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Endoscopia digestiva: quello che il paziente deve sapere
G. CAMMAROTA
Istituto di Medicina Interna e Geriatria, Dipartimento di Medicina Interna, Scienze Specialistiche e Dermatologia, Università Cattolica del S.
Cuore, Facoltà di Medicina e Chirurgia, Policlinico A. Gemelli, Roma
La sedazione in endoscopia digestiva
Per un normale intervento chirurgico si effettua solitamente un’anestesia
generale, con la quale si intende una sedazione profonda indotta da farmaci, somministrati dal medico anestesista, che deve contestualmente
provvedere alla respirazione assistita del paziente durante tutto il periodo
dell’intervento e dell’anestesia stessa. Egli deve intubare la trachea del
paziente e ventilarlo con il respiratore automatico. Ciò è necessario in
quanto i farmaci somministrati deprimono i centri respiratori e il paziente
non respira più spontaneamente.
Ebbene, questo tipo di anestesia generale non è necessario per un esame
endoscopico. Sia la gastroscopia che la colonscopia possono essere eseguite con una sedazione moderata oppure con una sedazione cosiddetta
profonda, mantenendo in entrambi i casi, però, il respiro spontaneo.
La sedazione moderata (detta “cosciente”) prevede la somministrazione di un
farmaco sedativo o ipnoinducente leggero, generalmente della famiglia delle
benzodiazepine, come il midazolam, che non richiede necessariamente l’assistenza medica anestesiologica. Con questo tipo di sedazione, il paziente, seppur sedato, può comunque avvertire i fastidi e gli eventuali stimoli dolorosi
provocati dalla procedura. Tuttavia, nella gran parte dei casi, si ottiene un
accettabile controllo del dolore e dell’ansia, che in genere si accompagnano
a questo tipo di esami, e un certo grado di amnesia che induce a non ricordare nulla dell’esame effettuato. Tale tipo di sedazione è considerata sicura,
secondo alcuni addirittura in misura maggiore alla sedazione profonda.
Per quanto riguarda invece la sedazione profonda, avviene anch’essa in
respiro spontaneo, in quanto esiste ormai da vari anni un farmaco sedati-
vo/anestetico puro, che si chiama propofol (Diprivan), il quale induce una
anestesia, cioè analgesia, e induce il sonno, ma deprime poco (poco più
delle benzodiazepine) i centri bulbari deputati alla respirazione, mantenendo così il respiro spontaneo del paziente. Si tratta, dunque, di una vera anestesia, ma non necessita dell’intubazione tracheale del paziente, in quanto
questi continua a respirare autonomamente. Per la sedazione profonda,
tuttavia, è necessaria l’assistenza del medico anestesista, per una valutazione clinica del paziente, per decidere gli opportuni dosaggi dei farmaci e
per intervenire con una respirazione assistita, qualora i parametri clinici e
fisiologici del paziente sedato lo richiedano. Non vi sono tuttavia in letteratura casi riportati di pazienti che abbiano richiesto un’intubazione endotracheale o che abbiano riportato danni gravi neurologici o che siano morti
a causa della sedazione profonda. Sono stati invece segnalati con una certa
frequenza episodi di depressione respiratoria che hanno richiesto una ventilazione assistita con ossigeno con o senza maschera facciale.
In genere, per effettuare una sedazione profonda è sufficiente utilizzare il
propofol. Talora, per la gastroscopia, è opportuna una premedicazione
locale faringea con un farmaco anestetizzante (xilocaina in formulazione
nebulizzante o spray). A volte il medico anestesista può decidere di somministrare preventivamente per via venosa una benzodiazepina (cioè un
blando sedativo) o un cosiddetto tranquillante maggiore, della famiglia
delle fenotiazine. Raramente, è necessario associare un antispastico intestinale (N-butilbromuro di joscina, Buscopan) se gli esami endoscopici
sono “operativi” ed è necessario che il viscere sia il più possibile fermo,
cioè non mosso dalla normale peristalsi.
La colonscopia, in particolare, è un’indagine che può presentare dei passaggi dolorosi dovuti allo stiramento dei mesenteri a causa della conformazione convoluta del viscere, di pregressi interventi chirurgici e di briglie
aderenziali oppure a causa della presenza di un’infiammazione della
mucosa o di diverticoli che possono rendere l’esame non facilmente tollerabile. Per questo tipo di esame è sufficiente la sedazione profonda in
respiro spontaneo indotta dal propofol. Può essere utile, a volte, utilizzare
farmaci antispastici.
