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FILOSOFIA MORALE
I filosofi che hanno analizzato questo aspetto della filosofia, la chiamavano “etica”. Questo termine appare per la prima
volta nel suo significato di riflessione filosofica in Aristotele nell’Etica Nicomachea. Il termine ethos significa costume,
comportamento e quindi ci rimanda all’agire dell’uomo. La chiamiamo anche filosofia morale, perché Cicerone, il quale
ha fatto da tramite tra la cultura greca e latina, al termine ethos associa il termine moràlia. Che significa costume, da qui
FILOSOFIA MORALE. La riflessione morale da una parte consiste nella descrizione del modo in cui l’uomo vive e dall’altra
parte consiste nella descrizione del modo in cui l’uomo deve comportarsi per raggiungere la felicità, il fine ultimo. Ciò si
differenzia dal cristianesimo in quanto l’uomo non deve chiedere di raggiungere la felicità nella vita terrena. L’origine
della filosofia morale si può collocare nel V sec a.C. il primo esponente della filosofia morale fu Socrate, il quale viveva
ad Atene.
SOCRATE, PLATONE, ARISTOTELE
Socrate considerava la filosofia morale una continua ricerca filosofica che non ha mai fine e che per tanto non doveva
essere scritta perché altrimenti si fisserebbero delle riflessioni. Le fonti del pensiero socratico sono 4: Aristofane,
Senofonte, Platone e Aristotele. Da queste fonti apprendiamo che Socrate fu il 1° filosofo morale, ovvero di quella sferra
che riguarda l’agire, il comportamento dell’uomo (la prassi). Socrate, a differenza dei filosofi antecedenti a lui, non si è
occupato della natura, perché egli riteneva che prima di conoscere la realtà in cui si vive, bisogna conoscere se stessi.
Infatti i presocratici non hanno formulato un ipotesi uguale sulla realtà. Socrate esorta l’uomo a conoscere se stesso.
Socrate riprese questo motto greco dall’incisione sul frontone del tempio di Apollo e Delfi in cui precisamente c’è
scritto: “uomo conosci te stesso, e conoscerai l’universo e gli dei”. In questo tempio una sacerdotessa aveva
pronunciato un oracolo nel quale si diceva che Socrate era l’uomo più sapiente. Invece Socrate riteneva di non sapere,
non si sopravalutava e per questo aveva iniziato a interrogare coloro che lui riteneva più sapienti, in modo da capire
cosa il dio avesse voluto dire. Questo dialogare con tutti coloro che egli riteneva superiori gli servì a conoscere meglio se
stesso, gli altri e il detto divino. Infatti Socrate, capire di sapere qualcosa in più rispetto agli altri, in quanto SAPEVA DI
NON SAPERE. Conosci te stesso è il punto d’inizio dell’indagine socratica. La preoccupazione di Socrate è capire
l’antropos e non intende propinarci dei principi sull’uomo ma insegnare a ognuno di noi a conoscere se stesso.
Quest’indagine non viene svolta solo da Socrate. Socrate è la guida spirituale che insegna a vivere a misura dell’uomo. A
Socrate interessa l’ethos, il comportamento dell’uomo. Cerca d’indicare all’uomo la strada per l’acquisizione di un tipo di
comportamento buono che serve per il raggiungimento della felicità. Tutte le etiche antiche sono eudemonistiche
ovvero tendono al raggiungimento della felicità. Tutti i filosofi cercano d delineare la vita buona e d’indicare i mezzi per
raggiungerla. Una vita buona è sinonimo di felicità. Socrate studia l’uomo dialogando con l’uomo. Socrate non insegna
attraverso libri o da una cattedra, ma attraverso il dialogo. Per Socrate la filosofia è una prassi, un modo di vivere, di
pensare, d agire che ogni giorno dobbiamo mettere in pratica. Quindi non serve una dottrina, ma l’esempio del maestro
e tanto esercizio personale. Infatti è attraverso l’introspezione che l’uomo conoscere se stesso. Socrate è il 1° filosofo a
spiegare che l’ANIMA è la natura più profonda dell’uomo, il Sé, la parte più autentica che ci rende noi stessi. L’anima
non è un qualcosa di divino o di trascendente. All’epoca di Socrate non c’erano strumenti per diversificarsi fisicamente
gli uni dagli altri, ma ci si poteva distinguere per ‘interiorità, per il suo essere, per la sua essenza. Socrate insegna a
vivere una vita a misura dell’anima più che del corpo. Infatti il corpo con le sue esigenze ci rende schiavi. L’impossibilità
di avere tutti i desideri esauditi provoca angoscia. L’uomo deve sapere che è soprattutto anima e che bisogna curarla. La
virtù non risiede nel corpo, tutti quei valori eroici dei poemi omerici, vengono messi in 2° piano. La virtù sta nell’anima e
l’uomo buono non corrisponde all’uomo bello. L’anima per Socrate è logos (ragione). La ragione e la conoscenza valgono
molto di più ella bellezza e della forza fisica. L’uomo che conosce il bene e il male è un uomo virtuoso. Non tutti i filosofi
antichi sono d’accordo su cosa sia la virtù ma tutti sono d’accordo nel ritenere che l’uomo per essere felice deve essere
buono. Per Socrate la virtù è SCIENZA. Questa scienza non è altro che conoscenza. L’uomo deve conoscere noi stessi, gli
altri, la nostra interiorità in modo da poter sapere che cosa sia il bene per noi, per gli altri e per la polis. Un uomo che si
preoccupa di vivere bene e d’insegnarlo agli altri è un uomo saggio e quindi buono. La conoscenza di Socrate non è della
natura ma del bene e del male. Il pensiero di Socrate è morale, etico. L’uomo con il suo logos conosce il bene e nel
momento in cui lo conosce lo compie mentre conoscendo il male non lo compie. Per Socrate l’uomo non sceglie
volontariamente il male ma lo compie perché non sa che sta compiendo il male. Questa sua ingenuità proviene dalla
fiducia che ha per l’uomo e per le capacità che possiede. Socrate è un filantropo e non dà valore alla volontà. Per
Hobbes invece l’uomo è un lupo e le leggi sono necessarie affinché l’uomo si comporti bene. L’uomo grazie all’intelletto,
alla ragione riesce a vivere bene. Questo insegnamento socratico che ruota attorno all’anima e alla sua cura emerge nei
brani: Prima Apologia di Socrate e Alcibiade.
PLATONE
È il fondatore della Metafisica (ma non del termine, il quale nasce quando Andronico di Rodi sistema le opere di
Aristotele e le colloca subito dopo quelle di fisica). La disciplina filosofica, così come la metafisica, nasce con Platone. Nel
Fedone Platone, per la prima volta, dice che le cause della realtà sensibili si devono trovare nella realtà intellegibile.
Platone dice che tutto il mondo sensibile ha una spiegazione razionale e le cause le colloca in una dimensione
sovrasensibile. Platone spiega tutto ciò attraverso il Mito dell’Iperuranio. L’Iperuranio si trova al di là del cielo, dove
vivono le idee, le quali sono in connessione tra di loro e subordinate all’idea suprema che funge da madre alle altre
idee: l’idea del bene. Platone nel mito spiega che in origine esisteva solo il vero essere delle cose ovvero il mondo delle
idee, e che poi un demiurgo ha plasmato la materia caotica che aveva accanto a sé basandosi sulle idee. Quindi le idee
sono dei modelli da cui il demiurgo ha attinti per plasmare il mondo sensibile. Per Platone la conoscenza sensibile che si
coglie attraverso i 5 sensi è l’aspetto esteriore delle cose che non corrisponde al vero essere delle cose. Il vero
significato no lo s coglie con i sensi ma con le facoltà intellettive superiori: ragione e intelletto. Quindi le cause delle cose
si devono individuare in una dimensione spirituale, incorporea attraverso l’intelletto. Per Socrate il bene è un qualcosa
che si può conoscere quando si è virtuosi e si può praticare. Per Platone l’uomo è buono quando fa il bene, quando la
sua azione imita l’idea del bene. Per Platone non esistono tanti bene quanti sono gli uomini ma esiste un modello, un
paradigma, un idea di bene. Quest’idea di bene è unica ed è valida per tutti e l’uomo se vuole essere buono deve
conoscerla e imitarla. L’ideale supremo è il bene. Nella Repubblica, Platone, che all’apice di questo mondo ideale c’è
l’idea del Bene. Quest’idea fa si che tutto sia buono. Questo Bene è analogo al Sole. Nel mondo sensibile il Sole è fonte
di vita e se non ci fosse non ci sarebbe vita. Nel mondo delle idee, l’idea del Bene svolge la stessa funzione del Sole,
perché se non ci fosse non ci sarebbero neanche le altre idee. Nella Repubblica, Platone, dice che l’uomo per essere
virtuoso deve essere conoscere il bene che è un’idea. Quindi l’uomo intanto deve spingersi verso il mondo delle idee e
lo fa partendo dalla conoscenza sensibile e a questo proposito, Platone racconta il mito della caverna. La condizione
dell’uomo è analoga a quella di uno schiavo legato mani e piedi all’interno di una caverna, fin dalla nascita, con il volto
rivolto verso l’interno. Alle spalle dei prigionieri c’è il fuoco. Tra i prigionieri e il fuoco c’è un muricciolo dietro cui
passano delle persone che portano statue, vasi e altri oggetti che sporgono al di là del muricciolo. I prigionieri vedono
sullo sfondo della caverna solo le proprie ombre e quella degli oggetti. Quindi l’uomo crede che quella sia la realtà.
