Norberg-Schulz – Luogo

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Norberg-Schulz – Luogo
associazione culturale Larici – http://www.larici.it
Christian Norberg-Schulz
Il concetto di luogo
Arne Korsmo e Christian Norberg-Schulz, Residenza Alfredheim, Tåsen, 1951-1952
19691
1 In “Controspazio” n. 1, giugno 1969, pp. 20-23. Trascrizione e ricerca immagini a cura
dell’associazione culturale Larici.
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Il «concetto di luogo» ha recentemente assunto una posizione
fondamentale nel dibattito su problemi di urbanistica e di architettura2.
Mentre in passato l’ambiente dell’uomo poteva essere descritto in termini di
luogo stabili («casa», «città», «patria»), al giorno d’oggi sembra che si
tenda a liberarsi da detti legami e a vivere in un senso più mobile. Già gli
stessi mezzi tecnici di comunicazione quali il telefono, la televisione ecc. ci
esimono dal rapporto fisicamente diretto con il prossimo, mentre il
progresso dei mezzo di trasporto permette ad un numero sempre maggiore
di persone ogni genere di spostamento.
Questo indirizzo evolutivo è da alcuni considerato favorevolmente perché
permette un intensificarsi degli scambi sociali ed un allargarsi di interessi e
vedute3. Infatti da qualche tempo sulle riviste di architettura fioriscono
progetti utopistici che dovrebbero illustrare l’ambiente «mobile» del futuro.
Detti progetti comunque non riescono a svincolarsi completamente dalla
rappresentazione di luoghi, anche se a volte si limitano a definirli come
«megastrutture» relativamente anonime, e come con Ron Herron «una città
in cammino» (1964), ossia un «luogo spostabile». Peter Cook, l’interprete
principale del gruppo inglese Archigram prevede nel libro Architecture,
Action and Plan che «l’architettura diventerà infinita e transitoria»4, e
Constant Nieuwenhuis, l’utopista olandese noto per la fantasia New Babylon
(1960-64), dichiara che «nella Nuova Babilonia tutti saranno sempre in
viaggio e non sentiranno mai la necessità di ritornare al punto di partenza
dato che anch’esso avrà subìto una trasformazione. Al contrario, ogni
elemento dovrebbe essere lasciato ad uno stadio indeterminato, mobile e
flessibile»5. Ma come si può seriamente pensare a fare dei progetti, cioè a
fissare qualcosa che muta, qualcosa di indeterminato? L’interrogativo mette
in luce la contraddizione insita nell’opera di Constant, malgrado l’attualità
della sua problematica.
2 Vedi M.M. Webber: Urban Place and Non-place Urban Realm, Explorations into Urban
Structure, Philadelphia 1964.
3 Webber: op. cit.
4 P. Cook: Architecture: Action and Plan, London 1967.
5 C. Nieuvenhuis: New Babylon. Architectural Design, June 1964.
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Archigram (Ron Herron), Walking City, 1964
Constant Nieuwenhuys New Babylon, dal 1959
Quel che preme, quel che veramente si vorrebbe raggiungere, è un
contatto umano più ricco, un’interazione più profonda. Dice a proposito il
Webber, teorico americano di urbanistica: «l’essenza della città e della vita
di città non è il luogo ma l’interazione». Da una parte abbiamo quindi gli
utopisti, i teorici della «mobilità, che per questa via ricercano un
arricchimento dei rapporti umani; e dall’altra coloro che temono che tale
mobilità porti invece alla loro disgregazione. Non mancano infatti i dinieghi e
le smentite più accese di coloro che sostengono come l’uomo non possa
sentirsi a suo agio se l’ambiente che lo circonda manca di una «struttura
percepibile». Il teorico americano di urbanistica, Kevin Lynch, afferma che
«un’immagine ambientale idonea conferisce a chi ne è in possesso una
sicurezza emotiva», ed enumera dettagliatamente i vari attributi che un
dato ambiente deve avere per poter permettere la formazione della
suddetta «immagine»6.
L’enunciazione del Lynch è primariamente una precisazione del concetto
del luogo, ed è interessante rilevare come le sue conclusioni abbiano anche
una validità generale. Infatti risulta che la mancanza di contatti umani può
generale quei disturbi psichici che si verificano a ritmo sempre crescente tra
gli abitanti delle grandi metropoli. Il teorico dell’architettura Christopher
6 K. Lynch: The Image of the City, Cambridge, Mass. 1960, p. 4.
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Alexander ha svolto a questo riguardo diverse ricerche osservando che «…le
patologie sciali caratteristiche della vita urbana, la delinquenza e i disordini
mentali, dipendono inevitabilmente da mancanza di contatto umano»7.
