente del direttorio grillino Roberto Fico e il sindaco Capuozzo. Poi lancia una stoccata a Luigi Di Maio: «L’unica cosa che mi ha disturbato è stato sentire il mio nome spiattellato da un ragazzino, che è il vicepresidente 58 della Camera. Di tutta questa faccenda ognuno si farà un esame di coscienza». Di Maio però guarda oltre Quarto: «Il Pd ci diffama perché supero Renzi nei sondaggi. Ringraziamo comunque la Procura di Napoli e il pm Woodcock per ciò che stanno facendo emergere». del 15/01/16, pag. 6 Quarto, Capuozzo comincia a parlare In 5 ore di interrogatorio il sindaco dà risposte “coerenti” sulle pressioni della camorra. Il marito indagato per l’abuso edilizio di Vincenzo Iurillo Sotto la lente di cinque ore di interrogatorio, il quinto in meno di due mesi, nel chiuso di una stanza al dodicesimo piano della Procura di Napoli, il sindaco di Quarto Rosa Capuozzo offre per la prima volta al procuratore aggiunto della Dda Giuseppe Borrelli risposte coerenti e convincenti alle domande che ipotizzano un tentativo della camorra di infiltrarsi nell’amministrazione (ex) pentastellata e che sottolineano come le intercettazioni hanno spiattellato i ricatti interni al mondo Cinque Stelle. La Capuozzo così scansa l’iscrizione al registro degli indagati per falsa testimonianza e mantiene la posizione di parte lesa. Ma non sa che nel frattempo la sua maggioranza si sta disfacendo come il pane in una zuppa di latte. Tra paure e delusioni, dopo che Roberto Fico annuncia “che abbiamo tolto il simbolo del Movimento all’amministrazione, nei fatti a Quarto il M5s non c’è più”, e nonostante l’ottimismo del vicesindaco Andrea Perotti (“il gruppo è compatto, Grillo venga qui”), molti perdono la voglia di andare avanti. Si dimettono il capogruppo Alessandro Nicolais (quello dell’intercettazione n cui diceva: “Fico ha scritto di stare tranquilli ed andare avanti”), il consigliere Lucia Imperatore, l’assessore all’Urbanistica Tullio Ciarlone. Si aggiungono all’assessore e al consigliere che avevano lasciato il 31 dicembre, una settimana dopo le prime perquisizioni che hanno svelato l’inchiesta sul voto di scambio camorristico dietro l’elezione di Giovanni De Robbio. Nelle stesse ore l’ex Pd Mario Ferro, il “collante” tra i voti al M5s e l’imprenditore delle pompe funebri Alfonso Cesarano, ritenuto vicino al clan Polverino, conferma a Fanpage.it: “Sì, ho votato e fatto votare M5s e De Robbio”. Mentre ilfattoquotidiano.it pubblica un commento di Cesarano sul profilo Facebook della Capuozzo due giorni prima del voto: “Aspettavamo una stella ma tu ci guiderai sei la migliore delle cinque forza che ce la faremo”. E sempre nelle stesse ore diventa di pubblico dominio la notizia che il marito della sindaca, Ignazio Baiano, è indagato per abuso e falso: la sezione Ambiente della Procura di Napoli, procuratore aggiunto Nunzio Fragliasso, fornisce un elemento utile al pm della Dda Henry John Woodcock. Ne esce infatti rafforzata la tesi della tentata estorsione aggravata dal metodo mafioso, contestata all’ex consigliere De Robbio. Quando l’ufficiale di Guardia Costiera le esibiva le foto aree dell’immobile di famiglia Baiano-Capuozzo e le diceva “Rosa, hai un problema”, quel problema non era un trucco del photoshop. I dubbi che l’istanza di condono abbia “retrodatato” la costruzione della mansarda abusiva per farla rientrare nei termini del condono Berlusconi sono fondati, il pm Francesca De Renzis vuole vederci chiaro. “Il Movimento non è un simbolo, il Movimento sono dei princìpi” rispose tre giorni fa la Capuozzo a chi le chiedeva se era possibile andare avanti 59 senza simbolo. Ma forse ha mentito ai suoi consiglieri e il principio della sincerità è saltato, perché Nicolais ha ribadito: “Mi aveva detto che le carte della casa erano a posto”. Tra le dichiarazioni che rimbalzano tra Roma e Quarto c’è il contrasto tra il mondo virtuale del blog e la dura realtà del territorio a rischio, dove l’onestà non è sufficiente a risolvere un problema se non sei attrezzato. Fico dice: “Se ti pugnalano alle spalle come è avvenuto con De Robbio, non è certo un problema di selezione. Quel che conta è la reazione: la nostra è stata forte e chiara. Vantiamo la selezione di quasi 2.000 amministratori di alto livello, il tutto senza finanziamenti pubblici e senza strutture. Eppure la nostra selezione è migliore”. Nicolais non ha letto le sue parole mentre parla col cronista: “Eravamo sprovveduti, in erba. Avremmo avuto bisogno di qualcuno che ci stesse vicino”. E poi si sfoga: “Sono demoralizzato e segnato, ho perso ogni residuo di speranza. La Capuozzo può andare avanti, anche senza di me. Le mie dimissioni sono giustificate, non ho assorbito il colpo del video di Fico e Di Maio. Se in questa vicenda c’è stata omertà, certamente non c’è stata da parte mia. Sono ascoltato dal pm e ho fiducia in lui: riuscirà a fare chiarezza su chi è stato omertoso e chi no”. Poi c’è il giallo della chat degli eletti M5s in Campania, forse depositaria dei segreti di questa storia e della consapevolezza del direttorio delle minacce alla Capuozzo. Fico ne conferma l’esistenza: “È su WhatsApp, ci sono tutti gli eletti e ci ascoltiamo, ma se in quella chat avessero scritto qualcosa, allora tutti avrebbero saputo. Mentre non è così, e può confermarlo chiunque. Si tratta di una chat organizzativa che può essere resa pubblica in qualsiasi momento”. del 15/01/16, pag. 6 Il voto disgiunto dei boss, tra 5Stelle e Pd Flussi elettorali - Non determinanti per la vittoria grillina: radiografia delle preferenze Fabrizio D’Esposito Se a Quarto i voti puzzano di camorra e la questione diventa nazionale, allora la radiografia in corso da giorni va completata coi numeri. Si scopre così che, rispetto ai più “tradizionali” Pd e Forza Italia, il Movimento 5 Stelle mantiene comunque il suo trend “normale”, fatto di voti senza boom di preferenze e che fanno spiccare ancora di più l’anomalia De Robbio, dal nome del consigliere cacciato. Un’analisi che rafforza quella tremenda frase di Beppe Grillo: “I voti della camorra non sono stati determinanti”. Il 31 maggio dello scorso anno, dunque, a Quarto si vota per due competizioni elettorali: le amministrative e le regionali campane. Al primo turno delle comunali il M5S prende 6.700 voti pari al 39,57 per cento. La sua candidata sindaca, Rosa Capuozzo, un po’ di più: 6.983 (40,50 per cento), che diventano 9.744 al ballottaggio (70,79 per cento). Nella città del Napoletano gli aventi diritto sono 31.858 ma vanno a votare in 18.883, il 59,27 per cento. Alle amministrative, infine, non sono presenti né il simbolo del Pd, escluso per irregolarità, né quello di Forza Italia, non concesso dal partito. Tenendo presente questi dati, nello stesso giorno il M5S perde 2.661 voti tra comunali e regionali, basando il raffronto sulle liste. I grillini infatti scendono a 4.039 voti pari al 23,88 per cento mentre il loro candidato presidente, Valeria Ciarambino prende 4.169 voti. I voti che mancano, 2.661, si sovrappongono quasi alla cifra del Pd, presente sulla scheda per le regionali: 2.800 voti, il 16,55 per cento. Non solo. La lista pentastellata per le regionali ha una graduatoria tipica di chi ha votato il simbolo, come voto di opinione. In testa c’è 60 Ciarambino, che è anche capolista nella circoscrizione di Napoli, che mette insieme 576 voti. Poi gli altri 19 candidati: tutti sotto le 100 preferenze, se non le 50 in molti casi. Il rapporto tra voto di lista e preferenze, invece, aumenta considerevolmente coi candidati del Pd. I consensi maggiori, 509, vanno a un ras democrat della Campania: l’ex dc doroteo Raffaele Topo detto Lello, figlio dell’autista storico di Antonio Gava, Francesco Topo. Come fare, quindi, a distinguere i voti buoni dai cattivi che puzzano nelle due urne? L’anomalia De Robbio, ben 955 voti al primo turno, quando 2.661 elettori del M5s alle comunali scelgono perlopiù il Pd alle regionali, si conferma isolata anche nel confronto coi dati delle europee dell’anno precedente, tenutesi il 25 maggio 2014. Il Movimento 5 Stelle si mantiene in media con 4.150 voti, il 29,89 per cento. I voti di lista sono in linea con il trend del voto d’opinione: sette candidati tra i 100 e i 200 voti, il resto sotto le tre cifre. Ad avere un boom, di voti e di preferenze, è il Pd renziano: 4.633, il 33,37 per cento. La lotta interna, a Quarto, è agguerrita con ben altri numeri rispetto ai grillini. Il più votato è Gianni Pittella, con 744 voti. Poi il bassoliniano Massimo Paolucci (716) e il sindaco di Ischia Giosi Ferrandino (638 voti), in seguito arrestato per l’inchiesta sulla Cpl Concordia. La capolista del Pd al sud, Pina Picierno è solo quinta: 391 voti. Nicola Caputo, indagato per voto di scambio politico-mafioso, conquista 219 voti. Con questa cifra sarebbe stato terzo, a Quarto, nella graduatoria grillina delle europee. del 15/01/16, pag. 21 Il silenzio delle vittime di ’ndrangheta: “A Torino c’è più omertà che a Locri” Minacce con teste di maiale mozzate e pizzini per non essere intercettati. I carabinieri: nessuno ha denunciato spontaneamente gli estorsori. Arrestati 20 affiliati giuseppe legato - massimiliano peggio torino «A Torino? Più omertosi che a Locri». Ecco come vengono descritti dai carabinieri questi torinesi in balia degli strozzini, minacciati con teste di maiale mozzate, impauriti e costretti al silenzio con i pizzini, umiliati al punto di dover vendere le catenine d’oro dei figli per appagare le richieste dei signori della ’ndrangheta, che bevono caffè in un bar a pochi passi dal Tribunale e sorridono spavaldi alle ragazze che passano di fronte al dehors. Nonostante le inchieste degli ultimi anni e l’impegno sociale nel recupero dei beni confiscati alle mafie, la ’ndrangheta sembra inestirpabile, il coraggio della denuncia quasi impalpabile. IL BUSINESS Da ieri sono finiti in cella in venti, arrestati dai carabinieri del nucleo investigativo con accuse che vanno dall’associazione di stampo mafioso, all’estorsione, al possesso di armi e commercio di hashish e cocaina. Indagine durata due anni, non facile, perché nessuna delle vittime si è presentata spontaneamente a denunciare le estorsioni. Per paura di ritorsioni. «Il nostro auspicio – afferma il procuratore capo Armano Spataro, autorizzando la diffusione dei filmati dell’inchiesta - è che altre vittime di questi odiosi atti minatori trovino la forza di denunciare». A capo dell’organizzazione due padrini e fratelli: Adolfo e Aldo Cosimo Crea, 44 e 41 anni, già finiti in carcere in altre inchieste, compresa Minotauro, indagine monumentale sull’infiltrazione criminale calabrese a Torino e provincia, con un esercito di condannati in 61 via definitiva. «Lo sapete no, a Torino comandiamo noi» dicevano agli imprenditori, incassando migliaia di euro al mese. Agli affari di famiglia collaborava anche il figlio di Adolfo, il giovane Luigi, al suo debutto in carcere, che si lamentava di non poter vivere con meno di 10 mila euro al mese, per colpa del costo della vita troppo alto. «I soldi partono come niente» dice in un’intercettazione. Attorno ci sono gli altri “associati”: autisti, comparse, emissari. Passeggiano nel centro della città, siedono ai dehors dei caffè, intascano il pizzo in mezzo alla strada, ostentano forza. Altro che mafia silente, che non si manifesta. I Crea sono violenti e lo dimostrano mentre chiedono il pizzo per sostenere «gli affiliati finiti in carcere»: botte, schiaffi, minacce terribili. Lo fanno con Simon Longato, piccolo industriale della cintura torinese, che ha riconquistato la sua libertà quando ha raccontato ai carabinieri di aver ricevuto una testa mozzata di maiale, con dentro una messaggio di morte, vecchio stile, con le lettere ritagliate dal giornale: «la prossima volta mettiamo la tua testa». Ma non l’ha fatto spontaneamente. Si è liberato del fardello quando i carabinieri lo hanno chiamato in caserma, dopo aver intercettato le conversazione dei sui aguzzini. Lui è una delle vittime intrappolate nella rete di estorsioni e minacce di questo gruppo criminale di ’ndranghetisti con solidi legami «con la terra madre», radicata al nord da alcuni anni. Affari nella droga, nel gioco d’azzardo, in alcune attività commerciali. «Per colpa di queste bestie - si sfoga oggi l’imprenditore - mi sono trasferito in Svizzera. Ho paura di morire, ancora oggi. Spero solo che lo Stato faccia lo Stato e li tenga dove meritano. Mi fa star male pensare che tanta gente ha negato le estorsioni di fronte ai carabinieri e ha continuato a pagare. Non pagare rende liberi». Quella dei Crea è una mafia sfacciata che bivacca in una bella piazza di quartiere e fa affari alla luce del sole. «Questa è Torino, non Locri» commenta esaustivo il colonnello Domenico Mascoli, comandante del nucleo investigativo, mostrando le immagini ad alta definizione registrate nel corso delle indagini. Nei filmati si vedono mani che afferrano soldi, stropicciano pizzini tra il via vai indifferente della gente. Nel blitz di ieri sono state fatte anche 41 perquisizioni domiciliari e sequestrati 7 immobili; automezzi; conti bancari, e due società. del 15/01/16, pag. 22 Nomine al Comune indagati a Roma Alemanno e Marino L’accusa è di abuso d’ufficio e sono coinvolti anche assessori delle ultime due giunte in Campidoglio GIUSEPPE SCARPA ROMA. Sono indagati per abuso d’ufficio gli ultimi due sindaci di Roma, Gianni Alemanno e Ignazio Marino. Rischia un nuovo scandalo giudiziario la politica romana. Al centro di un’informativa della Guardia di finanza inviata ai magistrati capitolini ci sono presunte nomine irregolari a dirigenti, capi dipartimento, membri dello staff, eseguite dalle giunte targate centrodestra e centrosinistra. E dietro alcuni incarichi sospetti ci sarebbero non solo i due ex primi cittadini ma anche molti assessori delle rispettive giunte. Per questo i nomi dei componenti dei due governi capitolini affollano almeno due informative, spedite nei mesi scorsi in procura, che ipotizzano il reato di abuso d’ufficio. Gli investigatori indicano 58 persone, in gran parte si tratta di politici. Le Fiamme gialle hanno passato al 62 setaccio anche la veridicità di alcuni titoli di studio forse mai conseguiti ed esibiti nel curriculum pur di ottenere gli incarichi lavorativi. E’ un’indagine agli inizi che potrebbe far tremare gli ultimi due governi della città. Entrambe le giunte sarebbero responsabili delle stesse identiche “sviste”. Una informativa del Nucleo di polizia tributaria della Finanza inviata al sostituto procuratore Francesco Dall’Olio, ha messo il focus sulla questione nomine. Benché per certe posizioni nulla vieti la cosiddetta “nomina diretta” sarebbe comunque sempre necessario operare una verifica delle risorse interne al Comune prima di assumere personale esterno. Un passaggio obbligatorio per cercare di alleggerire le già esauste casse pubbliche. Ebbene dalle indagini svolte dagli investigatori, mancherebbero i documenti che attestino una ricerca interna al Campidoglio di candidati per ricoprire determinate cariche apicali. Una condotta che ha portato il pm Dall’Olio a iscrivere sul registro degli indagati i due ex primi cittadini. Un’inchiesta che individua le prime irregolarità a partire dal 2008 quando in Campidoglio si insedia Alemanno. Ma c’è dell’altro. Un’altra informativa inviata in procura, i pm sono Roberto Felici e Giuseppe Deodato, potrebbe creare altri guai nei palazzi del potere romano, ma per ora in questo secondo filone nessuno risulta indagato. Tuttavia anche in questa circostanza ci sarebbe stata la pratica bipartisan, ipotizzata dagli investigatori, di pagare più del dovuto alcuni capi dipartimento di nomina politica visto che, durante la giunta guidata dal chirurgo dem così come in quella targata centrodestra, sarebbero stati concessi gli stessi maxi- emolumenti, ben oltre quanto stabilisce la legge. Investiture decise in autonomia da parte degli assessori che poi avrebbero fatto riferimento a un quadro normativo errato per contrattualizzare alcuni capi dipartimento o persone dello staff. Interpretazioni di legge inesatte che avrebbero permesso di erogare alle già esauste casse del comune di Roma stipendi nettamente più elevati. del 15/01/16, pag. 5 Altro che Severino, Galan non decade e vale 35 mila euro Tanto