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Sezione bibliografica. Recensioni
CAPYS 4 n.s. (2013) 341-356
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A.G. RONCALLI-G.B. MONTINI, Lettere di fede e di amicizia (1925-1963),
a cura di L. F. Capovilla e M. Roncalli, Istituto Paolo VI Brescia-Edizioni
Studium, Roma 2013, pp. 310, € 25,00.
A 50 anni dalla morte di Giovanni XXIII (avvenuta il 3 giugno 1963) e dell’elezione di Paolo VI, le edizioni Studium hanno pubblicano la loro corrispondenza
inedita, curata da Loris Francesco Capovilla e Marco Roncalli. Si tratta di una
doppia testimonianza inedita e per molti versi eccezionale attraverso la quale è
possibile osservare da vicino gli eventi che hanno cambiato e sconvolto un’epoca; ma fra una lettera e l’altra emergono anche riflessioni e giudizi più personali
dei due protagonisti che aiutano a comprendere quella stagione della vita della
Chiesa che ha avuto nel Concilio il suo punto culminante. Anche perché Roncalli e Montini hanno ricoperto compiti di primissimo piano: nunzio a Istanbul
e Parigi, poi arcivescovo a Venezia, il futuro Giovanni XXIII, vede da vicino la
tragedia della guerra, le persecuzioni degli ebrei, le difficoltà del dopo. Montini
lavora in Segreteria di Stato dalla fine del 1937, sono anni difficili, è vicino a
Pio XI e a Pio XII, poi diventa arcivescovo di Milano. L’epistolario rappresenta
anche un’occasione per studiare da vicino la comunicazione fra due personalità
chiave della Chiesa. Il lungo carteggio che dura circa un quarantennio, inizia nel
1925 con un invito per una predicazione ai fucini, rivolto da Montini a Roncalli.
L’ultima lettera, invece, datata 25 maggio 1963, è firmata da chi, nel frattempo, è
diventato arcivescovo di Milano e cardinale e si rivolge all’amico, a sua volta Papa
dal 28 ottobre del 1958, ma ormai quasi in agonia, augurandogli di poter essere
presente alla seconda sessione del Concilio “rinfrancato nelle forze del corpo e
sempre magnifico in quelle dello spirito”.
Un corpus epistolare articolato nel seguente modo: sei lettere partite da Istanbul
dove Roncalli risiede come delegato apostolico di Turchia e Grecia, e la Segreteria di
Stato, dove Montini è da poco Sostituto (1937-1943); sessantaquattro tra Roncalli,
nunzio a Parigi, e monsignor Montini sempre più vicino a Pio XII (1944-1953);
settantatré fra il patriarca di Venezia e Montini ben presto arcivescovo di Milano
(1953-1958); cinquantasette relative al pontificato giovanneo (1958-1963). Duecentouno lettere che sono lo specchio nitido di una fede forte come la roccia e di
un’amicizia discreta. Missive che si alternano nel segno di un servizio dove a prevalere sono le ragioni pastorali e religiose. Nuovi tasselli per la storia di due sacerdoti
chiamati a grandi responsabilità, sino a diventare anelli della catena papale. La
prova di una comunione spirituale proiettata sull’essenziale e gli orizzonti più alti,
nella consapevolezza di una presenza: quella della grazia.
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Una corrispondenza che – affrontando temi disparati – si svela spesso dettata
dall’intelligenza del cuore e dalla sollecitudine per un progetto che non riguarda
mai le proprie persone, ma la Chiesa e gli uomini. Da una parte Angelo Giuseppe
Roncalli, poi, con altro vello, Giovanni XXIII. Dall’altra, Giovanni Battista Montini, il futuro Paolo VI. Seguendo l’evoluzione di queste pagine, monsignor Roncalli
visitatore apostolico in Bulgaria, delegato apostolico in Turchia e Grecia, nunzio
a Parigi, patriarca di Venezia, Pontefice; e Montini, assistente ecclesiastico degli
universitari cattolici, poi minutante, sostituto e prosegretario della segreteria Stato
vaticana, arcivescovo di Milano, cardinale. Dietro di loro due famiglie e due paesi,
due città e due diocesi, Sotto il Monte e Concesio, Bergamo e Brescia, i luoghi
delle radici, della vocazione, della formazione, ai quali si sentono debitori senza
dimenticare tutta una tradizione lombarda intrisa di partecipazione al cammino
della vita ecclesiale e civile. Quella che da san Carlo ai cardinali Ferrari, Schuster, e a
un altro papa lombardo, Achille Ratti di Desio, Pio XI, ha permeato coscienze e comunità, clero e laicato, percorsi e istituzioni, e dove religione significa anche studio
ed educazione, la Biblioteca ambrosiana e l’Università cattolica di padre Gemelli,
economia e dottrina sociale, e cioè le tante imprese di Giuseppe Tovini e Nicolò
Rezzara, l’editoria, la scuola, la stampa.
Primo gruppo: agli inizi. Andando agli albori di questo carteggio che copre quasi
un quarantennio, il primo contatto epistolare reperito è del 1925 e documenta un
invito per una predicazione ai fucini, rivolto da Montini a Roncalli, che Roncalli,
già alla vigilia della sua ordinazione episcopale, non potrà tenere. L’ultima lettera
dell’epistolario, del 25 maggio 1963, reca la firma di chi nel frattempo è diventato
arcivescovo di Milano e cardinale, e si rivolge all’amico, Papa dal 28 ottobre 1958, ma
ormai alla fine, augurandogli di poter essere presente alla seconda sessione del Concilio «rinfrancato nelle forze del corpo e sempre magnifico in quelle dello spirito».
Fra questi due documenti, un corpus epistolare che può essere così suddiviso: sei
lettere partite da Istanbul, dove Roncalli risiede come delegato apostolico di Turchia e
Grecia, e la segreteria di Stato, dove Montini è da poco sostituto (1938-1943); sessantaquattro tra Roncalli, nunzio a Parigi, e monsignor Montini sempre più accanto a Pio
XII (1944-1953); settantatre fra il patriarca di Venezia e Montini, ben presto arcivescovo di Milano (1953-1958); cinquantasette relative al periodo del pontificato giovanneo
(1958-1963). Nella prima parte appena ricordata, sono soprattutto la “confidenziale”
roncalliana datata 23 aprile 1942 e quella “privata” dell’8 luglio 1943 ad attirare l’attenzione, subito confermando il rapporto di stima e predilezione del delegato col sostituto,
benché Roncalli non perda occasione per sottolineare anche nel suo diario l’amabilità
di Pio XII nei suoi confronti. Infatti, se la seconda lettera è importante perché rivela
a questa data il livello di informazioni possedute dai diplomatici vaticani sulla persecuzione degli ebrei (Roncalli riferisce un colloquio da lui avuto con Franz von Papen,
l’ambasciatore di Hitler in Turchia, e in un passaggio si legge: «L’affare Katyn, al dire di
von Papen, avrebbe dovuto far riflettere i polacchi sulla maggiore convenienza per loro
di volgersi verso i tedeschi. Risposi con mesto sorriso che bisognava innanzi tutto far
dimenticare i milioni di ebrei inviati e soppressi in Polonia, e che in ogni caso questa
era una buona occasione per il Reich di cambiar registro nel trattamento dei polacchi»),
entrambe le lettere rendono conto di un buon rapporto sia con von Papen sia con
il suo collaboratore barone Kurt von Lersner per i quali il delegato spende parole di
presentazione con il sostituto. Definendo le loro mosse – pur con prudenza – dettate da
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logiche «piuttosto nella ricerca di possibilità di pace attraverso il tramestio della politica
bellica che nell’interessamento della politica pura».