Perché questo contatto si possa verificare «le persone interessate debbono
incontrarsi molto spesso, quasi quotidianamente». I disturbi mentali
sopraggiungono quando esistono soltanto degli incontri saltuari ad intervalli
irregolari. Il tipo di ambiente e di rapporto auspicato dagli utopisti è perciò
per l’Alexander fautore di un autoripiegamento e conduce nel peggiore dei
casi alla schizofrenia.
Nell’architettura moderna non mancano comunque progetti che potremo
chiamare autodisgregativi. Si veda per esempio la molto pubblicata
Siedlung Halen presso Berna, raggruppamento residenziale in luogo ben
definito, opera degli architetti dell’Atelier 5 (1959-61), e il progetto di Colin
St. John Wilson per il nuovo centro urbano di Liverpool (1966) con cui
l’architetto si propone di ridare alla città il «cuore» che essa aveva perduto.
Sarà però opportuno far notare come progetti quali gli ultimi summenzionati
e le idee che li muovono siano spesso considerati «romantici» ed
«anacronistici», appunto perché tendono a riconfermare quel che per
tradizione va sotto il nome di «architettura». Questa è una conseguenza
logica dell’antagonismo verso il concetto del luogo. Eliminando il luogo si
elimina contemporaneamente l’architettura8.
Atelier 5, Siedlung Halen, Kirchlindach, 1958–1962
Colin St. John Wilson, Liverpool Civic and Social
Centre, 1965-69
Il dibattito odierno di architetti e urbanisti sulla localizzazione
dell’ambiente più appropriato per le esigenze umane ha quindi raggiunto un
piano ben diverso da quello degli anni passati. Prima si discutevano i
dettagli, l’apparenza esteriore degli edifici, la preelezione di forme diverse di
abitazione; oggi si è arrivati alla radice del problema9: Cosa si deve esigere
dall’ambiente perché l’uomo possa continuare chiamarsi tale? Una
situazione mobile, senza architettura, o un luogo percepibile ed
7 C. Alexander: The City as a Mechanism for sustaining Human Contaets. Environment for
Man (W.R. Ewald, ed.), Bloominton 1967.
8 Questo è stato fatto da Cedric Price e Reyner Banham.
9 Vedi al proposito Hans Sedlmayr: Verlust der Mitte, Salzburg 1948.
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architettonicamente articolato?
Lo spazio esistenziale
Nella nostra professione, quando si discute dell’ambiente umano, lo si fa
in genere con riferimento all’economia, al traffico, all’urbanistica. L’uomo
subentra nel dibattito solo eccezionalmente. Non dovrebbe invece essere lui
l’argomento primario, lui e il suo orientamento, la sua identificazione con
l’ambiente in cui è stato inserito? Questo argomento è di natura
prettamente psicologica. E anche se la psicologia è una scienza giovane, ci
offre in questo contesto delle precisazioni illuminanti. Mi riferisco qui
soprattutto alle ricerche compiute dallo psicologo svizzero Jean Piaget sullo
sviluppo del bambino. Le sue osservazioni, statisticamente assai
documentate, riguardano sia lo sviluppo del concetto di oggetti concreti
quali il sole e la luna, l’acqua, la terra e la montagna, sia quello di concetti
più astratti come le cause, il tempo e lo spazio10. Lo psicologo svizzero
dimostra che non è possibile formarsi una cognizione dell’oggetto senza
provare per esso un interesse affettivo, e senza averne appreso in
precedenza il funzionamento e l’organizzazione entro lo spazio e il tempo.
«Un oggetto», afferma il Piaget, «è un sistema di immagini percepite,
dotato di una sua forma spaziale costante malgrado consecutivi
spostamenti, e tale da costituire un’entità isolabile entro la serie causale del
tempo»11. È come dire che l’uomo si forma gradatamente l’immagine di un
mondo strutturato, in cui la nozione spaziale, cioè lo spazio esistenziale ha
parte integrante. Per il Piaget il processo conoscitivo è perciò soprattutto un
processo «conservativo».
Un’esperienza di primaria importanza è la scoperta che gli oggetti hanno
permanenza: anche se possono alternativamente sparire e ricomparire, il
fine rimane pur sempre «la costruzione di oggetti permanenti sulla base
delle immagini mobili proiettate dalle percezioni immediate»12. Ciò sta
sopratutto a significare che il bambino impara riconoscendo, che si crea un
suo mondo basato su un sistema di similitudini e che è infine incline ad
associare dati oggetti con luoghi determinati. Così si esprime il Piaget:
«Fintanto che il bambino non intraprende delle ricerche dirette a ritrovare
gli oggetti scomparsi, ossia fin quando non vedendoli più non sarà in grado
di intuire il loro spostamento nello spazio, non si può parlare di
conservazione dell’oggetto»13.