Va comunque sottolineato che, ad oggi, nella maggior parte dei Centri di
Endoscopia Digestiva non è previsto un servizio anestesiologico dedicato
alle procedure endoscopiche e pertanto gran parte degli esami endoscopici (siano essi colonscopie o gastroscopie) vengono effettuati inducendo la
sedazione moderata del paziente.
La colonscopia nelle strategie di prevenzione del cancro del
colon
Il cancro del colon è il terzo più comune tipo di cancro diagnosticato sia
negli uomini che nelle donne, e la seconda più comune causa di morte da
cancro, con più di 55 000 morti all’anno solo negli Stati Uniti. Oltre alla
mortalità, risulta significativa anche la morbilità da cancro del colon e dal
suo trattamento (chirurgia, radioterapia, chemioterapia).
Lo screening del cancro del colon si è rivelato utile soprattutto per i casi
asintomatici e con una prognosi più favorevole. Il tasso di sopravvivenza a
5 anni è dell’80–90%, quando la neoplasia è confinata alla parete intestinale, del 40–60% quando vi è un coinvolgimento extra-parete loco-regionale, e meno del 5% in presenza di metastasi a distanza. Sebbene la diagnosi nelle fasi precoci spesso possa salvare la vita, la prevenzione del cancro del colon attraverso strategie di screening ha anche un grande impatto sulla mortalità, morbilità e sui costi associati alla gestione dei pazienti
affetti da questa patologia.
Per screening si intende l’identificazione di individui, apparentemente sani,
che più probabilmente possono avere una patologia misconosciuta, così da
essere selezionati per esami diagnostici più approfonditi, eventualmente
più invasivi e costosi, al fine di ottenere la diagnosi. La ricerca del sangue
occulto fecale è un classico esempio di procedura di screening e il risultato del test è spesso utilizzato per identificare quei pazienti che più probabilmente possono avere un polipo o un cancro del colon e quindi possono
essere selezionati per eseguire una colonscopia, che costituisce l’esame
diagnostico definitivo. Molte organizzazioni e società professionali hanno
pubblicato linee-guida pratiche sulle strategie di screening del cancro del
colon e le relative raccomandazioni basate solitamente solo sulla stima del
rischio individuale per cancro.
Poiché gli altri metodi sono, al confronto, meno efficaci, la colonscopia è
spesso utilizzata come indagine di screening, pur non essendone essa stessa un reale strumento. Se gli altri test di screening fossero più efficaci la
colonscopia dovrebbe essere riservata per una diagnosi definitiva oppure
per la rimozione terapeutica di polipi scoperti con altre procedure.
Pertanto, la colonscopia ha un ruolo centrale non solo per la potenzialità di individuare le lesioni, ma anche per la possibilità di asportarne
alcune nelle fasi precoci e di rimuovere i polipi adenomatosi che sono
considerati come lesioni pre-cancerose. Alcuni studi riportano la diminuzione del 40–50% dell’incidenza del cancro del colon nei soggetti
sottoposti a colonscopia [1]. Lesioni clinicamente rilevanti possono
essere solo raramente non diagnosticate alla colonscopia. Uno studio
recente ha dimostrato che, tra i soggetti con nessuna neoplasia colo-rettale a uno screening iniziale, la stima del rischio a 5 anni di insorgenza
del cancro del colon o di adenomi con segni di evoluzione neoplastica è
estremamente bassa [2].
Screening degli individui a rischio per età
Gli individui a rischio di cancro per età non hanno altri fattori di rischio
riconosciuti oltre all’età stessa. Lo screening è quindi raccomandato per gli
individui con età ≥50 anni, poiché l’incidenza di cancro del colon inizia ad
aumentare tra i 40 e i 50 anni di età. Dal momento che almeno il 75% dei
casi di cancro del colon insorge in individui a rischio per età, lo screening
in questa larga parte di popolazione potrebbe potenzialmente ridurre in
maniera sostanziale l’incidenza complessiva e la mortalità da cancro del
colon-retto.
