UN ASPETTO INEDITO DELLA CRISI DEL `43: L`ATTEGGIAMENTO

Transcript

UN ASPETTO INEDITO DELLA CRISI DEL `43: L`ATTEGGIAMENTO
R
o berto
Ba
t t a g l ia
U N ASPETTO INEDITO D ELLA CRISI DEL ’4 3:
L ’A T TEG G IA M EN TO DI ALC U N I GRUPPI D EL CA PITA LE
FINANZIARIO
Dalle relazioni e dagli interventi sinora svolti mi sembra che sia ri­
sultata un’esigenza fondamentale, e cioè quella di studiare meglio, di stu­
diare più a fondo le premesse della Resistenza nell’opera dei partiti o dei
gruppi antifascisti, iniziando almeno dalla guerra di Spagna: opera — co­
me è stato detto giustamente — che non può essere valutata come l'atti­
vità clandestina di una qualsiasi « setta », ma come l’espressione autentica
dell’animo nazionale nel periodo della dittatura. Col mio intervento mi pro­
pongo di richiamare l’attenzione del convegno su uno dei settori o degli
aspetti della storia d’Italia che è da ritenersi altrettanto se non più inedito
della storia dei partiti antifascisti, un settore la cui indagine è tuttavia in­
dispensabile per comprendere non solo la crisi dell’anno cruciale '43, ma
l’intero sviluppo della Resistenza.
Se noi leggiamo infatti le molte memorie dei protagonisti del 25 lu­
glio, del « colpo di Stato » che portò all’arresto di Mussolini e al crollo del
fascismo, ne ricaviamo la curiosa sensazione che essi siano al tempo stesso
troppi e troppo pochi. Gerarchi fascisti e generali fanno un gran chiasso
scrivendo i propri ricordi: ognuno di loro ritiene di essere al centro della
storia, attribuisce a se stesso ogni merito e agli altri ogni demerito, riversa
sugli altri tutta la responsabilità del periodo badogliano, del modo con cui
si attuò la rottura dell’alleanza con la Germania nazista, del disastro finale
dell’8 settembre. Se mi è permesso usare un paragone scherzoso in una
materia così seria, costoro finiscono per somigliare ai personaggi del noto
romanzo di Agata Christie in cui tutti e dieci i protagonisti muoiono as­
sassinati, riversando l’uno sull’altro la responsabilità del delitto sino a che
sulla scena non resta più nessuno.
Nelle memorie apologetiche dei protagonisti della crisi del ’43 la sto­
ria d’Italia si riduce veramente ad una povera cosa, è limitata alle iniziative
più o meno accorte o convincenti di dieci o venti persone, tanto che si
può affermare che una pubblicistica di tal genere è più idonea a distrarre
che a far convergere l’attenzione sulla sostanza del problema. E la sostanza
del problema è che nel periodo in esame continuano ad agire nel nostro
paese, con diversi obiettivi e risultati, le « forze reali » : da una parte la
vecchia classe dirigente, impersonata non solo dai generali e dai gerarchi
ma anche e principalmente dagli esponenti del capitalismo finanziario, dai
3°
Roberto Battaglia
gruppi monopolistici italiani che hanno suscitato e imposto la dittatura fa­
scista; dall’altra le masse popolari che hanno aila testa la classe che mai ha
piegato il capo al fascismo, la classe operaia, protagonista dei grandi scio­
peri del marzo ’43.
Se non si analizzano nel loro insieme queste forze, se non si affronta
questo più vasto campo d’indagine, si corre rischio di ridurre la storia a
una specie di affare privato di questo o quel personaggio più noto, di edi­
ficare tutta la narrazione dei fatti su una punta di spillo.
Vero è che l’analisi specie nel campo dei gruppi dominanti industriali
e bancari si presenta quanto mai difficile e complessa. 1 Volpi, i Cini, i
Donegani non hanno lasciato memòrie che ci facilitino il compito, non
hanno scritto spesso un sol rigo sulla loro attività. Il loro silenzio comincia
dallo scoppio della seconda guerra mondiale ed è un silenzio, un riserbo
così ostinato e significativo che sembra convalidare, senz’altra riprova, la
tesi secondo la quale l’ingresso dell’Italia nella guerra, la serie di disastri
che ne seguì, è da attribuirsi alla responsabilità individuale di Mussolini.