ha guadagnato come deputato dal giorno, 7 mesi fa, della condanna definitiva. Ieri salvato dalle assenze dei dem di Gianluca Roselli Ancora una fumata nera per la decadenza da deputato di Giancarlo Galan. Con scambio di accuse tra Movimento Cinque Stelle e Pd. I grillini, infatti, hanno accusato i dem di rallentare l’iter che, secondo la legge Severino, porterà l’ex governatore del Veneto alla perdita del seggio parlamentare. Galan, infatti, nell’ottobre del 2014 ha patteggiato una condanna a 2 anni e 10 mesi diventata definitiva il 3 luglio 2015, arrivata per l’inchiesta relativa agli appalti del Mose, che Galan sta scontando ai domiciliari dopo aver passato 78 giorni in carcere. Da allora sono passati sette mesi, ma l’ex ministro berlusconiano è ancora deputato. “È intollerabile che Galan sia ancora un deputato della Repubblica nonostante la sua condanna definitiva. Questo succede perché il Pd ha disertato per ben due volte la giunta per le elezioni permettendo a Forza Italia e Ncd di prendere tempo”, ha attaccato ieri 63 Davide Crippa, capogruppo dei Cinque Stelle in giunta per le elezioni. Secondo il grillino “la diserzione in massa dei deputati del Pd non può essere casuale, ma è evidentemente frutto di un ordine di scuderia”. Accuse rispedite al mittente dai dem. “Le parole di Crippa stupiscono assai. Avendo chiarito con lui che il Pd vuole senza dubbio andare avanti sulla decadenza di Galan nella prossima riunione, le polemiche strumentali lasciano il tempo che trovano”, ha osservato il capogruppo dem Giuseppe Lauricella. Per la precisione ieri è saltata la riunione del comitato permanente per le incompatibilità, ovvero un incontro della giunta ristretto, che dovrà relazionare sulla vicenda. Poi la parola tocca alla giunta per le elezioni nel suo complesso, che si esprimerà con un voto, e infine la palla passa all’aula, che voterà anch’essa. “Le polemiche dei grillini sono strumentali. Gli slittamenti sono successi a causa degli impegni parlamentari, per esempio, a dicembre, la legge di stabilità. Ma da parte nostra non c’è alcuna remora, anzi siamo più decisi che mai a votare la decadenza”, ha assicurato Lauricella. Ma il Movimento Cinque Stelle non sembra convinto e aspetta il Pd al varco alla riunione prevista per la prossima settimana. Sta di fatto, però, che il deputato azzurro continua a percepire denaro pubblico nonostante la condanna definitiva. Non tutte le indennità previste dal trattamento economico dei parlamentari, ma una buona fetta. Galan, infatti, riceve i 5 mila euro netti mensili previsti dallo stipendio. Mentre non gli viene assegnata né la diaria (circa 3.500 euro), né il rimborso spese per l’esercizio di mandato (3.690), e nemmeno gli altri rimborsi previsti, come quelli per le spese telefoniche. Dalla condanna, luglio 2015, Galan a oggi, gennaio 2016, ha percepito circa 35 mila euro come deputato ancora in carica. A cui vanno aggiunti gli accantonamenti per il vitalizio. All’ex governatore sono stati contestati i reati di corruzione, concussione e riciclaggio. Secondo la procura del capoluogo veneto, infatti, l’ex ministro della Cultura ha percepito “uno stipendio di un milione di euro l’anno più altri due milioni una tantum per le autorizzazioni necessarie all’opera”. Così, il 22 luglio 2014, la Camera decise sul suo arresto, nonostante il tentativo di rinvio da parte del capogruppo di Forza Italia Renato Brunetta perché Galan, a causa di una frattura del perone, era ricoverato in ospedale e non poteva essere in Aula a difendersi. L’Aula concesse l’arresto non ravvisando il fumus persecutionis con 395 voti e favore e 138 contrari. E ora, a causa della Severino, arriverà anche la decadenza. Sempre che la giunta per elezioni riesca a riunirsi e a votare. del 15/01/16, pag. XVII (Roma) Mafia capitale “Armi da guerra nell’arsenale di Carminati” In aula gli investigatori del Ros “Qualcuno avvertì il gruppo così vennero fatte sparire” RORY CAPPELLI PER LA QUARTA volta, ieri, è salito sul banco dei testimoni il capitano del Ros Giorgio Mazzoli. Ha parlato dell’arsenale, mai trovato, dell’organizzazione di Massimo Carminati. Le armi sono un punto delicato e importante di tutta l’indagine. Dimostrano, secondo la procura, la ferocia e gli intenti omicidi dei soggetti coinvolti, che spesso, intercettati, parlano di fare «morti» («lo ammazzo come un cane», «entro 48 ore o ti ammazzo io o c’hai un uomo che ‘mmazza », dice in due diverse occasioni Carminati, e così via). E sono un forte collante con il passato violento ed estremista di Nar di Carminati e anche del suo 64 braccio destro Riccardo Brugia, da giovane ugualmente coinvolto in organizzazioni di estrema destra. Le armi nelle intercettazioni saltano fuori tantissime volte. Conversazioni che sottolineano come ”Er Cecato” e Brugia avessero un vero pallino per le armi in genere e per quelle da guerra in particolare — «che i privati per legge non possono detenere», spiega il capitano — e come si sforzassero di trovare nascondigli adatti a occultare il loro arsenale. Ricco oltre che di «Makarov 9 con il silenziatore», «che non senti neanche il clack», anche di mitragliatrici, silenziatori (per cui spendono «25mila euro»), munizioni e giubbotti antiproiettile in kevlar, perché «se c’hai quello ti salvi» non come il «povero Danilo», dice Brugia, riferendosi a Danilo Abbruciati, della banda della Magliana, ucciso in un conflitto a fuoco. Dalle intercettazioni si capisce anche che già da tempo Carminati è in possesso di un’arma: «Certe volte, quando mi sento aggressivo me la prenderei quella, cioè hai capito, per annà a minaccia’ la gente ». Nelle conversazioni telefoniche Brugia spiega al capo della sua idea di ricavare nel muro vicino alla legnaia uno spazio per nascondere l’arsenale, in quel momento occultato nella stalla. Ma nelle perquisizioni non è saltato fuori niente. Soltanto due cassette vuote: una interrata sotto una catasta di legno, una sotto il tetto di un forno. Oltre a un kit per la pulizia delle armi. Ma perché le armi sono sparite? Un’ipotesi è che Carminati e i suoi complici siano stati avvertiti dai componenti delle forze dell’ordine con cui avevano rapporti. La mattina del 4 ottobre 2013, per esempio, nella stazione di servizio Eni di corso Francia, luogo di incontri e di scambi, Carminati si ferma a parlare con due uomini che arrivano a bordo di un Alfa Romeo 156 intestata alla questura di Roma. Uno dei due dice a Carminati in tono ammirato che «io starei due giorni a sentirti». Il Ros non è mai riuscito a individuare i due poliziotti. Anche se con targa e orario forse non sarebbe stato così difficile. Nel pomeriggio, poi, Salvatore Buzzi si è collegato in videoconferenza per affermare di non aver mai conosciuto l’imprenditore Cristiano Guarnera. 65 RAZZISMO E IMMIGRAZIONE del 15/01/16, pag. 10 Giustizia. «Serve un pacchetto più ampio» Orlando: sul reato di clandestinità non c’è rinvio sine die roma Oggi a Palazzo Chigi il governo non eserciterà la delega conferita dal Parlamento per abolire il reato di clandestinità. La norma penale, dunque, resta in vigore a tutti gli effetti. Ma «non è un rinvio sine die» ha detto ieri il ministro della Giustizia, Andrea Orlando. Il guardasigilli parla invece di «un sistematico ripensamento» della materia dell’immigrazione fino a ricondurre «l’intervento a un più ampio pacchetto». Orlando, durante il question time alla Camera, ha chiarito che nella discussione in seno al governo è emersa «l’esigenza di ulteriori approfondimenti» sia «sulle misure espulsive» che dovrebbero avere «un potenziamento» sia su quelle relative «al riconoscimento dello status di rifugiato». In generale sarebbe emersa una riflessione sulla «necessità di confrontarsi con il complesso degli strumenti volti ad affrontare il problema dell’immigrazione». Il ministro ha poi ricordato come «il reato di immigrazione clandestina fosse stato inserito tra le fattispecie interessate dall’intervento di depenalizzazione in quanto ritenuto non solo inidoneo a contrastare efficacemente il fenomeno dell’ingresso clandestino, ma anche perché la fattispecie a oggi prevista - sottolinea Orlando - si traduce in un rallentamento all’espulsione e in un ostacolo per le indagini, specie quelle relative alla tratta di esseri umani, come segnalato, tra gli altri, dal procuratore nazionale antimafia e antiterrorismo» Franco Roberti. All’atto pratico, tuttavia, oltre la riflessione politica descritta da Orlando non c’è nient’altro. Di certo non c’è, soprattutto, alcun testo più o meno in bozza quantomeno al ministero dell’Interno, guidato da Angelino Alfano, che poi ha la gestione diretta dei flussi immigratori. Tutta la questione, del resto, è così effervescente da suggerire a più di qualcuno tra gli esponenti del governo la massima prudenza. Lo conferma, del resto, anche il ministro degli Esteri Paolo Gentiloni, che pure ribadisce l’annuncio di Orlando. «Abbiamo a che fare con la materia politica più incandescente che c’è in Europa oggi. Il reato di clandestinità è obiettivamente inutile, abbiamo un’esperienza di alcuni anni e si è visto che non è che il flusso di migranti clandestini, visto che c’è quel reato, sia precipitato». Ma, aggiunge Gentiloni, «l’operazione di eliminare questo reato, che io ritengo sacrosanta» deve essere «inserita in un pacchetto di riforma di diverse norme che hanno a che fare con l’immigrazione, che sta preparando il ministro della Giustizia». Il numero uno degli Esteri spiega così il rinvio dell’abolizione: «Sappiamo quanto sia delicata questa cosa in termini di opinione pubblica». Questione che rinvia anche all’omicidio della giovane americana Ashley Olsen, a Firenze, delitto per il quale è stato fermato «con gravi indizi di colpevolezza» il senegalese irregolare Cheik Tidiane Diaw. Ironizza su Facebook il leader della Lega Matteo Salvini: «Fermato un clandestino? Strano...». Roberto Calderoli sostiene che «se fosse stato espulso, non saremmo a piangere». La comunità dei senegalesi a Firenze invita però «a non cadere nelle provocazioni. Un fatto gravissimo - replica a Salvini - ma poteva succedere» a prescindere dalla nazionalità. Marco Ludovico 66 del 15/01/16, pag. 15 Migranti, scontro a Bruxelles. Roma frena sui 3 miliardi per Ankara L’Italia non ha ancora versato la sua quota di 300 milioni. Si profilano nuove tensioni con la Germania di Schäuble DAL NOSTRO INVIATO BRUXELLES Un nuovo scontro tra Italia e Germania si annuncia oggi all’Ecofin del ministri finanziari sui tre miliardi promessi dall’Ue alla Turchia — soprattutto su pressione della cancelliera tedesca Angela Merkel — in cambio di collaborazione nel rallentare il maxi-esodo di migranti siriani e iracheni diretti principalmente in Germania. Nella riunione a Bruxelles il ministro delle Finanze tedesco Wolfgang Schäuble intenderebbe contestare al responsabile dell’Economia Pier Carlo Padoan di essere l’unico a bloccare l’esborso, mettendo a rischio i rapporti con Ankara. Fonti diplomatiche hanno spiegato che in realtà l’Italia resta sostanzialmente favorevole al contributo finanziario alla Turchia. Ma a Roma pretendono che l’intero importo provenga dal bilancio comunitario, mentre al momento l’orientamento è di farlo gravare soprattutto sulle casse degli Stati membri. Al ministero dell’Economia, dopo aver sborsato somme miliardarie per aiutare le banche tedesche esposte in Grecia e negli altri Paesi a rischio, non intendono appesantire i conti pubblici nazionali con un’altra uscita (si stima di circa 300 milioni) per risolvere il problema dei flussi eccessivi di migranti diretti in Germania tramite la rotta dei Balcani. Tra l’altro proprio Schäuble da sempre preme — insieme a Merkel e ai suoi alleati del Nord Europa — affinché i Paesi mediterranei dell’Eurozona attuino politiche di bilancio rigorose e di contenimento della spesa pubblica. Padoan, che ha in corso un duro confronto con Bruxelles per ottenere decimali di «flessibilità» di bilancio a copertura degli esborsi per fronteggiare l’emergenza migranti nel Mediterraneo, non intenderebbe rischiare di vedersi poi contestato uno sfondamento. Ma questo contenzioso ha fatto circolare a Bruxelles anche indiscrezioni che ipotizzano, dietro le riserve dell’Italia sui tre miliardi alla Turchia, un altro segnale del governo di Roma contro lo strapotere della Germania in Europa: nell’ambito della contrapposizione frontale lanciata nel dicembre scorso dal premier Matteo Renzi al massimo livello del summit dei 28 capi di Stato e di governo dell’Ue. Ivo Caizzi del 15/01/16, pag. 3 Berlino pensa a una mini-Schengen per dare una lezione a Italia e Grecia La Germania alla guida della “coalizione dei volenterosi” con Austria, Belgio, Lussemburgo Francia e Olanda contro le inadempienze dei partner sui migranti. Rischia anche l’euro Tonia Mastrobuoni inviata a berlino 67 Se salta Schengen, salta l’euro. In parole semplici, è questo il concetto espresso da Angela Merkel nei giorni scorsi durante un convegno a Magonza. «L’euro e la libertà di movimento attraverso i confini sono strettamente legati», ha spiegato la cancelliera. Dunque, «nessuno può illudersi di mantenere una moneta comune senza garantire un modo semplice di attraversare i confini». Ma secondo un’autorevole fonte governativa tedesca, la Germania non ha affatto rinunciato all’idea di usare «l’atomica» della chiusura delle frontiere, alla luce delle miriadi di inadempienze sui rifugiati dei partner europei – non solo al di là della Oder, ma anche al di là delle Alpi e dei Balcani. E per evitare un’implosione economica, la mini-Schengen che i tedeschi hanno in testa includerebbe comunque un nocciolo di Paesi forti dell’area euro. Il progetto di una mini-Schengen, con un ripristino dei controlli ai confini che includerebbe Belgio, Lussemburgo, Olanda, Austria, Francia e Germania, era affiorato a dicembre, ispirato dagli olandesi e ufficializzato dal capo della cancelleria, Peter Altmaier, che aveva anche battezzato il gruppo: «coalition of the willings», coalizione dei volenterosi. Poi il piano era sparito dai tavoli, riassorbito dalle emergenze terrorismo, persino parzialmente smentito. Ma in questi giorni a Berlino si torna prepotentemente a parlare di «coalizione dei volenterosi», ai piani alti del governo. Sintetizza la fonte: «L’ho detto anche agli amici polacchi: Schengen serve a tutti. Se domani vi ritrovate una valanga di profughi ucraini in casa e noi chiudiamo le frontiere, che fate?». Ma a Berlino il malumore non riguarda solo il comportamento del blocco dei Paesi dell’Est che frena sul riassorbimento delle quote di profughi e si compiace delle proprie involuzioni illiberali e autocratiche quando non barbariche - nei giorni scorsi il premier ceco ha paragonato i rifugiati alle esondazioni. L’irritazione riguarda anche la Grecia e l’Italia, accusate di non fare gli hot spot e di chiudere da tempo un occhio sia sugli ingressi sia sulle registrazioni delle impronte digitali. «Troppo comodo fare i generosi o i leader “di sinistra” quando sai di essere un Paese di transito», sintetizza una fonte parlamentare. Ma è l’umore prevalente nella Grande coalizione, nei confronti di Italia e Grecia. Oltretutto, il 2016 non è un anno qualsiasi, per Angela Merkel. Ed è iniziato, notoriamente, con i peggiori auspici. Accolti un milione e centomila profughi nel 2015, concessa agli avversari di partito la promessa di una riduzione degli arrivi, la cancelliera si prepara ad un anno elettorale – sono cinque gli appuntamenti per il rinnovo dei governi nei Land – con cattivissime premesse. I sondaggi danno il suo partito in cantina, gli anti immigrati dell’Afd sono col vento in poppa e l’Ue sta reagendo troppo lentamente alle pressioni della Germania per garantire un rallentamento dei flussi e un rapido accordo con la Turchia. Senza l’aiuto dei vicini, Berlino minaccia di ispessire i confini. Le conseguenze sarebbero catastrofiche anzitutto per noi. del 15/01/16, pag. 19 Schengen, l’effetto valanga delle nuove frontiere L’allarme di Bruxelles - Il commissario europeo Avramopoulos avverte: “Rinunciare alla libera circolazione è la fine del progetto europeo” di Stefano Feltri 68 Il primo luglio del 2000, il ponte di Oresund ha unito ciò che la fine dell’era glaciale aveva diviso: cioè Svezia e Danimarca. Sedici