Il secondo gruppo. Passando al secondo gruppo di lettere, a partire dal primo inverno a Parigi nel 1945, sino all’ultimo, tra il 1952 e il 1953, temi minori e questioni
più delicate si alternano mentre si ha la percezione del consolidarsi di una sintonia,
premessa di un sentire comune pur fra persone lontane, che pare già dato di fatto.
Così ora è Roncalli a trasmettere richieste rilevanti a Montini (come quella del 23
marzo 1945 che, a nome del segretario del cardinale Gerlier, chiede conferma della
notizia «secondo la quale diecimila israeliti di origine italiana sarebbero stati uccisi dai
tedeschi»), ora è Montini a chiedere al nunzio informazioni riservate circa persone
sconosciute o ex prigionieri; ora è Roncalli a segnalare personalità che si recano in
Vaticano per motivi diversi e vorrebbero un’udienza con il Pontefice o i suoi collaboratori (il professor Gabriel Le Bras, il barone Roberto de Grandmaison, Anna
Leflaive, l’abbé Robert Prévost, ecc.); ora è Montini a inviare i segni concreti delle
premure papali «destate dalla pietosa sorte dei bambini orfani, abbandonati o sofferenti, dei prigionieri di guerra ancora trattenuti». Affiorano fra notizie di servizio,
auguri scambiati «nella luce di Cristo», allusioni più o meno velate alla situazione
trovata da Roncalli al suo arrivo nella Francia liberata e al destino di tante persone.
Innanzitutto i vescovi “collaborazionisti” o “vicini” al governo di Vichy, oggetto di
trattative con gli esponenti del governo, cominciando dallo stesso cardinale Suhard,
arcivescovo di Parigi, per arrivare al vescovo di Mende Francesco Auvity, tra i primi dimissionari, per Roncalli «uno dei tre capri espiatorii della famosa epurazione del 1945».
Come si apprende dalla corrispondenza, l’intervento del nunzio non riguarda solo
vescovi. Su sollecitazione di monsignor Montini, eccolo concertare con il ministro Georges Bidault (così informa il sostituto il 5 febbraio 1948 ) «le condizioni più precise e
definitive circa la libertà di ritorno in Francia del signor Leone Berard», cioè dell’ambasciatore del governo di Vichy presso la Santa Sede dal 1940 al 1945 che, rifugiato
in Vaticano, fu autorizzato a rientrare in patria solo nel giugno 1948. Una data che fa
riflettere e può stupire solo chi dimentica che sul suolo francese liberato, a conflitto
finito, i prigionieri di guerra trattenuti sommavano numeri impressionanti costituendo una piaga aperta che il nunzio continuò a medicare sin da quando – nell’agosto
1945 – il Quai d’Orsay gli concesse il libero accesso ai campi d’internamento e l’avvio
di corsi teologici e di formazione ecclesiastica per i seminaristi tedeschi lì detenuti.
Altro leitmotiv di questo periodo francese si ritrova nelle sottolineature di Roncalli
circa la «bontà» di Montini nel renderlo consapevole delle «impressioni» di Pio XII circa
le sue «sortite dalla capitale per manifestazioni religiose o di azione cattolica giudicate
troppo frequenti», uscite che Roncalli faceva – come confida al sostituto – al fine di
«conservare ed a rendere più popolare in Francia la fede e l’amore al Papa». Tra le mete
di questi viaggi ecco Bourges, Bordeaux, Moulins, Limoges, Saint-Brieuc et Tréguier,
Lille, Paray-le-Monial, Monaco, Lourdes, Tours, ecc., una specie d’ininterrotta visita
pastorale attraverso l’Esagono, ma anche Algeri, Tunisi, Ippona, Costantina, Orano.
Nel frattempo i toni negli scambi epistolari si fanno un po’ meno protocollari: il nunzio
si rivolge al sostituto sempre con deferenza, lasciando però cadere qua e là note di
umanità, mentre si avverte un Montini ancor misurato nell’aprirsi, ma forse perché
disciplina i suoi sentimenti nella discrezione imposta al suo ruolo.
Il patriarca e la lettera riservata. Inoltrandoci nell’epistolario, si arriva poi alla
«lettera personale e riservata » che Montini invia a Roncalli il 10 novembre 1952
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chiedendogli «sotto rigoroso segreto» la disponibilità a succedere al patriarca di Venezia
Agostini di fatto morente, seguita dalla pronta risposta di accettazione di Roncalli,
che il 14 novembre ripete al sostituto il suo motto episcopale: «Oboedientia et Pax»,
aggiungendo: «Il Santo Padre disponga pure della mia umile persona in perfetta
libertà di spirito». Siamo così alle stagioni vissute da Roncalli nella Laguna, alla
gioia di un servizio finalmente tutto pastorale, con l’ex nunzio di Parigi convinto
che finirà la sua vita a Venezia. Anni in cui l’epistolario con Montini s’intensifica tra
condivisioni di progetti e scambi assai diversi. Originati da situazioni di circostanza
(si pensi alle parole di Roncalli su Mussolini: «quell’uomo che la Provvidenza fece
incontrare a Pio XI», l’uomo poi «divenuto motivo di grande tristezza per il popolo
italiano», ricordato nell’anniversario dei Patti lateranensi, valorizzato alla ricerca di
una sorta di guarigione del sentire nazionale.
Alla svolta di Roncalli trasferito da Parigi a Venezia, segue quella del corrispondente che lascia la segreteria di Stato e viene mandato a Milano, eletto arcivescovo sulla
cattedra di sant’Ambrogio e san Carlo il primo giorno del mese di novembre 1954.
Nulla le lettere aggiungono circa questo trasferimento a quanto già noto e ancora irrisolto nel costituire una “promozione ambivalente”; ma presto si trovano a documentare un legame sempre più forte dove è Roncalli a trovare le parole – il 12 dicembre
1954 – che già annunciano profeticamente il futuro comune destino: «Compiremo
insieme il sacramentum voluntatis Christi di S. Paolo. Esso impone l’adorazione della
Croce: ma ci riserba, accanto ad essa, una sorgente di ineffabili consolazioni anche per
quaggiù, finché ci durerà la vita e il mandato pastorale». Si affacciano tra le pagine
volti di protagonisti – a diverso titolo – dell’Italia del Novecento: dal conte Vittorio
Cini a don Giuseppe De Luca, dal duca Gallarati Scotti a monsignor Angelo Dell’Acqua… Si rende conto d’incontri a Venezia, ma anche a Sotto il Monte, il paese natale
di Roncalli, e diventa più facile capire il senso di una lapide lì posta all’ingresso della
residenza estiva del futuro Giovanni XXIII dove si legge: «La solennità dell’Assunta
1955. Presago colloquio sui destini della Chiesa / Quassù intrecciarono Angelo Gius.
Roncalli patriarca di Venezia / Giovanni B. Montini arcivescovo di Milano / Acclamati
successori di Pietro / Giovanni XXIII 1958 / Paolo VI 1963».
