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Susanna Zatti
Artisti, committenti e collezionisti a Pavia nell’Ottocento
e nel Novecento. Le raccolte di pittura moderna
dei Musei Civici pavesi
el 1976, con il progetto della grande mostra
“Pavia. Cent’anni di cultura artistica”, allestita nel Castello Visconteo, Rossana Bossaglia inaugurava la riscoperta e la prima valorizzazione della produzione di pittura e scultura pavese tra metà Ottocento e i primi decenni del Novecento e, con i saggi e le schedature del relativo
catalogo1, dava avvio e impulso a una serie di indagini documentarie, di studi monografici, di riflessioni critiche che, nel corso di oltre un trentennio, hanno visto far piena luce su artisti – protagonisti e comprimari – della scena locale.
In particolare la meritoria impresa del 1976 mirava a ricostruire ed evidenziare premesse, storia, ruoli ed esponenti della Civica Scuola di Pittura sorta
nel 1842 a complemento dell’insegnamento di Disegno e Incisione, già esistente presso lo Stabilimento di Belle Arti fondato dal marchese Luigi Malaspina, e proseguita, con alterne fortune ma senza soluzione di continuità, sino al 1934.
Artefice primo della nascita dell’Accademia pavese
era stato il letterato, filosofo e critico militante Defendente Sacchi2, che nel proprio testamento aveva destinato una cospicua somma all’istituzione, nella sua città natale, di un corso di pittura che promuovesse ideali formali di composizione rigorosa,
sobria nel colore e castigata nel disegno, di chiara
evidenza e semplicità espressiva e, nel contempo,
di carattere didascalico e civile: una pittura, dunque, portatrice di quei valori, etici e morali innanzi tutto, che il Sacchi aveva sempre sostenuto nei
suoi scritti e condiviso con Giuseppe Mazzini.
Dichiaratosi indisponibile Enrico Scuri, già impegnato nella sostituzione del Diotti all’Accademia Carrara di Bergamo (quella che fu il modello per la
nuova istituzione pavese), la scelta della Commissione cittadina cadde su Giacomo Trécourt, giovane pittore bergamasco di robusta preparazione e di
ampi orizzonti culturali, che avrebbe assicurato alla Scuola una direzione non stretta nei confini pro-
N
vinciali, ma anzi aperta alle sollecitazioni e novità
pittoriche che in Lombardia accompagnavano e seguivano l’esperienza hayeziana e i dibattiti sul romanticismo storico.
La chiamata a Pavia di Trécourt quale direttore e professore di pittura segnò non solo le vicende interne
alla Scuola per un quarantennio, ma anche, di fatto, l’affermarsi del gusto artistico, le scelte nell’indirizzo collezionistico locale e il carattere del rapporto di committenza fra gli artisti e il pubblico. Innanzi
tutto perché il maestro fu presenza costante e assidua nei locali della sede nell’ex-convento di San Francesco da Paola (dove anche abitava) e qui ospitò, oltre ai suoi fratelli – Luigi, forbito e nitido pittore di
gusto Biedermeier, e Francesco, vedutista di non eccezionale talento, ma accurato e piacevole –, altri amici e colleghi tra i quali, più volte, Giovanni Carnovali, il Piccio, con il quale aveva condiviso un illuminante viaggio di studio a Roma nel periodo di esordio del soggiorno pavese, e di cui apprezzava la produzione, sensibilissima e fin ardita, tanto da collezionarne privatamente alcuni esemplari. Fu quest’ultimo, assertore di una poetica solo apparentemente lontana, e fin antitetica, dal “classicismo” trecourtiano, perché tutta colore e sentimento, a infiammare, entro la metà degli anni cinquanta dell’Ottocento, le menti e i cuori dei due giovani allievi Federico Faruffini e Tranquillo Cremona e a indirizzarli verso la scoperta di un linguaggio sperimentale, eminentemente cromatico e luministico: Faruffini approdando a breve a una sintesi realistica di
grande evidenza formale e dai timbri smaglianti, Cremona giungendo poco dopo a oltrepassare il limite
del finito nello svaporamento scapigliato.
Nel giro di un decennio, dunque, la Scuola pavese era venuta affermando una linea di ricerca e di
didattica per certi versi autonoma, che prendeva
sempre più le distanze da Milano e dall’Accademia
di Brera per puntare sul valore civile ed edificante della pittura, espressa in forme originali e, pre13
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valentemente, in iconografie di carattere storico e
di ritratto.
Ancora, fu anche grazie al tramite di Giacomo Trécourt e delle sue conoscenze tra mecenati d’arte, benefattori, uomini di cultura e rappresentanti del ceto altoborghese che pervennero a Pavia raccolte di
dipinti non esclusivamente d’ambito locale; raccolte
legate, con eredità, lasciti e donazioni, alla Scuola
di Pittura così da costituire una Pinacoteca, allestita nei locali superiori della settecentesca chiesa
di San Francesco da Paola, attigua al convento, e
poi, a seguito della permuta avvenuta nel 1924, riversate nel patrimonio dei Musei Civici e infine trasferite al Castello Visconteo.