L’uomo che si fida dei sensi crede che le immagini che vede siano la realtà. Ma è solo con l’intelletto che l’uomo può
cogliere l’essenza delle cose, sono le idee che mi conducono all’idea di bene. Infatti se un prigioniero riuscisse a liberarsi
vedrebbe che quelle sono solo ombre. Ma non sono realtà neanche quelle statue che vede perché sono inanimate, si
muovono perché trasportate dagli uomini. Quindi capisce che quello che vedeva era solo frutto della sua immaginazione
e che invece la realtà è quella che sta fuori. La virtuosità, la bontà del singolo uomo contribuisce a rendere buona
l’intera città e renderla ordinata. Se l’intero Stato è buono, la giustizia trionferà. Il discorso di Platone è ontologico,
perché si occupa di capire l’essenza del bene e non bene umano. Nel suo progetto politico individua 3 classi sociali
perché 3 sono le parti dell’anima. Alla classe dei governatori corrisponde la saggezza: deve governare l’uomo sapiente
perché è quello che conoscendo l’idea di Bene saprà gestire bene la città. Alla classe dei guerrieri corrisponde il
coraggio: questi uomini agiscono bene perché sfruttano la propria indole per il bene della città. Alla classe dei lavoratori
corrisponde la temperanza. Il discorso di Platone è ontologico e di natura politica. l’uomo vive nella polis ed è lì che
esplica la sua natura di essere buono. C’è una riflessione morale e politica. Nel mondo la riflessione morale si deve
applicare nella città. Invece nel mondo moderno etica e politica si scindono. Platone è un filosofo asistematico, il cui
pensiero si evolve nel tempo. Il suo pensiero filosofico è socratico. Le teorie non possono essere considerate definitive
perché bisogna filosofare durante l’arco della vita. Per es Platone nel Fedone sosteneva che l’uomo non deve seguire i
bisogni del corpo ma deve vivere una vita preparandosi alla morte. Con ciò vuole dire che siccome la realtà dell’uomo è
l’anima e la nostra vita è solo di passaggio dobbiamo anticipare quella condizione in cui vi è solo l’anima e non più il
corpo. Successivamente nel Filebo, Platone, sostiene che per la felicità dell’uomo è importante anche il piacere. La vita
ideale dell’uomo deve essere mista di piacere e intelligenza. Inizialmente, Platone, disprezzava il piacere perché rendeva
l’uomo schiavo e quindi non poteva renderlo felice. Però l’uomo non deve vivere solo di piacere perché altrimenti
sarebbe un animale, e non deve vivere solo di intelligenza perché altrimenti sarebbe un dio. L’uomo deve compendiare
le 2 cose e deve cercare di non accedere nei 2 casi. Solo il filosofo riesce a raggiungere il bene supremo perché riesce a
superare la fase sensibile della conoscenza e attraverso il ragionamento matematico, giunge alle idee e quindi
attraverso l’intelligenza si lancia verso l’idea suprema, l’Idea del Bene. Per Platone l’idea di bene non è praticabile.
ARISTOTELE
È stato il 1° a coniare il termine etica. Per Aristotele la filosofia morale fa parte delle scienze pratiche. Aristotele divide le
scienze in 3 branche: 1) scienze teoretiche: riguardano il necessario, ovvero ciò che è sempre in un modo e non può
cambiare; 2) scienze pratiche: sono le scienze dell’uomo, quelle che studiano il comportamento dell’uomo e si dividono
in ETICA per quanto riguarda l’agire privato e POLITICA per quanto riguarda l’agire pubblico. Le opere più importanti che
Aristotele dedica alle scienze pratiche sono: Etica Nicomachea e Etica Eudemia. Mentre Platone nelle sue opere
dissemina le sue riflessioni di varia natura nei dialoghi, Aristotele invece scrive tante opere quanti dono gli ambiti delle
scienze. Aristotele fu discepolo di Platone per 30 anni. Aristotele critica l’idea di Bene di Platone. Platone riteneva che
c’era un unico bene supremo uguale per tutti e per tutte le cose. Per Aristotele la felicità dell’uomo è il sommo bene, è
quel bene che si desidera per se stessi e non in vista degli altri. Per Aristotele nella vita dell’uomo ci sono tanti beni.
Tutti questi beni sono finalizzati ad una altro bene, il sommo bene che è la felicità, e deve poter essere praticato
quotidianamente da tutti. Invece in Platone l’idea di Bene non è qualcosa di praticabile, primo perché è collocati in
un’altra dimensione, 2° perché è un idea quindi qualcosa di trascendente che può essere raggiunta solo dal filosofo.
Aristotele dice che bisogna dare all’uomo la possibilità di vivere questo bene. La felicità è una vita vissuta secondo
ragione e ciò equivale a vivere secondo virtù. Per Aristotele le virtù sono il tramite per raggiungere la felicità, sono elle
disposizioni che gli uomini devono proseguire e devono essere guidate dalla ragione. L’uomo è un animale razionale.
Secondo Aristotele l’uomo è un sinolo di materia e forma. L’anima dell’uomo consta di 3 funzioni/facoltà:
1) FUNZIONE NUTRITIVA: piante, animale, uomini
2) FUNZIONE SENSIBILE O LOCOMOTORIA: animali, uomini
3) FUNZIONE RAZIONALE: uomini
Grazie alla razionalità l’uomo, oltre a differenziarsi dagli animali, può acquisire e virtù che gli permetteranno di
raggiungere la felicità. Nell’etica Aristotele distingue 2 tipologie di virtù che l’uomo può acquisire:
VIRTU’ ETICHE: sono le virtù del carattere, della parte irrazionale dell’anima; VIRTU’ DIANOETICHE: sono le virtù della
parte irrazionale dell’anima. L’uomo è sia passionalità sia razionalità quindi i suoi comportamenti devono essere
controllati con la ragione che ci permette di acquisire le virtù del carattere, del comportamento. Le nostre abitudini
devono essere coltivate ed educate. Se vogliamo acquisire le virtù bisogna esercitarsi. Il termine virtù deve essere
tradotto in Aristotele con Eccellenza. L’uomo realizza un comportamento virtuoso quando svolge un azione equilibrata
grazie alla ragione. La virtù infatti sta nel mezzo. Il comportamento non eccedere né in eccesso né in difetto (ad es.
devo essere generoso secondo le mie possibilità).Tutto l’arco della vita ci deve impegnare, perché una singola azione
non l’uomo virtuoso. Una sola rondine non fa primavera. Le virtù sono necessarie ma non sufficienti per il
raggiungimento della felicità perché ci vogliono anche i beni esteriori come la bellezza, gli amici, gli onori, la ricchezza…
L’uomo ha delle passioni e delle capacità, la virtù consiste nel nostro modo di comportarci riguardo alle passioni.
L’attuazione delle nostre potenzialità, del nostro comportamento virtuoso o vizioso, dipende dalla nostra scelta. Mentre
per Socrate la volontà non incideva nella vita dell’uomo, per Aristotele invece si in quanto l’uomo sceglie
volontariamente di operare bene o male. Infatti nella filosofia di Aristotele le figure, come quelle dell’intemperante,
sono delle figure chiave perché sono uomini che scelgono il male. Noi ci occupiamo dell’agire bene perché vogliamo
essere felici durante tutta la vita e non in un determinato periodo. Infatti solo alla fine della vita si può stabilire se si è
stati felici. Oltre alle virtù etiche bisogna acquisire le virtù dianoetiche. L’anima razionale dell’uomo a sua volta presenta
2 aspetti:
RAZIONALITA’ PRATICA: la virtù è la saggezza. Consiste in un modo di utilizzare al meglio la ragione nell’agire pratico. Il
saggio è colui che domina la razionalità pratica. È il filosofo che conosce le scienze pratiche. È colui che conosce il bene,
la natura dell’uomo e quindi sa dare consigli all’uomo su come agire, su come essere felice. È una guida morale.