chilometri, sette anni di lavoro, 14 euro di pedaggio (oggi), quel ponte è diventato il simbolo di un’Europa ricca e pacifica che si poteva attraversare in auto, senza confini, grazie all’accordo di Schengen che giusto l’anno prima aveva raccolto nuovi membri, contando tutti gli Stati dell’Unione europea tranne Irlanda e Gran Bretagna. Alla mezzanotte di domenica 3 gennaio 2016, la Svezia ha deciso di ripristinare almeno per un mese i controlli sul ponte di Oresund, con una sospensione temporanea di Schengen. “Difenderemo Schengen a spada tratta, sapendo che oggi è in pericolo: se crolla la libera circolazione è la fine del progetto europeo”, ha detto ieri in audizione davanti al Parlamento europeo il commissario Affari Interni, Dimitri Avramopoulos. Ma i partiti della destra antieuropea hanno scelto quell’accordo come bersaglio su cui scaricare le tensioni dovute alla crisi dei rifugiati. E ne chiedono la sospensione. Nel 2015 Eurobarometro ha rilevato che per gli europei la libertà di movimento è il risultato più apprezzato dell’Unione europea subito dopo la pace. Eppure, oggi, in tanti, soprattutto a destra, chiedono il ritorno delle frontiere. Colpa anche delle idee confuse su che cosa è Schengen e su cosa sta succedendo. Schengen è un villaggio di 4000 anime in Lussemburgo. Lì, nel 1985, finiscono le frontiere interne all’Unione europea, o almeno tra alcuni dei Paesi fondatori (Belgio, Francia, Olanda, Lussemburgo, Germania): è un accordo tra governi, verrà assorbito nella legislazione europea solo nel 1999. Dopo il primo accordo, che ha compiuto 30 anni a giugno, ne arriva un altro, Schengen II, nel 1990: una politica comune per i visti e rafforzati i controlli alle frontiere, elemento questo cruciale per il dibattito di oggi. Se si lascia circolare tutti liberamente dentro, bisogna essere più chiari su chi ha diritto di entrare nella zona senza barriere. Nasce l’idea di “Fortezza Europa”, al cui interno però si può muoversi senza visti, soltanto con un documento di riconoscimento che certifica l’appartenenza a uno dei Paese Schengen (oggi 22 membri dell’Unione, quattro esterni). Con l’ondata di richiedenti asilo arrivata nel 2015, tutto questo sembra a rischio. Ma le prime tensioni risalgono al 2011, l’anno delle primavere arabe: il governo Berlusconi riconosce ai tunisini un permesso temporaneo di soggiorno che, nella grande maggioranza dei casi, viene usato per raggiungere la Francia. L’allora governo conservatore di Nicolas Sarkozy nega che un semplice permesso di soggiorno sia sufficiente per muoversi liberamente e minaccia di rispedire in Italia i tunisini. Il ministro dell’Interno dell’epoca, Roberto Maroni, replica: “Allora la Francia esca da Schengen”. Anche la Danimarca, tra settembre e ottobre 2011, rafforza i controlli alle frontiere. La Commissione europea decide allora di modificare l’accordo di Schengen, stabilendo a quali condizioni uno Stato membro può imporre limiti alla libertà di circolazione, modifiche in vigore dal 2013 che sono state utilizzate nella crisi dei rifugiati, come ricostruisce un paper del Ceps, What is happening to Schengen?, di Elspeth Guild, Eveln Browner, Kees Groenendijk e Sergio Carrera. La sospensione di Schengen è ora prevista e regolata. Si può chiedere in base all’articolo 25 che stabilisce il ritorno dei controlli immediato e senza preavviso in caso di minacce alla sicurezza interna o all’attuazione delle politiche di uno Stato membro. I limiti hanno durata di dieci giorni e possono essere prorogati per 20 giorni, senza superare i due mesi. C’è anche l’articolo 26 che prevede blocchi alla circolazione per minacce serie e durature relative al controllo dei confini esterni dell’area Schengen. Però richiede allo Stato che ne fa richiesta procedure più complesse per dimostrare la minaccia che deve riguardare l’area nel suo complesso. Molto più facile usare l’articolo 25, come fanno tutti. Di solito queste limitazioni venivano usate per i grandi eventi (come il G8 de L’Aquila del 2009). Poi è iniziata la crisi dei rifugiati e il 13 settembre 2015, la Germania ha iniziato a 69 picconare Schengen, quando ha deciso di arginare l’assalto dei richiedenti asilo dovuto alla decisione improvvisa di Angela Merkel di sospendere per i profughi siriani l’applicazione del trattato di Dublino 2 (che attribuisce la gestione dei rifugiati al primo Paese in cui arrivano e presentano la domanda di asilo). A catena seguono l’Austria, il 15 settembre, e la Slovenia il 16, che reintroducono controlli. A novembre si aggiunge la Svezia, seguita dopo pochi giorni dalla Norvegia, entrambe adducono come motivazione il flusso ingestibile di migranti. La Francia aveva già previsto un aumento dei controlli per il vertice sul clima Cop 21, poi sono arrivati gli attentati di Parigi che hanno portato a un vero ripristino delle frontiere (in vigore fino alla fine di febbraio). Tutti i Paesi che in questo momento hanno ripristinato i controlli aboliti dall’accordo di Schengen, citano come motivo i migranti o, più esplicitamente (come fa la Svezia), i richiedenti asilo. C’è un problema giuridico: anche il ripristino temporaneo delle frontiere non autorizza in alcun modo i Paesi europei a venire meno ai propri impegni verso la concessione di asilo. Che non sono regolati dalla Convenzione di Ginvera del 1951, recepita dalla Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea. Quando nel 2013 l’accordo di Schengen è stato modificato per regolarne le sospensioni, è stato scritto all’articolo 3 che non c’è possibilità alcuna di deroga. È addirittura vietato aumentare i controlli di polizia all’interno della propria frontiera, un modo surrettizio di ripristinare il confine. Finora la Commissione europea, che deve valutare la fondatezza giuridica delle limitazioni a Schengen, ha fatto finta che fosse tutto a posto. Ma diventa sempre più difficile sostenere che i diritti dei rifugiati sono garantiti mentre vengono ripristinate le frontiere proprio per scoraggiarne l’arrivo. Quindi Schengen sta morendo e le frontiere sono destinate a tornare stabili? Lo spirito dietro l’accordo del 1985 non sembra svanito del tutto. Anche i Paesi europei che hanno alzato più barriere, come l’Ungheria di Viktor Orbàn, non hanno sfidato direttamente Schengen, ma hanno cercato di infilarsi nelle sue pieghe, rispettandone almeno la forma. E la scelta del Consiglio europeo di costruire un sistema europeo di confini e di guardia costiera, come evoluzione dell’agenzia Frontex, è un tentativo di conservare il metodo originario, aperti dentro e chiusi fuori. Schengen è vivo, ma senza qualche evoluzione le sue falle diventeranno sempre più evidenti. del 15/01/16, pag. 17 «Charlie Hebdo, giornale razzista» Rabbia per la vignetta su Aylan Il disegno: «Il bambino siriano da grande? Sarebbe diventato un molestatore» DAL NOSTRO CORRISPONDENTE PARIGI Una vignetta di Charlie Hebdo provoca polemiche, ancora una volta. L’ha disegnata Riss, il direttore che ha preso il posto di Charb ucciso nell’attentato islamista del 7 gennaio 2015. Si vede la figura riversa sulla sabbia di Aylan Kurdi, il bambino siriano di tre anni morto sulla spiaggia turca di Bodrum mentre cercava di raggiungere l’Europa con il padre e il fratello. «Che cosa sarebbe diventato il piccolo Aylan se fosse cresciuto?» si chiede il vignettista. Sotto al disegno di un Aylan adulto, con la faccia da maiale, la risposta: «Un palpatore di sederi in Germania». 70 Il riferimento è ai fatti del 31 dicembre di Colonia, dove decine di donne sono state molestate da gruppi di stranieri di origine nordafricana e mediorientale. La vignetta appare nel nuovo numero di Charlie Hebdo con in copertina una caricatura di David Bowie. La reazione più addolorata arriva dalla zia, Tima Kurdi, che vive in Canada assieme al padre del bambino e ha definito il disegno «disgustoso». «Speravo che le persone rispettassero il nostro dolore. Ferirci un’altra volta è ingiusto». Riss aveva già dato scandalo a settembre, pochi giorni dopo il dramma, con due vignette. Nella prima c’è Cristo che cammina sulle acque e un bambino a testa in giù nel mare. «La prova che l’Europa è cristiana: i bambini musulmani affondano». Nella seconda vignetta, c’è una pubblicità McDonald’s: «Promozione! Due menu per bambini al prezzo di uno», poi il disegno di Aylan morto sulla spiaggia e la scritta finale: «Così vicino al traguardo…». Oggi Charlie Hebdo vive in pieno la contraddizione di essere un foglio libertario, anarchico, folle e marginale, diventato suo malgrado — ci sono voluti 12 morti — un giornale noto in tutto il mondo, commentato da osservatori che prima neanche sapevano della sua esistenza. Ci si stupisce del cattivo gusto di Charlie Hebdo , ma il cattivo, anzi pessimo gusto è un tratto costante e voluto dei suoi 40 anni di storia. Charlie Hebdo non è mai stato Le Monde o il Tg delle 20 e non pretende di esserlo adesso: era e resta un giornale per pochi appassionati che amano quel gusto di deridere tutto, dalle religioni alle tragedie, nel modo più crudo possibile. Le reazioni indignate arrivano soprattutto dai Paesi anglosassoni, dove molti accusano Charlie Hebdo di razzismo. Ma il direttore Riss è noto per il suo impegno anti-razzista, e questo è il significato delle vignette su Aylan. Non è Riss a pensare che il bambino sarebbe diventato un molestatore; lo pensano i razzisti che Riss vuole prendere in giro. Bisognava forse renderlo più chiaro anche ai nuovi, smarriti lettori di « Charlie ». Stefano Montefiori del 15/01/16, pag. II (Roma) “Pestaggi terapeutici ai bengalesi”: indagati indagati tredici militanti dell’estrema destra L’orrore del tour delle botte agli extracomunitari L’identikit dei violenti il più giovane ha 19 anni «NOI SIAMO CAMERATI e combattiamo l’immigrazione clandestina». Sono 13 i camerati dell’estrema destra romana indagati ieri dai carabinieri del Ros, diretti dal colonnello Massimiliano Macilenti. Il più grande ha 26 anni e il più giovane 19, tutti legati da un comune denominatore: quello di avere una vocazione ideologica di estrema destra e dunque di dover punire il diverso. L’indagine del Ros è nata da un’inchiesta di Repubblica, così scrive nell’ordinanza il pm Sergio Colaiocco con cui ieri sono state disposte nei loro confronti perquisizioni. Il nostro quotidiano raccontava un anno fa di come un gruppo di militanti di destra si divertisse a picchiare cittadini del Bangladesh e come quel banglatour fosse il test da superare per le nuove reclute. Pestaggi e percosse e insulti come prova per valutare l’appartenenza al gruppo di estrema destra. Ieri Roberto Begnetti, Gabriele Masci, Daniele De Santis, Alessio Costantini, Andrea Di Cosimo, Giovanni Maria Camillacci, Matteo Stella, Alessio Castelli, Stefano Pinti, Andrea Palmieri, Alessio Evangelista, Alessio Mursia e Alessio Lala, a vario titolo sono stati indagati perché in concorso «promuovevano e dirigevano nell’ambito di iniziative della sezione di Forza 71 Nuova di via Lidia 52/54 prima e di via Amulio 41 avente lo scopo di incitare alla discriminazione e alla violenza per motivi razziali e religiosi ». Attività che si è concretizzata, secondo l’accusa, con la diffusione, anche online, attraverso profili Facebook come quello aperto con lo pseudonimo “Burzum” poi diventato “Gabriele Roma” di idee fondate sulla superiorità della razza bianca e sull’odio razziale ed etnico e con i pestaggi nei confronti di cittadini del Bangladesh. Per due di loro si è proceduto per il pestaggio di un bengalese, uno dei pochi che dopo le percosse si fece refertare in ospedale dove arrivò con un labbro e il sopracciglio spaccati. Quel “Bangla Tour” per cui sono stati arrestati e processati un diciannovenne e un sedicenne iniziò una notte di maggio. Il 18 maggio in via Oddi una testimone vide tutto dal suo balcone: i ragazzi che chiesero d’accendere al bengalese, lui che cercò l’accendino nella tasca e i due che lo scaraventarono a terra picchiandolo a sangue e con una violenza inaudita. Il minorenne massacrato, pensando a un pestaggio a scopo di rapina anche se mentre le prendeva di santa ragione venne insultato per il colore della sua pelle, tirò fuori il suo cellulare e lo consegnò. Ennesimo segno di una resa incondizionata. I due lo presero, per poi gettarlo nel primo cassonetto. Non era un bottino quello che volevano. Era picchiare il “bengalino” il loro scopo. Peccato però che nella fuga persero il loro di cellulare che fu ritrovato appunto dalla polizia, avvertita dalla testimone. Rintracciati i ragazzi coi vestiti ancora sporchi di sangue furono portati in commissariato. «Dietro queste spedizioni punitive dichiarò l’avvocato Massimiliano Scaringella, difensore del sedicenne romano picchiatore - a mio avviso c’è un vero e proprio indottrinamento. Il mio assistito rispondeva alle mie domande come un invasato. Picchiare i bengalesi per lui non era solo un modo per divertirsi, mi spiegò, ma era una vera e propria crociata, una battaglia che doveva combattere a tutti i costi. Qualcuno, più grande di lui, lo aveva attirato a frequentare la sede di Forza Nuova e l’idea che mi sono fatto è che il Bangla Tour fosse una sorta di iniziazione per essere accettato nel gruppo». E così infatti era. Questo dimostrano le indagini del ros. (f.a. e g.s.) del 15/01/16, pag. II (Roma) E per i camerati che sgarravano scattavano anche i riti punitivi FEDERICA ANGELI GIUSEPPE SCARPA «DAI andiamoci a fare un bengalino ». Iniziava così il gioco degli adolescenti della destra romana. Partire in squadre, al grido di “Camerata della destra romana, azione”, per andare a massacrare di botte uno straniero. Il ciak di un film surreale che ha ormai centinaia di proseliti, si chiama “Bangla Tour” e comincia davanti alle sedi di Forza Nuova. Una di queste si trova all’Appio, ai civici 52 e 54 di via Lidia. È da lì che le baby squadre partivano «per sconfiggere il nemico », ovvero lo straniero, ovvero il bengalese, soggetto che, a dire dei sedicenni patecipanti, è perfetto per le spedizioni punitive. Perfetto perché non reagisce e non denuncia. Perfetto perché incarna l’immigrato debole su cui si può infierire senza timore di essere perseguiti. Quindi, con l’adrenalina a mille, si lascia la sede di Forza Nuova tappezzata da bandiere con croci celtiche e da poster inneggianti il Duce, si sale tutti insieme in una macchina, dove l’unico maggiorenne è colui che guida, si scegli il quartiere dove andare a fare il raid - Torpignattara, Casilino, Prenestino, Acqua Bullicante, 72 zone dove la comunità del Bangladesh ha la sua più alta concentrazione - e una volta individuato il soggetto, si passa all’azione. Un pestaggio “terapeutico” e “ideologico”. Un massacro che “ti scarica i nervi e la tensione” e che racchiude un credo, quello di combattere l’immigraizione. Banglatour ma non solo. Dal pestaggio dei deboli immigrati ai riti punitivi per i camerata che “sgarravano”. La violenza e i riti di iniziazione del gruppo di estrema destra che ieri è stato indagato dalla procura di Roma non si sfogava solo sui bengalesi. No. Le reclute venivano introdotte nel gruppo attraverso regole dure e chi non rispettava quelle regole veniva punito sempre secondo un codice non scritto “dei camerata della destra romana”. Uno su tutti l’episodio che, secondo i carabinieri del ros e riportato nell’ordinanza firmata dal pubblico ministero Sergio Colaiocco, spiega le modalità con cui i camerata regolavano i conti, anche tra loro. Raccontano le carte di una violenza sessuale subita da una ragazza che frequentava la sede di Forza Nuova da parte di uno dei militanti. La giovane «prima militante di Casa-Pound e successivamente di Forza Nuova, aveva manifestato personali problematiche familiari e Giovanni Camillacci le offre assistenza ospitandola presso la sede di Forza Nuova di via Amulio. La ragazza temeva possibili azioni sconsiderate del gruppo di ragazzi che frequentava la sezione, che avrebbero potuto approfittare della sua presenza». Qualche sera prima infatti «in una sorta di festa tenutasi a casa del Masci con De Santis Daniele e alcuni componenti del sodalizio, durante la quale sarebbero state consumate anche sostanze stupefacenti », sarebbe appunto avvenuta la violenza sessuale nei suoi confronti. Ad abusare di lei Daniele De Santis. Ecco allora il rito punitivo. Si legge ancora nell’ordinanza. «Giovanni Camillacci e Alessio Costantini organizzavano un vero e proprio rito punitivo, nei confronti di De Santis. I due convocarono anche altri militanti responsabili di condotte non conformi alle regole del gruppo ai quali venivano contestate mancanze caratteriali e comportamentali legate a atti difformi dalle logiche del gruppo». Il 1 ottobre 2014 i camerata «erano stati fatti disporre in semicerchio con i soggetti responsabili del violazioni, in ginocchio. Questi venivano sottposto a umiliazione e percosse da parte degli anziani del gruppo. Costantini e Camillacci, che agivano incappucciati e che, inoltre, un trattamento ancora particolare veniva riservato a De Santis in quanto, oltre a percuoterlo, gli veniva esploso un colpo di arma da fuoco vicino all’orecchio, gesto che doveva servire da monito anche a tutti gli altri come punuzione per la gravità del gesto compiuto, in violazione delle regole del gruppo». Poi c’erano anche le spedizioni punitive del gruppo di Forza Nuova all’esterno, quelle politiche, nei confronti di chi aveva osato aggredire un camerata. Era il 31 marzo del 2015 quando Alessandro Catani, militante di CasaPound viene aggredito a suon di coltelli all’Esquilino da Costantini, Di Cosimo, Camillacci, Stella, Castelli, Pinti e Palmieri per «ritorsione per una rissa - scrive il pubblico ministero Colaiocco - precedentemente avvenuta all’interno di un locale di Ponte Milvio in cui questi ultimi avevano subito la condotta di Catani e di suoi amici non identificati». del 15/01/16, pag. 1/7 (Roma) «Il Cie maschile è inagibile»: clandestini liberati Nuova tegola sul Centro di identificazione ed espulsione di Ponte Galeria. Dopo incendi e rivolte i pompieri hanno dichiarato inagibile il settore uomini. Ci sarà una gara per i lavori di ristrutturazione ma intanto gli ospiti clandestini non pericolosi sono stati liberati. 