È il caso della collezione di Gerolamo Novati, formata esclusivamente da quadri di autori contemporanei e giunta alla Scuola in esecuzione del testamento del 1853. Medico e filantropo, amico di
Defendente Sacchi e suo collaboratore nell’impresa editoriale dei Classici Metafisici, nel 1836 il Novati era stato chiamato a Bergamo quale direttore
dell’Ospedale dei Colerosi e allora aveva conosciuto Giacomo Trécourt3. Nel capoluogo orobico, grazie al consiglio e all’amicizia del pittore Francesco
Ferrari (che fu poi assistente di pittura alla Scuola
pavese) e dei fratelli Trécourt, aveva acquistato opere d’arte per la sua raccolta, comprendenti alcuni
bei paesaggi di Costantino Rosa e di Pietro Ronzoni, scene mitologiche e di genere, tra cui l’Orfeo ed
Euridice di Enrico Scuri e Il mendicante cieco dello stesso Ferrari, e una serie di ritratti eccellenti di
Giacomo Trécourt, tra i quali quello suo e di sua
moglie Beatrice Lovati Novati, datati 1843, esemplificativi di una ritrattistica non retorica né declamatoria, parsimoniosa negli accessori e sottilmente psicologica.
Fervente ammiratore della scuola pittorica bergamasca, come si diceva, il Novati aveva tempestivamente riconosciuto la novità espressiva del Piccio
e la sua genialità nell’interpretazione del rapporto
uomo-natura, così da accaparrarsi, tra gli altri dipinti, la Fuga in Egitto e l’Arianna abbandonata,
splendidi esempi di fusione armonica e indissolubile tra ambiente e storia. Il corpo ambrato di Arianna adagiata sul drappo steso sul prato, al limitare
di un bosco davanti al quale si apre il mare, così
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Artisti, committenti e collezionisti a Pavia nell’Ottocento e nel Novecento...
come le dolci figurette della Sacra Famiglia – la Madonna col Bambino sull’asinello e un San Giuseppe che le segue con fatica – immersi in un paesaggio che unisce ricordi del Lorenese a influenze corottiane, sono perfetti esempi di un concetto panico del creato che coglie il respiro e il palpito della
natura attraverso una resa pittorica che sfalda i contorni delle forme e fa vibrare il colore.
Ancora della raccolta Novati – che pur dimorante
a Bergamo ricordava con affetto la terra d’origine
– faceva parte una bella veduta della città ticinese, opera del poco noto Francesco Trécourt, ingenuo ma non scadente rappresentante di quel filo-
Giacomo Trécourt
Ritratto di Beatrice Lovati Novati, 1843
olio su tela, 63,5 × 55 cm
Quadreria dell’Ottocento
Musei Civici di Pavia
Giacomo Trécourt
Ritratto di Gerolamo Novati, 1843
olio su tela, 63,5 × 55 cm
Quadreria dell’Ottocento
Musei Civici di Pavia
ne fecondo della pittura di metà Ottocento che va
sotto il nome di “pittura urbana” e di cui Giuseppe Canella fu un maestro cui il nostro evidentemente si ispira.
Fu questa omogenea collezione, ricca di ventisei dipinti databili tutti entro la metà del secolo, a costituire il primitivo nucleo della Galleria della Scuola di Pittura, andandosi a unire ai pochi oggetti
d’arte già legati dal Sacchi – il Galileo in carcere di
Cesare Benevello Della Chiesa, forse acquisito all’Esposizione annuale di Brera del 1838, e
l’acquerello Piazza del Duomo a Cremona di Giovanni Migliara, donato dall’autore al suo commen-
tatore nel 1830 – e alla raccolta del marchese Francesco Belcredi4, pervenuta a seguito della morte del
donatore, nel 1853, e comprendente, insieme con
oggetti vari di arti minori, il bel dipinto di Francesco Fidanza, dal gusto neoclassico evidente nella resa di un paesaggismo ancora fortemente idealizzato, tre gustose scenette di genere dipinte su rame
da Ignazio Manzoni e il bel dipinto di Costantino
Borsa, d’impostazione e iconografia hayeziana, raffigurante una seducente e insieme struggente immagine della Malinconia.
Ma il collezionista e mecenate riconosciuto già ai
suoi tempi quale “il più largo e intelligente fautore delle Belle Arti” in Pavia5 era Giuseppe Marozzi, discendente di un’aristocratica famiglia imparentata con i Bellisomi, che almeno dal XVIII secolo aveva raccolto, e anche messo in disponibilità
pubblica, oggetti scientifici, statue antiche, maioliche nonché documenti araldici.