RAZIONALITA’ TEORICA: la virtù è la sapienza. Ci serve per studiare ad es. i principi supremi della realtà. Il sapiente è il
metafisico, colui che si occupa delle cause supreme, di Dio. Possibilmente è un uomo che nella vita pratica è incapace a
comportarsi (imbranato) perché troppo abituato allo studio speculativo. Con Aristotele la saggezza e la sapienza non
sono più la stessa cosa, sono e realtà distinte e separate perché la Saggezza è la virtù dell’anima pratica, mentre la
SAPIENZA è la virtù della razionalità teorica. L’uomo che ha acquisito le virtù etiche deve acquisire anche quelle
dianoetiche per vivere secondo ragione. Un uomo provvisto di razionalità ma che non la usa è un uomo bruto, l’uomo
infatti deve fare in modo che la sua potenzialità diventi atto.
BRANO: Le caratteristiche dell’uomo felice
L’uomo felice è colui che agisce secondo virtù completa (virtù etiche e dianoetiche) e che è provvisto di beni esterni
minimi per poter vivere tranquillamente. Tutto ciò deve essere presente durante tutta la vita e non in un determinato
periodo.
Bene, felicità, virtù sono temi che ritornano in tutte le etiche antiche perché sono eudemonistiche ovvero ricercano la
felicità. Dopo Aristotele, nella fase ellenistica quando la filosofia viene divisa in 3 branche: fisica, logica ed etica. La
logica e la fisica vengono approfondite in funzione dell’etica. Perché nella fase ellenistica con il crollo delle poleis e con
le conquiste espansionistiche di Alessandro Magno, il quale assoggetta la Grecia, l’uomo perde la sua specificità di
cittadino, non partecipa più in 1° persona alla vita politica perché diventa suddito. Quindi le scuole filosofiche devono
fornire degli strumenti che servono a far superare l’angoscia dell’esistenza. Queste scuole propongono una filosofia che
funge come terapia dai mali dell’anima. Tra queste scuole vi è l’epicureismo e lo stoicismo. Entrambe sorsero nel 300
a.C.
EPICUREISMO
La filosofia epicurea è una filosofia che considera come criterio di scelta dell’agire dell’uomo il piacere. Epicuro, infatti,
dice che già il bambino quando nasce manifesta una tendenza connaturata al piacere, perché sorride quando si nutre,
quando viene lavato mentre invece piange quando ha fame. Già questo dimostra che ‘uomo tende naturalmente al
piacere ed a una vita che rifugge dal dolore. Epicuro sostiene che dobbiamo cercare di vivere annullando il dolore del
corpo e il turbamento dell’anima e quindi realizzare uno stato di APONIA nel corpo e uno stato di ATARASSIA nell’anima,
eliminando gli stati dolorosi. Quindi non ricerca del piacere ma eliminazione del dolore. L’edonismo epicureo è
differente a quello ad es. dei cirenaici, in quanto quest’ultimi esortavano l’uomo a ricercare ogni forma di piacere anche
nel cibo, nelle bevande…. Invece Epicuro parla di piacere catastematico che significa piacere dovuto ad assenza di
dolore, di turbamento. Ad es. Epicuro dice che quando si ha fame non si devono ricercare cibi sontuosi, raffinati, ma
basta anche un pezzo di pane per eliminare quello stato di dolore provocato dalla fame. L’edonismo di Epicuro ruota più
sui piaceri spirituali che su quelli materiali. Egli sostiene che dobbiamo soddisfare i piaceri naturali e necessari. Mentre
Epicuro ha sostenuto che la virtù è necessaria ma non sufficiente, Epicuro invece ha sostenuto che la virtù è sufficiente
per raggiungere la felicità. Basta essere virtuosi per essere felici, ed essere virtuosi significa essere saggi. Il saggio è colui
che vive felicemente ed è felice anche tra i tormenti. Epicuro giunge a dire che l’uomo è felice anche nel Toro di Falaride
(toro di bronzo che il tiranno Falaride aveva fatto costruire per bruciarvi all’interno i nemici). Ma questa saggezza è
frutto di fatica, di esercizio quotidiano, di autoconvincimento del non aver paura, del non sentire dolore. Solo chi riesce
a interiorizzare questi insegnamenti riesce a raggiungere l’ATARASSIA. Epicuro era un maestro autoritario, la sua
autorevolezza fa si che i suoi insegnamenti di vita venissero visti come dogmi che si dovevano imparare a memoria, che
si dovevano ripetere durante la giornata, fino a farli propri. Epicuro inoltre consigliava di allontanarsi dalle situazioni
ansiogene. In primis bisognava allontanarsi dalla città, perché fonte di turbamento e rifugiarsi in campagna, vivere nel
giardino con gli amici e dialogare. Provare del sollievo nel sentire che anche gli altri hanno dei dolori. Vi è una sorta di
catalogo di regole da far proprie fino all’autoconvincimento in modo tale da non sentire dolore.
STOICISMO
Gli stoici, a differenza degli epicurei, rifiutano il criterio di piacere, perché ritengono che il criterio che deve stare alla
base delle nostre scelte è il logos (ragione). L’etica degli stoici è molto rigida e rigorosa. L’azione morale la si deve
compiere per dovere e non perché deve consentire una vita piacevole. Il piacere è qualcosa di indifferente
Tranne il bene e il male morale. La ricchezza, la bellezza sono indifferenti e diventano un bene quando ne facciamo un
uso proprio e diventano un male quando ne facciamo un uso improprio. Una vita basata sul piacere non è una vita
moralmente buona. Anche per gli stoici, così come per gli epicurei, il saggio è felice anche tra i tormenti. L’uomo deve
occuparsi di realizzare il bene, che è quello che la ragione indica e quindi acquisire le virtù. Le virtù si acquisiscono
attraverso uno sradicamento delle passioni. Mentre per Aristotele l’uomo è un essere passionale e le passioni devono
essere educate, per gli stoici invece esse devono essere estirpate. L’uomo non deve provare sentimenti perché questi
provano solo dolore e sofferenza. L’unica cosa deve contare è il bene e il male morale. L’uomo non deve stare dietro a
tutti i suoi desideri perché la loro realizzazione non dipende da lui. Gli stoici esortano a non desiderare ciò che non
dipende da noi come ricchezza, onori, successo… L’uomo non deve far dipendere la sua esistenza dall’altro. Quelli ceh
sono gli indifferenti diventano preferibili ad es tra la vita e la morte l’uomo preferisce la vita, ma solo se ne fa un uso
giusto e razionale, se invece ne fa un uso improprio come rubare, uccidere, la vita stessa diventa un male. Gli stoici
dicono che il dolore non dipende dalle cose ma dipende dal valore che gli diamo alle cose, perché di per se le cose sono
indifferenti.
PLOTINO
Plotino è il fondatore del NEOPLATONISMO. Il Neoplatonismo sorge a Roma intorno al III d.C., mentre il Platonismo
sorge in Grecia intorno al V sec a.C. Plotino si definiva un esegeta (commentatore) dei dialoghi platonici e un seguace di
Platone. Però Plotino produce una filosofia i cui contenuti sono distanti dai contenuti platonici. Per Plotino tutta la realtà
deriva da un processo di processione, da una fonte suprema che chiama UNO BENE. Questo UNO è buono e coincide
con il BENE della Repubblica di Platone. Così come l’IDEA BENE di Platone così anche Plotino dice che l’UNO BENE è al di
là di tutto ciò che da esso procede ovvero, questo principio supremo è ultratrascendente, perché trascendente rispetto
alle realtà sensibili e alla realtà intellegibile. Quindi l’UNO di Plotino è superiore alle idee ed è separato dalle idee.
Queste idee però non sono più le realtà supreme come in Platone ma diventano a loro volta un effetto della processione
dell’UNO. Ciò significa che in Plotino tutto (ovvero realtà sensibile e intellegibile) deriva dall’UNO. L’UNO è il principio
supremo più elevato di tutto l’universo plotiniano. Da questo UNO BENE scaturisce tutta la realtà che attraverso una
sorta di processione, di emanazione, cioè l’UNO lascia procedere da sé la 1° realtà che viene dopo di esso, che venendo
subito dopo l’UNO, è una realtà divina. Questa 1° realtà viene chiamata da Plotino nous (intelletto) e l’intelletto
costituisce la 2° ipostasi. Infatti la realtà suprema di Plotino è costituita da 3 ipostasi (3 principi supremi che hanno dei
compiti). Queste 3 ipostati sono l’una successiva all’altra e sono:
UNO (1° IPOSTASI): questo contiene tutto e questo contenuto lo lascia fuoriuscire come da una sorgente luminosa che
emana luce.
INTELLETTO (2° IPOSTASI): procede per sovrabbondanza dall’UNO, il quale non può non dar vita ad altro perché
ricchissimo di tutto. L’intelletto è la sede delle idee che sono, come nel platonismo, le essenze delle cose. Però nel
platonismo le idee erano a se stanti (stavano nel mondo Iperuranio da sempre), invece nel Neoplatonismo, le idee sono i
pensieri del pensiero, i pensieri dell’intelletto. L’intelletto da una parte si volge a contemplare l’UNO e come tale prende
il nome di ESSERE, dall’altra parte guarda se stesso e ha il nome di SPIRITO (mente).