Il lettore prende atto non solo di un salto di registro nella corrispondenza e nel
rapporto fra i due, accomunati dalle stesse preoccupazioni pastorali e dal bisogno
di nuovi approcci al tema della modernità, ma anche del ponte che va costruendosi fra Milano e Venezia in un periodo segnato da profonde trasformazioni in
atto per la comunità credente. Gli incontri fra i due presuli continuano. Il loro
dialogo continua. Alle lettere seguono colloqui originati da occasioni private, ma
anche pubbliche, come l’assemblea della Conferenza episcopale italiana dal 9 all’11
novembre, giorno in cui Roncalli rientra con Montini e con lui «conversando amabilmente e piacevolmente su molte cose relative a Roma, a Venezia e a Milano» (così
annota sul diario) o la condivisione di documenti pastorali rilevanti, come la lettera
roncalliana inviata a tutti i presuli italiani per il V centenario della morte di san Lorenzo Giustiniani, protopatriarca di Venezia (occasione per il rilancio della Bibbia)
alla conclusione del quale Roncalli invita proprio Montini. Tra riferimenti a nuovi
incontri, ringraziamenti reciproci, segnalazioni vicendevoli, ma pure rimandi all’eco
delle scelte politiche nell’imminenza delle elezioni. Questo il pensiero del patriarca
di Venezia in una lettera a Montini il 26 aprile 1956), il carteggio ricorda la presenza
di Roncalli al primo Congresso nazionale degli archivisti ecclesiastici aperto da Pio
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XII a Castel Gandolfo nel 1957 (con il patriarca di Venezia che non può esimersi
dal richiamare la sua impresa di mezzo secolo, cioè l’edizione degli Atti della Visita
Apostolica di San Carlo Borromeo a Bergamo nel 1575) come pure a Milano nel
1958, per la traslazione definitiva delle spoglie del fondatore del Pime, Ramazzotti,
suo predecessore sulla cattedra di san Marco.
Il Papa e il cardinale. Ma lo scambio inedito più importante relativo al 1958, è
quello che precede il conclave, dopo la morte di Pio XII. Una lettera – quella del
16 ottobre 1958, riportata per la prima volta – che pare preannunciare quanto sta
per accadere. Pronta la risposta montiniana, tre giorni dopo: «Ricevere una lettera;
e quale! – da Vostra Eminenza in questi giorni è per me una bella sorpresa, un bel
regalo. La ringrazio sentitamente, anche perché mi pare doveroso dare al Suo atto
di cortesia e di amicizia il suo vero significato, quello di compiangere insieme il
lutto della Santa Chiesa e nostro per essere orfani d’un padre, quale è stato Pio XII,
e di dare, anche in questo grande e critico momento, comunione di sentimenti e di
preghiere alle due Chiese, di Venezia e di Milano, che nella degnazione e nella bontà di Vostra Eminenza verso il sottoscritto trovano valido argomento per celebrare
insieme questa grande vicenda del mondo cattolico. Dio La benedica: seguiremo
davvero in orazione sine intermissione il prossimo Conclave».
Quando l’arcivescovo di Milano scrive questa lettera, il nome di Roncalli è già
entrato nella rosa dei candidati alla successione di Pacelli. E il 28 ottobre, terzo giorno di conclave, all’undicesimo scrutinio è il nuovo papa. «Milano cattolica esultante
vuol essere prima ad esprimere suo plauso per elezione Vostra Santità…», si legge
nel telegramma subito inviato dall’arcivescovo Montini «a Sua Santità Giovanni
XXIII». È questa la prima dell’ultima serie di missive raccolta in questo carteggio,
quelle del pontificato giovanneo. Se sin qui si poteva parlare di un rapporto, si è
azzardato, tra un fratello maggiore e uno minore, ecco che ora si alza sulle pagine la
dimensione della paternità, e si svela nella sua evidenza la cifra della predilezione.
Giovanni XXIII, dalla cattedra petrina, il trono più alto, pare manifestare a Montini
in pienezza i sentimenti trattenuti a lungo da delegato e nunzio, ma già manifestati
nel quinquennio veneziano. E l’arcivescovo di Milano gli si rivolge come all’amico
di un tempo diventato padre. Un padre del quale legge le lettere in ginocchio, al
quale risponde nel suo stile inimitabile. È vero, i messaggi inviati da papa Giovanni
a Montini, nel solco dell’antico colloquio iniziato quasi quarant’anni prima fra due
spiriti diversi – il figlio della campagna bergamasca e l’aristocratico bresciano intellettuale – sono effusione del padre verso il figlio prediletto, nella profetica coscienza
che in lui la Chiesa avrebbe avuto il suo successore, mai dimenticando il torto della
sua assenza al conclave, e altro che resterà probabilmente ancora a lungo segreto.
Troppi per poterne dar conto qui i frammenti epistolari davvero interessanti fra
Giovanni XXIII e il suo successore.
Riguardano l’annuncio del cardinalato a Montini e la sua reazione, le velate
preoccupazioni di Montini per l’evoluzione politica italiana, più che milanese – le
stesse, oggetto di confronti con monsignor Dell’Acqua e dilatate al ruolo della CEI
nell’impressione di una maggiore riservatezza vaticana su tali questioni (affiorano,
ad esempio, nella lettera inviata a Giovanni XXIII il 22 dicembre 1959, a rivelare
insieme alle ansietà anche le consolazioni di Montini). La predilezione del Papa
per il suo successore (che di questo rapporto privilegiato mai abusò), è sempre più
manifesta: «Dovrei scrivere a tutti i Vescovi, Arciv. e Cardinali del mondo: come
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parlo di tutti e di ciascuno nella mia umile preghiera al Signore. Ma per intendere
tutti, mi accontento di scrivere all’Arciv. di Milano, perché con lui io li porto tutti
nel cuore, così come per me egli tutti li rappresenta », gli scrive nel messaggio per
la Pasqua del 1961, il 4 aprile, confidandogli: «Ella sarà contenta di sapere che io
ho letto ed ho gustato la sua lettera pastorale e confidente del Giovedì santo ai
suoi sacerdoti dell’arcid. Milanese, e che ne condivido tutto lo spirito e il buon
sentimento». Non senza aggiungere parole che di fatto possono ritrovarsi anche nelle
pagine roncalliane più intime. La predilezione per Montini, in Giovanni XXIII, si
lega anche a quella per i suoi predecessori antichi e più recenti: il san Carlo tanto
studiato e per il quale desidera l’istituzione di una Accademia, al fine di pubblicarne
«tutte le lettere e gli scritti autentici», e il cardinale Ferrari, amico del “suo” vescovo
Radini Tedeschi, che vuole beatificare «in occasione del pr. Concilio ecumenico»
(così in una lettera a Montini il 27 marzo 1962).
Da registrare che, insieme al carteggio che stiamo esaminando, con continue attestazioni di affetto reciproco va intensificandosi, parallelo, anche un continuo scambio epistolare tra l’arcivescovo di Milano e il segretario del Papa, monsignor Loris
Francesco Capovilla. Né mancano, scorrendo diari e cronologia, occasioni di nuovi
incontri de visu: per la partecipazione di Montini ai lavori della Pontificia commissione centrale preparatoria del Concilio alla presenza del Papa o in udienze private.
Ed è proprio il Concilio che torna ripetutamente nei testi dopo la Pasqua del 1962:
la grande assise che cala il Vangelo nella storia indicando, più che un programma immediato, una lunga strada da seguire con fiducia. Montini si spinge a titolare la prima
delle “lettere dal Concilio” inviate ai suoi diocesani: «Abbiamo visto la Chiesa!».
Lui poi a raccoglierne l’eredità. «Roncalli e Montini, simili e diversi. Il Concilio fu
un’esperienza fondamentale anche per il passaggio tra i due Papi, realmente consoni
nelle loro intenzioni fondamentali, ma con personalità del tutto diverse», ha scritto
Benedetto XVI quand’era il cardinale Joseph Ratzinger. Oggi sulla cattedra di Pietro
un nuovo vescovo di Roma, Francesco, è tornato a farci rivivere quel clima invitandoci a un progetto di rinnovamento, di riforma, che deve cominciare da noi.
Oreste Rinaldi
G. FROSINI, Teologia oggi. Una sintesi completa e aggiornata, Presentazione
di G. Canobbio, EDB, Bologna 2012, pp. 260, € 24,00.