Frequentatore assiduo del bel mondo milanese, della Scala e dei circoli letterari metropolitani6, il Marozzi bene incarna, nella società e nella cultura cittadine risorgimentali, la figura dell’intellettuale animato da ideali democratici e sostenitore di un’arte
impegnata in senso civile; a tale scopo egli aveva
destinato buona parte dei suoi larghissimi mezzi finanziari per favorire e sorreggere le arti e gli artisti del suo tempo.
I dieci dipinti appartenenti alla raccolta, pervenuti alla Scuola di Pittura nel 1919 per dono della figliastra, Maria Pozzi Marozzi7, costituiscono solo una
parte della ricca e scelta collezione d’arte ottocentesca che il patrigno conservava nella casa pavese
sulla contrada di San Romano: mancano certamente
la Vendetta in un harem di Giacomo Trécourt, le due
versioni del Cristoforo Colombo che volge in mente
i primi progetti sulla scoperta dell’America di Mauro Conconi, il Sicario disarmato dalle preghiere della moglie e la Testa di crociato di Pasquale Massacra, e altri dipinti che il facoltoso e raffinato amatore si era procurato direttamente presso gli artisti,
in occasione delle annuali esposizioni braidensi o
delle visite ai loro studi, o che aveva espressamente commissionato, o che aveva acquistato tramite intermediari per non comparire.
Con ogni probabilità – perché ignoriamo la consi15
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Artisti, committenti e collezionisti a Pavia nell’Ottocento e nel Novecento...
Giovanni Carnovali detto il Piccio
Arianna abbandonata, 1843-1845 circa
olio su tela, 38,5 × 48,5 cm
Quadreria dell’Ottocento
Musei Civici di Pavia
stenza numerica e qualitativa della raccolta – i “capolavori” erano costituiti dall’Accusa segreta e dalla Signora di Monza, dipinti dai due protagonisti
della scena pittorica milanese di metà Ottocento:
Francesco Hayez, decano dei maestri di Brera, capo indiscusso della scuola romantica, punto di riferimento stilistico e iconografico per le giovani generazioni di artisti liberali, e Giuseppe Molteni, forse oggi non così celebre, ma alla sua epoca pittore ricercatissimo dall’aristocrazia lombarda e mitteleuropea che amava l’eleganza e la dovizia di particolari preziosi dei suoi ritratti “istoriati”. Nel 1847
Marozzi aveva commissionato a entrambi un quadro di figura, impegnativo per quanto riguardava
il soggetto – in ambedue i casi di derivazione letteraria – e le dimensioni, di 1,50 per 1,20 metri:
due donne enigmatiche, di grande avvenenza e di
morbosa sensualità, la cui vicenda era accomuna16
Giovanni Carnovali detto il Piccio
La fuga in Egitto, 1849
olio su tela, 74,5 × 115 cm
Quadreria dell’Ottocento
Musei Civici di Pavia
l’ambito del proprio stesso nucleo familiare; e ancora le due grandi composizioni di soggetto patriottico e civile –La madre di Ricciardino Langosco in cerca del cadavere del figlio e Sant’Ennodio
libera la sorella dalle mani dei soldati di Odoacre
– commissionate da Marozzi rispettivamente a Pasquale Massacra e a Paolo Barbotti a una decina
d’anni di distanza l’una dall’altra: delle medesime
dimensioni ed entrambe ispirate a episodi di storia locale medievale, raccontati dal memorialista pavese Pietro Carpanelli.
Mecenate e pigmalione di talenti pittorici naturali,
poco educati al vivere sociale e poco versati alle lettere, i quali tramite il suo incoraggiamento e la sua
guida danno forma e figura a valori morali e a istanze civili, Marozzi strinse uno specialissimo rapporto con Pasquale Massacra, l’artista pavese talentoso e sfortunato, nato nel 1819 da famiglia di povere condizioni, messo a garzone da un decoratore
d’insegne e qui “scoperto” da un gruppo di notabili, che per lui istituirono una borsa di studio affinché frequentasse la Scuola di Pittura.
Nell’estate 1845 Marozzi aveva incaricato un mediatore dell’acquisto, per due marenghi, di una Testa di crociato che il Massacra avrebbe presentato
all’annuale mostra di Brera. Si era avviato allora
un rapporto umano strettissimo e anche un contratto economico, secondo il quale, in cambio di
opere, Marozzi avrebbe fornito al giovane pittore
non soltanto quanto necessario materialmente per
la produzione – l’affitto dello studio, le tele, i colori, i modelli, la legna per il camino – ma anche
i riferimenti culturali e letterari per i soggetti da
svolgere, nonché i suggerimenti formali e i consigli stilistici per condurre al meglio le composizioni. Consigli che – solo tramite il Marozzi – Francesco Hayez era stato più di una volta disposto a
dispensare al giovane collega, che lo aveva visitato nello studio a Milano.