Plotino dice che non possiamo dire cos’è l’UNO, perché Plotino è al di là dell’essere. L’essere nasce dall’Uno e nasce a
livello dell’intelletto perché ci sono le idee. Quindi abbiamo la vita perché li vi è la prima manifestazione di vita delle
idee e abbiamo il pensiero. L’UNO è prima dell’essere quindi non è vita, non pensiero, perché il pensiero indica la
duplicità di pensiero e pensato.
ANIMA (3 ° IPOSTASI): L’UNO emana l‘intelletto e l’intelletto emana l’Anima. L’Anima non è in contatto con l’Uno .
l’Anima da un lato riceve la luce delle idee e perciò pensa, dall’altro lato organizza, sulla base delle idee, la materia che
da essa procede. L’Anima è una mediatrice tra mondo naturale e divino. Plotino dice che è il corpo ad essere nell’Anima
e non l’Anima ad essere nel corpo. Così come l’anima e l’intelletto sono contenute nell’UNO e come l’anima è contenuta
nell’intelletto, così anche il corpo (materia) è contenuto nell’anima che lo lascia procedere. L’Anima è unica come anima
del mondo e molteplice perché frammentata nei singoli uomini. Questo ci fa capire che l’uomo ha in sé una particella
divina che è l’anima. L’uomo è corpo e quindi è fatto di materialità, per questo motivo presenta un aspetto negativo, in
quanto per Plotino la materia è male. L’uomo è l’ultimo elemento di questa catena che nasce dall’Uno e ciò comporta
che, essendo molto distante dall’UNO, in lui rifletta poco la bontà dell’UNO. Però l’uomo ha in sé una traccia del divino,
dell’UNO, perché avendo in sé l’anima, l’uomo può e deve riuscire a ritornare al principio supremo che è l’UNO, facendo
una sorta di conversione della sua personalità, di cammino a ritroso e ciò si realizza abbondando tutto quello che lo
circonda, lasciando andare tutto quello che è materialità e corpo e tutto quello che lo spinge ad apprezzare il corpo più
che i principi. Nelle Enneadi Plotino dice che l’uomo si trova in questo mondo perché era necessario che l’anima
precipitasse nel mondo sensibile, in modo che la processione dell’UNO si potesse realizzare in pieno. E quindi è una
necessità che l’anima andasse ad animare i corpi mentre per le filosofie passate, il fatto che l’anima fosse precipitata nel
corpo era visto in modo negativo. Il fatto che l’anima dell’uomo sia in questo modo non è imputabile all’uomo, perché
ciò è per necessità, perché l’UNO deve manifestarsi per trovare la piena autocoscienza e poi ritornare indietro. L’uomo
commette il male quando dimentica la sua patria e i suoi genitori che sono l’UNO, l’INTELLETTO, l’ANIMA DEL MONDO
(principi divini) e si attacca alla realtà di quaggiù , cominciando ad apprezzare i piaceri, tutto quello che lo allontana dal
mondo intelligibile. Quindi l’errore dell’uomo consiste nell’apprezzare ciò che invece deve disprezzare ed in questo è
platonico, infatti Platone aveva detto che le cose sensibili sono delle imitazioni e che ci allontanano dalla verità, noi
attraverso la copia dobbiamo invece giungere all’essenza e così ritornare al principio. Plotino dice che l’uomo commette
il male quando si lascia suggestionare dalle cose corporee, quando desidera più ciò che fa parte della vita terrena
anziché ciò che fa parte della vita ultraterrena. L’etica di Plotino si può definire AFELEFANTE ovvero lasciare tutto quello
che è corporeo e ripiegarsi in se stesso in modo da riscoprire il proprio vero io, l’anima (come aveva insegnato Socrate).
Esiste l’io corporeo e quello più profondo che è l’anima. L’uomo deve ritrovare in sé il principio divino superiore che lo
collega ai principi ipostatici, così l’uomo attraverso questo lavoro d’introspezione riuscirà a ritrovare nella sua anima
l’intelletto. L’intelletto da cui l’anima procede. E in questo modo, con l’amore, con il desiderio profondo di ritornare
all’UNO con procedimento razionale e filosofico, cioè attraverso la ragione che coincide con l’anima (per Plotino l’anima
è ragione, mentre l’intelletto è intellezione, è qualcosa di superiore) io scoprendomi anima devo vivere secondo la mia
anima quindi secondo ragione e non lasciarmi condizionare dai sensi. Con il ragionamento si può cogliere quella parte di
me che è ancora superiore al ragionamento che è l’intelletto. Con l’intelletto l’uomo riuscirà a risollevarsi verso l’i
postasi
intellettiva e cogliere le idee. Però per raggiungere l’UNO l’uomo non può farlo con le sue capacità cognitive
(ragionamento e intellezione) perche Dio è al di sopra dell’intelletto. Si ritorna all’UNO tramite un’esperienza mistica
che inizia la dove finisce la mia capacità di comprensione. È quello il momento più felice. La filosofia in Plotino è una
filosofia pagana che garantisce il raggiungimento della felicità in questa vita terrena. La filosofia insegna il cammino
razionale, che mi aiuta a ritrovare l’immagine di Dio nell’anima e nell’intelletto. Per Plotino la felicità coincide con un
esperienza del tutto personale che non si può descrivere, comunicare del divino, del Dio supremo: l’UNO. Quindi
l’uomo deve ritornare al principio supremo attraverso un ripiegamento dialettico che, attraverso la sfera conoscitiva
dell’uomo (razionalità e intelligenza) gli permette di arrivare alla 2° ipostasi. Dio non lo possiamo conoscere (perché è al
di là dell’intelletto) se non con un esperienza mistica o ipostatica che ci garantisce la felicità in questo mondo. A questo
stadio si arriva attraverso la filosofia. Secondo Plotino dopo la morte ci sarà la felicità suprema attraverso la liberazione
dell’anima dal corpo.
I concetti di bene, male, felicità e virtù sono presenti anche nella filosofia medievale. Però adesso questi concetti
assumono una nuova fisionomia perché vengono filtrati dal cristianesimo. La filosofia cristiana nasce dal voler rileggere
alcuni temi della filosofia classica alla luce del dogma cristiano o del dogma ebraico
AGOSTINO
Agostino non è un filosofo pienamente medievale in quanto vive nel V sec a.C. (tarda antichità). Possiamo dire che è
l’ultimo dei filosofi antichi e il primo dei filosofi medievali. Sant’Agostino è il filosofo cristiano più vicino al pensiero
greco-pagano. Elabora una filosofia che risente molto della nozione di CREAZIONE che è propria del cristianesimo. La
CREAZIONE consiste nella produzione dal nulla di qualcosa che prima non esisteva, il mondo creato da Dio.
Per i filosofi greci la materia è male, per tale motivo l’hanno condannata. Ad es Plotino dice che la materia essendo
lontana dalla bontà dell’UNO BENE è privazione. Sant’Agostino dice che la materia è buona perché creatura di Dio, e
quindi l’uomo buono, deve ricercare questi beni. Ma siccome tutto è bene bisogna capire in che cosa consiste il male.
Sant’Agostino definisce il male INIQUITAS. Il male anche in Sant’Agostino non esiste come principio contrapposto al
bene. Il male non esiste nella natura, ha una sua esistenza in negativo, cioè esistono tanti beni in questo mondo, però ci
sono beni superiori e beni inferiori. L’uomo pecca quando privilegia i beni inferiori (ricchezza, bellezza). La felicità si ha
nel momento in cui scelgo Dio che è il bene supremo. L’uomo deve scegliere i beni spirituali, superiori che sono le virtù
ovvero le azioni che mi consentono di raggiungere il bene supremo e di fare il bene. Il male esiste nel momento in cui
scelgo i beni inferiori. Il peccato di Adamo ed Eva non è consistito tanto nel mangiare il frutto proibito, perché ess è un
bene creato da Dio. Il peccato è nato nel momento in cui hanno preferito quel frutto all’amore di Dio, contrastando la
legge divina. Tutto deve essere visto in relazione ai beni superiori. L’errore esiste quando non c’è verità, la bruttezza di
per sé non esiste, esiste nel momento in cui c’è privazione di bellezza. Il male quindi consiste nel rinunciare a ciò che è
meglio. Sant’Agostino riprende Plotino. Infatti quando Plotino parlava di male diceva che era mancanza di essere, però
in Plotino questa mancanza di essere era attribuita alla materia, invece Sant’Agostino l’aatribuisce alla libera volontà
dell’uomo. Sant’Agostino chiama il bene BEATITUDO, e questa beatitudine l’uomo la può raggiungere anche in questa
vita, anche se per tutti i cristiani la felicità suprema si può raggiungere solo dopo la morte. In questa vita però ci
dobbiamo rendere degni della BEATITUDO. Mentre nella filosofia greca dominava la razionalità, in quella cristiana
domina la fede. Secondo i filosofi greci l’uomo per raggiungere la felicità deve eseguire il cammino con le proprie
capacità, con la razionalità. Per i filosofi cristiani la felicità, la salvezza dell’uomo dipendono da Dio. Secondo
Sant’Agostino dentro di noi c’è un maestro interiore che è Dio, il quale ci illumina e senza questa luce Dio non lo
potremmo conoscere. Quindi la nostra conoscenza non dipende dalle nostre capacità razionali ma dalla fede in seguito
alla quale Dio ci illumina e ci permette di conoscere dandoci la sua sapienza. Dio ci elargisce questa sapienza come una
GRAZIA. La filosofia adesso diventa un ausiliare della teologia. Grazie al’illuminazione di Dio agiamo bene moralmente.