Teologia oggi: è un’opera di teologia sistematica, una sintesi completa e aggiornata dei dieci trattati della teologia dogmatica. La dottrina cristiana – come mette in
luce G. Canobbio nella Presentazione – ha conosciuto nel corso dei secoli un duplice
movimento: il primo di ampliamento progressivo dei contenuti e il secondo di riconduzione al centro, ovvero di sintesi. L’opera di sintesi è impresa sempre ardua,
ma G. Frosini «ha avuto l’ardire di tale impresa. Dopo fortunate pubblicazioni di
carattere analitico e numerosi anni di insegnamento, ha ritenuto di poter offrire al
vasto pubblico il frutto del suo lavoro. E lo ha fatto nella consapevolezza di prestare
un servizio sia alla teologia, sia ai cultori della medesima. Alla prima, perché ne
mostra l’accessibilità, sfatando il luogo comune che ritiene tale disciplina esercizio
per pochi eletti. Agli altri, perché offre un esempio di metodo e piste per ritrovare i
contenuti principali» (G. Canobbio, Presentazione, p. 6).
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Il libro di Frosini vuole esplorare i diversi sentieri della teologia dogmatica, percorrendoli tutti in modo rapido e sintetico, con uno stile semplice e discorsivo. Il
punto di partenza è la cristologia: Gesù Cristo è il centro distintivo di tutta la dottrina
cristiana, la pienezza della Rivelazione, la Parola ultima e definitiva del Padre. Alla
cristologia seguono la Rivelazione cristiana in Dio (teologia in senso stretto), con la
dottrina sulla creazione; l’ecclesiologia, l’antropologia rivelata e infine l’escatologia. Un
significativo completamento è la conclusione dedicata alla riflessione teologica sulla Madre di Dio (la mariologia). È interessante l’opzione metodologica dell’Autore.
Ogni capitolo risulta articolato in tre parti, che corrispondono a quello che si chiama
“circolo ermeneutico”. Si parte dal contesto, ossia dal momento presente, per dare
«un tono di attualità alla ricerca» (I capitolo). Segue il momento dell’investigazione
scritturistica e storica (II capitolo): è il momento della cosiddetta teologia positiva, che
da sempre figura nella metodologia teologica. Infine si ritorna all’oggi con il momento
propositivo (III capitolo), ovvero con il tentativo di una risposta ordinata e sistematica, data sulla base della domanda (primo momento) e delle possibilità offerte (secondo
momento). Il risultato di questa via metodologia è quello di « una teologia concreta,
aggiornata, situata: una teologia che rifugge da questioni ormai anacronistiche e da
problemi ormai insignificanti e che penetra nel vivo delle problematiche attuali per
illuminarle alla luce della Parola di Dio. La teologia vive del passato, ma è parola detta
nel presente, verifica della rivelazione nel suo incontro con la storia» (p. 31).
Il merito di Frosini è quello di offrire al lettore, con un linguaggio semplice e
allo stesso tempo accattivante, la sintesi del panorama completo del mistero cristiano, interrogato a partire dal suo orizzonte culturale. Ogni battezzato è chiamato a
rendere ragione della verità cristiana nell’attuale contesto di indifferenza religiosa.
«Rinunciare ad interrogarsi sulla propria fede equivarrebbe a dimenticare che la fede,
nonostante la sua gratuità, è atto pienamente e totalmente umano: anche se essa è
dono di Dio, è l’uomo che crede e non Dio nell’uomo. Non possiamo accettare
l’atteggiamento razionalistico (che vanifica la soprannaturalità della fede), ma anche
l’atteggiamento fideistico (che mortifica la ragione e le capacità dell’uomo) è pericoloso e gravido di conseguenze» (p. 21). La sintesi di Frosini è un ricco strumento
per poter approfondire la propria fede e crescere nella vita cristiana, dal momento
che solo chi fa la verità viene alla luce (cf. Gv 3, 21) e perché – secondo le parole
di S. Bonaventura – lo scopo principale ed ultimo della teologia è che diventiamo
buoni, cresciamo nell’amore vicendevole, «ut boni fiamus» (cf. p. 10). La proposta,
che vuole essere un tentativo di una teologia in situazione, collocata nel centro della
Chiesa e della storia, possa contribuire alla crescita e all’avanzamento di tutto il
popolo di Dio nella via della verità e della carità.
Agostino Porreca
M. CAMPANELLI, Monasteri di provincia (Capua secoli XVI-XIX), Franco
Angeli, Milano 2012, pp. 207, € 27,00.
Questo volume appare interessante e stimolante sia per la varietà delle tematiche
affrontate sia per la molteplicità dei registri interpretativi. Piani e livelli diversi che a
prima vista potrebbero sembrare slegati, trovano infine un comune denominatore, al
di là dei monasteri di provincia richiamati nel titolo. Certo e ovviamente nel volume
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le monache rappresentano la magna pars, da quelle napoletane, impegnate, come si
diceva all’epoca, in “vanissime spese” – con qualche forzatura rispetto alla realtà –,
oggetto di reprimende da parte dei presuli locali. A loro sono additati modelli nuovi
e diversi di vita contemplativa, modelli nuovi di vita religiosa, che lentamente fanno
breccia nei monasteri – c’è da supporre non solo in quelli napoletani – veicolati dagli
esempi di monache “particolari”, proposti attraverso scritti di saggi biografi, come il
Malizia, autore della Vita di suor Maria Crocifissa Borgia o gli scritti di Alfonso Maria de’ Liguori, soprattutto nella Vera sposa di Cristo. E un primo filo che accomuna
i vari saggi raccolti nel volume pur nella molteplicità dei piani cui si parlava prima,
è quello della direzione spirituale.
Vi si accenna anche alle monache napoletane e si da più corpo alla tematica attraverso le lettere di Alfonso de’ Liguori ad alcune sue figlie spirituali; tematica quasi
rovesciata se parliamo invece della fondatrice del monastero di san Gabriele, cioè
di Angela Marrapese, figura che domina quasi la metà del volume: sembra essere
lei, col suo carisma a prendere per mano il suo direttore spirituale, il carmelitano
Salvatore Pagnani (dopo la morte del religioso sarà lei a gestire l’avvio del processo
di canonizzazione), lei, la monaca “maliziosa”, come la chiamava la duchessa di
Castropignano alludendo alla sua “malizia” cioè alla sua scaltrezza a alla capacità di
giocare con gli eventi, a gestire anche il de’ Liguori in un momento particolare della
nascente Congregazione del Santissimo Redentore, il de’ Liguori di cui in un tempo
non lontano era stata penitente.
Un altro filo può essere quello della cultura all’interno delle case religiose. A
un Michele Monaco, particolarmente severo «nell’impedire la costruzione di una
cultura personale e nel riconoscere qualsiasi possibilità di un sapere speculativo da
parte delle monache» (p. 81), ma siamo intorno agli anni ’20 del Seicento, si oppone
proprio la Marrapese col suo convento di San Gabriele, con la sua biblioteca devota
sì, ma sembra ben fornita. Un tema questo che si inquadra in un contesto storiografico di recente particolarmente frequentato.
Un altro filo conduttore, forse il principale che intesse la trama su cui si innesta
l’ordito dei vari saggi è proprio Capua. Una cittadina di periferia, ma porta, chiave
d’ingresso del Regno. Capua è “piazza di guerra fortificata alla moderna” a fine
Settecento. Capua che col monastero di san Gabriele e con la sua badessa, la Marrapese, diventa il luogo d’elezione, il luogo dell’anima di Maria Amalia, consorte
di Carlo di Borbone. Capua vista da un punto di vista particolare nella dinamica
centro-periferia. Anche quest’ultimo è un tema particolarmente caro alla storiografia contemporanea, indagato proprio attraverso la storia dei suoi monasteri o delle
sue monache, secondo quell’intersezione dei piani cui già si alludeva. E pian piano
quindi attraverso i saggi di Marcella Campanelli è proprio Capua ad emergere nella
sua complessità. Indagare sui suoi monasteri in età vicereale è indagare sui rapporti
cetuali all’interno della cittadina; indagare sul monastero di san Gabriele è indagare
anche sulla società capuana di fine Settecento-inizio Ottocento, è indagare anche
sulle soppressioni che in età napoleonica e oltre colpirono le fondazioni religiose del
Regno, e fra queste, con alterne vicende, pure san Gabriele.