Insofferente della disciplina accademica e degli insegnamenti di Trécourt, trascinato da un espressionismo delle forme e da una carica di sperimentalismo cromatico potenti e originali, Massacra aveva presto disertato le aule della locale Accademia
ta da un forte senso di colpa, avendo Maria appena denunciato al Tribunale dell’Inquisizione veneziano l’amante che l’aveva tradita8, ed essendo
Gertrude rea e complice di un amore peccaminoso e di un tradimento iniquo.
Le due ragguardevoli tele, dotate di una medesima elaborata cornice in stucco dorato, si dovevano affrontare nel salone di casa Marozzi, costituendo un vero pendant, cui corrispondevano altri ideali accoppiamenti: i due dipinti opera di Trécourt – l’Autoritratto in costume orientale e la Vendetta in un harem – simili oltre che per le misure
anche per la tematica orientalista e la forbitezza formale e cromatica; le due struggenti scene da romanzo storico Piccarda Donati fatta rapire dal fratello Corso, opera di Lorenzo Toncini, e Adelaide
di Borgogna liberata dal carcere, di Felice De Maurizio, protagoniste due vittime di violenza nel17
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Francesco Hayez
Accusa segreta, 1847-1848
olio su tela, 153 × 120 cm
Quadreria dell’Ottocento
Musei Civici di Pavia
Federico Faruffini
La battaglia di Varese, 1862
olio su tela, 145 × 290 cm
Museo del Risorgimento
Musei Civici di Pavia
e proseguito da geniale autodidatta il suo percorso
creativo, sempre più distratto dalla divorante passione patriottica che lo avrebbe condotto a morire,
per mano austriaca, a soli trent’anni: un talento il
suo che, se avesse avuto il tempo di esprimersi appieno, lo avrebbe portato ai vertici della ribalta artistica non solo lombarda, come aveva vaticinato lo
stesso Hayez.
Sulla stessa linea di grande autonomia stilistica e
libera forza espressiva si colloca l’esperienza artistica del ribelle Federico Faruffini, “allievo dell’Accademia di Pavia” – come orgogliosamente ancora si presentava nel 1866 nel catalogo dell’Esposizione di Parigi – a partire dal 1851 e sino al
18569. Pavia, “sua dilettissima patria”, era stata la
città delle esperienze sentimentali e culturali più
profonde, dei rapporti sinceri e duraturi con i collezionisti – da Pietro Carpanelli a Vincenzo Gola,
da Carlo Francesco Reale a Carlo Magenta –, delle letture appassionate di Dante e di Goethe condivise con i compagni universitari, primo tra tutti
Ernesto Cairoli, amico fraterno, suo committente
della celebre Battaglia di Varese e tramite per
l’accoglienza del pittore nella cerchia più esclusiva della società pavese, quella dei professori universitari, pubblici amministratori e intellettuali riformatori, che furono suoi sostenitori anche nella suc18
cessiva, breve, esperienza artistica condotta tra Milano, Parigi, Roma e Perugia, dove morì suicida a
soli trentasei anni.
Un notevole arricchimento del patrimonio della Civica Scuola, sotto il profilo sia della quantità sia della qualità, fu determinato dall’acquisizione, nel
1892, di un nutrito gruppo di opere d’arte contemporanea raccolte da Carlo Francesco Reale, conservatore dal 1874 dello Stabilimento di Belle Arti Malaspina; nell’inventario redatto dal pittore Pietro Michis comparivano più di duecento quadri, di
Natale Schiavoni, di Gaetano Fasanotti, di Carlo
Arienti, dell’ottimo Cherubino Cornienti, di Massacra e Faruffini, e poi le migliori testimonianze della cultura figurativa locale del secondo Ottocento,
da Achille Savoja ad Ezechiele Acerbi.
Pietro Michis, pittore milanese succeduto a Trécourt
nella direzione della Scuola di Pittura dal 1880 sino alla fine del secolo, era stato autore prevalentemente di soggetti storici, ma si era guadagnato il favore del collezionismo cittadino grazie a quadretti
e bozzetti di genere, piccoli paesaggi di montagna
e di marine, vedute veneziane. Ezechiele Acerbi era
stato esponente non secondario del filone del cosiddetto “impressionismo lombardo”, quel linguaggio che, almeno a partire dall’ultimo quarto del XIX
secolo, aveva sostituito, alla composizione disegna19
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ta e colorita con stesure uniformi e unite, il tocco
di pennellate ricche di effetti luministici: una pittura spedita e abbreviata che non indugia sulla descrizione del particolare, che non chiude le forme
profilandole ma cattura l’impressione subitanea dell’occhio e la traduce con immediatezza sulla tela,
attraverso vibranti tratteggi, virgole succose, filamenti e spatolate di tinte vivacemente accostate e
ricche di effetti materici.