73 È il Centro di immigrazione ed espulsione più importante d’Italia, tanto più adesso con l’allarme terrorismo, le polemiche sulle espulsioni e sull’abolizione del reato di clandestinità. Ma da metà dicembre - la notizia non è mai stata resa nota - il settore maschile del Cie di Ponte Galeria è stato dichiarato inagibile dei vigili del fuoco e per questo svuotato di tutti gli ospiti. Unico settore a rimanere operativo è quello, decisamente ridotto, femminile. La decisione del comando dei pompieri è arrivata all’indomani dell’ultima rivolta nel Centro, con gli immigrati clandestini che hanno dato alle fiamme materassi e suppellettili provocando ingenti danni alle strutture. Fra le prime conseguenze dello svuotamento del Cie il trasferimento dei poliziotti in servizio all’Ufficio immigrazione, visto il calo degli incarichi nella struttura. Ma anche la liberazione - tranne per casi particolarmente a rischio - di stranieri che non è stato possibile trasferire in analoghe strutture sul territorio. Critici i sindacati degli agenti: «Roma non ha più il Cie ed il governo parla di garantire le espulsioni», sottolinea Giorgio Innocenzi, segretario generale nazionale della Consap, la Confederazione sindacale autonoma di polizia, che protesta «contro l’improvvisazione che regna sovrana nella gestione dell’emergenza immigrazione, strettamente correlata a quella del terrorismo internazionale. Quella a cui assistiamo sul fronte della gestione dell’emergenza immigrazione – aggiunge Innocenzi - è una resa incondizionata a tappe, che ogni giorno ci riserva nuove sorprese». La via d’uscita sarebbe l’appalto annunciato per i lavori di ristrutturazione del Cie. Il progetto prevederebbe la divisione del centro in moduli autosufficienti da 25 persone, anche per evitare rivolte con un gran numero di partecipanti. Per questo lunedì scorso Viminale e Prefettura si sono incontrati per stabilire i termini dell’intervento, ma «non è stata indicata alcuna tempistica. L’intervento si farà, ma non è stato chiarito quanto sarà stanziato e quando si terrà la gara d’appalto», conclude Innocenzi. Rinaldo Frignani del 15/01/16, pag. 7 Sì allo ius soli sportivo Solo la Lega vota contro Saranno tesserabili i minori stranieri, residenti in Italia prima dei 10 anni Ilario Lombardo Cè chi dice che è abbastanza, c'è chi dice che nonio è: stadi fatto che per la prima volta il Parlamento partorisce una qualche forma di ms soli. Chiamiamola 'cittadinanza sportiva" anche se cittadinanza propriamente non è. Ma è un lasciapassare per tutti quei ragazzi, potenziali risorse per lo sport italiano, che al compimento del l4esimo anno di età, quando si passa a fare sul serio, nell'agonismo, si sono visti sbattere in faccia le porte della burocrazia che li considera stranieri, figli di una terra lontana, anche quando lo slang è ormai quello delle nostre città e il cuore batte per i colori azzurri. Da ieri sera tutto è questo è passato: viene introdotto lo ius soli sportivo, confezionato da Bruno Molea, deputato di Scelta civica e presidente Aics (Associazione italiana cultura e sport), attraverso una legge sostenuta da tutti i partiti tranne la Lega Nord. Il testo è semplice, due soli articoli che permettono il tesseramento di minori stranieri, residenti in Italia prima di aver compiuto i 10 anni, nelle società sportiva appartenenti alle federazioni nazionali. lJai 18 anni in poi potrà essere tesserato chi realizza lo stesso requisito dei più piccoli e sia in attesa della cittadinanza. I puntigli anagrafici hanno una loro ragione. E a spiegare meglio cosa ci sia dietro, ci pensa Josefa Idem, campionessa olimpionica, senatrice del Pd, ministro dello 74 Sport per una manciata di mesi, e, a sua volta, straniera (tedesca) naturalizzata italiana: «Abbiamo deciso di fissare il tetto dei dieci anni per evitare il travaso di talenti, presi da fuori e camuffati da italiani. Un costume da calciomercato che viene alimentato soprattutto dall'Africa, invece di far crescere in casa i giovani campionI». 11 provvedimento è destinato a valorizzare bambini e ragazzi che vivono iii Italia da tempo, pienamente integrati, spesso nati qui, che dimostrano qualità e potenzialità ma a 14 anni trovano la strada sbarrata. Piccoli profughi anche, o come sono chiamati: minori stranieri non accompagnati, che arrivano, imparano lalingas, sono affidati a famiglie italiane, si impegnano, entrano nei movimenti sportivi e poi, all'improvviso, si trovano di fronte un dirigente con gli occhi bassi che cerca le parole per spiegare loro che non potranno più giocare coni compagni di squadra e vestire i colori di quella divisa. «Certo non dà una risposta a tutte i problemi ancora aperti legati allo ius soli e all'integrazione ma è un primo passo». A compiere questo passo, ma già diversi anni fa e autonomamente, furono poche federazioni sportive: pugilato, hockey e ericket, discipline che già considerano italiani a tutti gli effetti i giocatori di origine straniera nati in Italia. Ms a sentire il presidente della Federazione Cricket Simone Gambino, la legge approvata ieri «è puramente decorativa, è un placebo». Gambino è uno schietto, uno che ha provato a sfidare Giovanni Malagò per il trono del Coni, e subito dopo lo ha trascinato nella battaglia per far approvare la cittadinanza sportiva. Nel 2009 la nazionale italiana di cricket under 15, formata da oriundi «figli di seconda generazione, vinse i campionati europei. Con il tricolore sul petto e la pelle caffellatte che tradiva le origini cingalesi, pakistane e indiane, i giocatori si presentarono in Parlamento per sostenere la legge sullo ius soli, Gambino, ironicamente, dedicò la vittoria a Umberto Bassi. Quattro anni dopo, nel luglio 2013, a vincere gli europei a Londra è stata la nazionale maggiore, ovviamente multietnica. «Nel cricket, lo ius soli sportivo lo abbiamo dal 2003: questa legge è una roba per i vivai, permette ai ragazzi solo di giocare. Altra cosa sarebbe stata se fosse stata concessa la cittadinanza a chi rappresenta i colori dell'Italia». del 15/01/16, pag. 5 Premio De Beauvoir a Giusi Nicolini La sindaca di Lampedusa commuove Giusi Nicolini, sindaca di Lampedusa, ha ricevuto ieri a Parigi il premio Simone de Beauvoir per la libertà delle donne. Il Premio, conferito dalla Fondazione Simone de Beauvoir e sostenuto dal comune di Parigi, dall’università Paris Diderot e dall’Institut de France, giunto alla nona edizione, premia personalità o associazioni che si sono distinte nella difesa della causa femminile, incarnando i valori della filosofa femminista. La giuria, composta da una trentina di personalità, tra cui la saggista Julia Kristeva, l’ex ministra Yvette Roudy o la scrittrice Annie Ernaux, ha premiato Giusi Nicolini per la sua «azione coraggiosa e pionieristica a favore dei migranti e dei rifugiati». Con un discorso emozionante alla Maison de l’Amérique Latine, Giusi Nicolini ha denunciato una volta di più la «responsabilità» di tutti i Paesi nella tragedia dei rifugiati che «diventa ogni giorno più insostenibile, come si può accettare nel XXI secolo di chiedere l’asilo a nuoto?». Giusi Nicolini continua a interrogare i leader europei, che voltano lo sguardo dall’altra parte, e insiste sul dovere di accoglienza, malgrado le crescenti difficoltà e l’ostilità sempre più diffusa nell’opinione pubblica, sfruttata dai governi per chiudere le frontiere. 75 WELFARE E SOCIETA’ del 15/01/16, pag. 5 Silenzio, si privatizza: vietato il corteo delle maestre a Roma Asili nido. La protesta delle maestre precarie contro la privatizzazione, prevista dal commissario Tronca, era stata indetta dal sindacato di base Usb nella mattinata di sabato in via Covelli, sede di uno degli asili nido in predicato di passare nelle mani dei privati ro. ci. ROMA Due manifestazioni di sabato a Roma sono troppe. Nella città del Giubileo, presidiata da un esercito, una manifestazione contro la guerra nel quartiere Esquilino e un’altra contro la privatizzazione degli asili nido comunali prevista dal Commissario Tronca (e stabilita da una delibera del defenestrato ex sindaco Marino) comportano troppi rischi. Meglio vietarne una, quella delle maestre precarie al capo opposto della città, in zona CollatinoPrenestino. La gestione commissariale della Capitale è pronta a tutto, ma non a sostenere un impegno così gravoso. La protesta delle maestre precarie, da mesi in lotta per la stabilizzazione e contro il progetto di privatizzazione contenuto nel documento unico di programmazione (Dup) 2016–2018, era stata indetta dal sindacato di base Usb nella mattinata di sabato in via Covelli, sede di uno degli asili nido in predicato di passare nelle mani dei privati. La Questura di Roma ha respinto la richiesta, sostenendo che nella stessa giornata è già prevista un’altra manifestazione, quella contro la guerra organizzata non al mattino, ma al pomeriggio, all’Esquilino. Usb denuncia il «diktat» che grava su Roma contro la libertà di manifestare. La regola seguita dalla Questura e dalla Prefettura riguarda il centro storico della città dove si può manifestare solo dal lunedì al venerdì. «Adesso scopriamo che hanno deciso di estendere i loro criteri arbitrari all’intero territorio cittadino e a tutti i giorni della settimana — denuncia Guido Lutrario della federazione romana del sindacato — la gestione commissariale di Roma sta cercando di soffocare le voci di protesta». Al centro delle polemiche c’è il documento unico di programmazione, un testo di centinaia di pagine che prospetta un futuro difficile per Roma. Nel 2016 si annuncia la privatizzazione di 17 asili nidi. Tra il 2017 e il 2018 ne dovrebbero seguire molte altre tra i 206 nidi dove lavorano circa 6 mila insegnanti e educatrici in maggioranza precarie. Tra due anni non tutti i 13 mila bambini potranno usufruire dei servizi che la città mette a disposizione. Dovranno rivolgersi ai privati che a Roma gestiscono 221 strutture private che ospitano 7 mila bambini. Nel frattempo aumenteranno le rette degli asili. Per i prossimi anni si prevede un aumento in media di 200 euro in più a famiglia all’anno. È la conseguenza di un altro atto della giunta Marino nel 2014, la “rimodulazione delle tariffe per i servizi”, varata tra le proteste delle famiglie. A Roma c’è la sensazione che si voglia rinchiudere il futuro in precise coordinate di austerità ed eccezione, indipendentemente da chi vincerà le elezioni. Dopo le proteste, Tronca ha cercato di mettere una toppa. «Al momento nessuna decisione è presa» ha detto. Ma nel frattempo ha acceso la miccia. Le proteste continueranno. «La difesa del servizio scolastico-educativo — sostiene Lutrario — si basa su ragioni analoghe a quelle dei lavoratori dei trasporti o delle persone sotto sfratto, o delle associazioni che vengono sgomberate». 76 del 15/01/16, pag. 23 La cannabis a uso terapeutico non sarà reato LIANA MILELLA LA RIFORMA/ OGGI IL CONSIGLIO DEI MINISTRI DÀ IL VIA LIBERA ALLA DEPENALIZZAZIONE NONOSTANTE L’OPPOSIZIONE DEL NUOVO CENTRODESTRA ROMA. Niente da fare definitivamente per la cancellazione del reato di clandestinità. Il Guardasigilli Andrea Orlando garantisce che «non sarà un rinvio sine die anche perché la Ue sollecita un intervento », ma oggi non se ne discuterà neppure nel Consiglio dei ministri che, sul filo di lana (la delega scade dopodomani), darà il via libera alla depenalizzazione di molti reati. Il preconsiglio dei tecnici che si è svolto ieri ha definito la lista dei reati. Tra questi la spunta, nonostante l’opposizione di Ncd, la coltivazione della cannabis, ma solo quella a scopo terapeutico, per cui sono già autorizzati laboratori e aziende. Dall’arresto fino a un anno e l’ammenda da uno a 4 milioni in caso di abusi, si scende a una sanzione amministrativa da 5 a 30mila euro. Il tecnici della Salute, su input del ministro Lorenzin, fino all’ultimo hanno insistito per mettere ulteriori paletti e altre insistenze non sono escluse. Nessuna depenalizzazione ovviamente per la coltivazione individuale, che resta reato. Via libera, almeno dai tecnici, all’eliminazione del reato di guida senza patente, già oggi punito con un’ammenda fino a 9mila euro. Prevista solo una sanzione da 5 a 30mila euro e la confisca del mezzo, ma se si tratta della prima volta. Per i recidivi resta l’arresto fino a un anno. Non è escluso che oggi la questione venga ulteriormente approfondita, alla luce del reato di omicidio stradale di prossima approvazione. Da una parte si depenalizza la guida senza patente, dall’altra si prevede “l’ergastolo della patente” in caso di omicidio. Sono in molti ad avere dubbi e a ritenere intempestivo l’intervento che potrebbe essere armonizzato nel futuro reato di omicidio stradale. Lungo l’elenco dei reati che diventano illeciti amministrativi, come il mancato versamento delle ritenute Inps, se entro i 10mila euro. Multa da 5 a 10mila euro per gli atti osceni in luogo pubblico, l’abuso della credulità popolare, il rifiuto di un aiuto in casi di tumulto, le rappresentazioni teatrali e cinematografiche abusive, gli atti contrari alla pubblica decenza, il noleggio di materiale coperto da copyright. Sanzioni da 5mila a 30 mila euro. Molti i reati abrogati: ingiuria, sottrazione di cose comuni, appropriazione di oggetti smarriti, falsità in scrittura privata. Per tutti basterà la richiesta al giudice civile del risarcimento del danno. 