Ma è attraverso la Marrapese che Capua si trova, se così si può dire, al centro di
una trama particolare. La Marrapese ha un rapporto tutto suo con Maria Amalia e
col sovrano, Carlo di Borbone, ma anche con i figli della coppia, un rapporto che
proseguirà quando la famiglia si trasferirà in Spagna. Capua, quindi, nel bene e nel
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male, attraverso la sua monaca, prima strega poi santa, diventa polo di attrazione
per i sovrani, e per il loro entourage. È a Capua, ad esempio, proprio a san Gabriele
che gli ufficiali in carriera cercano di collocare le proprie figlie: avere una figlia in
quel monastero si configurava infatti come un privilegio, perché spesso era lo stesso
sovrano a pagare le rette.
Capua attraverso Maria Angela Marrapese, Maria Amalia e le sue dame diventa
il punto di snodo per alcune dinamiche di corte. Angela stessa, come giustamente
rileva Marcella Campanelli, a prima vista potrebbe essere assimilata a quelle “sante vive”, presenti nella prima età moderna nelle città rinascimentali, personaggi di
spicco che con il loro carisma influenzavano le politiche dei vari potentati locali. Un
po’ troppo in realtà per la nostra Angela, la maliziosa Angela, attenta a ben vedere
più alle fortune del suo monastero che a quelle del Regno. Resta il fatto però, al di là
di ogni considerazione, che fu proprio grazie a questa monaca che aveva saputo fare
un uso tutto particolare del suo status e delle sue doti, che una città della “periferia
meridionale”, per riprendere le parole della Campanelli, poté assurgere a fama e
notorietà travalicando i confini regionali.
Ritengo che il libro di Marcella Campanelli è un punto di riferimento fondamentale per chi vorrà in futuro occuparsi dei Monasteri femminili e del territorio
capuano in età moderna.
Giuliana Boccadamo
G. DI PALMA (a cura di), Una saggia educazione. Letture teologiche e prospettive, Verbum Ferens, Napoli 2011, pp. 296, € 22,00.
Il libro ha un approccio di carattere teologico, una teologia tuttavia che non
vuole «rinchiudersi nella sua cittadella, ma scendere nella città degli uomini» (p. 6),
con lo scopo dichiarato di offrire un proprio contributo di riflessione non meno
che d’incoraggiamento alla speranza nella difficile sfida educativa che investe tutta
la società. Infatti, gli spazi in cui tradizionalmente si assolveva il compito educativo
(famiglia, scuola parrocchia) e con essi le tradizionali figure educative (genitori,
docenti, sacerdoti) sono divenuti periferici, dinanzi ai nuovi luoghi d’influenza,
d’aggregazione e alle nuove modalità di relazione (nuovi mezzi di comunicazione di
massa, i social network, posta elettronica, le chat line, gli sms). Dinanzi a tutto ciò
e alla necessità di indicare proposte educative non solo alle giovani generazioni ma
anche «a quelle generazioni cui spetterebbe il compito di educare» (p. 6), gli autori
propongono solidi punti di valore e di riferimento.
Si tratta di un libro scritto a più mani, ciascuna per le proprie competenze,
ma tutte all’interno di un approccio teologico. Dopo l’introduzione firmata dal
curatore, la riflessione prende inizio dagli orizzonti biblici con il contributo di
Luca Mazzinghi, La sfida educativa nella letteratura sapienziale d’Israele (pp. 11-37).
L’autore, dopo aver tracciato la figura e il ruolo del saggio d’Israele, correttore e
educatore, afferma che i saggi non hanno lasciato alcuna teoria educativa esplicita.
Indirettamente, tuttavia, attraverso i loro scritti possiamo cogliere il loro progetto e
il loro metodo educativo che riflette criticamente sul valore dell’esperienza, «vero e
proprio luogo teologico» (p. 33) del processo educativo stesso. Non offrire precetti
ma consigli, esortazioni, anteporre sempre la persuasione alla costrizione: è questo
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l’insegnamento lasciatoci dai saggi. Per l’autore «i saggi ci offrono un cammino
d’educazione aperto e per nulla dogmatico, ben capace di recepire tutto ciò che vi è
di autenticamente umano nei popoli vicini» (p. 35).
Il saggio di Gaetano di Palma, «Non è degno della nostra età fingere» (2Mc 6,24).
L’impegno alla testimonianza per affrontare la sfida educativa (pp. 39-59), ci introduce
nella necessità della testimonianza pubblica dei valori su cui poggia la vita e la fede.
Traccia la figura di un educatore che si mette in gioco, che non si assolutizza, che
non agisce come incontrollato protagonista della relazione educativa. L’autore, dopo
una breve panoramica storica sul periodo seleucide, descrive la paidea greca affermando, con le parole del Marrou, che «quando il greco parla della formazione della
gioventù, si tratta prima di tutto ed essenzialmente della formazione morale» (p. 45).
Esamina quindi la pedagogia giudaica incarnandone i valori nella figura del vecchio
scriba Eleazaro (2Mc 6,24) emblema della testimonianza che preferisce il martirio
alla conservazione di una vita senza dignità. Eleazzaro, conclude l’autore è «il tipo di
educazione testimoniale, cioè di una παιδεία basata sul linguaggio della vita che è in
sintonia con quanto insegnato per lunghi anni» (p. 54).
Cesare Marcheselli-Casale con il contributo dal titolo La cura morum e i cataloghi socio-familiari (pp. 61-95), instaura un interessante confronto con gli autori
della classicità greco-romana e del cristianesimo nascente. Dal confronto emerge
un’opera di inculturazione-interculturalità, operata dal cristianesimo nascente che
cerca di diffondere i valori del Vangelo, realizzando una sintesi capace di conservare
e tramandare quanto di più vario, vero e valido le diverse culture, con le quali viene
a contatto, avevano prodotto. L’autore, facendo sue le parole di Basilio di Cesarea,
conclude affidandosi ad un criterio di discernimento, confrontarsi, cioè, con quanto
prodotto dalla cultura antica «seguendo in tutto l’esempio delle api. Esse non vanno
indistintamente su tutti i fiori.[…] Anche noi, se saremo saggi, prenderemo da quegli scritti quanto si adatta a noi ed è conforme alla verità» (p. 95).
Alla centralità del primato della persona è dedicato il corposo saggio di Pasquale Giustiniani, Filosofia cristiana e persona. Per vincere la scommessa educativa
(pp. 97-144). L’autore auspica «una rinnovata stagione del principio antropologico
personalistico» (p. 98) che da sempre ha trovato nella filosofia cristiana il suo luogo
di cultura. Tornare alla persona, soggetto umano portatore di diritti e di doveri,
significa rifiutarne la riduzione ad homo oeconomicus. La persona non è il soggetto né
l’individuo, non è l’anima né il corpo, non è pensiero né sentimento, ma è tutto questo. La persona, con la sua apertura agapica e comunionale, si rivela la grande risorsa
del pensiero cristiano. Del resto da un’analisi filologica ed ermeneutica dei racconti
della creazione emerge «un’antropologia e una definizione dell’umanità costituita
da persone, create da colui che lungo tutta la Bibbia si autopresenta come Io, essere
supremamente personale» (p. 125). L’autore conclude affermando che: «Una ragione
che lasciasse fuori Dio, ma, soprattutto, lasciasse fuori una personologia agapica,
sarebbe la spia di un’emergenza ormai trasformata in tragedia collettiva» (p. 141).