Maestro di mano sensibile e di felicità creativa, frequentatore dell’ambiente artistico milanese e partecipe a esposizioni nazionali di rilievo, Acerbi fu
il riconosciuto caposcuola del paesaggismo pavese
dei decenni a cavallo tra XIX e XX secolo, e al suo
naturalismo tipicamente lombardo, schietto e molto comunicativo, si ispirò la generazione dei più giovani Erminio Rossi, Antonio Oberto, Romeo Borgognoni, Oreste Albertini, Primo Carena e del suo
stesso figlio Mario. La loro produzione, in differenti
modi pervenuta alla Scuola – tramite i diversi Premi organizzati annualmente per i saggi finali degli
allievi più meritevoli, in particolare i Premi Frank,
Cairoli, Lauzi, o grazie a donazioni degli stessi autori e dei loro collezionisti, o per acquisti decisi a
scopo didattico – e, successivamente al 1934, legata
ai Musei, determinò la nutrita consistenza del patrimonio civico di arte “moderna”, dove le migliori testimonianze della cultura figurativa locale, specialmente significative per i rapporti con la storia,
i temi, i protagonisti del mondo letterario e sociale pavese, ben si equilibrano con una rappresentatività dell’arte nazionale, come si è visto sopra, di
assoluta qualità e valore estetico10.
Malgrado l’esperienza artistica vissuta anche in ambito metropolitano, e malgrado il favore larghissimo della committenza locale – la quale come teneva ad avere in casa un’opera dello zio Pasquale
Massacra così non rinunciava a possedere almeno
una tavoletta del nipote Ezechiele –Acerbi non risultò vincitore al concorso, indetto nel 1905, per
la direzione della Scuola di Pittura, essendosi ritirato Pietro Michis e dopo un affidamento temporaneo a Carlo Sara; gli fu preferito il fiorentino Giorgio Kienerk, di formazione macchiaiola (era stato
allievo di Telemaco Signorini), che, in virtù della
cultura aggiornata in direzione simbolista e del cur20
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riculum anche internazionale, dava maggiori garanzie di una conduzione della Scuola – in quegli
anni in crisi d’identità circa le sue funzioni – di non
angusti orizzonti e al passo con i tempi11.
Pittore, scultore e – nella fase giovanile – soprattutto grafico dalle spiccate connotazioni moderniste, Kienerk impresse una svolta significativa all’insegnamento e all’organizzazione dell’Accademia,
ne curò e incrementò il patrimonio didattico, tramite ad esempio la dotazione di una buona raccolta
di modelli statuari in gesso, promosse restauri sui
dipinti più antichi, attuò insieme con il direttore Renato Soriga la permuta delle raccolte tra il Museo
e la Scuola, mise al bando il soggetto storico obbligatorio per i concorsi-premio, favorì l’acquisizione
di dipinti di giovani e promettenti allievi allo scopo di promuovere l’arte contemporanea e, allo stesso fine, l’organizzazione di mostre temporanee all’esterno, in particolare nei saloni superiori dello storico e centralissimo Caffè Demetrio.
Tra i collezionisti che risposero alle sollecitazioni
del Maestro a ornare i propri salotti con quelle iconografie che, a partire dalle esperienze impressioniste francesi e macchiaiole italiane per giungere
alle tematiche divisioniste, avevano previlegiato il
paesaggio, e la figura nel paesaggio, quale campo
specialmente fertile e idoneo a sperimentare l’uso
dei colori e le tecniche di giustapposizione e di frammentazione della luce, era stato Giuseppe Cortese,
medico e pubblico amministratore, che a Pavia aveva intrecciato la passione politica con quella collezionistica, raccogliendo dipinti e monete provenienti
da tutto il mondo: con il suo lascito, pervenuto ai
Musei nel 1960 si sono acquisiti, insieme con molte opere di artisti locali (prediletti Borgognoni e Rossi), saggi della scuola toscana e veneta (quadri di
Fragiacomo, Ciardi, Lomi) e poi dipinti scelti sul territorio lombardo e piemontese12. Innanzi tutti, il Cortese entro il 1936 aveva assicurato alla propria collezione un vero capolavoro, il trittico L’Enigma umano eseguito da Giorgio Kienerk nel 1900, in piena
stagione liberty, prima del trasferimento a Pavia: le
tre intriganti e seducenti figure femminili che simboleggiano il Dolore, il Silenzio e il Piacere costituiscono il manifesto conclusivo dell’esperienza internazionale dell’artista, che raccoglie e compone
Scorci dell’allestimento della Quadreria
dell’Ottocento ai Musei Civici di Pavia
IN NERO
IN NERO
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in sintesi tutti gli spunti iconografici e gli stilemi formali anticipati nella ricchissima produzione di illustratore per le varie riviste, da “Italia ride” a “Novissima”.