« Un uomo e un uomo soltanto' è responsabile della rovina d’Italia » affermò
in quegli anni Churchill e non s’è trovato ancora chi abbia smentito col
necessario impegno di documentazione una affermazione così tendenziosa
e diciamo pure, reazionaria, chi abbia studiato la responsabilità maggiore
ed effettiva dei gruppi dirigenti che hanno portato al potere Mussolini e
dischiuso la strada ad ogni folle avventura imperialistica. L ’analisi, se si
vuol passare da questa constatazione più generale alla determinazione d’una
precisa condotta politica dei gruppi anzidetti, è, ripetiamo, difficile, nè può
essere, per sua natura, risolta in un processo di schematizzazione. Da una
parte, ad esempio, i gruppi interessati a una produzione di guerra, gii espo­
nenti dell’industria pesante, dall’altra quelli la cui produzione trova il pro­
prio mercato anche in tempo di pace, gli esponenti dell’industria leggera.
Ci mette sull’avviso, sui carattere illusorio d’un tale schema, l’esperienza
della prima guerra mondiale: furono proprio i tessili del Nord Italia, coi
loro organo « Il Corriere della Sera » ad essere all’avanguardia del movi­
mento interventista! Occorre valutare più da vicino e dallfinterno il carat­
tere e l’indirizzo della classe dominante, nelle sue varie specificazioni : nel­
l’epoca della dittatura fascista e del capitale finanziario ha certo- più im­
portanza di ogni distruzione che si possa formulare sulla base dei tipi o
indirizzi di produzione, quella che si riferisce ai rapporti dei gruppi diri­
genti con l’apparato statale da una parte, con il capitalismo internazionale
dall’altra : direttamente inseriti nella struttura dello Stato fascista i side­
rurgici, dotati di maggiore possibilità d’autonomia, gli idroelettrici; sog­
getti alcuni al controllo del capitale inglese come la Snia Viscosa di Franco
Marinotti, egemoni altri in campo internazionale come la « Holding » di
Alberto Pirelli che è forse l’unico gruppo a trovarsi in questa posizione di
supremazia, a sfuggire alla regola della nostra economia costituita dal1’ « imperialismo degli straccioni ».
L ’adesione della classe dominante alla guerra fascista si differenzia da
gruppo a gruppo, può produrre anche notevoli contrasti (come furono ap ­
punto quelli insorti fra siderurgici e idroelettrici intorno al piano Funk);
ma ha tuttavia una sicura impostazione « unitaria » in cui vengono rias-
Alcuni gruppi del capitale finan&ario nella crisi del ’43
3*
sorbiti i contrastanti interessi: partecipare alla II guerra mondiale a fianco
dell’alleato nazista non solo per sfruttare al massimo le congiunture favorevoli create dalla clamorosa vittoria del Reich nei primi anni del conflitto,
ma per funzionare al tempo stesso da « contrappeso » al più potente al­
leato o padrone, per sommare, a suo fianco, aggressioni ad aggressioni, ra­
pina a rapina, nel timore che esso risulti alla fine come unico vincitore. E ’
questa impostazione politica dell’imperialismo italiano che determina quel­
la singolare condotta di guerra che giustamente Luigi Salvatorelli ha detto
essersi svolta « in parallelo », senza che mai si stabilisse un piano organico
d’intesa fra nazisti e fascisti; è l’impostazione, aggiungiamo noi, di Musso­
lini (« poche migliaia di morti per sedere al tavolo della pace ») che si di­
mostra anche in quest’occasione decisiva il più zelante servitore del capitale
finanziario. Volete un’ulteriore riprova di questa poco nobile « unità » di
intenti? Basta considerare il modo con cui si verificò l’aggressione alla
Grecia. Fu proprio il gerarca fascista più noto per il suo odio « antitedesco », il Ciano, ad organizzare l’aggressione, ad avere tale coscienza di
questa sua responsabilità da sostituire e da falsificare nel suo « diario » —
secondo una precisazione recentemente comunicatami da Gaetano Salvemini — le pagine che si riferiscono alle giornate decisive dell’ottobre ’40. Il
conflitto armato in Grecia segue una serie di scontri fra capitale italiano e
tedesco in Balcania, la lotta per le commesse belliche in Grecia, l’urto fra la
casa Krupp e l’Azienda Metallici Italiani per l’acquisto delle miniere di Locris. Il Ciano suscitando la guerra anche in questo settore, dopo che i
nazisti hanno compiuto un grosso passo avanti nei Balcani con l’occupa­
zione dei pozzi petroliferi romeni, si fa portatore dei più precisi interessi
del capitalismo italiano : il suo odio « antitedesco » è di tale natura da
comportare l’allargamento e non la delimitazione del conflitto, da aggiun­
gere in questo e in altri casi nuovi lutti e nuove rovine ai paesi invasi
d’Europa !