L’evoluzione del concetto di luogo, e di spazio come un sistema di luoghi,
è quindi una premessa necessaria all’ambientamento. Piaget conclude:
«L’universo è costruito come un aggregato di oggetti permanenti, connessi
attraverso relazioni casuali, indipendenti dal soggetto e inseriti nello spazio
10 J. Piaget: The Child’s Conception of the World, London 1929. The Child’s Construction of
Reality, London 1955. The Psychology of Intelligence, London 1950.
11 J. Piaget: The Child’s Construction of Reality, p. 92.
12 J. Piaget: op. cit., p. 91.
13 J. Piaget: op. cit., p. 90.
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e nel tempo. Un cosiffatto universo invece di dipendere da attività personali,
è imposto all’individuo, nel senso che comprende l’organismo come parte
del tutto».
Naturalmente il mondo del bambino è «egocentrico». Sia in senso
motorio che percettivo egli ha ben poche possibilità di «impadronirsi»
dell’ambiente. Anche se i confini tendono gradualmente ad allargarsi, la
struttura rimane centralizzata. Quando ho domandato al mio figlio
dodicenne di illustrarmi il suo ambiente, mi ha risposto che avrebbe
cominciato a parlarmi della sua casa «perché è da lì che si esce per andare
in tutti gli altri luoghi». Le osservazioni di Kevin Lynch dimostrano come
anche per gli adulti il mondo consista di centri e di possibilità di movimento
centrifugo che portano alla formazione delle zone che noi diciamo di
«conoscere»14. Tra le une e le altre si estendono le grandi contrade
sconosciute come macchie bianche sulle nostre mappe personali.
Gradatamente veniamo a formarci un concetto spaziale più astratto.
Questo contiene sia componenti universali basate su relazioni quali
«dentro», «fuori», «sotto», «sopra», «davanti» e «dietro», che altre più
specifiche di carattere geometrico. Anche se queste relazioni influiscono
notevolmente sulla nostra maniera di pensare e facilitano l’orientamento
intellettuale, significano un’aggiunta, piuttosto che una sostituzione della
struttura fondamentale dello spazio esistenziale.
Quando affermiamo che lo spazio esistenziale è «egocentrico»,
riconosciamo anche come esso vari da individuo a individuo. Ho comunque
già indicato che esistono delle strutture generali, comuni a tutti questi
«spazi» individuali. I più conosciuti contributi agli studi di dette strutture
sono dovuti alla psicologia della Gestalt, che ha dimostrato come l’individuo
organizzi spontaneamente il suo ambiente secondo ben determinate «leggi
di percezione», che sembrano essere date a priori, indipendentemente dalle
circostanze15. Piaget le ha chiosate con degli schemi di percezione più
complessi, basati sul relazioni geometriche. Le leggi della Gestalt
dimostrano che gli oggetti vengono appresi come totalità per la loro
«similarità», «prossimità», «continuità» e «delimitazione».
La psicologia della Gestalt descrive comunque dei «principi organizzativi»
astratti, piuttosto che le strutture dello spazio esistenziale, ed ha quindi
bisogno di essere ampliata in alcuni punti fondamentali. Ciò è stato fatto dal
filosofo tedesco Otto Friedrich Bollnow il quale in Mensch und Raum
dimostra, come il Piaget, che il concetto di spazio è legato alle azioni
umane. «Lo spazio», egli scrive, «è conquistato dalle attività dell’uomo» 16.
Per esempio la parola «spazio» indicò l’azione stessa di liberare il luogo
dove ci si sarebbe dovuti sistemare, prima di acquistare il significato del
luogo stesso. Il concetto «luogo» ha esistenzialmente due significati, sia
14 K. Lynch: op. cit.
15 M. Wertheimer: Laws of Organisation in Perceptual Forms. A Source Book of Gestalt
Psichology (Ellis, ed.), London 1938.
16 O.F. Bollnow: Mensch und Raum, Stuttgart 1963, p. 33.
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come luogo di azione che come punto di partenza. Rappresenta quindi «ciò
che è noto» e che permette all’uomo di dirigersi verso una meta.
Il concetto del luogo o del punto di appoggio esprime altresì come
l’individuo non si muova nello spazio in maniera casuale. Tutti i movimenti
possono sostanzialmente riportarsi a degli spostamenti centrifughi e
centripeti. Le nostre vie comportano sempre un riferimento al punto di
partenza o a quello di arrivo. Solo attraverso tali riferimenti la via acquista
un significato, ed è possibile creare qualificazioni come «davanti» e
«dietro», che esprimono anzitutto come ogni attività consista
primariamente nell’essere «in cammino». Anche questa proprietà
fondamentale del nostro spazio esistenziale è rappresentata nel linguaggio
da un gran numero di locuzioni. Diciamo per esempio di trovarci ad un
«crocevia» e di avere preso «una strada sbagliata».