Ancora il Cortese aveva comperato – ritenendolo
senz’altro autografo – il piccolo tondo della Veduta di Volpedo attribuito a Giuseppe Pellizza e databile entro il 1896: tutta giocata sulle variazioni cromatiche del profilo del paese, visto in controluce al
tramonto, la tavoletta potrebbe essere identificata
con il bozzetto che il pittore descrive, proprio nel
1896, a un suo corrispondente, affinché quello si
faccia “un concetto della mia ultima evoluzione nella tecnica che ha per iscopo di trarne profitto dal
sistema divisionista senza che all’occhio sia troppo
appariscente”13.
L’attuale Quadreria dell’Ottocento dei Musei Civici, dal 2000 nuovamente ordinata e allestita nelle
sale superiori del Castello Visconteo14, è dunque
frutto dei progressivi accrescimenti del nucleo originario di dipinti raccolti, a partire dalla metà del
XIX secolo, dalla Scuola di Pittura e allora esposti nella galleria della chiesa di San Francesco da
Paola: alla sua formazione concorsero, con apporti materiali e morali, collezionisti, mecenati, intellettuali illuminati, conservatori e cultori d’arte, professionisti e pubblici amministratori così che il percorso di svolgimento della pittura – dal tardo neoclassicismo di Fidanza, attraverso il pieno romanticismo di Massacra e Molteni e il realismo di Faruffini, fino al simbolismo di Kienerk e al naturalismo di Acerbi – coincide ed è espressivo in larga parte delle passioni civili, delle scelte morali, delle tendenze estetiche, delle letture e delle predilezioni iconografiche della società lombarda e pavese lungo tutto un secolo.
I paesaggi – si diceva sopra – sono quelli che con
maggior frequenza già ricorrono nei lasciti e nelle
donazioni acquisite alle pubbliche collezioni nella
seconda metà dell’Ottocento, in conformità a un gusto che entro quella data subentra in Lombardia a
quello per le rievocazioni storiche e letterarie. Per
lo più di non impegnativi formati, di cromia accattivante ed esteticamente piacevoli, dunque adatti all’arredo di un interno borghese, talora suggestivi ed evocativi, talaltra più francamente veristi
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perché condotti en plein air, comunque sempre di
immediata godibilità e leggibilità, i soggetti di paesaggio rappresentano anche una buona parte della prestigiosa raccolta d’arte regalata alla Città nel
2001 da Carla e Giulio Morone e che, per consistenza quantitativa e qualitativa, nonché per espressa volontà dei donatori, è andata a costituire una
sezione a sé stante dei Musei Civici15.
Paesaggi, si diceva, e insieme figure, quasi esclusivamente femminili, che si susseguono in una galleria muliebre di grande fascino e seduzione, a partire dall’esotica e imponente portatrice d’acqua algerina di Lazerges, che nel 1881 era comparsa al
Salon di Parigi, per proseguire con la delicata e diafana giovinetta dipinta “col fiato” da Ranzoni e con
le morbide e fulve modelle di Zandomeneghi, e
giungere all’intensa e vitalissima donna tra i fiori
di Nomellini. Accanto a loro, che si individuano quali espressioni stilisticamente diversificate – non insensibili ai più aggiornati modelli d’oltralpe e in linea con l’evoluzione del linguaggio pittorico, dalle prove scapigliate al postimpressionismo, al recupero dei valori plastici nel Novecento – però tutte affini nel gusto per le belle immagini, mondane
o intime ma sempre felicemente rappresentative della società della belle époque, si allineano ritratti e
figure più ricollegabili alla pittura verista, di genere e all’attenzione per tipologie regionali, del mondo rurale e popolare, quali le contadine e pastorelle
di Milesi e di Michetti, e le lavandaie di Tommasi.
Frequentatori delle gallerie milanesi e ben inseriti in una cerchia di mercanti e intenditori d’arte
lombardi che con loro condividevano un interesse quasi esclusivo per la pittura di fine Ottocento,
i coniugi Morone, pavesi per nascita e per formazione culturale nonché per l’attività professionale
(per lui di illustre clinico), avevano sviluppato, nel
corso di cinquant’anni di vita comune, una passione
crescente per l’arte e la predilezione da un lato per
un periodo ben individuato e circoscritto, quello
tra il realismo di pieno Ottocento e gli esiti divisionisti e simbolisti entro il primo ventennio del Novecento, dall’altro per accattivanti iconografie
borghesi, non intellettualistiche né enigmatiche, ben
consone alla destinazione privata nella quadreria
del salotto casalingo.
Giovanni Segantini
La falconiera, 1879-1880
olio su tela, 144 × 102 cm
Collezione Morone
Musei Civici di Pavia
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Niente affatto interessati all’arte loro contemporanea né agli sperimentalismi dell’avanguardia di primo Novecento (si ricorda come avessero presto permutato delle Bottiglie di Giorgio Morandi, regalate loro dalla moglie del critico Lionello Venturi, perché non affini al loro gusto e alla linea della loro
collezione), a partire dagli anni cinquanta avevano indirizzato le loro scelte su una produzione pittorica che, in quei primi decenni della formazione della raccolta, non andava di moda, non godeva del favore del mercato, non suscitava larga attenzione nella critica se non limitatamente ad alcuni artisti eccellenti.