Le linee-guida nella pratica clinica nei soggetti a rischio per età raccomandano la ricerca annuale del sangue occulto nelle feci e la colonscopia ogni
5 anni o entrambe le procedure in individui di ≥50 anni. La prassi di una
colonscopia ogni 10 anni in questi stessi soggetti costituisce una valida
alternativa di screening, sebbene non vi siano convincenti evidenze di efficacia. L’esame radiologico del clisma opaco a doppio contrasto può costituire un’alternativa diagnostica solo per quei soggetti in cui non può essere eseguita, per vari motivi, una colonscopia completa.
La colonscopia resta tuttavia una procedura invasiva, con un minimo ma
reale rischio di 1–2 complicanze ogni 2 000 esami (associate soprattutto
alle procedure eventualmente operative), ma la maggior parte dei pazienti riferisce un certo disagio soprattutto per le procedure legate a una corretta preparazione intestinale piuttosto che all’indagine di per sé.
Negli Stati Uniti, la US Preventive Services Task Force consiglia ai medici di
spiegare bene ai propri pazienti i rischi e i benefici derivanti da ogni procedura di screening e di convincerli a eseguirne almeno uno a scelta del
paziente [3]. Tuttavia, secondo molti opinion-leader, un approccio più
ragionevole sarebbe quello di raccomandare la colonscopia laddove possibile. Altre procedure diagnostiche emergenti (ad esempio la colonscopia
virtuale) o non sono ancora pienamente studiate e standardizzate oppure
non ancora pronte per un uso di routine nella pratica clinica, al di fuori dei
protocolli di ricerca e dei centri sperimentali selezionati.
Screening di individui ad alto rischio
Alcuni individui possono essere ad alto rischio di cancro del colon a causa
della propria storia personale o familiare. Una storia personale di polipi adenomatosi, cancro del colon o di malattia infiammatoria intestinale (ad
esempio retto-colite ulcerosa) richiede una sorveglianza endoscopica specifica a causa dell’aumentato rischio di cancro associato a queste condizioni.
Altri pazienti possono avere anch’essi un rischio aumentato di cancro per
una storia familiare (rischio familiare comune, poliposi adenomatosa familiare, cancro del colon-retto ereditario non-poliposico) e sono a rischio di
sviluppare polipi adenomatosi pre-cancerosi (Tabella 1). Le opzioni diagnostiche raccomandate per questa tipologia di pazienti variano dal semplice inizio dello screening in età precoce (con gli stessi esami utilizzati per
gli individui a rischio per età) all’aumento della frequenza dei controlli
colonscopici e, in qualche caso, ai test genetici.
Può la colonscopia virtuale sostituire la colonscopia ottica tradizionale?
La colonscopia virtuale (propriamente colonscopia tomografica computerizzata) rappresenta una procedura diagnostica non invasiva che permette
di esaminare il colon con immagini bi- e tri-dimensionali derivanti da una
tomografia computerizzata. Sebbene la colonscopia virtuale non richieda
sedazione, e necessiti complessivamente di un minor tempo di esecuzione,
essa prevede tuttavia la stessa preparazione intestinale richiesta per la
colonscopia convenzionale e la stessa insufflazione gassosa dell’intestino
che è spesso associata al disagio riferito dai pazienti durante una colonscopia ottica. Sebbene i dati non siano ancora complessivamente univoci,
la colonscopia virtuale può, in prospettiva, costituire una seria alternativa
alla colonscopia tradizionale, soprattutto per quanto riguarda lo screening
del cancro del colon.
I risultati di un recente trial dell’American College of Radiology Imaging
Network (ACRIN) hanno permesso di porre una serie di domande sia per i
medici che per i pazienti [4]. Sulla base dei dati derivanti da questo studio,
condotto in 15 centri diversi e su 2600 soggetti asintomatici di ≥50 anni,
la colonscopia virtuale raggiunge risultati accettabili in termini di sensibilità della metodica, ma piuttosto deludenti per quanto riguarda invece i
valori di specificità e valore predittivo positivo (Tabella 2). La specificità
infatti per la visualizzazione di polipi con diametro maggiore di un centimetro era dell’86% e il valore predittivo positivo era del 25%.