Dio è dentro di me e non lo devo cercare altrove. Agostino sulla base di Plotino inneggia all’interiorità, al ripiegamento
su se stesso. La legge morale sta dentro di me e me la da Dio e quindi non la devo apprendere da altri, perché dentro di
me vi è un maestro interore che mi illumina. Quindi tutti possiamo agire moralmente bene, ma ciò è possibile se
crediamo in Dio e se lo amiamo. L’amore diventa una condizione necessaria per il raggiungimento della felicità. Agostino
riprende le virtù della Repubblica di Platone e queste virtù sono le VIRTU’ CARDINALI (temperanza, fortezza, prudenza e
giustizia). Però ancora più importante sono le 3 virtù teologali (fede, speranza e carità). L’uomo può scegliere perché
dotato di libero arbitrio. Il libero arbitrio, cioè la libertà di scegliere come agire sta alla base della morale e della legge.
Cioè è in virtù del libero arbitrio che l’uomo è responsabile delle sue azioni e ciò è quello che lo distacca dall’animale.
Mentre l’animale non può scegliere ma agisce in un certo modo perché la natura glielo impone, perché nella natura vige
la necessità. L’animale è determinato. Invece l’uomo, proprio perché è l’essere più degno del creato (ed è stato creato
ad immagine e somiglianza di Dio) è libero di decidere e quindi può scegliere tra bene e male. La sapienza di Dio
concede all’uomo la possibilità di sapere qual è il bene e qual è il male. L’uomo, in base alla sua scelta volontaria, è
passibile di premi e castighi (mentre l’animale no, perché agisce in un determinato modo per necessità) all’uomo è
assegnata questa possibilità di poter scegliere ma ciò però ne può determinare anche il castigo. La volontà è libera
solamente se l’uomo vuole il libero arbitrio. La volontà è un bene supremo che si colloca tra i beni superiori e i bei
inferiori.
BONAVENTURA
Siamo in pieno medioevo. La sua opera più importante è “Itinerario dell’anima verso Dio” (1259). È un filosofo
francescano che riprende l’Agostiniano e quindi la filosofia dell’illuminazione. Bonaventura sostiene che la filosofia non
ci serve più perché tutto dipende dalla fede in Dio. Se abbiamo fede in Dio, Dio ci permetterà di raggiungere la felicità,
nell’estasi mistica. L’estasi mistica di Plotino è un rapporto razionale-filosofico. L’estasi mistica di Bonaventura è un
processo di fede e teologia. Le tappe di questo itinerario sono 3:
1° tappa: vedere, guardare il mondo, la realtà che ci circonda come manifestazione della bontà di Dio. Quindi leggere
nella realtà naturale le vestigia di Dio, le tracce teologiche della sua azione.
2° tappa: ritornare in noi stessi e considerare la nostra mente come un immagine di Dio, perché Dio è in noi.
3° tappa: coincide con la visione mistica di Dio che però sarà solo una similitudine di Dio, la vera conoscenza di Dio
l’avremo solo nell’altra vita. Per Bonaventura le virtù son fondamentali per raggiungere Dio, per avere questa estasi
mistica. La virtù più importante è la temperanza, perché attraverso essa riusciamo a dominare il nostro desiderio che ci
spinge verso cose che non sono proprio il vero bene. Quindi se riusciamo ad essere temperanti riusciamo a raggiungere
la felicità. Bonaventura sostiene che l’uomo moralmente buono è sia colui che ha acquisito la virtù della temperanza, sia
colui che predica e pratica la povertà (S. Francesco d’Assisi). Per povertà si deve intendere povertà di spirito. Quindi il
vivere nella povertà non ci deve imporre di disprezzare i beni materiali, perché essi sono dei beni in quanto dati da Dio.
Questi beni si devono utilizzare per fare del bene (S. Francesco d’Assisi)
Brano
La povertà dipende dall’uso che desideri fare delle cose. Non bisogna né apprezzare né disprezzare ma bisogna avere un
comportamento equilibrato.
TOMMASO D’AQUINO
È il principale esponente dell’Aristotelismo ortodosso. Vuole dimostrare come si possa inserire una visione aristotelica
nel mondo cristianesimo. Egli ritiene che tra queste 2 visioni vi sia una sorta di armonia piuttosto che una
contraddizione. Per il cristianesimo e per l’aristotelismo l’anima è immortale. Tommaso cerca di mostrare
filosoficamente l’individualità dell’intelletto e l’immortalità dell’anima. Tommaso d’Aquino affronta ciò nella “Summa
Teologica”. La virtù per Tommaso è un abito buono e operativo che contraddistingue le persone che deve essere
indossato sempre (ci deve essere un esercizio continuo). I vizi invece sono gli abiti cattivi nel momento in cui si
compiono atti malvagi. Sia la virtù che i vizi dipendono da noi in quanto liberi. La virtù è l’attualizzazione della potenza.
Esistono 2 tipi di potenze:
ALL’ESSERE: quando la materia e il corpo possono realizzarsi. Ciò riguarda uomini e animale.
A OPERARE: è propria dell’uomo in quanto agisce.
Tommaso definisce la volontà “appetito intellettivo” e può presentarsi in 3 modalità:
NATURALE: tutti gli esseri viventi
SENSITIVO: animali e uomini
INTELLETTIVO: uomini
La volontà ha come fine ultimo il bene universale. L’uomo essendo libero può decidere quali valori adottare e grazie
all’intelletto spinge la volontà verso il bene.
DUNS SCOTO
La volontà è libera e può essere determinata solo dalla volontà stessa. Mentre l’intelletto è determinato dai suoi oggetti,
dipende da essi. Per questo motivo la volontà è superiore all’intelletto. La volontà è buona quando vuole il bene. Che
cosa sia il bene dipende da Dio. Dio non vuole il bene perché è bene (come diceva Platone), il bene è ciò che Dio vuole,
perché lo vuole. La causa del bene è la volontà di Dio a l’uomo si deve conformare. La virtù più alta è la carità e ad esso
Dio risponde con la grazia.
MACHIAVELLI, ERASMO DA ROTTERDAM, TOMMASO MORO
Nell’epoca rinascimentale non vengono più analizzati i temi della riflessione morale medievale: i concetti di bene,
felicità, virtù. Non si ha più un interesse specifico per l’etica. Con l’Umanesimo e il Rinascimento si può considerare
aperta una nuova era che è quella delle umane litterae. Vengono ripresi, letti, commentati tutti i testi classici del mondo
antico soprattutto con lo strumento filologico. La filologia è uno strumento che mi permette di leggere i testi classici
nella loro lingua originale. Questo strumento è rivoluzionario, è un cambiamento di prospettiva diversa rispetto al
medioevo che si era fossilizzato nei problemi di fede. Un altro elemento rivoluzionario fu la Riforma Protestante. In
questo momento l’ottimismo della ragione illumina i tempi. Dal punto di vista religioso si ha una frantumazione di
quell’assolutismo teologico che era rappresentato dalla religione cristiana. Questa frantumazione consiste nel fatto che
si verifica una reazione al dogma cristiano, alla Chiesa ufficiale che viene accusata di corruzione e di non aver
interpretato nella giusta maniera il verbo cristiano. Il capostipite della Riforma Protestante fu Martin Lutero. Fino alla
filosofia medievale vi era un connubio tra l’etica e la politica. Questo connubio veniva soprattutto sottolineato dall’etica
di Aristotele. Per Aristotele l’etica e la politica non hanno una loro dimensione autonoma ma sono intrecciate perché
sono delle scienze pratiche che si occupano dell’agire umano. Per Aristotele il bene del singolo s’identifica con il bene
della collettività, bene su cui l’etica deve riflettere. La politica è la scienza superiore e l’etica deve lavorare per essa, per
migliorarne il sistema politico. Nell’età moderna invece l’etica viene considerata una sfera d’azione dell’uomo che
prescinde dalla politica, perché l’ambito politico è considerato l’ambito pubblico, mentre l’etica è considerata una
questione del tutto privata e che quindi non deve interessare all’uomo di Stato. Invece, per es. Platone, Aristotele
avevano forgiato l’uomo politico e avevano detto che una polis è giusta quando chi la governa pensa al bene dei
cittadini e non al proprio bene, l’uomo di Stato deve fare in modo in modo che i suoi cittadini siano felici. Ora, invece il
Principe non deve preoccuparsi della felicità dei singoli uomini perché la felicitò è una affare privato, a cui deve pensare
ogni singolo uomo nel suo privato. Allo Stato attiene la sfera pubblica e la Ragion d Stato prescinde dalla riflessione sul
modo in cui gli uomini devono comportarsi. La politica non si deve far condizionare dai valori morali.