Avevano dapprima acquistato, tra gli altri, Il saluto di Luigi Conconi e La preghiera di Ambrogio Alciati, poi il Gioco di nubi di Daubigny e Sotto l’ombrellino di Antonio Rizzi: opere di artisti
sconosciuti ai più, scovati in magazzini pieni di
ciarpame.
Poi il contatto che consentì loro di accrescere, qualificare e dar valore alla loro collezione fu quello
con Maria Sommaruga, moglie dal 1904 di Ulisse
Caputo – un buon pittore di origine salernitana, anche musicista e con interessi filosofici, che dal 1899
viveva a Parigi, nell’ambiente degli artisti italiani
vicini agli impressionisti – e figlia di Angelo, personaggio di spicco nella cultura letteraria e figurativa italo-francese dei decenni a cavallo del secolo. Frequentatore abituale degli studi parigini di
Boldini, De Nittis e Zandomeneghi, apprezzato da
galleristi e critici italiani (sopratutti Vittorio Pica)
e francesi, Sommaruga ebbe il merito di diffondere e far conoscere in patria le opere di quei maestri che Paul Durand-Ruel, il celebre mercante degli impressionisti, aveva raccolto nel corso degli ultimi decenni dell’’800. In particolare grande estimatore di Zandomeneghi – del quale aveva favorito e in parte realizzato la mostra monografica nell’ambito della Biennale veneziana del 1914 – contribuì a decretare il successo commerciale del pittore presso il pubblico dei collezionisti lombardi
facendo affluire, nel suo studio milanese di via Corridoni, moltissime opere provenienti e certificate
dalla galleria parigina.
Rientrata in Italia dopo la morte del marito, Maria Sommaruga aveva proseguito, in forma priva24
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ta”, di respiro internazionale, i Morone non avevano però disdegnato la cultura figurativa locale, sia
quella espressa dai maestri del XIX secolo, sia quella loro contemporanea ma esemplata su modelli stilistici tradizionali, ancora ottocenteschi, e legata al-
Bossaglia 1976.
Erudito, filosofo e narratore, il Sacchi (nato a Siziano di Pavia nel 1796) aveva intrapreso l’attività di commentatore ufficiale dell’arte a lui contemporanea e di recensore
delle mostre a partire dalla metà degli anni venti dell’Ottocento: dalla visita agli studi e alle esposizioni aveva tratto molti spunti per riflessioni anche teoriche pubblicate
in numerose riviste. Nel testamento aveva
disposto che alla sua morte, avvenuta nel
1840, settantaquattromila lire austriache fossero destinate allo stipendio di un professore di pittura. Sulla figura di Defendente
Sacchi si veda: Defendente Sacchi..., 1992 e,
in particolare, Zatti 1992, pp. 263-283.
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Nato a Pavia nel 1801, laureato dapprima
in legge e poi in medicina, dal 1839 decano della facoltà di Medicina all’Università di
Pavia, nel ’44 aveva assunto l’incarico di direttore degli Ospedali di Bergamo, dove rimase fino al 1851. Con testamento del giugno 1853 aveva legato a Pavia la sua raccolta
d’arte, consegnata alla Scuola di Pittura dalla vedova Beatrice Lovati un ventennio più
tardi e comprendente, secondo l’inventario
redatto dal pittore Giuseppe Lanfranchi, ventisei dipinti.
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Del legato del marchese Francesco Belcredi (1787- 1853), disposto nel 1851, era
stato redatto l’inventario a cura del pittore
Cesare Poggi di Milano.
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La citazione è di un altro importante committente e collezionista, il medico Giovan
Battista Del Chiappa (1782-1867), trasferitosi a Pavia dalla Toscana nel 1819 per assumere la cattedra di chimica medica all’università. Studioso di Cicerone, aveva individuato in Paolo Barbotti il talento pittorico capace di tradurre in figure contenuti di incivilimento e ammaestramento da
lui stesso proposti. Aveva pertanto istituito
un confronto-linea di continuità tra i pittori Massacra e Barbotti da un lato e i mecenati Marozzi e se stesso dall’altro.
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ta nella sua casa, la vendita di dipinti e disegni –
di Zandomeneghi specialmente e poi di De Nittis,
Boldini, Macchiati, Scoppetta e altri – lasciati dal
padre: ai Morone, con cui aveva stretto un legame d’amicizia, aveva dunque proposto, via via, olii
e pastelli così che la coppia, nel giro di un paio
d’anni, si era assicurata una ventina di pezzi di
Zandomeneghi, giungendo a possedere una delle
raccolte private più consistenti di opere dell’artista veneziano. Era poi accaduto che, innamorati
di qualche dipinto di un altro autore, avevano utilizzato alcuni pastelli di Zandò quale merce di
scambio: così, per esempio, erano riusciti ad acquistare La falconiera di Giovanni Segantini, altrimenti per loro irraggiungibile.