Ragionando su questi dati, la specificità dell’86% è sicuramente un incoraggiamento a utilizzare questa metodica per lo screening del cancro del
colon. Tuttavia, in 10 anni e con 3 esami effettuati una quota rilevante di
questi soggetti investigati con la colonscopia virtuale effettuerebbe anche
una colonscopia convenzionale per risultati falsamente positivi ottenuti
con la tecnologia radiografica. Tale quota di pazienti si aggiungerebbe alla
parte di pazienti che deve effettuare una colonscopia tradizionale perché
“veri” positivi alla colonscopia virtuale o perchè falsamente positivi per
lesioni di diametro inferiore a 1 cm. Tutto ciò risulterebbe in un enorme
incremento dei costi. Inoltre, anche il dato del valore predittivo positivo del
25% potrebbe costituire un problema, poiché pazienti con una colonscopia tradizionale negativa ma con colonscopia virtuale positiva potrebbero
essere indotti a eseguire nuovamente, a breve termine, la colonscopia virtuale per essere sicuri di non presentare lesioni a rischio.
D’altra parte, si sta molto discutendo sul significato dei polipi con diametro inferiore a 1 cm riscontrati alla colonscopia virtuale: secondo i fautori
della colonscopia virtuale dovrebbero essere ignorati o controllati con successive colonscopie virtuali. La letteratura suggerisce che i polipi con un
diametro di 6–9 mm hanno, approssimativamente, la probabilità dell’1%
di essere già neoplasie invasive al tempo della loro scoperta. Pertanto è
molto improbabile che, sebbene tali lesioni comportino una minima possibilità di essere pericolose, i pazienti o i medici che li abbiano in cura accettino l’idea di ignorarle oppure di controllarle nel tempo.
Da tutti questi dati si evince che siamo ben lontani dal potere affermare
che la colonscopia virtuale possa, ad oggi, sostituire la colonscopia convenzionale. In aggiunta, una serie di fattori legati al tipo di strumentazione adoperata per la colonscopia virtuale oppure al tipo di software utilizzato o al tipo di preparazione intestinale o di training specifico dell’operatore radiologo possono essere determinanti nell’ottenere risultati ancora
meno attendibili di quelli ottenuti dallo studio ACRIN.
Infine, dal punto di vista del paziente, vi sono dati che complessivamente
sono più favorevoli alla colonscopia convenzionale ottica rispetto a quella
virtuale (Tabella 3).
In definitiva, allo stato attuale vi è solo la certezza che la colonscopia virtuale possa rappresentare una valida alternativa alla colonscopia tradizionale per quei pazienti che non possono completare o sottoporsi a una
colonscopia convenzionale per una patologia ostruttiva nota del colon.
La capsula endoscopica
Da circa 6 anni è stata introdotta la video-capsula endoscopica come possibilità diagnostica per alcune patologie intestinali. Tale dispositivo, del diametro massimo di 2,5 cm, provvisto di un proprio apparato ottico, di batteria, di antenna e di trasmettitore, la cui progressione nel tratto gastrointestinale è favorita dalla normale peristalsi, viene facilmente deglutito a
Tabella 1. Strategia di screening del cancro del colon in individui con rischio familiare comune (dell’American Cancer Society)
Criteri di valutazione
Strategia
Un parente di primo grado con cancro del colon o con adenoma diagnosticato
a ≥60 anni di età
Un parente di primo grado con cancro del colon o adenoma diagnosticato a <60 anni
o due parenti di primo grado con cancro del colon a qualsiasi età
Un parente di secondo o terzo grado con cancro del colon
Stessi esami dei pazienti considerati a rischio per età (ricerca annuale del sangue occulto
nelle feci, la colonscopia ogni 5 anni o entrambe le procedure), ma effettuati a partire dai 40 anni
Colonscopia ogni 5 anni, a partire dall’età di 40 anni o da effettuare ad una età di 10 anni
più giovane di quella del caso più precoce presente in famiglia (quale delle opzioni sia applicabile)
Gli stessi criteri adoperati per i soggetti a rischio per età (ricerca annuale del sangue occulto