Visti globalmente i nostri movimenti sviluppano un piano orizzontale, che
corrisponde alla libertà di azione individuale. Questo piano è doppiamente
circoscritto: una volta dall’orizzonte ed un’altra dall’ambiente immediato che
ci circonda. In ambo i casi l’individuo è al centro. Lo «spazio esistenziale» è
invece «esteriorizzato», cioè a dire che ogni individuo si costruisce
un’immagine spaziale indipendente da lui, dotata di stabilità e ordine
sistematico proprio. I confini di questo spazio possono essere più
circoscritti, oppure oltrepassare l’orizzonte visuale. La «condizione
immediata» dell’uomo si potrà quindi definire come una tensione tra i limiti
o le strutture dello spazio esistenziale e l’ambiente immediatamente
egocentrico del singolo. Naturalmente ciò vale anche per lo «spazio» sociale
e culturale. Questa tensione compare soprattutto nelle locuzioni «a casa» e
«altrove», «dentro» e «fuori». Quando il centro del nostro spazio immediato
coincide con il centro (o uno dei centri) del nostro spazio esistenziale, allora
ci sentiamo at home, chez nous, a casa. Altrimenti siamo altrove, sia nel
significato di trovarci per la strada, o in «un altro luogo» o semplicemente di
sentirci smarriti. A questo proposito osserva il Bollnow: «Il doppio
movimento dell’andare e del ritornare riflette una differenziazione dello
spazio in due zone, quella interna più ridotta, circondata concentricamente
da un’altra esterna, più grande: l’una, il mondo intimo della casa, l’altro il
mondo esterno in cui l’uomo esce e da cui rientra. La distinzione delle due
zone è di importanza fondamentale per la strutturazione dello spazio
esistenziale»17.
Così i luoghi, le vie e le zone di cui è composto lo spazio esistenziale del
singolo, risultano dalle azioni e dai rapporti che egli intrattiene con il suo
ambiente naturale. Tale spazio è in massimo grado comune agli uomini che
appartengono allo stesso luogo, anche se poi tende a colorarsi in modo
soggettivo. Già sin dall’infanzia ci ritroviamo inseriti in uno spazio dato «a
priori» che dobbiamo sforzarci d comprendere e cui bisogna adattarsi.
Piaget osserva a questo proposito: «L’ambiente fisico non è imposto di colpo
all’intelligenza in via di sviluppo e neppure come una entità singola, ma in
17 Bollnow: op. cit., p. 81.
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modo tale che ogni incremento rispecchi passo passo il percorso
dell’esperienza»18. Da quel che ho detto sullo spazio esistenziale come
sistema di luoghi, vie e zone, si può ricevere l’impressione che l’ambiente
umano sia bidimensionale. In un certo senso così si può dire, la terza
dimensione in questo contesto potrà essere caratterizzata da termini «su» e
«giù», con significato diverso dall’estensione in superficie. Ciò che si trova al
di sopra e al di sotto di essa è stato sempre considerato diverso, e in
tutt’altro modo da quello svariato che nasconde l’orizzonte visuale o
intellettuale del singolo. L’asse verticale è tradizionalmente considerato
come la dimensione sacra dello spazio19. Esso traccia una «via» per una
realtà che può essere o «più alta» o «più bassa» di quella giornaliera, una
realtà che supera la forza di gravità o ne è a sua volta avvinta. Erich
Kästner infatti dice che l’idea della salvezza è in genere associata alla
montagna: «In ogni ascesa c’è un riflesso della redenzione. Ciò è espresso
dalla forza contenuta nella parola «sopra» e dalla potenza della parola
«ascendere»20. Lo spazio esistenziale perciò non è omogeneo ed è diverso
da quello matematico.
Ho potuto parlare di strutture nello spazio esistenziale in quanto la vita
stessa è strutturata. Si può dire che essa consiste in un movimento che va
da una condizione ad un’altra, un movimento continuato e incessante,
dotato di un ritmo e di una forma descrivibili. Anche le necessità umane
fondamentali come la fame, la sete e il sonno perseguono degli schemi
ritmici. Siamo inoltre avvinti ad un sistema gerarchico ciclico, quello dei
«giorni», degli «anni» e dell’«età». Come dice il Piaget: «La vita è artefice di
trame»21.