Ma non vorrei uscire troppo dal tema proposto, anche se evidente­
mente, per trattarlo in maniera adeguata, per coglierlo al suo punto d’ar­
rivo, la crisi del ’43, bisognerebbe delineare od accennare ciò che l’ha pre­
ceduto, seguire, in questo campo, il comportamento dei gruppi dominanti,
innegabilmente fedeli alla politica dell’Asse, finche parve sicura la sua vit­
toria, altrettanto innegabilmente infedeli od oscillanti quando si delineò
la sua sconfitta.
Qui è necessario limitarci ad esporre un solo quesito storico di natura
essenziale. Quando è che sorge negli ambienti capitalistici l’idea dello
« sganciamento » dal fascismo, quand’è che spunta all’orizzonte la « svolta »
compiuta col 25 luglio? Tutte le testimonianze concordano nell’indicare
tale periodo nel novembre ’42, nel farlo coincidere con l’ingresso in forza
degli americani nel Mediterraneo. Si risvegliano allora come da un lungo
sonno gli esponenti maggiori del capitalismo nostrano: un Pirelli che in­
tensifica i suoi rapporti con la Svizzera (cfr. C iano, II, p. 238), persino un
Donegani che trova il coraggio per protestare contro la ventilata unione
doganale con la Germania (Id em , id., p. 234). E giungono d’oltre Oceano i
più autorevoli incoraggiamenti a questo mutamento di rotta — per citare
un solo esempio — già riportato da Salvemini nella sua «Sorte dell’Italia)) —
32
Roberto Battaglia
la rivista L ife pubblica la seguente significativa analisi della situazione
italiana, dando già come scontata o in pieno sviluppo la manovra che porterà al 25 luglio: « JLa netta tendenza in seno al regime fascista è di libe'
rarsi di Mussolini e dei filo-tedeschi, ma di conservare il sistema. Oggi
questa è l’idea dei grandi industriali italiani condotti, a quanto viene rife­
rito da Ciano, dal conte Volpi e dal sen. Pirelli. In altre parole, un cam­
biamento del fascismo pro-tedesco in un fascismo pro-alleati. I gerarchi
fascisti sono molto impressionati dal fortunato voltafaccia di Darían da
Vichy verso gli alleati ».