nelle feci, la colonscopia ogni 5 anni, o entrambe le procedure)
Tabella 2. Dati riportati dallo studio ACRIN. Da [4]
Grandezza dei polipi
Sensibilità
Specificità
Valore predittivo positivo
Valore predittivo negativo
≥5 mm
≥6 mm
≥7 mm
≥8 mm
≥9 mm
≥1 cm
65%
89%
45%
95%
78%
88%
40%
98%
84%
87%
35%
99%
87%
87%
31%
99%
90%
86%
25%
99%
90%
86%
23%
99%
Tabella 3. Esperienza riferita da pazienti che hanno effettuato diversi esami diagnostici per il colon. I questionari erano mirati a valutare il livello di accodo dei pazienti a specifiche domande: 1 =
in accordo totale; 3 = neutrale; 5 = in totale disaccordo. Da [5]
Dolore con la procedura
Preoccupato dalla procedura
Istruzioni difficile da seguire
Preparazione non piacevole
Procedura scomoda
Imbarazzante
Procedura ritenuta affidabile
Disponibilità a ripetere la procedura
Preoccupato dai risultati
Inconvenienti derivanti dalla procedura
Soddisfazione
Clisma opaco a doppio contrasto
Colonscopia convenzionale
Colonscopia virtuale
Significatività statistica
(P value)
2,90
3,06
4,22
2,77
2,26
3,74
1,59
2,08
3,22
3,08
2,11
3,7
3,22
4,22
2,67
3,46
4,06
1,61
1,78
3,03
3,30
1,81
3,02
3,45
4,25
2,69
2,62
3,95
1,54
1,90
3,57
3,33
1,94
0,0001
0,0001
0,94
0,07
0,0001
0,0001
0,53
0,0001
0,0001
0,0001
0,0001
Tabella 4. Indicazioni all’uso della video-capsula endoscopica
Indicazione
Commento
Sanguinamento occulto gastro-intestinale
Sospetto morbo di Crohn
Sospetta neoplasia del piccolo intestino
Sorveglianza delle sindromi poliposiche ereditarie
Valutazioni di anomalie di imaging del piccolo intestino ottenute con altre modalità diagnostiche
Valutazione da danni da farmaci sul piccolo intestino (FANS)
Malattia celiaca refrattaria alla terapia
Internazionalmente riconosciuta come l’indicazione principale
La seconda indicazione principale
digiuno con un semplice bicchiere d’acqua. Dopo due ore dall’inizio dell’esame, il paziente può bere e mangiare (moderatamente) e può svolgere le
consuete attività quotidiane. Sebbene non siano necessarie particolari procedure prima dell’ingestione della capsula endoscopica, secondo alcuni
studi effettuati recentemente un certo grado di preparazione intestinale ne
migliora le performance diagnostiche.
La video-capsula è in grado di catturare circa 60 000 immagini digitali
prima di essere normalmente eliminata con l’evacuazione. Per il medico
attualmente rappresenta un ausilio diagnostico di prima linea per le patologie del piccolo intestino. Per il paziente rappresenta un esame facile da
eseguire, sicuro, non invasivo, praticabile in ambulatorio.
Negli ultimi anni sono stati pubblicati circa 700 studi sulla video-capsula,
al fine di valutarne gli aspetti tecnici, l’affidabilità, la sicurezza e l’utilità
nelle diverse condizioni cliniche.
Le principali indicazioni diagnostiche della video-capsula sono elencate
nella Tabella 4. In sintesi, fin dalla sua introduzione la video-capsula endoscopica si è rivelata come la modalità diagnostica principale per quanto
riguarda l’imaging del piccolo intestino. Vi è ormai un certo grado di consenso che essa dovrebbe costituire un’opzione diagnostica di prima linea
nel sanguinamento occulto gastrointestinale capace, in questo caso, di
condizionare gli interventi diagnostici e terapeutici successivi. La videocapsula ha un considerevole valore diagnostico anche per il morbo di
Crohn o per le sindromi poliposiche ereditarie. Tuttavia, occorre sottolineare che la video-capsula non sostituisce in alcun modo le normali procedure diagnostiche endoscopiche come la comune gastroscopia o colonscopia.
Poche sono le complicanze legate a questo importante dispositivo diagnostico. Tra queste, la più importante è la mancata eliminazione della videocapsula con l’evacuazione a causa di riduzioni significative del calibro del
viscere (sindromi sub-occlusive, come quelle che si possono avere con il
morbo di Crohn o con i tumori dell’apparato gastrointestinale). In questi
casi l’opzione chirurgica potrebbe rimuovere la capsula e contemporaneamente la causa della sua ritenzione.