E invero la condizione momentanea del singolo presenta diversi
«significati» con aspetti sia fisici che psichici. Tutte le condizioni sono
vincolate in un modo o nell’altro allo «spazio» e dopo quanto ho detto della
«forma esistenziale» e dello «spazio esistenziale», essi debbono
necessariamente essere considerati come strutture isomorfe. Si può dire
che la vita si autointerpreta come spazio, nel prendere possesso
dell’ambiente. Questo accade contemporaneamente sia attraverso un
orientamento puramente fisico che attraverso una identificazione più
profonda. Quando un’azione ha luogo, il luogo in cui l’azione accade
acquista significato, nel senso che viene ad esprimere le possibilità
dell’azione stessa. Esso non partecipa solo di una struttura spaziale ma è
anche legato ad un sistema di valori e di significati, acquista un carattere
definito e assurge a simbolo22.
Determinate azioni sono quindi associate a luoghi determinati. Creare
uno spazio significa realizzare la forma esistenziale in un ambiente dato.
Così si esprime Rudolf Schwarz: «Il popolo immette quel mondo che porta
18 J. Piaget: The Psychology of Intelligence, p. 157.
19 Vedi M. Eliade: Das Heilige und das Profano, Hamburg 1957, p. 22 sgg.
20 E. Kästner, Ulberge, Weinberge, Frankfurt 1960, p. 93.
21 J. Piaget: op. cit. p. 167.
22 Vedi Chr. Norberg-Schulz: Intenzioni in Architettura, Milano 1967.
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dentro di sé nella terra che trova intorno a sé, immette il paesaggio interno
nel paesaggio esterno e l’uno e l’altro si unificano»23. Si tratta quindi di un
rapporto, di un’interazione tra le intenzioni e le condizioni date. In questo
rapporto è contenuta una certa libertà: non siamo solo prodotti di un
ambiente ma possiamo conformarcelo a seconda delle nostre necessità, sia
quando lo percepiamo che quando lo usiamo. Ciò non significa che gli spazi
esistenziali che ne risultano abbiano strutture fondamentalmente diverse. Lo
spazio esistenziale consiste sempre di luoghi (di carattere diverso) e di vie
che esprimono «tensioni» diverse. Esso è anche differenziato in zone note e
ignote, rappresentate dalle locuzioni «dentro» e «fuori», ed è
necessariamente organizzato in modo gerarchico perché la vita si svolge su
una varietà di piani, da quello sensorio-motorio a quello puramente
simbolico.
Lo spazio architettonico
Ho usato il termine «spazio esistenziale» per indicare il nostro concetto o
meglio l’immagine che noi ci formiamo dell’ambiente che ci circonda. Ma ho
anche accennato come detta immagine presupponga necessariamente che
l’ambiente abbia una determinata struttura fisica. Se la struttura fisica non
permette lo sviluppo di uno spazio esistenziale soddisfacente sarà l’uomo
stesso a riformare l’ambiente. Ciò accade giornalmente a ciascuno di noi:
apriamo e chiudiamo le finestre, spostiamo i mobili, accendiamo la luce. Ma
il singolo non ha che un’influenza minima sull’ordine superiore di quella
«struttura di luoghi» in cui è incluso il suo spazio individuale. Siccome detta
struttura possiede un carattere pubblico, la società stessa incarica degli
specialisti, ossia gli architetti e gli urbanisti, ad occuparsene. Il compito
degli architetti è quindi di concretizzare uno spazio esistenziale più o meno
pubblico24.
Il primo punto da chiarire in questo contesto è del come elementi dati
dalla natura possano soddisfare alle nostre necessità spaziali ed in qual
modo noi siamo in grado di «svilupparlo» ulteriormente. La scelta dei luoghi
di abitazione non è mai stata affidata al caso. Il problema della
localizzazione è diventato oggi una vera e propria scienza, cui sopratutto i
geografi hanno contribuito in maniera significativa25. In questo contesto non
intendo toccare dei fattori economici e pratici, ma soltanto indicare quali
possibilità lo spazio naturale offra come spazio esistenziale, con quel
significato psicologico che ho dato a questo concetto. Nel termine «spazio
naturale» è già indicata la risposta: il paesaggio contiene veramente degli
«spazi» che vengono definiti come luoghi in un contesto più vasto. Citerò
ancora Rudolf Schwarz: «Parliamo di spazi paesistici e pensiamo al
23 R. Schwarz: Von der Bebauung der Erde, Heidelberg 1949, p. 59. [Nel testo manca il
rimando alla nota. N.d.C.]
24 Vedi Chr. Norberg-Schulz: Intention und Methode in der Architektur, Der Architekt, Juni
1967.
25 Vedi H. Haggett: Lacational Analysis in Human Geography, London 1965.
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paesaggio come se fosse una casa. Vediamo le montagne come pareti, il
fondo della valle è il pavimento, i fiumi, le vie, le coste del mare sono le
soglie e dove la montagna si abbassa c’è la porta»26. Gli uomini eleggono
questi spazi a loro dimora e tutta la loro storia si sviluppa come
un’interazione con la struttura del paesaggio, con quel genius loci che fin dai
tempi remoti venne considerato come una realtà di altissimo significato.