77 DIRITTI CIVILI E LAICITA’ del 15/01/16, pag. 6 Unioni civili, Pd diviso sulle adozioni dei gay “Lista nera” dei contrari Gay.it mette in rete i volti dei senatori anti-Cirinnà Family day il 30. Saviano: non vietate la felicità TOMMASO CIRIACO ROMA. Ora il duello diventa duro per davvero. A due settimane dall’approdo al Senato del testo sulle unioni civili, i cattolici del Pd bocciano sonoramente la stepchild adoption, proponendo di sostituirla con una forma di affido rafforzato. Lorenzo Guerini, a nome della segreteria, replica però che si procederà senza modifiche e che in Aula arriverà il testo Cirinnà. In questo clima incandescente, il sito Gay.it pubblica nomi e foto dei parlamentari contrari alle adozioni. «Squadrismo», rispondono i democratici. L’offensiva dei “cattodem” è repentina. Con un documentoanticipato ieri da Repubblica 37 deputati stroncano la stepchild, chiedendo di «sostituirla con soluzioni normative che, nel garantire la piena tutela ai diritti dei minori, evitino di legittimare o incentivare comportamenti gravemente antigiuridici». Per essere ancora più chiari, i firmatari avvertono: «Con il voto segreto la legge rischia il naufragio». L’iniziativa si traduce in un emendamento presentato a Palazzo Madama a favore di un «affidamento personale del minore». L’iniziativa non preoccupa comunque Monica Cirinnà, prima firmataria del ddl: «L’Italia avrà nei tempi stabiliti una legge sulle unioni civili». A pochi giorni dalla stretta finale sul testo, intanto, si moltiplicano le prese di posizione. Una è di Roberto Saviano: «Sulle stepchild adoption, per una volta, si decida di rispettare i diritti civili e si metta da parte il compromesso politico di bassa lega». Non è giusto, aggiunge, «impedire la felicità». Dall’altra parte della barricata si schierano invece gli organizzatori del Family day. Sostenuti da sessanta parlamentari - per lo più di centrodestra - scenderanno in piazza il 30 gennaio, con una marcia che si concluderà a Roma a San Giovanni. del 15/01/16, pag. 6 Ma Renzi scommette sul testo originale “Voti liberi. E passerà” GOFFREDO DE MARCHIS IL RETROSCENA ROMA. Portare a casa il bottino pieno: unioni civili e stepchild adoption. «Non credo a nuove mediazioni anche se non voglio interferire con il lavoro parlamentare. Ci sono tutte le garanzie possibili e immaginabili: libertà di coscienza e voto segreto », ripete Matteo 78 Renzi ai suoi collaboratori. Perciò, al di là delle garanzie, il premier-segretario aggiungerà l’indicazione del Pd e quella del gruppo del Senato su ogni passaggio della legge che va in aula il 28. Non il parere del governo dunque, non la questione di fiducia, ma una prospettiva che indichi chiaramente la scelta del Partito democratico, sì. Sui singoli articoli e sugli emendamenti. Questa indicazione, è la scelta di Palazzo Chigi, sarà a sostegno del disegno di legge Cirinnà anche nella parte contestata dell’adozione del figlio del partner. Renzi non minimizza la tensioni interne al mondo dem. Gli appelli, i manifesti dei cattolici, l’emendamento per l’affido rafforzato che 28 senatori Pd hanno reso pubblico ieri in attesa di presentarlo entro il 22. «Ma non voglio neanche drammatizzare la discussione. E sono convinto che alla fine troveremo i numeri per approvare il provvedimento ». Di questa parte del problema si occuperà, sul filo di lana come al solito, il sottosegretario a Palazzo Chigi, Luca Lotti, come ha fatto sull’Italicum e sulla riforma costituzionale. Con le sue telefonate, con la presenza in aula nei momenti decisivi. Se rimane la stepchild adoption, molti sono convinti che solo il voto dei 5stelle potrà salvare il testo originario e l’adozione per le coppie gay. «È un regalo che non ci faranno mai - dice la senatrice cattolica Rosa Maria Di Giorgi -. Figuriamoci. Il nostro attacco su Quarto è molto forte. Non vedo le condizioni». Ma a Palazzo Chigi e a Largo del Nazareno la pensano in modo diverso. Il gruppo grillino del Senato è molto più a “sinistra” del suo omologo alla Camera. In più ha subito parecchi fuoriusciti e la maggior parte di loro lo ha fatto da “sinistra” appunto più che da destra. È un altro modo per dire che la situazione è certamente fluida nel Pd, ma lo è anche negli altri partiti. Comprese Forza Italia e Nuovo centrodestra dove alcuni senatori, nel segreto, voteranno a favore dell’adozione. Si arriverà quindi in aula senza relatore e senza il vincolo di una posizione del governo. Ma anche senza nuove mediazioni, sebbene il dibattito interno continui e il comitato interno abbia in programma una nuova riunione mercoledì. Lo stesso giorno si riunirà il gruppo del Senato e farà il bis il 26, a due giorni dall’appuntamento con l’aula. «Conterà soprattutto la gestione dell’aula», avverte il presidente dei senatori Pd Luigi Zanda. Negando implicitamente che si arrivi, alla fine, con un emendamento concordato del Pd, con un compromesso siglato da tutte le anime del partito. Il manifesto dei cattolici promuove lo stralcio. I contrari del Senato ne hanno approfittato per presentare l’affido rafforzato. Come dire: una mediazione tra il ddl Cirinnà e la posizione di chi vuole cancellare l’adozione. «Noi speriamo che questo aiuti la trattativa», dice la Di Giorgi. Ma l’affido non è certamente la soluzione che ha in testa Renzi. Ivan Scalfarotto parla di una via d’uscita che «crea figli di serie A e di serie B, con un giudice che starà sempre sopra la coppia a vigilare sul figlio». Può essere invece meno impervio il cammino di modifiche alla stepchild minime, che garantiscano meglio e più profon- damente il perseguimento della pratica vietata dell’utero in affito. Lo dice lo stesso Alfredo Bazoli, promotore del “manifesto” cattolico. «Lavoriamo su correzioni che escludano qualsiasi interpretazione estensiva dell’adozione ». Lo stralcio è ormai stato archiviato, lo sanno anche i 37 deputati firmatari dell’appello. «Hanno piantato la loro bandiera, ma adesso si può lavorare a una soluzione», dice Walter Verini. Ma non a una mediazione, è la risposta da Palazzo Chigi. Renzi resta aperto all’ascolto e al dialogo. Ma poi, anche se non in prima persona, parteciperà alla battaglia e guiderà le scelte del Partito democratico attraverso le indicazioni del gruppo. Che saranno nette su ogni articolo, pur lasciando la libertà di coscienza. E l’annunciato intervento di Lotti per vigilare sulla maggioranza numerica anche in presenza di voti segreti, lascia capire che per Renzi il passaggio rimane fondamentale. Soprattutto per evitare la catastrofe di un fallimento dell’intera legge. 79 del 15/01/16, pag. 9 Per non discriminare i transgender Nel Regno Unito l’ipotesi di togliere «maschio» e «femmina» dai documenti DALLA NOSTRA INVIATA LONDRA Se l’Italia ancora litiga per dare parità di diritti alle coppie di fatto, etero e non, la Gran Bretagna guarda avanti, verso un futuro «gender free». Un comitato parlamentare bipartisan, guidato dall’ex ministra conservatrice alla Cultura, Maria Miller (foto Reuters) , invita a rimuovere le parole «maschio» e «femmina» dai documenti ufficiali, quando la distinzione non è necessaria, e a introdurre l’opzione «genere x» sui passaporti (come in Australia). Il rapporto dell’ Equalities Committee definisce «problematico» l’obbligo di indossare divise differenziate a scuola, pantaloni o gonna, e di frequentare classi separate per le attività sportive. Sono oltre 30 le raccomandazioni, fra cui la revisione dei protocolli del servizio sanitario nazionale. «I transgender soffrono oggi le stesse discriminazioni che gay e lesbiche subivano decenni fa», ha concluso la Miller. Insomma, l’Italia ha ancora decenni di strada da percorrere. Sara Gandolfi del 15/01/16, pag. 37 LE UNIONI CIVILI E IL GIOCO DELL’OCA CHIARA SARACENO DOPO un’intervista di mons. Galantino, che di fatto ha definito la posizione della gerarchia cattolica sul progetto di legge sulle unioni dello stesso sesso, anche i parlamentari che si identificano come cattolici dentro il Pd sono usciti allo scoperto con un documento collettivo contro, non solo l’adozione del figlio del partner, ma ogni sospetto di somiglianza tra unioni civili e matrimonio. Bontà loro, si dichiarano a favore dei diritti individuali, come se questi non dovessero essere già garantiti dalle leggi vigenti. Ma si oppongono ai diritti delle coppie e scaturenti dalle relazioni di coppia. Di più, dopo aver imposto modifiche al progetto di legge originale, proprio per accentuare le differenze con il matrimonio, ora dicono che, a seguito di quelle modifiche, il progetto di legge è pasticciato ed è meglio riscriverlo daccapo, rimandandone la discussione alle ennesime calende greche. Poco o nulla è cambiato rispetto a quando venne affossato il progetto di legge sui Dico, e con esso il governo Prodi, nonostante oggi anche chi si oppone al progetto di legge Cirinnà affermi che si deve fare qualcosa per le coppie dello stesso sesso. Chi, ingenuamente, pensava che la Chiesa di papa Francesco, con la sua enfasi sulla misericordia piuttosto che sulla condanna, non solo cambiasse la propria posizione in materia, ma incoraggiasse i cattolici ad essere più rispettosi delle posizioni di chi non si identifica con le posizioni della Chiesa, deve fare i conti con il principio di realtà. Il Sinodo della famiglia ha ribadito la tradizionale posizione della Chiesa in argomento, sia pure con il linguaggio del rispetto e della compassione. Appunto, misericordia e compassione non sono in contraddizione con la ribadita pretesa di essere depositari del potere di definire il lecito e l’illecito, l’umano e il disumano, non solo all’interno della comunità dei credenti, ma erga omnes e nei confronti degli Stati che legiferano in argomento. 80 È, ovviamente, un diritto della Chiesa affermarlo. Ma non sta, non dovrebbe, essere nel potere di parlamentari e governanti imporre la visione del magistero cattolico nel legiferare. So bene che ci sono anche alcuni non cattolici che la condividono, così come ci sono molti cattolici che invece dissentono. Ma il fatto politico è che sia gli organizzatori dei vari “family day”, delle sentinelle in piedi e consimili iniziative, sia ora i parlamentari pd che hanno firmato il documento si identificano esplicitamente come cattolici. Il fatto che la gerarchia cattolica, come esplicitato anche da mons. Galantino nell’intervista al Corriere della Sera, non ritenga utile in questa fase un nuovo “family day” per contrastare l’approvazione del progetto di legge Cirinnà non deve essere frainteso. Nella logica della Chiesa di papa Francesco funziona meglio la moral suasion, la proclamata disponibilità al dialogo, ove i valori “non negoziabili” non sono più gridati, ma dati per scontati, con “misericordia” e “compassione” certo, ma sempre immodificabili. I parlamentari pd che hanno firmato il documento hanno colto il messaggio e, dopo aver lavorato a lungo sottotraccia per annacquare e stravolgere le intenzioni originarie del progetto di legge, ora hanno lanciato la bomba, rimettendo in discussione l’intero impianto, dando così un poderoso assist sia a chi, dentro la maggioranza, aveva esplicitato il proprio dissenso, sia alle opposizioni. In discussione non è più solo l’adozione del figlio del/della partner, quindi il diritto di questi bambini ad avere due e non solo un genitore, ma il riconoscimento delle coppie dello stesso in quanto tali. Si torna alla prima casella del gioco dell’oca. Forse è solo una mossa tattica, per costringere i sostenitori del progetto di legge ad accettare un ulteriore compromesso sulla pelle e a scapito dei diritti dei bambini. Comunque sia, si tratta di una mossa che non va sottovalutata per le sue implicazioni di breve e lungo periodo e per la difficile laicità di questo nostro Paese, dove le grida contro il fondamentalismo religioso altrui nascondono quello autoctono, di casa nostra. Renzi, così decisionista da mettere la fiducia, troncando il dissenso interno alla sua maggioranza, su materie non marginali come la riforma costituzionale, ha pensato di uscire dall’impasse lasciando il voto alla libertà di coscienza. Non ho mai capito il ricorso alla libertà di coscienza a corrente alternata, di fatto quando sono in gioco i diritti civili, come se questi non fossero il bene fondativo della stessa cittadinanza in un Paese democratico, quindi non a disposizione di una o un’altra ideologia o concezione valoriale. In ogni caso, non credo che Renzi possa cavarsela così. È in gioco la sua credibilità. del 15/01/16, pag. 7 Duecento italiani l’anno in fuga in Svizzera per scegliere di morire Pagano tariffe dai 10 ai 13mila euro. La maggior parte sono malati oncologici. I volontari che li seguono: «Sono esuli del suicidio» Giacomo Galeazzi roma Per porre fine alle loro sofferenze devono emigrare laddove è legale la morte volontaria assistita. Si affidano ad una rete di associazioni che li accompagnano da casa all’hospice. Nelle ultime tre settimane sono una cinquantina le persone che hanno contattato i Radicali «in forma non anonima» per informarsi sui viaggi dell’eutanasia. Sono in eguale misura uomini e donne, la maggior parte di loro sono malati oncologici, una parte minoritaria soffre di malattie psichiche (quindi non possono essere aiutati nemmeno in Svizzera) e il resto sono affetti da malattie degenerative, Sla e distrofia muscolare. 81 L’ULTIMO VIAGGIO Ogni anno 200 italiani arrivano in Svizzera per trovare la dolce morte: pagano dai 10 ai 13mila euro. Per ogni paziente che ottiene l’eutanasia almeno 50 non ci riescono. I volontari che li accompagnano nell’ultimo viaggio difendono il diritto al fine vita e li chiamano «esuli del suicidio». Non esistono cifre ufficiali sugli italiani che dall’Italia arrivano in Svizzera: le cliniche non forniscono dati. Il 46% degli italiani che si suicidano hanno la malattia come movente, stima l’Istat. Prima di Natale Marco Cappato si è autodenunciato ai carabinieri di Roma: «Ho aiutato Dominique Velati ad andare in Svizzera, le ha pagato il biglietto del treno». Ora l’esponente radicale aggiunge: «La parola eutanasia non figura nel nostro codice penale, eppure la morte è buona, cioè meno cattiva, solo se posso sceglierne le modalità». Quindi «testamento biologico, suicidio assistito, sospensione delle terapie, sostanza letale somministrata dal medico su richiesta reiterata del paziente, come accade in Olanda, Belgio, Lussemburgo». Ma solo in Svizzera l’eutanasia non è riservata ai residenti, ossia a chi fa parte del sistema sanitario nazionale. In clinica, con una pastiglia di un potente narcotico come il pentobarbital sodico, in tre minuti ci si addormenta per non svegliarsi più. «E’ un fenomeno sociale diffuso e in costante crescita- spiega Cappato-.Il potenziamento delle tecniche di rianimazione rende sempre più spesso la morte un processo lungo e non un fatto istantaneo. In tutti i sondaggi europei la maggioranza è favorevole alla legalizzazione dell’eutanasia, persino tra cattolici e leghisti del Nordest». Squarci di umanità dolente. La casistica è ampia. «Ci sono persone che vogliono morire per solitudine e disperazione: vanno aiutate e curate da assistenti sociali e medici ma in Italia è difficile intercettare questa richiesta di aiuto - racconta Cappato -. I pazienti la avvertono come un potenziale atto criminale». Disagio sommerso, piaga invisibile. Il 40% delle persone, dopo il colloquio con medici e psicologi, desiste dal suo proposito e torna a casa. «Una milanese malata di Sla ha dato l’assenso per il viaggio in Svizzera - prosegue Cappato -. Il marito è contrario e lei, del tutto immobilizzata, è di fatto sequestrata nella sua scelta. In Svizzera può andare solo chi trova i soldi ed è trasportabile, quindi la maggioranza dei malati terminali deve rinunciarvi». CORSA CONTRO IL TEMPO Dal momento in cui viene fatta la richiesta a quando dalla Svizzera arriva l’assenso passano mesi tra invio di documenti, analisi, perizie. Troppo per quanti nel frattempo diventano intrasportabili. «In Olanda, Belgio e Lussemburgo il medico somministra la sostanza letale, in Svizzera deve essere il paziente ad assumerla, anche attraverso un marchingegno». Ma la Svizzera è l’unico paese in cui dal 1942 sono ammessi al suicidio assistito anche stranieri provenienti da paesi in cui l’eutanasia è illegale. Il primo contatto è in Rete, la stanza di una clinica è l’ultima fermata. 