MACHIAVELLI
Nasce nel 1469 e muore nel 1523. Era segretario della seconda cancelleria della Repubblica fiorentina. Quando i Medici
ritornano al potere nel 1512 a Firenze, Machiavelli venne destituito dal suo incarico e gli fu impedito di svolgere anche
missioni e ambascerie che lui normalmente svolgeva nel territorio al di fuori di Firenze. Venne condannato ad un anno
di confino dentro la città di Firenze perché era stato accusato di aver partecipato ad una congiura antimedicea.
Machiavelli oltre ad essere uno scrittore e letterario è anche un esponente della storia del pensiero politico. Ha dato un
contributo importante al pensiero politico con la sua opera “Il Principe” scritta nel 1513. Il Principe è ‘opera più
spregiudicata. Infatti l’aggettivo “machiavellico” significa qualcosa di spregiudicato, senza scrupoli. Quest’opera è
dedicata ai Medici in modo da farsi riprendere a corte. Machiavelli fa tutta un’apologia della politica medicea e
tratteggia la figura de Principe che lo dava vincitore su tutti i fronti e soprattutto ne sanciva i comportamenti più corrotti
e più arbitrati. Secondo Machiavelli nella riflessione politica non dobbiamo vagheggiare un ideale, non dobbiamo
riflettere su come il Principe deve governare. Queste sono soltanto fantasie, sono ideali che non potranno mai
realizzarsi. Machiavelli ritiene che sia più conveniente considerare la realtà storica, la realtà della condizione umana e
quella poi delineare la figura del Principe. Quindi non bisogna insegnare al Principe ad essere buono, benevolo, ma ad
non essere buono perché la natura umana è malvagia e quindi il Principe buono diventerebbe troppo fragile nelle mani
degli uomini malvagi. Machiavelli ha una visione pessimistica e negativa della natura umana.
Brano
Il principe deve essere ancora più dissimulatore degli altri, perché è più facile attaccare un buono anziché un sovrano
cattivo. Il Principe deve impaurire i suoi sudditi, li deve far vivere nel terrore della punizione perché solo così riuscirà a
governare. Il Principe deve essere una belva. Deve agire secondo l’astuzia di una volpe e la forza del leone. Il fine
giustifica i mezzi.
La politica deve essere studiata secondo i suoi principi autonomi e non deve essere condizionata dalla morale.
Brano
Non si devono formulare ideali bisogna valutare l’essere della cosa e poi lavorare sulla verità effettuale. Il Principe sfocia
nella rovina se pensa di diventare buono e di rendere buoni gli altri.
Questa concezione Machiavellica si ritroverà nel 1600 in Hobbes, il quale era un filosofo della politica che teorizza lo
Stato Assoluto sulla base della malvagità della natura umana. Per Hobbes l’uomo di fronte ad un altro uomo è un lupo. Il
Principe, ai fini di conservare il proprio potere può prescindere dal pensare alla felicità dei suoi sudditi. Machiavelli
scrive un’altra opera intitolata “I discorsi sopra la prima deca di Tito Livio”. Bisogna ricordare che mentre prima aveva
scritto il Principe perché sperava di essere richiamato a corte dai Medici, adesso invece in quest’altra opera, libero dalla
sua condizione, delinea un ideale di Stato, sostenendo che il miglio tipo di governo è la Repubblica facendo riferimento
alla Repubblica romana (periodo di splendore). La Repubblica è quel tipo di costituzione politica ottimale perché
garantisce la libertà dei cittadini. Adesso Machiavelli fa un passo indietro anche se già comunque nell’opera Il Principe
aveva condannato tutti i capi di Stato che avevano ottenuto il governo con scelleratezza e non con virtù e capacità. In
quest’ultima opera dice che le leggi sono obiettive e quindi possono garantire a tutti la medesima libertà evitando che
alcuni nella città padroneggiano e impongano il loro volere. Le leggi devono stare alla base della società civile e sono
quel freno che garantisce la libertà di tutti. Le leggi sono ancora più importanti del Principe, il quale deve sottostare ad
esse. La natura umana deve essere educata alla virtù civile la quale mi consente di considerare i miei limiti e di rispettare
la libertà altrui.
ERASMO
Nasce nel 1469 a Rotterdam. Erasmo sottolinea il pericolo di una politica scissa dall’etica e l’esigenza che il Principe
venga educato ai valori cristiani e che incarni le virtù del cristianesimo. Erasmo è un umanista, un letterato, un filologo,
traduce e commenta i testi degli antichi greci e latini. È un uomo di Chiesa, ma di quella Chiesa non ufficiale del
protestantesimo. In realtà lo dobbiamo collocare a metà tra la Chiesa ufficiale e il protestantesimo, in quanto non
accetta né il dogma cristiano e l’apparato ecclesiastico né le posizioni drastiche del protestantesimo. Per questo motivo
verrà criticato da entrambe le parti. Erasmo viene attaccato da Martin Lutero per essere troppo morbido nei confronti
della Chiesa. Martin Lutero aveva fatto proprio un attacco alla Chiesa cristiana e aveva elaborato una concezione
religiosa molto rigorosa nata da una concezione pessimistica della natura umana. Martin Lutero sosteneva che il peccato
originale abbia dannato per l’eternità l’uomo che non potrà mai liberarsi da questa colpa a meno che non sia Dio a
decidere di graziarlo. Erasmo condanna a Martin Lutero perché quest’ultimo sostiene che l’uomo non ha libero arbitrio.
Erasmo è contro perché se fosse così allora non servirebbero a nulla gli sforzi dell’uomo per conquistarsi la grazia divina.
L’animale è mosso dagli istinti, invece l’uomo dalla volontà. L’uomo ha la capacità di decidere e per questo motivo è
soggetto a premi e castighi. Martin Lutero nel “De servio arbitro” scrive che l’arbitrio è schiavo di quella passione
primordiale che ha determinato il peccato originale. Erasmo nel 1513 scrive in latino “Educazione del Principe
Protestante”. La sua riflessione si rivolge all’uomo di Stato il quale deve essere cristiano e incarnare l’immagine di Dio
nel mondo terreno e deve comportarsi nei confronti dei sudditi e della città come si comporterebbe Dio. Dal punto di
vista della sua riflessione politica si può considerare un platonico perché sostiene che il Principe deve tenere presente il
rapporto tra il sensibile e l’intellegibile. Deve andare oltre le cose sensibili e deve cogliere in 1° luogo il bene. Il Principe
deve avere questo modello di bene che coincide con Dio. Conoscendo l’idea del bene, la deve applicare. Il Principe
rispetto a tutti deve essere il migliore ed incarnare quelle virtù dell’equilibrio di cui aveva parlato Aristotele. L’uomo di
Stato non deve necessariamente sancire il suo dominio perché tante volte questo determina la sofferenza degli altri
uomini (ad es. con la guerra). Erasmo è un pacifista e ha un pensiero controcorrente perché vive nel periodo in cui vi
sono le guerre di religione. Erasmo sottolinea che la guerra è del tutto contraria ai precetti cristiani. Piuttosto bisogna
accettare una condizione infelice e comportarsi da martire anziché muovere guerra e provocare la morte di molti
uomini.
Brano
Ad es spesso i tiranni si comportavano con gli uomini come se fossero animali e li usavano per i propri interessi personali.
Il Principe invece deve rispettare i diritti degli uomini e quando nascono delle controversie bisogna interpellare i
rappresentanti della cittadinanza che devono decidere se il Principe ha ragione o no. Il Principe deve mettere da parte la
sua posizione; può essere destituito se non si comporta correttamente. Il Principe cristiano deve considerare dubbio il
proprio diritto.