Anche l’edilizia assume una forma piuttosto che un’altra a seconda del
carattere del paesaggio. Sulle grandi pianure dove la natura non offre che
ben rari punti di appoggio si vengono caratteristicamente a formare delle
culture di spazi chiusi. Nelle valli ove la direzione è già inclusa nello spazio
naturale, l’edilizia assume un carattere più lineare, e sarebbe vano voler
creare degli altri orientamenti. Tali esempi servono a chiarire come lo spazio
naturale in genere non basti a concretizzare lo spazio esistenziale dell’uomo.
Pure i nomadi raggruppano le loro tende, ed è importante tener conto come
nemmeno essi siano liberi dai luoghi, poiché si spostano sempre entro zone
goegraficamente ben definite27. Solo quando l’uomo ha preso possesso dello
spazio definendo quel che c’è dentro e quel che rimane fuori possiamo dire
a ragione che lo abita. Nella Citadelle Saint-Exupéry caratterizza l’uomo
come «colui che abita»28.
La distinzione tra interno ed esterno è quindi di importanza fondamentale
in architettura, ed è tipico che spesso si definisca quella moderna come «un
nuovo rapporto tra l’esterno e l’interno». La recinzione e la porta sono i
mezzi più primitivi usati per distinguere l’interno dall’esterno e per
contrapporre i due ambienti in una relazione significativa reciproca.
Comunque una singola porta nella recinzione non tiene conto della struttura
ambientale che è legata al percorso del sole, cioè a dire ai «quattro punti
cardinali». Questi si possono facilmente rappresentare per mezzo
dell’incrocio che è una delle più antiche strutture spaziali che si conoscano.
Schwarz scrive: «Egli fonda la sua città segnando sulla terra l’incrocio di due
strade che dividono il mondo con le loro quattro direzioni, e poi recinta il
centro»29. L’incrocio integrato alla recinzione sta a significare che il luogo fa
parte di un contesto maggiore e vive nell’ambiente. L’opera architettonica è
quindi caratterizzata da «ciò che essa è» in rapporto all’ambiente.
L’interazione tra esterno e interno si basa sopratutto sul fatto che si
stabiliscono delle direzioni entro la struttura del luogo. Questo può
verificarsi in modi diversi. Abbiamo visto come quello più semplice sia
l’apertura. Anche i cosiddetti «elementi conduttori» sono ben noti sotto
forma di linee o di superfici (pavimenti, pareti, soffitti ecc.) che dall’interno
continuano verso l’esterno e viceversa30. Furono usati sopratutto all’inizio
dell’architettura moderna per creare «transizioni fluide» tra gli interni e gli
esterni. Anche se non si riuscì ad abolire la distinzione, ne risultò una certa
26 R. Schwarz: op. cit., p. 1.
27 Vedi R.L. Beals and H. Heijer: An Introduction to Antropology, New York 1965.
28 A. de Saint-Exupéry: Citadelle, Paris 1948.
29 R. Schwarz: op. cit., p. 15. Vedi anche W. Müller: Die Heilige Stadt, Stuttgart 1961.
30 Norberg-Schulz: Intenzioni in Architettura, p. 137.
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indeterminatezza spaziale. Ciò dipendeva certamente dall’intenzione di
esprimere un mondo «aperto» ed accessibile, ma negli ultimi anni abbiamo
assistito ad una forte opposizione verso questa tendenza: l’uomo non si
trova a suo agio, cioè «a casa» nello spazio illimitato. Rudolf Schwarz dice:
«Per diventare una casa il mondo deve diventare piccolo. La dimora deve
conservare una scala comprensibile»31. Ne risulta un nuovo interesse per
definizioni
spaziali
variate.
L’americano
Robert
Venturi
tenta
consapevolmente di creare «contrasto e contraddizione» tra l’interno e
l’esterno: «Poiché l’interno è diverso dall’esterno, il muro, la zona di
differenziazione, diventa un avvenimento architettonico. L’architettura
sopraggiunge all’incrocio di forze interne ed esterne di uso e di spazio.
Queste forze interne e ambientali sono tanto generali che particolari, sia
generiche che circostanziali»32.
Il significato che il Venturi dà alla parete risulta soprattutto quando essa è
concepita come inflessa. Una superficie concava raccoglie lo spazio come
uno specchio parabolico e crea un consolidamento, mentre una superficie
convessa lascia scorrere via lo spazio e lo proietta in fuori. Il rapporto tra
concavità e convessità è quindi di significato fondamentale nell’architettura.