82 DONNE E DIRITTI del 15/01/16, pag. 15 Nella superpotenza si muore di aborto di Daniela Ranieri Task force, Dream Team, Jobs Act, Buona Scuola, Bonus mamme, #lavoltabuona… Non sentite la croccantezza, la luccicanza da Nord Europa, che emana dalla neolingua della “grande potenza culturale”? La definizione ovviamente è di Renzi, che la ripete periodicamente anche nella variante “super potenza culturale”, come all’Expo, e a sostegno cita Leonardo e Michelangelo, non a caso suoi conterranei. Deve essere dunque per un bug, per un contatto elettrico, se “nell’Italia che riparte” succedono cose turche: lo slogan “per ogni euro speso in sicurezza un euro investito in cultura” crolla già davanti ai tagli alla Sanità pubblica, che è la cartina di tornasole del grado di progresso e di civiltà di un Paese. Chiunque non possa permettersi un’assicurazione medica o cliniche private sa bene che curarsi è un inferno, specie al centro-sud, mentre non riflettiamo abbastanza sul fatto che il 70 per cento dei medici (7 su 10) si rifiutano di praticare l’aborto perché obiettori di coscienza (ma in Lazio, Campania e provincia di Bolzano sono 9 su 10). Tutto sommato ci sembra normale che, invece che nelle sagrestie, questi scienziati – profumatamente pagati da noi, e spesso, come si sa, altrettanto profumati evasori – esercitino i loro scrupoli di coscienza presso strutture pubbliche, dove ci rechiamo se dobbiamo abortire e non ci va di usare un ferro da maglia. Peccato. Anche perché questo fa vacillare l’altra rassicurante narrazione, quella secondo cui noi siamo l’avamposto della democrazia e dei diritti umani, del welfare e delle lotte femministe, mentre l’islam bussa alle nostre porte col suo bagaglio di oscurantismo e misoginia, composto com’è da “tribù” dedite a “lotte per i pozzi, abigeato e ratti di femmine” (è la convinzione non di Salvini, ma del direttore de La Stampa Maurizio Molinari). Se ogni clandestino è un potenziale stupratore delle “nostre donne”, come ha osato dire Bruno Vespa presentando una puntata della sua trasmissione dedicata alle violenze di Colonia, ecco che la bilancia degli investimenti, nella percezione comune, si sposta dalla cultura alla sicurezza. È per questo che Renzi ha deciso di non abolire il reato di clandestinità, anche se “non serve a niente”: per solleticare l’adipe dell’opinione pubblica. Intanto, da capo di una grande potenza culturale, si reca in Arabia Saudita a mangiare datteri coi torturatori, assassini, lapidatori di donne; ma, mentre tutti dormono e i cammelli riposano, la sua corte di alti dignitari si reca nottetempo in salone per sgraffignare i Rolex donati dai sauditi, che li beccano, come in peplum con Franco e Ciccio. Nel frattempo si sente odorino di progresso. È il Family Day. A fine mese, il mondo che ha a cuore il matrimonio, i bambini, la vita, si riunirà a Roma in difesa della famiglia tradizionale contro la legge sulle unioni civili, che peraltro ha un piede nella fossa. Fossimo in loro, staremmo sereni (non nel senso renziano) perché nella maggioranza tira una brutta aria, e il provvedimento, probabilmente, finirà tra le scartoffie in cui si reincarnano i buoni propositi del governo. Dipende dai 30 deputati cattolici del Pd che hanno promesso guerra al ddl, anch’esso incidentalmente del Pd. Renzi non molla: strano, per uno che nel 2007 pensava che la legge per le coppie di fatto fosse una “battaglia mediatica” e partecipava allegramente al Family Day dicendo: “Sbaglia chi non ne coglie la portata”. 83 La portata è chiara: sentinelle in piedi, anti-abortisti, reazionari, cattolici di ritorno, omofobi, sono solo il braccio armato di una cultura che opera con perfetta efficienza in background e condiziona la vita di tutti, in particolare delle donne, intervenendo sulla struttura della società, sui suoi servizi essenziali, sulla sfera dei delicati rapporti tra vita umana e politica. Al di là del sapore medievale delle quattro morti per parto avvenute tutte al Nord e della morte durante un aborto di una diciannovenne in un ospedale campano (dove comunque il ministro Lorenzin, Ncd, ha inviato una task force e quattro medici sono indagati), il tempo che viviamo è un permanente Family Day, una specie di giorno della marmotta retrivo e plumbeo che dura 365 giorni l’anno, e che allunga le sue mani su ogni aspetto “sensibile” della nostra vita, peraltro col nostro consenso (ne abbiamo avuto un saggio nel 2005, quando sotto l’artiglieria pesante del Papa e dei preti tutti i referendum proposti dai Radicali non raggiunsero il quorum e fu confermato il divieto di fecondazione eterologa e di diagnosi pre-impianto). La realtà svolge la funzione che il terreno ha per le bolle di sapone: la narrazione, sia quella ottimistica e spinterogena del renzismo, sia quella del razzismo neocolonialista da tinello, svapora a contatto col mondo reale. Ma mi sa tanto che non basta qualche slide per gettarci nel futuro, né paragonarci all’Isis per essere una superpotenza culturale. 84 BENI COMUNI/AMBIENTE del 15/01/16, pag. 2 L’Abruzzo (del Pd) rompe il fronte referendario antitrivelle No Ombrina. Il governatore renziano Luciano D'Alfonso si tira indietro. «Il Consiglio non è stato interpellato» Il coordinamento nazionale No Triv chiede le dimissioni del presidente della Regione Serena Giannico L’Abruzzo abbandona il referendum antitrivelle. E lo fa con una decisione della Giunta regionale che, in gran segreto, ingrana la marcia indietro, ignorando il mandato del Consiglio regionale che, invece, compatto, il 24 settembre 2015 aveva scelto di portare avanti la consultazione popolare insieme ad altre nove Regioni (Basilicata, Marche, Puglia, Sardegna, Veneto, Calabria, Liguria, Campania e Molise). Voltafaccia del presidente Luciano D’Alfonso (Pd) che in questa maniera lancia un chiaro segnale di fedeltà al premier Matteo Renzi che si sta muovendo su ogni fronte per evitare il referendum antipetrolio. D’Alfonso baratta la cancellazione del progetto «Ombrina Mare» e i soldi del Masterplan (753 milioni) con l’abbandono del referendum? Sta di fatto che la Regione Abruzzo, senza farlo sapere troppo in giro, ha revocato l’incarico all’avvocato Stelio Mangiameli per i quesiti referendari antitrivelle che il 19 gennaio saranno all’attenzione della Corte Costituzionale. «Si tratta di un atto gravissimo ed irresponsabile, dell’ennesimo colpo inferto alla democrazia nel nostro Paese», fa presente il Coordinamento nazionale No Triv. «Non solo il referendum non è più da tempo nella disponibilità di nessuno se non della Corte Costituzionale – aggiungono i portavoci dei No Triv — ma, volendosi spingere fino ad infrangere le regole, avrebbe dovuto essere il Consiglio regionale, che rappresenta tutti gli abruzzesi, a discutere e decidere se deliberare su questo drastico cambio di rotta. Il presidente D’Alfonso e la giunta si dimettano immediatamente!!!». «L’Abruzzo ha rotto di fatto il fronte delle Regioni che si erano coalizzate contro il dilagare delle trivellazioni in mare — commenta Maurizio Acerbo, di Rifondazione comunista -. La cosa più grave è che lo ha fatto non solo nascondendolo alla cittadinanza ma persino in maniera illegittima visto che il Consiglio regionale è all’oscuro di tutto. Da quel che mi risulta l’Abruzzo ha deciso non solo di non affiancare le altre Regioni nel conflitto di attribuzione davanti alla Corte Costituzionale, ma persino di ritirarsi definitivamente dalla compagine referendaria. Lo avranno deciso D’Alfonso e il suo esecutivo per ingraziarsi Renzi ma va sottolineato che non era nelle loro facoltà in quanto queste decisioni spettavano al Consiglio. Tutto ciò — prosegue l’ex consigliere regionale ed ex parlamentare, Acerbo — dà la misura della senso dalfonsiano delle istituzioni ché neanche la conferenza dei capigruppo è stata sentita. Non credo che l’avvocatura regionale o il delegato Lucrezio Paolini in questa materia possano legittimamente assumere posizioni senza mandato del Consiglio come invece sembra sia accaduto». «Può il presidente surrogare il Consiglio regionale, che aveva deliberato in tal senso? O in un delirio di onnipotenza crede di poter sostituire chicchessìa?»: lo chiede il senatore Fabrizio Di Stefano (FI), che aggiunge: «Una cosa è certa: questa scelta non rappresenta la volontà degli abruzzesi e sicuramente dei consiglieri regionali di Forza Italia, che si faranno sentire per contrastare questa iniziativa che di certo nessuno vuole. Non si dica 85 che la Legge di stabilità ha fermato “Ombrina” — aggiunge Di Stefano -. “Ombrina” forse è stata bloccata, ma altre trivellazioni, anche più devastanti, possono ancora essere autorizzate. Sommiamo la sospensione dell’autorizzazione ad “Ombrina”, l’autorizzazione alla società Petroceltic in Puglia e questa iniziativa: sono a mio giudizio indizi che ci fanno preoccupare». del 15/01/16, pag. 43 Dalle migrazioni forzate alle armi di distruzione di massa, il World Economic Forum stila la classifica dei pericoli globali Il pianeta Più caldo, più muri, più sete i rischi per il mondo che verrà ENRICO FRANCESCHINI DAL NOSTRO CORRISPONDENTE LONDRA ALMENO dieci piaghe minacciano il mondo, ma la più terribile è quella che pensiamo o almeno speriamo di avere risolto: il cambiamento climatico. O meglio: l’incapacità di governi e istituzioni internazionali di prendere le misure necessarie a fermare l’effetto serra. Nonostante l’accordo di Parigi, firmato l’anno scorso dalle potenze mondiali, il clima rimane per così dire il pericolo pubblico numero uno per il nostro pianeta secondo il Global Risks Report, il rapporto annuale stilato da 750 esperti e leader del World Economic Forum, l’associazione che si riunisce ogni anno a Davos per discutere i problemi del globo. Il rapporto 2016 mette dunque la insufficiente o fallimentare risposta al cambiamento climatico in cima alla lista dei rischi all’orizzonte, seguita nell’ordine da altre minacce: le armi di distruzione di massa, la crisi delle risorse idriche, la migrazione involontaria su larga scala, gravi sbalzi nei prezzi dei prodotti energetici (come una nuova crisi petrolifera), una nuova ondata d’instabilità dei mercati finanziari, attacchi cibernetici alla rete informatica mondiale, un aumento di disparità economica e disoccupazione, catastrofi naturali ed epidemie virali (come l’Ebola). Riassumendo, dal titolo del dossier: più muri, più caldo, meno acqua. Questo è lo stato del mondo nell’anno appena cominciato. La lista non finisce qui, ma continua con il collasso di interi Paesi (è il caso della Siria), i conflitti inter-statali, le crisi di governo. Dalla graduatoria manca però il terrorismo in quanto tale: l’incubo che domina spesso le prime pagine dei giornali e i notiziari tv non è giudicato dal rapporto un rischio “globale”, probabilmente perché il sedicente Califfato oggi come al Qaeda ieri non appaiono in grado, da soli, di stravolgere l’ordine mondiale. Possono temporaneamente accecarlo, confonderlo, spaventarlo, ma non ne prenderanno il posto, né ambiscono a farlo. Perciò il terrore non figura nella classifica dei rischi globali di per sé, ma solo come complice o “grilletto” di altri pericoli: quello delle armi di distruzione di massa, per esempio, nella temuta ipotesi di un attentato biochimico o nucleare, o quello di un attacco informatico che possa far saltare i sistemi militari, civili o finanziari. D’altra parte il rapporto segnala un nuovo, preoccupante sviluppo proprio nell’interconnessione fra un rischio e l’altro: è evidente che il cambiamento climatico può contribuire a scatenare l’immigrazione su larga scala, spingendo la popolazione a fuggire da una regione per cercare sollievo in un’altra. E lo stesso collegamento si può fare tra la 86 scarsità delle risorse acquifere, un’epidemia, una catastrofe naturale, un collasso finanziario. Viviamo in un mondo sempre più globalizzato e inevitabilmente anche i rischi si sono globalizzati. È la prima volta da quando esiste il Global Risks Report che il cambiamento climatico viene messo in testa all’elenco dei problemi, sebbene la valutazione sia diversa nel breve, medio o lungo periodo: per i prossimi 18 mesi il primo rischio risulta la migrazione involontaria, quella dei popoli costretti a lasciare il proprio Paese da guerra, miserie, instabilità politica; per i prossimi dieci anni il primo rischio è la crisi dell’acqua. «I rischi globali vanno mitigati, ma individuarli serve anche ad adattarvisi», dice Margareta Drzeniek- Hanouz, uno degli autori del rapporto, basato su un sondaggio fra i 750 esperti. «Avvenimenti come la crisi dei profughi in Europa e gli attacchi terroristici hanno aumentato l’instabilità politica globale al livello più alto dai tempi della Guerra fredda», osserva John Drzik, presidente del settore Global Risk della Marsh, la società che sponsorizza l’iniziativa. Un giudizio condiviso dall’Economist nel numero annuale “The World in 2016”, in edicola in questi giorni: un mondo globalizzato è alle prese con minacce crescenti e troppo poco viene fatto per respingerle, scrive Zanny Minton Beddoes, la direttrice del settimanale britannico. del 15/01/16, pag. 21 Le antenne del Muos fanno male? Spaventa anche il test, tutto sospeso Il prefetto di Caltanissetta: i tecnici ignorano se attivare per poche ore il Centro di telecomunicazioni Usa possa creare danni alla salute Fabio Albanese catania Il Muos fa male? Per saperlo bisogna fare dei test, ma siccome nessuno sa dire se, facendoli, si danneggia la salute della popolazione, per il momento sono sospesi. La vicenda del Muos, il mega impianto per le telecomunicazioni voluto dal governo Usa e sorto alla periferia di Niscemi, in Sicilia, si arricchisce di un nuovo, paradossale capitolo. I SIGILLI Un passo indietro. La procura di Caltagirone un anno fa ha messo i sigilli alle tre grandi parabole del Muos all’interno di una struttura militare che ospita già 46 antenne di trasmissione, sempre di proprietà Usa. Motivo: le autorizzazioni per la costruzione del Muos sarebbero illegittime. Lo ha ribadito pure il Tar cui si erano rivolti i No Muos e il comune di Niscemi. Il governo italiano, che nel 2009 aveva dato l’ok alla costruzione, ha quindi fatto ricorso al Consiglio di giustizia amministrativa (Cga), che in Sicilia sostituisce il Consiglio di Stato. Il Cga si è rivolto a una commissione di verificatori formata da 5 tecnici (3 di nomina ministeriale) per sapere se le emissioni elettromagnetiche del Muos - e delle 46 antenne sono davvero nocive per la popolazione della Sicilia orientale e dannose per i vicini aeroporti di Catania, Comiso e Sigonella. Il 3 febbraio il Cga dovrà decidere e per questo attende per la fine di gennaio la relazione dei tecnici. I quali avrebbero dovuto fare le rilevazioni ieri e l’altroieri. Ma loro stessi non hanno saputo dire alla prefettura di Caltanissetta se, in effetti, mettere le tre parabole del Muos e le 46 antenne alla massima potenza, anche solo per poche ore, avrebbe provocato dei danni. 87 Lunedì scorso, 48 ore prima dei test, la presidente del collegio di verificatori, Maria Sabrina Sarto, docente alla Sapienza, ha scritto al dirigente della Digos di Caltanissetta informandolo dell’accensione del Muos per il 13 e 14 gennaio, «al fine di consentire l’implementazione, da parte delle amministrazioni territoriali competenti, di tutte le misure precauzionali che si possono ritenere necessarie». Si, ma quali sono queste misure? Il prefetto di Caltanissetta Maria Teresa Cucinotta convoca per il pomeriggio dello stesso lunedì una riunione tecnica con rappresentanti di Asp, Arpa, Vigili del fuoco e comune di Niscemi «nel corso della quale - scrive l’indomani il prefetto al Cga di Palermo - è emersa l’impossibilità di indicare alcuna misura precauzionale da adottare, in assenza di ogni elemento di conoscenza e valutazione in proposito». Cita anche la conversazione con il capo dei verificatori: «Il medesimo presidente (Sarto, ndr) ha assicurato per le vie brevi che avrebbe approfondito la questione con gli altri componenti del collegio e, a seguito di un programmato incontro con le autorità statunitensi teso ad acquisire ulteriori dettagli sul funzionamento del citato sistema, avrebbe proposto l’accensione dei sistemi radianti alla minima potenza». Cosa che, però, non avrebbe fornito le giuste indicazioni. Risultato, non se ne fa nulla, i test sono rinviati. «L’unica misura che potrei prendere è quella di evacuare il paese - dice il sindaco di Niscemi, Francesco La Rosa - La verità è che nessuno qui vuole il Muos». 