TOMMASO MORO
La sua opera “Della miglio forma di Stato della nuova isola di Utopia” fa parte della letteratura utopistica e delinea una
città ideale che fa pensare alla Repubblica di Platone, il quale vagheggiava uno Stato ideale da realizzare. Utopia significa
assenza di luogo, qualcosa che non esiste. Quest’isola che non è esiste, è un isola felice, dove non esistono differenze
sociali, la corruzione e i mali dell’Inghilterra di quel tempo (Enrico VIII) a differenza di alcuni filosofi, i sovrani erano
d’accordo nel ritenere che la politica doveva essere scissa dall’etica e per questo motivo iniziavano guerre senza farsi
scrupoli. L’Inghilterra di Enrico VIII era corrotta e governata sulla base dell’ingiustizia creando così uomini impoveriti e
imbarbariti. Nel 1° libro di Utopia, Moro descrive dettagliatamente l’Inghilterra del suo tempo con tutti i suoi aspetti
negativi. Nel 2° libro invece descrive la società ideale di Utopia. Il protagonista di quest’opera è Roberto Itlodeo che
personifica un navigatore che racconta i viaggi fatti in giro per il mondo. In un primo momento racconta l’Inghilterra di
quel tempo, in cui vennero requisite e privatizzate molte terre per adibirle a pascoli in modo da poter incrementare ad
es il commercio della lana. Di conseguenza coloro che non avevano più appezzamenti di terreno furono costretti a
lasciare la campagna ad andare in città. In città non avendo più sostentamento vivevano in povertà ed alcuni divennero
vagabondi, altri ladri. A questo punto Tommaso Moro dice che la povertà crea il ladro che viene punito dalla legge.
Questo è stato causato dai sovrani che hanno reso impossibile la vita alla gente, la quale non sa come sostentarsi. Infatti
a nulla servono le punizioni perché un uomo diventa ladro per bisogno. Invece bisogna eliminare la proprietà privata e
dare a tutti la possibilità di lavorare. L’agricoltura deve essere la prima attività di ogni uomo, la prima forma di
sostentamento, fermo restando che bisogna svolgere la propria professione in base alle proprie attitudini così come
aveva detto Platone. Successivamente, nel 2° libro, delinea questa società ideale dove ognun può scegliersi il lavoro che
deve durare 6 ore al giorno in modo da poter dare la possibilità all’individuo di svagarsi. Tommaso Moro fa dire a
Roberto Itlodeo che a prescindere dalle differenze di razze, di lingua, ogni singolo uomo ha dentro di sé una legge
naturale e ogni Stato si deve organizzare in base ad essa. Alla base sta la famiglia dei magistrati, cioè il senato (novità
rispetto a Platone) che deve eleggere il magistrato supremo: il Principe. Tommaso Moro viene ucciso dalla violenza di
Enrico VIII il quale pretendeva lo scioglimento del matrimonio con la moglie, cosa che la Chiesa anglicana non
ammetteva. Per questo motivo Enrico VIII fece l’atto di supremazia in cui si dichiarava il capo di tutto anche della Chiesa.
Chiaramente Tommaso Moro, che patteggiava per la riforma protestante e sosteneva che la Chiesa dovesse essere pura,
si oppose a ciò e venne rinchiuso nella Torre di Londra e prima di essere condannato scrisse una lettera in cui diceva:
BRANO
Gli altri facciano quello che vogliono ma io non accetterò mai questo atto di supremazia e se qualcuno vi dirà che l’ho
fatto, sappiate che mi è stato storto con la forza.
Non lo fece e venne ucciso. Tommaso Moro l’analisi sociologica del periodo storico in cui vive non è solo disfattista ma
anche propositiva.
SPINOZA, LEIBENIZ, KANT
Spinoza, Leibeniz, e Kant hanno contribuito a perfezionare il concetto di bene. Tutti e 3 sostengono che il concetto di
bene non sia un concetto univoco, facile da determinare, ma che sia un concetto complesso e problematico. Secondo
costoro si deve discutere se il concetto di bene esiste come bene assoluto, universale o se invece esistono tanti beni
quanto sono gli uomini, gli animali, le piante… I filosofi antichi e medievali erano convinti che il bene avesse una
sussistenza ontologica: esiste il bene e il male e ce ne accorgiamo con la nostra razionalità. Questi 3 filosofi vivono in un
epoca in cui sorgono contrapposizioni ad es. tra EMPIRISMO (non esiste niente di innato, tutto deve essere
sperimentato) e RAZIONALISMO (il bene costituisce un idea innata, di cui l’uomo ha certezza perché ha la capacità di
cogliere queste idee. Thomas Hobbes ha una visione negativa della natura umana. Per Hobbes non esiste il bene e il
male in quanto questi sono dei concetti relativi. Per evitare il relativismo Hobbes ritiene che ci devono essere delle leggi
che devono essere coercitive nella misura in cui devono individuare un bene per la città. Ma è un bene relativo a quella
situazione che di volta in volta il sovrano dovrà individuare il bene utile per la città.
SPINOZA
Ha una visione pessimistica sulla natura umana in quanto considera l’uomo schiavo delle sue convinzioni. L’uomo è
convinto di essere libero, di poter decidere liberamente le sue azioni. Ma in realtà, dice Spinoza, non è così perché tutto
l’universo è determinato e necessitato (in questo si rifà allo stoicismo). Nemmeno Dio è libero. Dio non crea per sua
volontà ma crea perché deve farlo, perché non può sottrarsi al suo destino. L’uomo è convinto di determinate cose ma
in realtà le sue convinzioni sono frutto della sua elaborazione mentale. Per es. dice Spinosa, l’uomo è convinto di
conoscere i concetti di bene e male, ma sono solo concetti della sua mente, modi di pensare e non realtà oggettiva. Ma
il fatti che questi concetti non corrispondano ad una verità oggettiva non m’impone di abbandonarli. L’uomo si forgia
sempre un modello da seguire e questi concetti di bene e male gli servvono anche se non corrispondono a verità. In
Spinoza l’uomo non è più al centri dell’universo. Spinoza critica l’antropocentrismo, l’antropoformismo e il finalismo.
Finora l’uomo era stato posto al centro dell’universo e per questo motivo si era convinto di poter gestire la sua vita sulla
base di principi ben precisi, che egli stesso ha ritenuto di poter conoscere.. l’uomo, dice Spinoza, s’illude di poter
conoscere, di essere l’ente più importante dell’universo. Inoltre si è convinto che Dio ha creato l’universo per l’uomo
affinché potesse goderne. Invece secondo Spinoza, l’uomo è una particella dell’universo q per questo motivo non può
avere neanche la pretesa di capire, di avere certezze assolute. Inoltre Spinoza critica la concezione ebraico-cristiana del
Dio creatore; del Dio che ha creato in vista del bene e che quindi la sua creazione tenda ad un fine che sia quello di
creare un mondo ordinato, buono, dove quest’ordine coincide con il bene. Spinoza ritiene che questo inadeguato,
trattare Dio in questo modo significa paragonare il suo comportamento in quello di un uomo perché finalizzato. Dio è
perfetto, l’azione di Dio non può essere condizionata dal raggiungimento di un fine, qualunque esso sia, perche
altrimenti questo fine sarebbe più importante di Dio perché ne determina l’attività. E come se la volontà del Dio fosse
condizionata dal raggiungimento di un fine e quindi ne facciamo un essere imperfetto che per raggiungere la perfezione
ha bisogno di creare. In questo modo l’uomo dimostra di non aver chiaro il concetto di Dio. Dio non è quello che ci
hanno rivelato le Sacre Scritture. Secondo Spinoza nemmeno Dio crea per sua volontà, ma che tutto nell’universo è
quello che è, perché è una necessità. Dicendo che Dio vuole creare facciamo di Dio un uomo. Il concetto di Dio, in
Spinoza, non è un concetto religioso ma filosofico ed è visto come sostanza che ha i suoi attributi. L’uomo s’illude di
poter essere misura di tutte le cose. Il segreto per capire il ruolo dell’uomo nell’universo e come sia strutturato sta nel
concetto di SOSTANZA. La sostanza è ciò che non ha bisogno di altro per esistere. La sostanza è Dio ed è unica e infinita.
L’universo è sostanza ma questa si esprime attraverso 2 principali attributi: pensiero ed estensione (Cartesio rex extensa
e rex cogitans). Questi attributi si manifestano all’uomo attraverso MODI (AFFEZIONI) che sono il corpo e le idee. Come
facciamo a distinguere le singole cose dalla sostanza divina? Spinoza lo spiega con il concetto dei modi dicendo che ci
sono tanti modi in cui la sostanza si manifesta. Tutti questi modi sono gli enti. Quindi l’uomo è uno dei tanti modi della
sostanza (non è più al centro dell’universo).
Testo
I modi sono tutto quello che non è Dio. dio è sostanza unica però poi ci sono tanti modi in cui la sostanza si manifesta.
L’uomo è una parte della sostanza di Dio.
Anche se non c’è la creazione tutto deriva dalla sostanza divina. Questa realtà è unica però si differenzia in tanti modi.
SOSTANZA UNICA: coincide con la natura naturans (natura creatrice e ha caratteristiche divine. MODI DELLA SOSTANZA:
natura naturata (stessa realtà vista però dal punto di vista dell’effetto e non ella causa). Tutto è Dio, però Dio da una
parte è la natura nel momento in cui crea e nel momento in cui crea la sostanza diventa natura naturata cioè le
creature. È un po’ quello che dirà Hegel quando dirà che lo Spirito si dispiega in varie manifestazioni, e l’uomo è un
tassello, un moment di tutto ciò, ma tutto questo ritornerà nello Spirito Assoluto quando questo avrà raggiunto la sua
piena autocoscienza. Quindi è una realtà unica che si dispiega in modi differenti. Dal punto di vista dell’etica bisogna
dire che per Spinoza, Dio non costituisce il bene, l’uomo non ha dei parametri oggettivi quindi il bene non ha una realtà
assoluta ma relativa. Per l’uomo il bene è un suo modo d’intendere, tutto ciò che riconosce essere utile.