La situazione s’è messa in moto nei settore decisivo ed i risultati si
vedono ben presto agli inizi del ’43 neil’apparato militare con la sostitu­
zione di Ambrosio a Cavallero, nel campo politico con la missione di Ciano
in Vaticano che — a suo stesso avviso — gli dischiude « molte possibilità
per l’avvenire » (C ia n o , II, p. 249). Spingono ad accelerare i tempi, ma
anche raffrenano la classe dominante, timorosa del « poi », due grandi
avvenimenti, uno sul piano internazionale, l’altro sul piano interno. La
vittoria di Stalingrado, punto culminante della seconda guerra mondiale,
e gli scioperi del marzo ’43 con cui la classe operaia infligge il colpo mor­
tale al regime fascista. Quando la barca affonda i topi saltano fuori: ma i
nostri topi sono quanto mai cauti e restii ad affrontare il salto. La ragione
è data dal conte Cini in un suo colloquio del I o aprile col maresciallo Cavi­
glia, riportato da quest’ultimo nel suo diario e che mi sembra veramente
un « documento chiave » per intendere l’intero sviluppo degli avvenimenti
del ’43. « Ho avuto una conversazione col sen. Cini. Mi ha detto che, con
qualche altro ministro, ha fatto presente a Mussolini le condizioni quasi
disperate dell’economia italiana. Cercano di prepararlo a sganciarsi dalla
Germania, d’accordo con la Germania. Pare che Mussolini aderisca e si
lasci persuadere. Ma il problema è di persuadere i tedeschi; vi sono — egli
disse — in tale sganciamento buone ragioni a loro vantaggio, restando noi
neutrali. L ’Italia non sarebbe più per essi un peso morto; potrebbero riti­
rare tutte le loro truppe e troverebbero nelle Alpi un appoggio sicuro. Cini
conferma che si debba pure trattare con l’Inghilterra, « finche abbiamo il
pegno di Tunisi in mano che potrebbe assicurarci patti migliori ». Per que­
sto pensa che i nostri soldati dovrebbero tenere duro a Tunisi e a Biserta’
ancora per due o tre mesi ».
Ci sono alcuni elementi che troveremo poi costanti nella situazione,
che non possono pertanto attribuirsi solo alle opinioni personali di chi è,
insieme col « fratello siamese » conte Volpi, uno dei più autorevoli espo­
nenti della fronda del capitale finanziario sin dai tempi dell’ormai remoto
conflitto fra idroelettrici e siderurgici. L ’idea d’offrire agli anglo-americani
una « contropartita » per ottenere le più vantaggiose condizioni per l’ar­
mistizio, quella di uscire dalla guerra col consenso della Germania nazista
« nel comune interesse », e l’ultima infine — ma non la meno importante —
di far cavare le castagne dal fuoco a Mussolini, affidando proprio a lui lo
« sganciamento » dalla Germania. Sono speranza o illusioni, comuni non so­
lo a Cini e al suo ambiente, ma che trovano una verifica o un riscontro
negli avvenimenti successivi e prima di tutto nel 25 luglio. Anche quando
s’inizia l’invasione del nostro territorio nazionale, quando Mussolini diventa
Alcuni gruppi del capitale finanziario nella crisi del ’43
33
« l’uomo del bagnasciuga », la sorte del dittatore fascista non è — mal'
grado le apparenze -—- ancora irrevocabilmente decisa. La sua sorte è decisa soltanto al convegno di Feltre (19 luglio); egli si dimostra incapace di
assolvere l’ultimo e decisivo compito che gli è stato affidato: proporre a
Hitler l’uscita dell’Italia dalla guerra, ottenendone il necessario consenso.
Dinanzi alle sfuriate del dittatore nazista egli invece se ne sta muto come
un pesce, abbassa rassegnato la testa, dimostra di essere diventato un ser­
vitore assai presuntuoso, ma del tutto inetto alla bisogna. E ’ da questo
momento che si mette in moto per lui la macchina del 25 luglio, già preor­
dinata da tempo nei due distinti settori della Corona e della fronda fascista
(Ambrosio aveva previsto l’arresto di Mussolini e il trucco dell’autoambulanza sin dal principio del ’43 : l’unico piano del nostro Stato Maggiore
che ha avuto una concreta attuazione nel corso della guerra!), ma non an­
cora pronta a scattare senza quest’ultimo e decisivo impulso fornito dal
convegno di Feltre.
I congiurati dell’una e dell’altra sponda si congiungono il 25 luglio,
mossi da un obiettivo comune pur nella reciproca rivalità : stabilire in Italia
non la democrazia, ma un « fascismo senza Mussolini »; si muovono in una
comune direzione perchè dietro di loro vigilano le stesse forze della classe
dominante: direi, quasi fisicamente, anche se non è necessario stabilire
questo rapporto diretto, se è vero, ad esempio, che il conte Volpi seguì
quotidianamente l’esito della congiura attraverso Dino Grandi. Un 25 luglio
così impostato non poteva evidentemente far giustizia dei responsabili della
guerra e della rovina, doveva costare ancora altri lutti al popolo italiano.