88 CULTURA E SPETTACOLO del 15/01/16, pag. 52 Annunciate ieri mattina all’alba le nomination I premi saranno consegnati il 28 febbraio a Los Angeles Oscar selvaggio “Revenant” e “Mad Max” verso la statuetta SILVIA BIZIO LOS ANGELES LA musica “italiana” va forte agli Oscar. Fresco della vittoria del Golden Globe per la colonna sonora di The Hateful Eight, Ennio Morricone conquista la sua sesta candidatura all’Oscar (tuttora mai vinto: l’unica statuetta è quella alla carriera) con il film ambientato dopo la guerra civile americana di Quentin Tarantino, un grande ammiratore del Maestro la cui musica aveva usato in cinque suoi film del passato. Il regista tuttavia non ha avuto i riconoscimenti in cui sperava: oltre alla colonna sonora The Hateful Eight ha conquistato solo candidature per Jennifer Jason Leigh come miglior attrice non protagonista e per la direzione della fotografia di Robert Richardson. Nella sezione “canzone originale” si candida anche Simple Song # 3 di David Lang nel film di Paolo Sorrentino, Youth. Niente da fare per Giulio Ricciarelli, regista italiano naturalizzato tedesco candidato dalla Germania per Il labirinto del silenzio come miglior film straniero: entrato nella shortlist, ora è fuori dalle nomination. Sorprese e omissioni in queste candidature all’Oscar annunciate alle 5.30 del mattino dai registi Ang Lee e Guillermo del Toro: Revenant- Redivivo, il film di Iñárritu con Leonardo DiCaprio che sfida il gelo e un orso per vendicarsi di chi gli ha ucciso il figlio, è in testa con 12 candidature, compresa quella di miglior attore per DiCaprio e di non protagonista per Tom Hardy, avvicinandosi ai due film della storia con più candidature (14): Eva contro Eva e Titanic. Lo segue da vicino il film di George Miller Mad Max: Fury Road con 10 candidature. Entrambi entrano nella rosa di otto miglior film con Il ponte delle spie di Steven Spielberg, La grande scommessa di Adam McKay, Sopravvissuto -The martian di Ridley Scott, Il caso Spotlight di Tom MacCarthy, Brooklyn di John Crowley e Room di Lenny Abrahamson. Ridley Scott, la cui candidatura come regista era data per scontata, è stato escluso dalla lista (in cui entrano invece McCarthy, Abrahamson e McKay). Per il secondo anno consecutivo i venti attori candidati - protagonisti e non - sono tutti bianchi, cosa per cui il presentatore dell’Oscar, Chris Rock, darà senz’altro filo da torcere ai membri dell’Academy il 28 febbraio. Candidati che includono DiCaprio alla sua quinta candidatura, accanto a Bryan Cranston ( L’ultima parola- La vera storia di Dalton Trumbo), Eddie Redmayne ( The Danish Girl), Matt Damon ( Sopravvissuto - The Martian) e Michael Fassbender ( Steve Jobs), mentre le attrici protagoniste sono Brie Larson ( Room), Charlotte Rampling ( 45 anni), Cate Blanchett ( Carol), Jennifer Lawrence ( Joy) e Saoirse Ronan ( Brooklyn). Sorpresa per l’esclusione di Helen Mirren e Jane Fonda come migliori non protagoniste (per Trumbo e per Youth). Le attrici non protagoniste sono Rooney Mara ( Carol), Alicia Vikander ( The Danish Girl), Kate Winslet (che ha appena vinto il Golden Globe per lo stesso ruolo in Steve Jobs) e Rachel McAdams per Il caso Spotlight. Candidato come non protagonista il favorito Sylvester Stallone per Creed. 89 Una forte presenza di candidature per Star Wars: Il risveglio della Forza avrebbe forse aiutato l’audience dello show, che negli ultimi anni ha segnato un calo fra gli spettatori, ma il film di J.J. Abrahms ha conquistato sono 5 nomination, tutte tecniche. del 15/01/16, pag. 12 L’alba degli Oscar ha un gusto «estremo» Cinema. Annunciati ieri i candidati alla statuetta. «The Revenant» di Iñarritu si impone come il favorito con 12 nomination seguito da «Mad Max:Fury Road» di Miller Luca Celada LOS ANGELES I candidati all’Oscar vengono resi noti ogni anno alle 5.27 di mattina per accomodare le dirette dei morning show sulla costa Est. Sin da ben prima dell’alba quindi la sala grande nell’austero edificio dell’Academy su Wilshire Boulevard ha cominciato a riempirsi di rappresentanti degli uffici stampa accorsi sperando di celebrare candidature dei propri assistiti, e centinaia di giornalisti e corrispondenti tv incipriati sotto i fari delle telecamere. All’ora prestabilita sul palco della sala Samuel Goldwyn sono usciti Ang Lee e Guillermo del Toro per annunciare il primo gruppo di candidati. I due registi erano incaricati di annunciare le categorie minori ma già da queste un titolo ha cominciato a ricorrere con più frequenza. Alla fine della mattinata The Revenant il «north-western» di Alejandro Gonzalez Iñárritu aveva collezionato 12 candidature imponendosi come favorito di questa 88esima edizione degli Academy Awards. Lo seguono nella classifica delle nomination: Mad Max: Fury Road (10), Sopravvissuto –The Martian (8), Spotlight, Carl e Ponte delle Spie (6) e La Grande Scommessa (5). È un quadro che conferma molteplici legittimi pretendenti ma allo stesso tempo indica un favorito nel film «estremo» di Iñárritu già vittorioso domenica scorsa ai Golden Globes. Le nomination confermano alcuni pronostici e mettono fine invece a molte supposizioni. Non c’è stato l’effetto Star Wars che alcuni prevedevano. Qualche settimana fa la Broadcast Film Critics Association, alla luce del fenomeno globale, aveva modificato retroattivamente la propria classifica per inserire il film di JJ Abrams uscito a fine anno senza proiezioni stampa. Ma il successo della Minaccia Fantasma non è bastato a impressionare gli elettori dell’Academy che pur avendo a disposizione dieci posizioni hanno nominato quest’anno solo otto film nella categoria principale; a Guerre Stellari sono andati una manciata di riconoscimenti «tecnici» e quello per le musiche di John Williams. In quella categoria il compositore amatissimo a Hollywood — si contenderà l’Oscar con Ennio Morricone che stacca una nomination fresco di Golden Globe per Hateful Eight. Williams, Jennifer Jason Leigh (attrice non protagonista) e la fotografia 70 mm. di Robert Richardson sono le uniche nomination nella Colonna di Tarantino: risultato deludente per il regista che pur beneficiando del poderoso ingranaggio promozionale Weinstein, sconta un diffuso astio nei suoi confronti e alcune polemiche con poteri forti: la polizia di New York e LA che lo aveva attaccato dopo la sua partecipazione a una protesta contro gli abusi violenti, e la Disney che gli aveva sottratto il Cinerama Dome imponendo la proiezione di Guerre Stellari al posto di Hateful Eight nella principale sala 70 mm. di Los Angeles. La consacrazione di Revenant potrebbe significare invece, il primo, a lungo anelato, Oscar per Leonardo di Caprio. Uno che invece la prima statuetta non la vincerà nemmeno 90 quest’anno è Ridley Scott, rimasto escluso proprio dalla categoria – quella dei registi – in cui molti lo davano addirittura per favorito. In rappresentanza dei registi «di genere» c’è invece George Miller. Dopo una gestazione ventennale e sei mesi di riprese nel deserto della Namibia le dieci nomination per il suo reboot di Mad Max sono un risultato abbastanza straordinario. Con lui e Iñárritu fra i registi ci sono Lenny Abrahamson il cui bel Room su una donna e suo figlio prigionieri di un maniaco ha una favorita anche nella protagonista Brie Larson, il rigoroso Tom McCarthy di Spotlight (presentato a Venezia) e Adam McKay, autore de La Grande Scommessa. Quest’ultimo è certo il candidato più politico dell’anno, un adattamento esplosivo di Big Short, il libro di Michael Lewis sulla mastodontica e impunita frode subprime di Wall Street – storia vera e parabola apocalittica sulla finanza assurta a filosofia e politica del nostro tempo. Le cinque candidature al film sono un premio importante per un regista situazionista e dissacrante, «immigrato clandestino» dalla commedia demenziale all’accademia di Hollywood. Fra gli stranieri il franco-turco Mustang, il colombiano Abrazo de la Serpiente e l’ungherese Il figlio di Saul. È quest’ultima opera prima di László Nemes – un notevole, quasi insostenibile sguardo in soggettiva sulla Shoah – a presentarsi come film da battere nella categoria. Meritata la nomination di Charlotte Rampling fra le attrici per 45, quella di Anomalisa, inquietante animazione stop motion di Charlie Kaufman che era stato fra i migliori film di Venezia. Ovazione per Sylvester Stallone candidato come non protagonista nei panni di un Rocky invecchiato e vulnerabile in Creed del giovane regista afro Americano Ryan Coogler che avrebbe meritato un pò più di attenzione. E a questo proposito segnaliamo la principale polemica che circonda queste nomination: fra le candidature annunciate dalla presidente dell’Academy Cheryl Boone Isaacs, lei stessa african American, non vi è nessun nero. Hollywood cioè, in un anno caratterizzato dalla rinascita di un movimento di protesta nero con black lives matter, di un film come Straight Out of Compton, che al di là del riconoscimento critico ha avuto uno straordinario successo commerciale, nell’anno di Samuel Jackson in Hateful Eight e di Coogler appunto, non è riuscita a riconoscere neanche un attore o un autore di colore. Chissà se il 28 febbraio ne parlerà durante la cerimonia Chris Rock, il comico black assunto di proposito come conduttore dello show. del 15/01/16, pag. 13 La poesia di un ragazzo strafottente Lutti. Scompare a ottant’anni l'attore Franco Citti, icona di Pasolini, indimenticabile «Accattone». Presenza inquieta e fuori dal tempo, era diventato il volto del sottoproletariato nel nostro cinema. Regista lui stesso con «Casotto», protagonista una giovane Jodie Foster Silvana Silvestri L’ultima volta che abbiamo visto Franco Citti è stato qualche anno fa durante un incontro molto speciale voluto dal fratello Sergio per informare la stampa delle prove che avrebbero cambiato il corso delle indagini sull’assassinio di Pasolini. Loro sapevano. Franco Citti seguiva i discorsi, ascoltava le domande e gli brillavano gli occhi ai tanti apprezzamenti che venivano fatti al suo lavoro, non senza lampi di ironia, ma non poteva parlare, colpito da un ictus. Arriva adesso la notizia divulgata da Ninetto Davoli della sua scomparsa 91 avvenuta nella sua abitazione all’età di ottanta anni, malato da tempo, anche se neanche un mese fa aveva partecipato a una partita di calcio nell’ambito delle celebrazioni per il quarantennale della morte dello scrittore. Erano stati loro a far scoprire a Pasolini il calcio di strada, la libertà di togliersi la cravatta da professorino, diceva. Ed era stato Pasolini a «scoprirlo» negli anni cinquanta, quando ancora scriveva le poesie in friulano e iniziava a pensare a Ragazzi di vita. Glielo presentò il fratello Sergio («annamose a magnà na pizza») lui tutto sporco di calce, racconta, perché faceva il muratore con il padre. Avrebbe rappresentato la visione concentrata di un mondo, era l’accattone, il diavolo, la preda del destino tragico (dalle pieghe del suo volto e del suo animo fiorisce un Edipo re che non si dimentica), una presenza su cui il poeta poteva a lungo immaginare, elaborare concetti e immaginare storie, a dispetto della sua semplicità. Da una parte l’angelico Ninetto e dall’altra l’oscuro Franco, da difendere dal giudizio dei borghesi seduti di fronte alla tv, come raccontava Pasolini a Carlo Di Carlo: «per loro è facile condannare chi perde ore e ore del suo giorno e della sua notte a combattere contro la dolce violenza della tentazione». Quando Pasolini esordì nel cinema divenne il protagonista di Accattone. «Lui e Accattone sono la stessa persona» diceva Pasolini e sarebbero stati interessanti i commenti di Franco nel sentirlo parlare di estetica di morte, lo definiva «sto cavolo di accattone», ma anche «un bel film sincero, girato con tutti gli amici», però poi meditava sul fatto che avrebbe fatto meglio a fare il muratore, troppa gente falsa nel mondo del cinema. Da quel film in poi rappresentò nel nostro cinema il volto del sottoproletario di tutte le epoche, senza bisogno di recitare ma, si raccomandava il regista, bastava che rimanesse se stesso. Diventò Carmine che torna a sfruttare Mamma Roma, il cannibale di Porcile (1969), Ciappelletto de Il Decameron (1971), un diavolo dei Racconti di Canterbury (1972), un altro demone ma orientale ne Il Fiore delle Mille e una notte (1974). Come succedeva nel cinema del neorealismo, aveva ricevuto il marchio del suo regista. Pasolini, diceva, non gradiva che accettasse ruoli in Francia (a parte Marcel Carné di Dietro la facciata del 1963) o peggio ancora negli Usa e guai a imparare l’inglese che avrebbe potuto corromperlo (anche se poi partecipò al Padrino nel 1972 e nel 1990)). Invece la sua presenza nel cinema italiano è stata piuttosto intensa, inquieto e strafottente personaggio nei film del fratello Sergio che lo riportavano alle location e frequentazioni delle sue origini: Ostia, Storie scellerate, Casotto, Il Minestrone, Magi randagi, e Cartoni animati a cui teneva molto. In teatro nella Salomé di Carmelo Bene (nel ’63) in Requiescant di Lizzani (’67) Seduto alla sua destra di Zurlini (1968), Colpito da improvviso benessere di Giraldi (1976), Todo modo di Elio Petri (1976), La Luna di Bertolucci (1979), Il segreto di Maselli (1990). In «Vita di un ragazzo di vita» scritto con Claudio Valentini parla di Pasolini come di «un caso di purezza, impossibile tradirlo». Ma lui, dice, si è autotradito, ha parlato troppo, dava troppa amicizia («Quanto gli piaceva parlare, non sarebbe arrivato vivo») e sottolineava: «Abbiamo fatto le indagini io e mio fratello Sergio, il regista, nelle borgate. È escluso che sia stato Pelosi. Nessuno parlò perché venivano minacciati di morte». del 15/01/16, pag. 48 Quattrocento anni fa moriva il Bardo. Che è entrato nella nostra vita descrivendoci davvero Anche chi non lo ha mai letto potrà dirsi amletico. E quale donna non si è mai sentita presa in un gioco come Ofelia? 92 Shakespeare Perché parliamo tutti come il poeta di Stratford upon Avon NADIA FUSINI Se Shakespeare è davvero quel tale William battezzato a Stratford upon Avon nelle Midlands il 26 aprile del 1564, la sua morte non desta incertezze: morì all’età di 52 anni sempre a Stratford upon Avon, il 23 aprile del 1616. Sì che quest’anno, a distanza di quattro secoli, dovunque nel mondo si celebrerà la sua scomparsa. E già dall’inizio di questo fatidico 2016, per lo più bisestile, in tutta Europa fervono le iniziative per ricordare l’anonimo, elusivo, sfuggente scrittore di teatro e poeta, che risponde a quel nome, della cui vita privata non sappiamo poi molto, ma che identifichiamo con un corpus di opere, fondamentali alla nostra identità. Opere in cui, ricordando il settecentesco Samuel Johnson, un altro lettore forte di Shakespeare, nostro contemporaneo, e cioè Harold Bloom, riconosce l’invenzione della nostra stessa idea di umanità. Cioè a dire, siamo quel che siamo perché chiunque si nasconda dietro il nome di Shakespeare in molti modi ci è padre, e dalla lontananza di una paternità tutta spirituale e immaginaria ci offre una galleria di tipi umani che sono nel tempo diventati icone del nostro mondo immaginario. E della nostra coscienza. E cioè, caratteri che partecipano della nostra vita e ricorrono nei nostri discorsi perché riconosciamo in loro emozioni che sono le nostre, diverse, eppure medesime, come quando diciamo non fare l’amletico a qualcuno che dubita, o non sarai mica geloso come Otello, di qualcuno che sospetta della fedeltà della sua donna, o sei più cattivo di Iago di qualcuno la cui malignità non riusciamo a spiegarci... In realtà, Shakespeare non è mai stato “classico”, piuttosto sempre “popolare”. Non è l’accademia ad avere “salvato” Shakespeare, né con le spuntate armi della pedanteria saccente si raggiunge la bellezza dell’invenzione shakespeariana. È piuttosto attraverso media quali il teatro e il cinema, che Shakespeare è entrato nella nostra vita. Anche chi non ha letto Romeo e Giulietta, può invocare Romeo come proprio fratello, nel caso un destino avverso lo divida dalla propria amata. Anche chi non ha letto l’Amleto, in certi momenti della sua vita potrà dichiararsi “amletico”. E cioè, indeciso riguardo al proprio atto, svogliato rispetto al compito che il padre morto o la famiglia o la società tutta gli impongono. Ci sono poi altri giorni in cui si insedia nella nostra mente un cattivo pensiero che la parte buona non riesce a vincere, e allora ci sentiamo vicini al nobile Macbeth, il quale fa quello che fa, e cioè uccide il buon re Duncan, che pure ama, perché sente delle voci, le voci delle streghe, che danno parola al suo desiderio inconscio. E altri giorni ancora in cui prendiamo la vita al modo di Falstaff, e non vorremmo che godere — del cibo, del sesso, del gioco, e barare e rubare e mentire come fa lui, con strafottenza, e cioè da vero playboy qual è, da quel grandissimo ed esasperante ed espansivo eroe della “carne” che è Falstaff. In questo senso, e cioè