Se la persona è elemento centrale della riflessione cristiana, massima attenzione deve essere dedicata alla formazione della sua coscienza per evitare una diffusa
concezione manichea di riduzione della coscienza a procedura formale da rispettare,
una coscienza senza dimora, un credere senza appartenere. È questa la tesi del denso
contributo di Ignazio Schinella, L’educazione della coscienza nella società moderna (pp.
145-161). Nell’attuale società alla concezione classica cristiana intesa come apertura
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alla realtà e alla verità, è subentrata una visione sganciata dalla tensione al bene e dalla
relazione agapica con gli altri. Si è ignorato che la moralità si realizza e assume valenza
all’interno della relazione sociale. Ne consegue, osserva l’autore, «una tendenza alla
soggettivazione della fede» che conduce alla «dissociazione del singolo dall’orizzonte
complessivo dei valori» e a un «credere senza appartenere» (p. 147). Per superare
una deriva narcisistica e autoreferenziale del proprio agire è necessario recuperare
la relazione intima con Cristo che «nasce quotidianamente nell’eucarestia» e che fa
sì che la coscienza cristiana si esprima «fondamentalmente come partecipazione e
trans-formazione alla/nella vita di Cristo» (p. 159). L’accoglienza radicale di Cristo,
in cui si rivela il mistero stesso della Trinità, diviene allora «norma fondamentale e
fondante, principio ultimo di tutta la propria esistenza» (p. 159).
Gli ampi orizzonti e le prospettive illustrate devono tradursi in percorsi concreti,
in strutture ben individuate che servono a tradurre in gesti esistenziali i principi
enunciati. In tale senso si muovono gli ultime tre contributi. Francesco Asti con
l’accattivante saggio Educazione e autoformazione nell’era di internet come servizio
partecipato della teologia (pp. 163-187), riflette sulle molteplici possibilità che l’era
di internet può offrire alla ricerca teologica per lo sviluppo di programmi educativi e
autoformativi. Osserva l’autore che «la nuova frontiera dell’educazione si gioca non
più nelle aule universitarie, ma nei nuovi sistemi di apprendimento e-learning che
offrono interessanti punti di vista per delineare l’odierna antropologia» (p. 164).
È la nuova sfida rispetto al sistema della lezione frontale. Nella moderna società
tecnologica, l’educazione si risolve in «una pura trasmissione di informazioni senza
effettivo interesse per i contenuti», per cui «il rispetto dei protocolli ha maggior peso
rispetto ai processi culturali» (p. 168), per tale motivo è urgente che all’origine della
comunicazione vi sia una vera relazione. «L’identità è frutto di sguardi e di parole; è
un’esperienza di contatto che evidenzia il valore insopprimibile della relazionalità»
(p. 168). Particolarmente interessante mi è apparsa la riflessione sull’andragogia,
(definita da Knowles modello di processo) intesa non come trasmissione delle nozioni, ma come partecipazione a un accrescimento della propria formazione. Tale
sentiero modifica il concetto del discente da soggetto che deve assimilare a soggetto
che sviluppa le proprie capacità grazie a esperienze guidate. Le prospettive aperte
dall’andragogia favoriscono l’interiorizzazione e la sintesi delle diverse sollecitazioni
ricevute nel percorso educativo, il che implica una interessante prospettiva di rapporto attivo nel processo di educazione.
Il saggio di Antonio Palmese, Sfida o scommessa: quali itinerari educativi? (pp.
189-225) è tutto centrato sull’ascolto dei destinatari dell’educazione. L’autore, da
subito, con acuta sensibilità, afferma che l’atteggiamento primario e fondamentale
in un percorso educativo è quello di «cancellare dal nostro linguaggio l’espressione
depressiva e frustrante dell’impossibilità di sperare nel cambiamento» (p. 191).
Bisogna restare in ascolto dei giovani accettandone la sfida, disponibili ad accogliere proposte nuove, per accompagnarli nel difficile compito di costruire la loro
identità. L’autore dopo un’interessante analisi dei conflitti educativi peculiari nei
giovani del Sud, nei quali il futuro da promessa è divenuto minaccia, propone il
tema dell’incontro nella gradualità e gratuità, come premessa per costruire storie
di vita. La persona, consapevole della propria finitudine tende a nascondersi, ma è
allora che comincia «la grande storia di Dio che si mette in cerca delle sue creature»
(p. 207).
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Un approccio più squisitamente di filosofia dell’educazione, non senza un’attenzione teologico-pastorale al problema educativo, è proposto da Carmine Matarazzo con il saggio, L’educazione tra emergenza e sfida. Prospettive filosofiche per
una società in cambiamento (pp. 227-284). L’autore si pone sulla scia di autorevoli
maestri che hanno conferito centralità al compito educativo ed evidenzia l’originalità del pensiero cristiano che mette al centro della relazione educativa la
persona. «Educare ha significato per il cristianesimo offrire una risposta di senso
all’esistenza umana» (p. 228). Tale risposta di senso è segnata dall’avvento di Dio
nella storia umana, che, tramite Cristo permette all’uomo di rivolgersi a Dio e
chiamarlo abbà (Rm. 8,15). Dopo un’interessante analisi storica sull’ipoteca nichilista e relativista che deve essere colta come sfida antropologica, prima ancora
che come sfida educativa, Matarazzo delinea il cammino che ha portato la Chiesa
italiana ad una «approfondita riflessione sulla questione educativa, coinvolgendo
molti studiosi e intellettuali di diverse aree ed estrazioni culturali» (p. 262). La
conclusione è che «solo con una proposta convincente e altrettanto forte sarà
possibile rimuovere il relativismo culturale, educativo, sociale, morale, nemico –
per dirla con un’acuta osservazione di Ratzinger – di ogni forma d’identità e di
certezza» (p. 284).
Chiude la riflessione un breve contributo di Luigi Longobardo, L’azione educativa della Chiesa illuminata dalle antiche comunità. Per continuare a riflettere (pp.
285-292). L’autore tratteggia, rapidamente, la sollecitudine delle antiche comunità
cristiane nei confronti dell’educazione. Naturalmente il discorso delle primitive comunità cristiane s’inscrive all’interno del mondo classico ellenistico-romano, che,
a sua volta, si sostanzia della paidea greca e della humanitas ramana, ma, precisa
l’autore, «la virtus cristiana, molto più dell’areté greca e della virtus romana, prepara
l’uomo alla sua duplice destinazione, terrena ed eterna» (p. 290). L’opera educativa
delle primitive comunità cristiane si prefigge di «penetrare e trasformare la mentalità
e la prassi del singolo uomo e della società, che hanno in Cristo il modello e il
riferimento da imitare» (p. 290).
La lettura del libro è piacevole, gli assunti convincenti e riescono a dare un
fattivo contributo di riflessione e di speranza, anche in vista del prossimo Convegno
ecclesiale nazionale In Gesù Cristo il nuovo umanesimo, promosso dalla Conferenza
episcopale italiana, che si inserisce nel decennio pastorale dedicato dal documento
programmatico alla tematica Educare alla vita buona del Vangelo.