Non un fascista pagò allora il fio delle sue responsabilità, ma versarono il
loro sangue dopo1 il 25 luglio gli operai delle Reggiane e i popolani di Bari
in applicazione della tristamente famosa circolare Roatta. Furono le prime
vittime della parola d’ordine « la guerra continua » i nostri soldati che si
batterono, disubbidendo agli ordini ricevuti, contro l’invasione tedesca già
in atto a Tolmino, Caporetto, Gorizia, i popolani insorti in Sicilia già nel­
l’agosto in provincia di Catania, a Mascalucia, a Castiglione; le prime vit­
time, ma anche i primi martiri della Resistenza, i primi testimoni della ne­
cessità della lotta armata. Nè il loro sacrificio fu sin da allora inutile; poiché
anch’esso contribuì, come l’intero movimento popolare, gli scioperi del lu­
glio-agosto, la pressione dei partiti antifascisti, latori della volontà del po­
polo italiano di por fine alla guerra, a modificare sostanzialmente il signi­
ficato della data del 25 luglio. I gerarchi fascisti, anche i congiurati del
25 luglio, dovettero cercare scampo nella fuga; crollò l’apparato del regime,
furono liberati i detenuti politici, rinacque la libertà nel primo luogo dove
era stata soppressa, nella fabbrica, con il ripristino del primo organismo
democraticamente eletto: la commissione interna.
« La guerra continua » anche in questo periodo; ma non crediamo at­
tendibile l’ipotesi recentemente avanzata dal Salvemini sul « Ponte » che
si volesse sul serio continuarla a fianco dei tedeschi. Per quanto grande
fosse la confusione d ’idee, la perplessità e le difficoltà in cui si dibatteva la
vecchia classe dirigente dopo il 25 luglio, doveva necessariamente sussistere
l’obiettivo di sganciarsi dai tedeschi al più presto e di agganciarsi invece al
carro vittorioso degli anglo-americani. Sotto l’urto delle masse popolari, si
¿4
Roberto
Battaglia
erano accentuate tuttavia le contraddizioni interne dei gruppi dirigenti:
por fine alla guerra significava sempre di più rischiare anche il proprio ro­
vesciamento, seguire il fascismo nella sua fine ingloriosa. Tramontata era
forse l’illusione, già fallita nel convegno di Feltre, di ¡poter uscire dalla
guerra per il rotto della cuffia, con il consenso dei tedeschi. Ma sussisteva
ancora e prendeva nuovo vigore dalle circostanze l’altro aspetto dell’impo­
stazione enunciata da Cini: la speranza di avere un trattamento partico­
larmente benevolo dagli anglo-americani offrendo loro qualche « contro­
partita » consistente, tale da far mutare i termini della « resa incondizio­
nata » prevista per le potenze dell’Asse nel convegno di Casablanca.
Quale « merce di scambio » se tutto era perduto, se ormai l’esercito
anglo-americano s’era insediato saldamente nel nostro territorio-, pur es­
sendo i suoi capi ancora incerti se sbarcare oppure no sul continente? Io
non credo che tutta la classe dirigente avesse completamente perso la testa
nel periodo badogliano-, che vivesse ormai alla giornata, senza più alcuna
prospettiva interna e internazionale. Ponete attenzione su chi è stato scelto
fra i primi emissari per le trattative dell’armistizio: il dirigente del più
potente gruppo finanziario italiano, capace di esercitare largamente il pro­
prio influsso anche oltre confine: Alberto Pirelli, che si reca in Svizzera
per sollecitare la mediazione della repubblica elvetica fra governo- Badoglio
e anglo-americani e ritiene opportuno di suggerire a questi ultimi di « tra­
sferire altrove il predisposto attacco al continente: sud della Francia o
Balcani » (GUARIGLIA, R icordi, -p. 607). E ’ proprio da considerarsi casuale
che l’ultimo termine della sua proposta coincida con il piano di Churchill
di divergere dall’Italia verso i Balcani con preciso intento antisovietico?