Il Borromini fu il primo a realizzarlo e a servirsene usando la curva per
definire delle zone a direzione e densità disuguali e facendo in modo che
concorressero a creare un «campo» ricco di tensioni33. E non è un puro caso
che il ben noto studioso del Borromini, Paolo Portoghesi, si sia servito di
questa possibilità in modo nuovo ed inebriante, adottando la curva per dare
articolazione e stabilità allo spazio neo-plastico. Ciò risulta particolarmente
evidente nella sua Casa Andreis, ove cinque centri avvincono lo spazio
esterno, pur costituendo un interno dinamico e continuo. La soluzione
illustra come centri, vie e zone possano radunarsi in un’unità complessa ed
integrata, e ripropone una questione fondamentale: «come si può
descrivere lo spazio architettonico quale campo di attività plurime?»
Paolo Portoghesi, Casa Andreis, Scandriglia, 1964-1969
31 R. Schwarz: op. cit., p. 194.
32 R. Venturi: Complexity and Contradiction in Architecture, New York 1966, p. 88.
33 Vedi P. Portoghesi: Borromini, architettura come linguaggio, Roma 1967, p. 383.
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Ho già sostenuto che lo spazio esistenziale è gerarchico, quindi anche lo
spazio architettonico dovrà avere una struttura corrispondente composta. Lo
spazio esistenziale contiene zone differenti legate ad attività diverse, esse,
come abbiamo indicato, sono ordinate reciprocamente secondo tipi diversi di
rapporti. Solo eccezionalmente coincidono con il sistema coordinato
cartesiano messo in voga dal primo funzionalismo. Lo spazio architettonico
contiene invece direzioni e centri, «addensamenti» e «rarefazioni». Esso
materializza lo spazio esistenziale che dal canto suo rappresenta «le
conseguenze spaziali delle funzioni». Questo era stato già riconosciuto da Le
Corbusier e da Mies van der Rohe che adottarono le «plan libre» dove gli
elementi che dovevano definire lo spazio erano separati dallo scheletro
portante. Certe funzioni sono però caratterizzate da una ripetizione più o
meno regolare e vengono quindi a condizionare una struttura ripetitiva
cellulare. Comprendiamo perciò che lo spazio architettonico include
generalmente un gran numero di strutture diverse, collegate o comunque
compenetranti. Può accadere che si debba fare una certa distinzione o
«metamorfosi» graduale. Nella nuova architettura opere di questo genere
sono frequenti. Il progetto di Paolo Portoghesi per l’ampliamento del
Parlamento a Roma offre per esempio una combinazione di un sistema
cellulare e di una struttura a spirale.
Negli esempi sunnominati si tratta sempre di «campi» più o meno
complessi che corrispondono ad uno spazio esistenziale collettivo ed
individuale. Per descrivere questi campi mi sono servito di termini
geometrici. Ciò può apparire contraddittorio avendo io inizialmente
sostenuto che i concetti geometrici sono solo una delle componenti dello
spazio esistenziale. Voglio quindi sottolineare che lo spazio esistenziale ha
anzitutto un’organizzazione topologica34. Molte strutture funzionali
presentano però un’organizzazione geometrica approssimativa e debbono
essere sistematizzate per cause pratiche e tecniche.
Ho più volte accennato a «strutture basi», indicando come esse
consistano in un rapporto di corrispondenza invariabile tra determinate
strutture spaziali e forme vitali. Questo problema dell’«archetipo» necessita
di un commento. È indubbiamente giusto che ogni Gestalt abbia un numero
limitato di possibilità per ricevere un «contenuto». Se così non fosse
sarebbe impossibile esprimersi in modo significativo. È anche naturale che
dette possibilità consistano nello stabilire un isomorfismo (eguaglianza
strutturale). Ho già accennato come tali isomorfismi dipendano
dall’evoluzione della conoscenza con radici nell’infanzia. Gli archetipi sono
quindi una realtà, ma dobbiamo tener conto che è più giusto considerarli
elementi piuttosto che unità complesse. Le strutture basilari partecipano
sempre a nuove combinazioni ed è perciò pericoloso considerarle come le
uniche «vere». Quando più sopra ho parlato di luogo, vie e zone ho fatto
capire come esse possano entrare a far parte di infinite unità di carattere
diverso. La tensione tra la struttura basilare e l’unità temporale esprime che
34 Norberg-Schulz: Intention und Methode in der Architektur.
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la vita è «costante e mutevole», per usare il termine di Giedion35.