Screening e sorveglianza endoscopica per l’esofago di Barrett in
pazienti con reflusso gastro-esofageo
L’esofago di Barrett è definito dal riconoscimento endoscopico di epitelio
di tipo intestinale nell’esofago (generalmente nell’esofago distale) e dalla
successiva conferma istologica di metaplasia intestinale sulle relative biopsie. Tale lesione viene classificata in base all’estensione dell’area metaplasica: pazienti con segmenti di metaplasia intestinale ≥3 cm hanno il tradizionale (o long segment) esofago di Barrett, mentre pazienti con un’estensione di meno di 3 cm hanno il cosiddetto esofago di Barrett tipo
short-segment. L’esofago di Barrett è una lesione considerata a rischio di
cancro (adenocarcinoma dell’esofago) che si ritiene in aumento negli ultimi anni e la cui incidenza è approssimativamente dello 0,5% all’anno nei
pazienti portatori di esofago di Barrett.
Attualmente, le questioni inerenti lo screening e la sorveglianza dei pazienti con esofago di Barrett sono molto controverse. Sebbene siano state pro-
poste delle linee-guida, esse sono variabili e non basate sull’evidenza. Per
screening si intende quando effettuare l’esame endoscopico (esofagogastro-duodeno-scopia) ai fini della diagnosi dell’esofago di Barrett e/o
dell’adenocarcinoma esofageo. Per sorveglianza si intende invece il monitoraggio endoscopico dei pazienti con esofago di Barrett riconosciuto, ai
fini della precoce individuazione dei cambi displasici e del cancro.
Per quanto riguarda lo screening, le principali linee-guida, come quelle
dell’American College of Gastroenterology (AGA), generalmente dichiarano
che “i pazienti con sintomi da malattia da reflusso cronica sono quelli più a
rischio di sviluppare un esofago di Barrett e dovrebbero pertanto effettuare
delle endoscopie”. Tale asserzione, tuttavia, non definisce cosa si intende
esattamente per malattia da reflusso “cronica” né definisce il valore di ulteriori fattori di rischio (ad esempio obesità, sesso, età, razza) che dovrebbero indirizzare all’endoscopia. In ogni caso, le raccomandazioni dell’AGA non
incoraggiano lo screening endoscopico in senso stretto [6].
Il discorso, invece, è diverso per quanto riguarda la sorveglianza endoscopica di pazienti con un esofago di Barrett già diagnosticato. In questi
casi, infatti, il grado di displasia dovrebbe determinare l’intervallo delle
successive endoscopie di sorveglianza. I pazienti senza displasia sulle
biopsie effettuate in due successive endoscopie dovrebbero essere sottoposti a endoscopie di controllo (con biopsie multiple sulle aree metaplasiche) ogni 3–5 anni. Per pazienti con una displasia di basso grado
riscontrata all’esame istologico delle biopsie effettuate sulle aree metaplasiche è invece raccomandabile una sorveglianza endoscopica annuale. Nei pazienti con un alto grado di displasia dovrebbe essere tentata
una resezione della mucosa e il grado di displasia dovrebbe essere attentamente valutato da un istopatologo esperto. La rimozione della mucosa
per via endoscopica è considerata attualmente una valida alternativa
all’opzione chirurgica in questo tipo di pazienti.
Infine, l’endoscopista dovrebbe opportunamente discutere di queste problematiche con i pazienti e questi ultimi dovrebbero comprendere che non
esistono ancora dei dati certi sullo screening e sulla sorveglianza dell’esofago di Barrett.
Bibliografia
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3. US Preventive Services Task Force (2002) Screening for colorectal cancer:
recommendation and rationale. Ann Intern Med 137:129–131
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5. Bosworth HB, Rockey DC, Paulson EK et al (2006) Prospective comparison of
patient experience with colon imaging tests. Am J Med 119:791–799
6. Sharma P, McQuaid K, Dent J et al (2004) A critical review of the diagnosis and
management of Barrett’s esophagus: tha AGA Chicago Workshop.
Gastroenterology 127:310–330
IMPRESSUM
Inserto alla rivista "Internal and Emergency Medicine" Vol. 4 Num. 1
Editore: Springer-Verlag Italia Srl, Via Decembrio 28, 20137 Milano
Stampa: Grafiche Porpora, Segrate (MI) – Copyright © SIMI, Società Italiana di Medicina Interna

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