(A proposito del piano di Churchill già ricordato da Salvatorelli : proprio
non mi sento di concordare con lui sull’ipotesi che esso, indipendentemente
da qualsiasi considerazione di politica internazionale, avrebbe avuto un
effetto positivo per l’Italia : tutt’altro, anzi è certo il contrario. Churchill
aveva previsto — come ricorda nelle sue « Memorie » — di avanzare in
Italia non oltre la linea gotica e qui fermarsi costituendo un fronte forti­
ficato rivolto verso i tedeschi « per poi iniziare un movimento in direzione
nord partendo dai ¡porti della Dalmazia ». Ciò avrebbe significato, non c’è
dubbio, abbandonare ai nazisti, ormai certi di non essere più disturbati,
l’intera Italia del Nord, provocarne l’irreparabile distruzione!).
Se Pirelli non dice esplicitamente le ragioni del suo non disinteressato
consiglio-, espliciti invece in modo sufficiente per trarre qualche più precisa
deduzione, sono i meno accorti diplomatici di carriera, inviati anch’essi
in missione prima che subentrino, precipitando ormai le cose, i militari :
un D ’Aieta che informa a Lisbona l’Ambasciatore inglese Campbell delle
« reazioni delle masse operaie agli avvenimenti del 25 luglio e del comu­
nismo italiano e della sua organizzazione » {GUARIGLIA, cit., p. 59 $) 0 un
Berio che avviato- a Tangeri, insiste sul concetto che gli « alleati hanno
tutto l’interesse a fare in modo che l’Italia, centro della cristianità, non
soccomba nell’immane conflitto che dilania l’Europa, onde costituire un
baluardo contro le correnti suscettibili di sovvertire la civiltà occidentale »
(Guariglia , id., -pp. 604-605). La lingua batte dove il dente duole e se
in Italia il ministro degli esteri Guariglia dichiara all’ambasaatore Osborne
Alcuni gruppi del capitale finanziario nella crisi del ’43
35
in Vaticano che « il governo Badoglio è come paralizzato fra la paura dei
tedeschi e quella del comunismo », è perfettamente logico, dal punto di
vista di chi mira soltanto a salvaguardare i propri privilegi, puntare nelle
trattative con gli anglo-americani, non già sull’unità delle potenze anti­
naziste, garanzia sicura della vittoria finale e dell’annientamento del mo­
stro hitleriano, ma sui loro eventuali dissidi, agitare lo spettro del comu­
nismo in Italia, proporre i propri servigi nella « difesa della civiltà occi­
dentale ». Ecco, in sostanza, l’ultima carta rimasta a disposizione: garantire
« l’ordine sociale » interno, assicurare il proprio inserimento incondizionato
nel campo antisovietico, prospettarsi già un futuro « rovesciamento delle
alleanze », per trovare buona accoglienza presso gli anglo-americani. Un’ul­
tima carta che è anche un’ultima e rovinosa illusione che forse più d’ogni
altra contribuisce sul piano' politico alla totale rovina del nostro paese ac­
crescendo ulteriormente le perplessità e l’esitazione nel distaccarsi defini­
tivamente dalla Germania nazista. Chissà se quest’ultima informata di così
nobili intenzioni non avrebbe chiuso un occhio sul « provvisorio » tradi­
mento dell’Italia! Non erano informati i nostri esperti di politica interna­
zionale che erano stati avviati colloqui in Svizzera per una « pace sepa­
rata » fra anglo-americani e tedeschi? (Cfr. C iano, II, p. 183). Ci sono
tutti gli argomenti ed è il momento' buono per pescare nel torbido, senza
rendersi conto che diverso è il cammino della storia, che intrighi o mene
di questo genere non hanno speranza di successo: è la Conferenza di
Quebec (17-24 agosto) appunto che ribadisce solennemente i termini del­
l’alleanza fra Unione Sovietica e occidentali a stroncare le speranze della
reazione internazionale.