Conclusione
Ho cercato di dimostrare che l’esistenza umana dipende dalla
determinazione di uno «spazio esistenziale», vale a dire un’immagine della
struttura ambientale. Ho anche illustrato come tale idea sia condizionata
dalla necessità che l’ambiente contenga certe qualità concrete. Queste
qualità consistono soprattutto nella presenza di una gerarchia di luoghi a cui
l’uomo può attaccarsi per il suo orientamento nell’esistenza. Le ricerche del
Piaget hanno dimostrato che lo spazio esistenziale non può essere
compensato da altri tipi di vincoli (sociali, naturali ecc.) anche se questi
assumono un’importanza ancora maggiore.
È chiaro che lo spazio architettonico è in grado di contenere degli
elementi mobili, dato che la sua struttura gerarchica include gradi diversi di
«libertà». Ma nella sua unità non può essere mobile, poiché questo
renderebbe impossibile lo svilupparsi di uno spazio esistenziale sia collettivo
che individuale. Un mondo «mobile» che non conosce la ripetizione di
determinate «uguaglianze» in rapporto con un più stabile sistema di luoghi,
renderebbe impossibile lo sviluppo umano. Piaget dimostra che un mondo
mobile vincolerebbe l’uomo ad un grado di sviluppo «egocentrico», mentre
un mondo strutturato e relativamente stabile ne libera l’intelligenza, cioè il
capire ed il sentire. Un mondo mobile non renderebbe neppur possibile quel
contatto «diretto» e «strutturato» che auspica l’Alexander e verrebbe a
creare dei disturbi psichici. Le utopie della mobilità tanto popolari al giorno
d’oggi non sono perciò affatto realistiche. Mi sembrano piuttosto espressioni
di escapismo, poiché evadono problemi concreti ed attuali. Il desiderio di
mobilità ha diverse origini. Superficialmente parlando è una reazione contro
l’ambiente monotono dell’architettura moderna ortodossa. Visto più
profondamente è un’espressione di mancanza di radici, di incapacità e vuoto
spirituale, in quanto cerca di sostituire vere identificazioni con movimenti
fisici e consumo caotico di stimoli. A questo proposito si potrà usare la
penetrante definizione del Sedlmayr: «Verlust der Mitte».
Cosa bisogna allora richiedere all’ambiente perché l’uomo possa ancora
chiamarsi tale? Dobbiamo pretendere che offra una «struttura concepibile»
ricca di possibilità di identificazione. Quel che è contenuto nella locuzione
«struttura concepibile» è già stato detto ma c’è ancora qualcosa da
aggiungere. Gli apostoli della mobilità sostengono che una struttura del
genere riduce la input. Ciò è giusto solo se si identifica la struttura
concepibile con la monotonia. Bisognerà far notare che noi, assertori di
strutture concepibili, non intendiamo con esse una «camicia di forza»
formale che ci riconduca eventualmente al «culto del minimo» del primo
funzionalismo. Ci auguriamo invece una struttura concepibile che offra
ricche possibilità di identificazione in quanto articolata in maniera
35 S. Giedion: Constancy, Change and Architecture, Harvard Univ. 1961.
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complessa. Questo è anche il marchio delle grandi opere d’arte in cui, data
la struttura complessa, è possibile riscontrare diverse interpretazioni, Le
«diverse interpretazioni» permesse da una «forma» esotica sono piuttosto
proiezioni casuali dell’ego, e si infrangono presto come bolle di sapone. Io
vedo invece negli spazi architettonici strutturati in modo complesso e
sfaccettato l’alternativa alla mobilità ed al vuoto ferale della disintegrazione.
Questa «molteplicità dell’unità» non è invero un’idea nuova, ma è ritornata
di attualità in questi ultimi anni36.
I concetti di «casa», «città» e «patria» sono ancora validi, essi danno una
struttura al nostro spazio e ci permettono di diventare cittadini del mondo.
L’uomo non diventa cittadino del mondo quando non appartiene ad alcun
luogo. Il cittadino del mondo è insediato nell’unità, e poiché si rende conto
che la sua sede rappresenta una parte di una totalità maggiore, ciò che la
oltrepassa diventa una continuazione del suo spazio esistenziale. La
contribuzione del singolo a quella grande totalità è l’articolazione del luogo
che gli è stato affidato.
L’identità umana sta anche nella possibilità di concretizzare uno spazio
esistenziale, e questo spazio rappresenta un’idea sull’esistenza. L’idea di
Saint-Exupéry è ancora di attualità, e può essere ricordata in questo
contesto: «Sono un costruttore di città, ho arrestato la carovana lungo la
strada. Era solo un seme nel vento. Ma io mi contrappongo al vento e
sotterro il seme così che gli alberi di cedro possano crescere ad onorare
l’Altissimo»37.
36 Vedi al proposito Venturi: op. cit. Anche A. Rapoport and R.E. Kantor: Complexity and
Ambiguity in Environmental Design. American Institute of Planners Journal, July 1967.
37 A. de Saint Exupéry: op. cit.
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