Sebbene istintivamente attratti da una pittura “al-
Giovanni Boldini
Scena galante
tempera su carta, 44,5 × 42 cm
Collezione Morone
Musei Civici di Pavia
le iconografie predilette del paesaggio – il Ticino,
le marcite, le acque morte, i pioppeti – e delle figure femminili: tra queste è il bel ritratto della stessa Carla Morone in lettura, dipinto da Mario Acerbi nel 1961, che chiude la rassegna.
L’ingegner Giuseppe Marozzi era nato a
Pavia nel 1802 e morì a Milano nel 1889.
È proprio il necrologio, apparso sul “Corriere della sera” il 22 marzo 1889, a fornirci le notizie più curiose sulla sua vita,
spesa intensamente tra impegno civile e passioni sentimentali, e sulla sua enorme fortuna economica, utilizzata per accrescere le
collezioni archeologiche, numismatiche, di
stampe (aveva acquistato la pregiatissima
raccolta di Alessandro Brambilla) e anche
per tutelare e conservare le vestigia del passato (restauri della basilica di San Pietro in
Ciel d’Oro).
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Nel 1919 Maria Marozzi “sicura di interpretare il desiderio […] del mio povero padre” dona alla Città “i quadri importanti”
che si trovano nella casa pavese. L’inventario,
redatto dall’amministratore Franchi Maggi,
registra dieci dipinti: oltre a quelli citati, anche il bozzetto del Sant’Epifanio di Barbotti e L’elemosina di Giovanni Beri.
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Come noto, l’Accusa segreta è il primo, in
ordine di tempo, di una serie di tre dipinti dedicati da Hayez al tema della delazione per motivi amorosi, per svolgere il quale fu consigliato e influenzato dall’amico
poeta Andrea Maffei. L’iconografia descrive una giovane veneziana, Maria, che per
vendicarsi del tradimento dell’amante, sta
per consegnare, entro la bocca della verità
del Palazzo Ducale, un atto di denuncia per
cospirazione.
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A Federico Faruffini i Musei pavesi hanno dedicato nel 1999 una mostra monograficae un catalogo, nel quale si sono indagati ed evidenziati i rapporti con la Scuola di Pittura, con l’ambiente pavese e con
la famiglia Cairoli. È nelle lettere inviate a
Ernesto (oltre che al proprio fratello Gaetano), che l’artista parla con struggimento
e nostalgia della città, che ha lasciato nel
1855. Si veda Zatti 1999.
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Una completa ricognizione di tutto il patrimonio dei Musei Civici pertinente al6
l’Ottocento e al Novecento, con ricostruzione delle provenienze sulla base dello spoglio documentario, è stata attuata nel
1984, in occasione di un allestimento temporaneo della collezione nelle sale del Castello. Il volume redatto restituisce la catalogazione completa di dipinti, disegni,
sculture posseduti a quella data (Sartori, Vicini, Zatti 1984).
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A Giorgio Kienerk i Musei pavesi hanno
dedicato nel 1997 una mostra monografica ed un catalogo (Zatti 1997, con testi di
R. Bossaglia, R. Monti, P. Pacini, S. Zatti,
F. Cagianelli) dove si è dato conto in modo specifico degli anni del soggiorno e del
magistero pavese, dal 1905 al 1935.
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Notizie particolareggiate sul legato Cortese compaiono in: Peroni 1963, e poi in
Opere dal Lascito Cortese, 2003. Nato nel
1884 a Sant’Angelo Lodigiano, Cortese si
era laureato a Pavia, nel 1908, in Medicina e qui aveva svolto la professione sino a
che, dal 1953 al 1958, era stato eletto senatore della Repubblica per l’impegno politico progressivamente svolto.
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Si vedano le notizie riportate nella scheda n. 843 in Scotti 1986, p. 330.
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In occasione dell’allestimento permanente della sezione museale “Quadreria
dell’Ottocento”, comprendente la scelta di
sessantasei opere di pittura, è stato pubblicato il catalogo (Zatti, Favretto, Lodola
2002b).
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La collezione di Carla e Giulio Morone
è stata trasferita ai Musei Civici nel dicembre 2001, grazie al legato testamentario di Carla Perotti del 1999 e alla donazione di Giulio Morone del luglio 2001.
L’inventario comprende sessantasei opere,
tra dipinti, pastelli e disegni del XIX e XX
secolo , ad eccezione di due quadri di soggetto religioso d’età tardo barocca. A seguito dell’allestimento della nuova sala, è
stato pubblicato il catalogo (Zatti, Favretto, Lodola 2002a).
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