Vincenzo Montera
P. MARTINELLI, L’umiltà di Dio: mistero di una presenza, Edizioni Porziuncola, Assisi 2011, pp. 80, € 8.
La Chiesa vive dell’Eucaristia. A partire dalla consapevolezza di questa centralità
del mistero eucaristico nella vita e nella missione della Chiesa, P. Martinelli ribadisce
la necessità di porre l’Eucaristia anche al centro della riflessione spirituale, ecclesiale
e teologica. A partire dalle Conversazioni eucaristiche del beato Francesco Spinelli,
l’Autore traccia un quadro complessivo del grande dono dell’Eucaristia. Le Conversazioni dello Spinelli appartengono ad una storia che è dentro il nostro presente (cf.
p.8), per cui anche noi possiamo partecipare della stessa esperienza di fede del beato,
perché ci troviamo pienamente inseriti all’interno di una sorta di «storia degli effet-
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ti» che ogni espressione autentica di fede è in grado di suscitare. L’Autore enuclea
alcune espressioni portanti dello Spinelli, facendole interagire con fondamentali elementi della coscienza ecclesiale del nostro tempo riguardo al mistero eucaristico. La
traccia seguita si articola in tre parti. Nella prima parte Martinelli individua il tema
dell’Eucaristia come estrema umiltà di Dio e la responsabilità del cristiano di fronte
al dono che Cristo fa di se stesso nel sacramento dell’altare (cf. p.11). L’Eucaristia
ci offre l’occasione per contemplare la mirabile logica che presiede a tutta l’azione
divina: l umiltà di Dio: «la via della kenosi, dello svuotamento e della presenza umile
del gesto eucaristico sono le condizioni con le quali Dio si rivolge si offre a noi […]
la kenosi è un amore radicale all’uomo come libertà» (p. 21).
Nella seconda parte l’autore, a partire da alcune affermazioni del beato, si sofferma sul carattere sacrificale dell’Eucaristia. L’Eucaristia è al tempo stesso il sacrificio
di Cristo e della Chiesa. Occorre riscoprire – nota Martinelli – la dimensione del
sacrificio. La cultura postmoderna tende a censurare questa parola. Essa va ri-compresa nell’orizzonte dell’amore trinitario rivolto all’uomo, nell’orizzonte agapico: «lo
stesso sacrificio del credente, unito a quello di Cristo, è reso possibile dalla grazia di
Dio e non dallo sforzo personale» (p. 34). La riscoperta del sacrificio in un orizzonte
comunionale ed agapico si traduce, a livello teologico, nella ri-considerazione feconda del rapporto tra Theologia Crucis ed Eucaristia e nella tematizzazione dell’unico
sacrificio di Cristo e della Chiesa. Siamo chiamati a riscoprire la riabilitazione del sacrificio per il nostro tempo (cf. p. 41) e farci, con il nostro sacrificio, corresponsabili
del sacrificio di Cristo, persone che corrispondono e partecipano a ciò che Cristo
ha fatto per tutti noi. In questo senso è significativo contemplare che il mistero
eucaristico è il punto oggettivo in cui il sacrificio unico e perfetto di Cristo implica
il nostro personale coinvolgimento: «la celebrazione eucaristica, prolungando efficacemente il sacrificio redentore di Cristo, include la mia partecipazione » (p. 42). La
terza parte dello studio si concentra sull’Eucaristia come sacramento della presenza
di Cristo nel tempo. Partendo da alcune intuizioni del beato Spinelli, l’autore affronta questioni importanti quali quella della contemporaneità di Gesù, dell’ecclesialità della relazione tra il credente e Gesù, della missionarietà della Chiesa. Chiude
il saggio una riflessione interessante sulla relazione tra Eucaristia e testimonianza
(martirio): «nella testimonianza fino al dono di sé, l’offerta che Cristo fa del suo
corpo e del suo sangue si dilata attraverso il corpo e il sangue del credente […]
l’Eucaristia, gesto sacramentale della donazione di Cristo, trapassa esistenzialmente
nel martirio, in una vita donata ad imitazione di Gesù per la vita del mondo.
Il culto eucaristico si esistenzializza nella testimonianza fino al dono della vita»
(p. 77). Apprezziamo notevolmente il lavoro di Martinelli. Il teologo, partendo dalle Conversazioni dello Spinelli, è riuscito, oltre che a donarci un profondo profilo
spirituale del beato, a mettere in dialogo la spiritualità eucaristica dello Spinelli
con le istanze ecclesiali, teologiche, antropologiche e culturali del nostro tempo,
insegnandoci in tal modo che l’attualità di una eredità non deve mai andare perduta
(cf. p. 79). Le Conversazioni eucaristiche dello Spinelli e la lettura teologica di Martinelli sono valide indicazioni di cammino per chi nutre il desiderio di contemplare
nel sacramento dell’altare una vita donata - una volta per sempre - e riconoscere
che la propria vita dipende dal sacrificio di Cristo, che il nostro esserci dipende dal
fatto che Uno si è svuotato e ha sacrificato se stesso. E allora, sapendo che la vita
di ciascuno di noi è il frutto di una morte per tutti, forse riusciremo a vivere con
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meno distrazione e superficialità la celebrazione del sacramento dell’amore kenotico
di Dio (cf. p. 50).
Agostino Porreca
AELREDO DI RIEVAULX, Regola delle recluse, a cura di D. Pezzini, Paoline,
Milano 2003, pp. 232, € 18,00.
Occorre fermarsi innanzitutto sulla spiritualità dei reclusi prima di affrontare il
tema della regola elaborata da Aelredo di Rievaulx. Essa si inserisce nella pratica, per
quanto possa sembrare sconvolgente e folle, di incarnare il Vangelo permettendo di
farsi rinchiudere in una cella delimitata da un muro, e questo fatto si è esteso per
parecchi secoli divenendo quasi per le sue proporzioni un fenomeno. Beninteso ci
troviamo di fronte ad una chiamata che costituiva e – costituisce – un signum contradictionis. Riteniamo di dire di trovarci di fronte ad una provocazione che per la
letteratura che ha generato ha segnato la vita della chiesa. Nella reclusione s’incarna
un modo di vivere eremitico sottolineandone il significato di segno perché in esso la
scelta della solitudine fa tutt’uno col separarsi fisicamente dalla realtà che ci circonda. C’è tuttavia una differenza fra, l’eremita e il recluso, perché il primo sceglie di
vivere d’anacoreta nel deserto, in secondo erige il deserto nel vivo stesso dei borghi
e della città. Warren dice: «reclusi e tuttavia visibili, ombre di dietro la tenda della
finestra che permetteva di entrare in contatti con loro, questi uomini, queste donne,
vivendo la loro vita solitaria nel cuore della comunità, erano un quotidiano richiamo
a quello che era il centro vero dell’esistenza cristiana» (Anchorites and their Patrons in
Medieval England, Berkeley-Los Angeles-London 1985, 7).
Un altro aspetto paradossale messo in luce dall’esistenza del recluso fa tutt’uno
con una presa di posizione sul presente in rapporto al futuro: è quest’ultima dimensione del tempo che acquista un grande valore positivo e che fa ritenere la vita
comune di questo mondo come una tortura che presenta solo aspetti di morte.
La reclusione rappresenta in maniera chiara la dimensione della speranza e della
trascendenza, fonte di buoni suggerimenti spirituali e viene sentita a livello popolare
di religiosità come una specie di difesa della societas umana in cui si è collata.
Sintetizzando si può dire che il recluso è il testimone vivente di una grande
acquisizione cristiana e cioè che la fede in Dio è impensabile al di fuori della dimensione escatologica. La reclusione, infine, si può paragonare quanto a valore e
significato ad un martirio senza spargimento di sangue.
Composta per la sua anziana sorella reclusa il De institutione inclusarum (116062) è l’opera più popolare di Aelredo di Rievaulx e costituisce quanto di più personale egli ci abbia lasciato. Lo scritto è un trattato sulla vita contemplativa che si
articola in tre sezioni: la prima la si può definire una sorta di manuale che regolamenta la vita monastica avendo di mira la disciplina della vita quotidiana, cioè
le occupazioni, il cibo, il vestiario della reclusa, mentre la seconda si occupa delle
virtù ed infine la terza è una triplice riflessione sull’amore di Dio. A proposito di
quest’ultima parte, come vedremo meglio più avanti, appare molto prezioso l’invito
che proviene da Aelredo di leggere gli episodi del vangelo in maniera affettiva o, si
può dire con Boyer, che ci troviamo di fronte ad un realismo affettivo che rende il
trattato aelrediano una forma di meditazione modernissima.