In Italia invece c’è chi confida sino all’ultimo sulla carta perdente.
Guariglia, il 7 settembre (ma guarda un po’ a che cosa pensava in quel
giorno!), dopo aver esposto il suo pensiero che « cambiando certe circo­
stanze gli alleati stessi avrebbero potuto essere costretti a diventare nemici
dell’URSS », ci confida accorato che la sua maggiore « preoccupazione si
concentrava tutta sull’eventualità che l’ulteriore sviluppo delle operazioni
belliche permettesse un’avanzata russa verso il Veneto e la Lombardia... »
(G uariglia , op. cit., pp. 702-703). Persino nella drammatica notte che doveva
precedere l’annuncio ufficiale dell’armistizio, si ritiene d’aver trovato un
buon argomento per ottenerne il rinvio da Eisenhower nell’interesse comu­
ne... antisovietico. Si cerca cioè d ’utilizzare a questo fine « la trasparente
preoccupazione di Taylor, riflesso evidente del pensiero americano, per
quelle che avrebbero potuto essere nell’avvenire le conseguenze e le riper­
cussioni della crescente potenza militare russa » (Cfr. G. CARBONI, P iù che
il d o vere, p. 285).
Non c’è dubbio dunque che studiato sotto quest’aspetto, come il ri­
sultato della linea di condotta di un’intera classe dirigente, tutto il periodo
più critico della nostra storia contemporanea, s’illumina d’una nuova luce,
porta alla condanna non di questo o quel generale, di questo o quel ge­
rarca, ma d’un’impostazione di politica interna e internazionale, costantemente promossa dai gruppi economici dirigenti, per mantenere ad ogni
costo il proprio dominio, costantemente capace di produrre il disastro na­
zionale. E per concludere, permettetemi un’ultima osservazione. C’è chi
36
Roberto Battaglia
s’è sorpreso come d’un fatto inaudito delle recenti dichiarazioni di Churchili sulle sue intenzioni di conservare le armi ai nazisti per adoperarle
contro l’Unione Sovietica.
Ebbene, tale dichiarazione non può sorprendere chi ha seguito il diificile cammino della nostra Resistenza, chi conosce quali siano le forze che
anche al suo interno ha dovuto combattere e contrastare : non scompaiono
infatti dalla scena i gruppi del « capitalismo badogliano », nè s’interrompe
anche nel corso della guerra di liberazione la loro politica. Parri ci ha
parlato della lotta, forse più difficile di quella condotta contro i nazi-fascisti, contro « l’attesismo » ed egli sa bene in quale ambiente sia sorto l’attesismo, da chi partisse la parola d’ ordine d’aspettare tutto, anche la democrazia, dagli anglo-americani « senza provocare inutilmente i tedeschi ».
Abbiamo avuto persino fra di noi un Churchill in dodicesimo, un Franco
Marinotti, presidente della Snia Viscosa, che nel novembre '44 si fece
intermediario fra gli anglo-americani in Svizzera e il comandante generale
della Gestapo a Verona, gen. Harster, per porre fine pacificamente alla
guerra in Italia e far conservare intatte le venticinque divisioni di Kesselring « a disposizione degli anglo-americani, per mantenere l’ordine nel­
l’Europa centrale » ; dopo aver represso, ben inteso, qualsiasi velleità dei no­
stri partigiani di guadagnarsi con le armi la libertà e l’indipendenza na­
zionale » (Cfr. F. L anfranchi, L a resa d eg li ottocentom ila, pp. 55-61). La
Resistenza nasce sotto il segno del conflitto fra le « forze reali » del paese,
fra quelle che puntano sulla conservazione sociale e sulla rottura dell’unità
internazionale antifascista e quelle invece che affidano il proprio progresso
e quello dell’intera nazione al suo rinnovamento strutturale e all’amicizia
fra i popoli.
Ecco perchè — per aver posto quei problemi che ancor oggi ciascuno
di noi deve affrontare e risolvere — la Resistenza è attuale e si mantiene
al centro dell’attuale realtà italiana.