alla lettera, il teatro di Shakespeare dispone per noi in scena una comédie humaine, al cui vasto repertorio possiamo attingere nelle più diverse e varie occasioni, quando emozioni nuove insorgono dentro di noi, e rimangono lì sospese, in attesa che, oltre a provarle, le si trasporti a una qualche forma espressiva. Che modella la nostra stessa interiorità. E cioè, il nostro teatro interiore. Chi di noi donne non si è sentita Ofelia, l’innamorata, che presa in un gioco tutto maschile si fa ignara pedina, che pezzi più forti di lei sulla scacchiera inghiottono? E altre volte non ci siamo forse sentite Gertrude, la regina vorace che morto un marito, se ne fa un altro, senza troppo tergiversare? Non sarà forse da ammirare, e non da criticare al modo violento con cui lo fa il figlio Amleto, la sua vivace abbreviazione del tempo del lutto, quasi ci 93 discolpasse di una certa superficialità, che fa comunque trionfare la voglia di vivere, rispetto alla tetra sosta nelle oscure caverne del lutto? Esistono donne così, fedeli al proprio piacere, costanti rispetto a una bussola con sfacciata fede puntata a godersi la vita, anche il sesso. Perché no? Come esistono altrettante donne “ideali”: la Porzia romana, moglie di Bruto, figlia di Catone, che all’ideale del nome del padre e del marito si sacrifi- ca. O come Cordelia, la figlia che al vecchio padre dice la verità, perché solo e soltanto la verità si deve a chi amiamo. O la veneziana Desdemona, eroina del free- will, che contro la volontà paterna e a dispetto delle convenzioni sociali, liberamente sceglie il Moro contro più addomesticati cicisbei veneziani. D’accordo, non finisce bene, ma l’atto di libertà della Desdemona shakespeariana resta, e trionfa contro le più tarde sentimentali incarnazioni del personaggio. Come resta indimenticabile la libertà di Caterina, che Petruccio tenta invano di domare, finché non è lui a cedere alla superiore potenza della lingua indomabile della donna, equivalente fallico di un membro virile non altrettanto attivo. Sì che da domatore si ritrova domato, e l’avvertito lettore non potrà che domandarsi perplesso, alla fine: a che cosa servono questi concetti così fallaci? Non concetti, in realtà, ma pure convenzioni di comodo, come le distinzioni di genere? A ordire una grammatica, rispetto alla quale tutti scartiamo? E nessuno è al posto suo? E se un uomo è un uomo e adora il potere, e giustamente identifica nell’oggetto corona o scettro il simbolo più efficace della potenza fallica, non gli verrà spontaneo alla bocca il nome di Riccardo III, così cattivo e feroce e spietato? Capace di tutto, perfino di prendere in sposa la stessa donna a cui ha ucciso il padre e il marito, se serve alla sua carriera. Finché si ritrova solo sul campo di battaglia ed emette quello sconsolato grido: «Un cavallo, un cavallo, il mio regno per un cavallo!». Tutto ora scambierebbe per qualcosa che non ha. E sempre tra gli uomini, quale uomo di potere sapiente e audace nei suoi giorni più maturi non s’è perso, anche se non in Oriente, tra le braccia di una seduttrice? Non c’è uomo politico di razza che non abbia sfiorato il pericolo Circe o Cleopatra, specchiandosi in tal caso in Antonio. E cioè, subendo la tentazione di lasciar naufragare Roma nel Nilo, per dirla con il romano tra le braccia della regina di Egitto. Che comunque è un bel modo di finire; di certo non peggiore di chi come Lear impazzisce per non sapersi arrendere all’evidenza della vecchiaia, che disarma l’uomo potente. Staccarsi dalla propria potenza, devolvere il potere al più giovane, è mossa difficile all’uomo abituato al comando. Quanto all’uomo tout court, all’uomo comune, all’uomo normale, non ce n’è uno che non si sia ritrovato almeno una volta con le orecchie di Asino come Bottom, scoprendo la propria vulnerabilità di fronte agli incostanti capricci di una donna-regina... È il mistero della vita che Shakespeare incarna per noi, offrendoci di volta in volta nei suoi personagggi le maschere grazie alle quali venire in contatto con le nostre più segrete pulsioni, confermando che la pulsione, o più semplicemente la passione di vivere è di per sé teatrale, esibizionista. del 14/01/16, pag. 40 Musica & app Come imparare a suonare Ultimate Guitar Tabs è la più grande raccolta di spartiti del mondo: 800 mila brani per chitarra e ukulele. Maestro di pianoforte (2,99 euro) è un supporto per imparare a leggere la musica, acquisire il ritmo e imparare a suonare brani noti. Molte le app che funzionano come un mini studio di registrazione e offrono la possibilità di suonare più strumenti. E’ 94 possibile collegare più dispositivi Per chi inizia CoachGuitar è studiato per chi vuole suonare la chitarra ma non sa leggere la musica Per chi è bravo Auxy permette di creare le proprie basi e di divertirsi con i loop come i grandi DJ C’ era un tempo in cui era necessario passare dalla «Canzone del sole» per imparare a suonare la chitarra. Dal 1971, anno della sua pubblicazione, intere generazioni sono passate dal brano di Lucio Battisti prima di puntare ad altro. Impossibile scapparne. Ora invece la storia cambia. Passati i corsi su musicassetta, i videocorsi in VHS e i libri distribuiti in edicola, la musica viaggia sulle app. Quotidianamente nascono nuove applicazioni per smartphone e tablet che si ripropongono di insegnarci l’agognato strumento attraverso contenuti multimediali, video di artisti celebri, partiture interattive. Una delle più note è CoachGuitar. Dedicata a chi si sta avvicinando alla sei corde, offre un corso completo di chitarra a portata di dito. Scaricabile su iOS, Android e Windows, è pensata per i neofiti, per chi non ha mai visto una tablatura in vita sua e non sa leggere la musica. La sua forza sta nell’insegnare i primi accordi tramite brevi video molto dettagliati che possono essere ripetuti finché non sono stati assimilati. I colori poi illustrano il posizionamento delle dita sulla tastiera per memorizzarlo meglio. La si può provare gratuitamente poi, se piace, offre l’acquisto di singole canzoni a 3,99 euro o pacchetti tematici con sei brani di artisti come Beatles o Bob Marley a 14,99 euro. Una volta presa la mano, possiamo affiancarle Ultimate Guitar Tabs, la più grande raccolta di spartiti del mondo per iOS, Android e Windows. All’interno del suo sconfinato database troviamo gli accordi, le note e le tablature per chitarra e ukulele di oltre 800 mila brani e nonostante sia statunitense non mancano tanti successi italiani. C’è pure la Canzone del sole. Davvero. Passiamo alla batteria con Drum Guru. L’approccio qui è differente: non è solo per neofiti ma si rivolge anche agli esperti e offre videolezioni di grandi batteristi come Steve Gadd, Steve Smith o Mike Portnoy dei Dream Theater. L’app per iOS e Android è gratuita e offre alcuni video di prova a cui poi vanno aggiunti dei pacchetti di lezioni da scegliere in base al proprio livello di abilità e allo stile che si intende imparare o raffinare. Lo stesso sistema è alla base dell’applicazione gemella Bass Guru. Solo per iPad e iPhone, è dedicata al basso e tra gli insegnanti troviamo artisti del calibro di Victor Wooten, Tom Kennedy e Lincoln Goines. Va detto che in entrambe le lezioni sono tutte in inglese ma anche non conosce la lingua si troverà a proprio agio grazie ai numerosi video molto chiari. Guardare per credere. Dalle corde ai martelletti, ecco Maestro di pianoforte, applicazione per iPad che per 2,99 euro offre un valido aiuto per imparare a leggere la musica, acquisire il ritmo e riprodurre brani noti. Pianoforte + per Android (gratuita) ha invece un approccio ludico: sul display compare una tastiera e delle note a cascate indicano quali tasti suonare. Va detto che anche i più piccoli possono avvicinarsi agli 88 tasti divertendosi. Per i bambini dai 4 anni in su c’è Music4Kids. Disponibile per iOS e Android (2,99 euro) consente di comporre e suonare muovendo le note su un pentagramma. La grafica cartoonesca rende il processo di apprendimento immediato e divertente mentre centinaia di sfide musicali stimolano il piccolo a riconoscere e imparare le note mentre giocano. Per i più grandi c’è Piano Dust Buster (iOs, 0,99 euro), che miscela gioco e insegnamento. Qui possiamo suonare direttamente sul display dell’iPad oppure mettere il tablet sul leggio del pianoforte per vedere quali tasti premere al momento giusto. Ora che abbiamo posto le basi è arrivato il momento di esercitarsi e, perché no, incidere qualcosa. GarageBand di Apple (4,99 euro) porta su iPhone, iPad e iPod Touch un piccolo studio di registrazione. Offre la possibilità di suonare numerosi strumenti come pianoforte, organo e batteria, simula un amplificatore per chitarra, possiamo connetterla al microfono 95 e permette di creare jam session collegando fino a tre dispositivi tra loro. Volendo poi possiamo anche registrare, arrangiare e mixare i nostri brani ovunque ci troviamo. Per creare le proprie basi e divertirsi con i loop c’è Auxy, applicazione semplice e gratuita per iPad e iPhone caratterizzata da un’interfaccia colorata e molto intuitiva. Premendo sul display creiamo e spostiamo blocchetti di beat che saranno poi riprodotti a tempo da batteria, basso e due synth. Basta un tap poi per passare da un loop all’altro come i grandi DJ. Insomma, le possibilità sono davvero tante e ora sì che sarà davvero tutta un’altra musica. Alessio Lana 96 ECONOMIA E LAVORO del 15/01/16, pag. 5 Bruxelles sospende il giudizio Ma studia la procedura sull’Italia Sul tavolo l’ipotesi di scostamento significativo sul deficit Non è vicino l’esame della Commissione Ue sui conti pubblici dell’Italia. La valutazione sul bilancio 2016 non partirà prima di febbraio e uscirà in primavera, probabilmente in aprile. A Bruxelles non ci sono dunque decisioni già prese sull’assetto trasformato in legge in dicembre. Ci sono però due certezze. La prima è che il quadro è più difficile di un anno fa, quando il governo attraversò il filtro del fiscal compact europeo con una blanda richiesta di risanare il bilancio un po’ di più in seguito. Ma il secondo dato a Bruxelles è che, senza correttivi, sembrano esserci le condizioni per aprire sull’Italia una procedura vincolante anche se il deficit resta sotto al 3% del reddito nazionale (Pil). Nel gergo europeo, si chiama procedura per «scostamenti significativi» dagli impegni. Riguarda il «braccio preventivo» del patto di Stabilità, non quello «correttivo» previsto quando il disavanzo è già oltre le soglie, e ha una caratteristica importante: può portare a vere e proprie multe, se dopo tre anni il Paese coinvolto non corregge la rotta. Qualunque sia la probabilità di una sanzione, questa è dunque una gabbia disegnata per diventare sempre più stringente. Non doveva andare così. La legge di Stabilità proposta dal governo in ottobre aggiungeva, rispetto agli accordi, uno 0,4% di deficit pubblico in più sull’anno prossimo. Quello scostamento era stato discusso in anticipo da Pier Carlo Padoan a Bruxelles. Il ministro dell’Economia aveva motivato la sua scelta in gran parte con l’intenzione di investire di più, fino un nuovo obiettivo di deficit per il 2016 al 2,2% (quello precedente era all’1,8%). All’epoca pendeva anche una richiesta dell’Italia di aumentare il disavanzo di un ulteriore 0,2% del Pil, 3,6 miliardi, per le spese «eccezionali» dell’emergenza immigrazione. La Commissione Ue e l’Eurogruppo, il club dei ministri finanziari dell’euro, chiesero i dettagli di quegli esborsi e risultò — secondo Bruxelles — che in realtà erano di appena 200 milioni. La nuova «flessibilità» sul deficit fu dunque rifiutata, prima che Matteo Renzi se la riprendesse senza discuterla prima con nessuno. Dopo gli attentati di Parigi, in novembre, il premier annunciò che nel 2016 l’Italia avrebbe speso altri 3,6 miliardi per la «sicurezza» (incluso un bonus da 500 euro i consumi culturali dei neo-diciottenni anni). L’esame dei conti dell’Italia riparte da qua. La «teologia» delle regole europee di bilancio è sempre più complessa, al punto che neanche nella Commissione Ue si pensa che possa sempre essere applicata alla lettera. Tutti però a Bruxelles vedono in quelle norme uno strumento per spingere i governi nella direzione giusta, e i dettagli contano. Uno di questi riguarda il punto in cui è diretto davvero il deficit dell’Italia quest’anno: il governo lo prevede al 2,4% del Pil, ma a Bruxelles si dubita. Può essere più alto. La crescita nel 2015 è stata inferiore allo 0,9% atteso da Padoan, dunque il punto di partenza del bilancio arretra. In più l’inflazione viaggia molto sotto al previsto, e deprimerà le entrate fiscali. Forse anche per questo Padoan ora cerca a ridurre un po’ il disavanzo già annunciato, nella speranza di prevenire la procedura. Certo conterà il deficit «strutturale», quello al netto delle oscillazioni del ciclo. Ma se l’Italia sta per tornare dentro una gabbia europea “con i denti”, lo si inizierà a capire presto: a inizio febbraio la Commissione pubblica le 97 prossime previsioni sull’economia. Dietro quei numeri ci sarà già molto di ciò che a Bruxelles si pensa di fare nei mesi seguenti. Federico Fubinii del 15/01/16, pag. 10 Ora è ufficiale: gli evasori saranno salvati per legge La Cassazione sancisce che le nuove soglie di non punibilità penale volute dal governo sono retroattive: primo assolto, addio a migliaia di processi Doveva succedere ed è successo. La Terza Sezione penale della Cassazione – come ha rivelato il Sole 24 Ore – con una sentenza depositata mercoledì ha annullato senza rinvio una condanna in appello per dichiarazione infedele e dichiarazione fraudolenta: “Il fatto non sussiste”, la formula scelta. O meglio, non sussiste più: l’annullamento è frutto del decreto legislativo 158 – entrato in vigore il 22 ottobre scorso – che alza le soglie per la punibilità penale dell’evasione fiscale. La Suprema Corte ha così stabilito che le nuove previsioni si applicano retroattivamente: è il principio del favor rei, secondo cui vale la norma più favorevole all’imputato. Quella del governo Renzi, effettivamente, lo è: il dlgs 158, infatti, ha alzato l’asticella – da 50 a 150mila euro per singola imposta evasa e da due a 3 milioni in totale – del denaro che è possibile sottrarre al Fisco senza incorrere in sanzioni penali. Il recupero del “maltolto” da parte dell’erario, ovviamente, resta possibile. Da mercoledì è insomma ufficiale quel che il Fatto Quotidiano aveva denunciato all’entrata in vigore del decreto: migliaia di fascicoli già aperti dalle procure andranno al macero. Tempo e soldi buttati: nella sola Milano si è cominciato a chiedere l’archiviazione per 1.200 processi sull’evasione dell’Iva e altri duemila abbondanti su ritenute e altri tributi. Come ha sintetizzato il procuratore di Udine, Antonio De Nicolo: “Prima inseguivamo gli evasori per farli pagare, ora per restituirgli i soldi”. In realtà, siamo solo all’inizio di una slavina. Molte norme volute dall’attuale governo rendono più difficile perseguire penalmente gli evasori: da ottobre, ad esempio, non basta più che nella dichiarazione siano stati inseriti elementi “fittizi”, dovranno essere proprio inesistenti (si può, legalmente, barare un po’); la frode “mediante altri artifici”, per dirne un’altra, non è più reato fino a 1,5 milioni (la soglia prima era un milione). Quanto all’abuso del diritto – cioè tutte le condotte, in sé legittime, che vengono usate al solo fine di avere vantaggi fiscali indebiti – non sono più reato: un colpo alla lotta all’elusione che ha effetti pure sulle condotte “fraudolente”. Il processo contro Emilio Riva e due ex manager Ilva per una frode da 52 milioni s’è infatti concluso con un’assoluzione: “Il fatto non è più previsto dalla legge come reato”. Dalla Cassazione, però, arriva anche una buona notizia: contrariamente ad altre sentenze, come quello che ha garantito l’assoluzione al sondaggista Luigi Crespi, la Quinta Sezione penale ha sancito che anche le “valutazioni” (la maggior parte delle poste che concorrono a un bilancio) sono rilevanti ai fini del reato. 98 Al netto della pessima scrittura della legge, se nella giurisprudenza si affermasse questa interpretazione si potrebbe sostenere che davvero il falso in bilancio è tornato nel codice italiano dopo l’era Berlusconi. 99