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Fatte queste premesse ci chiediamo: cosa ci spinge a ritornare oggi su questo
scritto aelrediano? Potremmo rispondere, come già in qualche modo ricordato, sottolineando l’aspetto escatologico, trascendente, e ultraterreno della vita cristiana.
Esaminiamo ora le tre parti della regola che non bisogna considerare come assolutamente autonome. La prima non va vista come una serie di norme a cui attribuire
un significato meramente documentario, anche perché le regole attinenti ad orari
della preghiera e del lavoro, cibo e bevande e vestiario si trovano soltanto alla conclusione della trattazione della disciplina esteriore, trattazione che si apre con un
paragrafo intitolato “ragioni per cui si sceglie la vita reclusa”.
Aelredo distingue innanzitutto vari tipi di vita monacale ed afferma che «gli
antichi […] o per evitare un pericolo, o per non soffrire un fastidio, o per potere più
liberamente bramare e desiderare l’abbraccio di Cristo, scelsero una vita solitaria»
(p. 123). E subito dopo l’autore coglie con grande vivacità scene di recluse chiacchierone. Ci sia permessa, a questo punto, una lunga citazione: «È difficile – osserva
Aelredo – in questi tempi trovare una qualche reclusa che stia sola, che non abbia
invece, seduta davanti alla sua finestra una qualche vecchia garrula o pettegola […]
così, quando l’ora costringe a salutarsi, la reclusa si ritrova appesantita di piaceri, e
la vecchia carica di vettovaglie» (p. 125).
L’autore individua la causa di questo comportamento scorretto nel fatto che
molti «ignorando o non prendendo sul serio il motivo di questa istituzione, ritengono sufficiente rinchiudere fra quattro pareti soltanto il loro corpo, lasciando invece
che lo spirito sia libero di dissolversi in mille divagazioni, dissiparsi in sollecitudini
e preoccupazioni, agitarsi in desideri immondi e illeciti» (p. 124). E così «la cella
diventa un postribolo, e dilata con abilità l’apertura, o la reclusa ne esce o l’adultera
vi entra» (pp. 125-126). La reclusa «sieda dunque sola, taccia, ascolti Cristo e parli
con Cristo» (p. 131). Un’altra preoccupazione di Aelredo è che si metta «il massimo
di attenzione nella cura del silenzio» (p. 135).
La parte seconda della regola sembra segnare un nuovo incipit: l’attenzione di
Aelredo non è riposta soltanto sulla sorella ma su chiunque «rinunciando al mondo,
ha voluto scegliere questa vita solitaria» (p. 147), in seguito riponendo la questione
della scelta della vita reclusa, Aelredo non fa una carrellata, come nella prima parte
dell’opera delle più probabili motivazioni, ma ne mette in luce una sola: la dedizione
verginale a Cristo. Cristo si presenta da subito come lo sposo e l’immagine delle
nozze percorre tutta questa parte che svolge il tema della disciplina interiore. La
verginità occupa, nell’attenta analisi che ne fa Aelredo, il primo posto, analisi che è
maggiore di quella dedicata all’umiltà e alla carità che vengono dopo nel testo, seppure rivestono un’importanza maggiore. Di fatto la trattazione della castità occupa
più della metà della sezione distendendosi per ben dieci paragrafi, mentre l’umiltà
e la povertà vengono trattati in tre paragrafi e appena appena due sono riservati alla
carità. Gerarchicamente, però, prima della castità vengono l’umiltà e la carità, come
si evince da questa affermazione: la castità è un fine che «senza l’umiltà si secca e
marcisce» e la carità «è il compimento dell’avvenimento spirituale, in quanto contiene tutte le virtù e le lega in unità» (p. 27). Il significato generale è chiaro: le virtù
devono essere vissute in maniera armonica, onde evitare una stonatura spirituale della personalità della reclusa. Ma è certo che sulla castità Aelredo mostra una severità
che non si addice ai tratti miti della sua personalità. Notiamo in quest’opera anche
una dose di pessimismo, come si arguisce, per esempio, dalla seguente affermazione.
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«Quanto sono pochi ai giorni nostri quelli che sono accesi di un fervore eccessivo.
Siamo tutti saggi, siamo tutti previdenti, siamo tutti discreti» (p. 21) Aelredo poi
si rivolge direttamente alla consanguinea con queste parole: «Quanto a te, sorella
vorrei che tu non fossi mai sicura, ma che rimanessi nel timore, non fidandoti della
tua fragilità» (p. 151). L’eccessivo rigore di Aelredo sulla castità va moderato con
quanto scrive alla sorella: «Egli ti ha già scelto in sposa, ma non ti incoronerà se non
dopo la prova» (p. 149). E se è vero che la continenza è un dono di Dio, è pure vero
che «Dio ritiene indegni di un così grande dono coloro che rifiutano di sottoporsi a
fatiche per ottenerlo» (p. 153).
La terza e ultima parte della Regola si propone di illustrare l’amore di Dio considerando i benefici passati, presenti e futuri. L’inizio di questa pratica della memoria
ha come oggetto i benefici del passato ci si accosta al Vangelo entrando con l’immaginazione a col cuore negli episodi della vita di Gesù per un’opera di conversione e di
assimilazione spirituale che deriva dalla meditazione di quelle pagine. L’assieme dei
sensi partecipa a quest’atto meditativo che costituisce si direbbe una sorta di Erlebnis
che rivive gli episodi biblici con efficace concretezza. Così Aelredo è fra i fondatori
di ciò che si suol chiamare “pietà affettiva” . L’attenzione dell’autore è catturata dagli
episodi che mettono in primo piano l’adultera colta in fragrante, la peccatrice che
incontra Gesù in casa di Simone il fariseo, e il paralitico che viene calato dal tetto.
Ciò che accomuna queste storie è il fatto che le donne hanno commesso peccati sessuali. Scelta, questa, che appare opportuna se si considera l’insistenza sulla verginità
che caratterizza queste storie. Nella parte che tratta i benefici nel presente Aelredo si
confessa ampiamente. Esortando la sorella a far memoria dei doni di Dio nella sua
vita, l’abate di Clairvaux non può fare a meno di rammentarsi della sua esistenza
giovanile. C’è un confronto di itinerari esistenziali: la sorella più grande d’età e più
matura per esperienza di vita faceva ad Aelredo da seconda madre. Tutto questo
racconto s’incentra sulla differenza fra la vita della sorella e il ricordo delle cadute di
cui Aelredo vede piena la propria adolescenza. Fra i due c’è un’opposizione totale.
Nonostante alcune attenuanti non bisogna relativizzare l’atteggiamento di profondo
e serio impegno morale con cui Aelredo ha intrapreso a raccontare se stesso. Ci sono
due considerazioni da fare: l’esperienza luminosa con cui la sorella ha condotto la
sua vita non può essere occasione di orgoglio, così come la “notte oscura” passata da
Aelredo non può annullare la possibilità di un risveglio pieno di luce.
Passando infine alla meditazione dei benefici futuri, essa coincide con i novissimi (la morte, il giudizio, l’inferno, il paradiso). La morte va vista come «l’inizio della
beatitudine, il traguardo delle fatiche, la distruzione dei vizi» (p. 202).
Circa l’aldilà Aelredo è molto prudente perché la penna non riesce a descriverlo
in quanto l’esperienza non lo ha ancora insegnato. Ciò non lo esonera, però, dal presentare alla sorella le angosce che precedono la sentenza del giudizio e dal descrivere
con capacità pittorica i tormenti dell’inferno.
Il cielo, infine, è presentato come il luogo del riposo. Con un giudizio sintetico
possiamo sostenere con Pezzini che «questa rimane l’opera in cui Aelredo ci ha consegnato la parte più profonda di sé» (p. 89).
Enrico Piscione