Testo
L’uomo ha quest’idea di perfezione morale ed è convinto che il bene sia ciò che gli è utile. Il bene consiste
nell’autoconservazione, ovvero tutto quello che mi permette di mantenermi in vita e in modo dignitoso.
Spinoza chiama questo istinto di autoconservazione: CONATUS. Questo conatus è presente in tutti anche negli esseri
inferiori. Ad es. l’animale si accoppia per auto conservarsi e tutto ciò non viene fatto consciamente ma per necessità.
Quando questo conatus si riferisce all’uomo si chiama CUPIDITAS, quando si riferisce solo alla mente si dice VOLONTA’.
Vivere secondo virtù significa ricercare il proprio benessere, la propria autoconservazione. Così facendo l’uomo realizza
a pieno la natura naturata, designando l’universo. In questo modo l’uomo si sente parte dell’universo, di questa
sostanza divina e raggiunge il bene supremo quando cerca di conoscere la sostanza divina. Per Spinoza il bene è ciò che
l’uomo cerca, il male ciò che sfugge. Esistono 3 ordini di conoscenza:
PERCEZIONE: rappresenta il mondo in modo parziale e confuso (pregiudizio, superstizione)
SCIENZA: non sa cogliere l’unità del tutto (Dio e la natura) e la varietà con cui quest’ultimo si manifesta agli uomini.
LEIBINIZ
Leibiniz ritiene che la matematica è a scienza suprema, la più esatta e l’accosta all’etica. Quindi si contrappone a chi dice
che non c’è verità. Il bene è qualcosa di assoluto. Le leggi morali non chiare e certe come le leggi matematiche. L’uomo
ha delle idee innate e questo non vengono da Dio così come le leggi matematiche. Hanno una realtà che non dipende né
dall’uomo né da Dio. Le verità matematiche si differenziano da quelle etiche perché le prime sono rese a noi attraverso
la ragione, mentre le seconde possono giungerci attraverso la ragione e l’istinto. I sentimenti e gli istinti hanno un ruolo
importante perché ci fanno capire cosa sia giusto e cosa non lo sia. In Leibiniz vi è una profonda religiosità. Le persone
dotate di anima razionale formano una città di Dio, il quale si comporterà come un monarca.
KANT
La sua posizione è rivoluzionaria nell’ambito della filosofia morale per quanto riguarda il concetto di bene. Le opere più
importanti dell’etica kantiana sono: Critica della Ragion Pratica e a Fondazione della metafisica del costume. Il concetto
di bene, per Kant, è un concetto ambiguo a cui bisogna attribuirgli il giusto valore. Secondo Kant il concetto di bene è
equivoco perché gli antichi, i medievali, gli umanisti lo hanno definito solo con il termine BONUM, intendendo sia il bene
morale che quello empirico (fisico). In realtà sono 2 cose distinte in quanto il bene morale non può lasciarsi condizionare
dalla felicità, dal piacere. A tal proposito Kant sostiene che la lingua tedesca ci aiuta a fare questa distinzione. Il bene
morale è il GUTE e il bene empirico è il WOHL; il male morale è il BOSE’ e il male empirico è il UEBEL. L’azione morale è
determinata dalla volontà non dal bene che noi vogliamo raggiungere. Esiste una ragion pura attraverso cui conosciamo
e una ragion pratica che ci orienta nel nostro comportamento. I sentimenti non devono condizionare l’azione morale,
l’etica kantiana è eteronoma. L’uomo deve ricercare solo il bene morale. Kant è rivoluzionario perché fino a questo
momento il bene era stato visto come il faro della vita morale, ciò che illumina la vita morale. La vita morale era in
funzione del raggiungimento del bene, della felicità o del piacere. Adesso Kant il bene non lo pone più all’inizio ma alla
fine in quanto prima c’è la legge morale e poi c’è il bene. Solo se conformo la mia volontà alla legge morale compio un
azione moralmente buona. Bisogna ascoltare i dettami della legge morale in modo da capire cosa essa ci impone. La
legge morale è dentro di noi e la ragion pratica deve cogliere questi insegnamenti dentro noi stessi. La legge morale per
essere tale deve essere: a priori, razionale, universale e formale. L’imperativo categorico vi impone un determinato
comportamento che prescinde dal raggiungimento di un fine, altrimenti l’etica kantiana sarebbe eteronoma. L’etica
kantiana è autonoma ciò dipende da sé, tutto il resto è in 2° piano. Kant sostiene che la libertà è una condizione
necessaria al fine morale, perché l’uomo può decidere se vuole o no conformarsi alla legge morale. Se necessario, per il
dovere dobbiamo sacrificare anche la nostra felicità. Il fine dell’azione morale è migliorare l’umanità e ciò si può
realizzare solo se ci conformiamo alla legge morale. Kant distingue 2 tipi di imperativi:
IMPERATIVO IPOTETICO: non ha valore morale, il dovere è subordinato ad un ipotesi. “Se vuoi…devi…”. È una cosa
soggettiva che non può essere estesa ad altri. Kant riporta questo imperativo perché si riferisce alle etiche precedenti (
etica finalistica e teologica).
IMPERATIVO CATEGORICO: ha valore morale. “Tu devi”. Nell’azione morale non ci deve essere un fine. È un comando
assolto che non dipende da altro. Kant sostiene che le emozioni e le passioni devono essere sacrificate. L’uomo di Kant
però non è infelice perché l’uomo non deve preoccuparsi della sua felicità, non deve pensare ad agire per raggiungere la
felicità altrimenti l’etica non sarebbe più autonoma ma eteronoma. L’uomo deve essere virtuoso e lo diventa
conformando la volontà alla legge morale. La virtù è necessaria ma non sufficiente. La felicità l’uomo non la trova in
questa vita, in quanto si deve adattare alla legge morale e deve sacrificare i sentimenti, le passioni, i desideri. Facendo
così l’uomo virtuoso non è felice ma si rende degno della felicità, che la otterrà nell’aldilà. Tutta la filosofia kantiana
indica una spaccatura tra MONDO FENOMENICO (in cui l’uomo vive) e MONDO NOUMENICO (con cui l’uomo
probabilmente avrà a che fare dopo la morte. Questo non può essere conosciuto dall’uomo). Kant critica le Metafisiche
perché hanno illuso l’uomo nel fargli credere di poter sapere se Dio esiste o meno, se l’anima è immortale o immortale.
Kant dice che l’uomo, in realtà, l’uomo non lo può sapere perche la ragion pura si ferma ad un limite, ciò che va oltre si
può solo posturale. Per Kant è necessario credere in Dio e al’immortalità dell’anima perché altrimenti non avrebbe
senso che l’uomo debba vivere secondo la legge morale. L’uomo non deve vivere avendo di mira la felicità, però deve
sapere che tutto quello che fa in questa vita, tutti i sacrifici, le mortificazioni, tutte le rinunce verranno premiate dopo la
morte. Ma naturalmente non si può mai essere sicuri di questo, si deve postulare per fede. Dio per Kant è il sommo
bene. L’uomo più giusto e più è infelice. Anche Dio è subordinato alla legge morale. Dio non può decidere se salvare o
non salvare un uomo che non si è assoggettato alla legge morale. Dio è talmente giusto che nel momento in cui l’anima
dell’uomo sopravvive al corpo dopo la morte lo premia con la felicità se ha vissuto virtuosamente. L’etica di Kant è
deontologica.
CARTESIO, SPINOZA, HUME, KANT
Per Kant il movente dell’azione morale deve essere razionale e non un sentimento. Mentre per Hume nel conflitto tra le
passioni e la ragione hanno la meglio i sentimenti. La ragione si deve far strumentalizzare dagli impulsi, dalle passioni
che si devono servire della ragione. Le passioni devono essere i moventi dell’azione dell’uomo morale, perché l’uomo
morale sa per istinto cos’è il bene e cos’è il male. L’etica di Hume è descrittiva, in quanto descrive la condizione umana.
Cartesio e Spinoza sostengono che l’uomo non può pensare di sradicare le passioni, perché l’uomo è anche passione.
Queste passioni devono essere educate, l’uomo le deve dominare. Mentre per Cartesio ciò lo deve fare la VOLONTA’,
per Spinoza ciò lo deve fare la RAZIONALITA’.
CARTESIO
La riflessione morale di Cartesio si trova nell’epistolario tra il filosofo e la Principessa Elisabetta di Palatinato, intitolato
“Le passioni dell’anima”. Il contenuto di quest’opera gli viene stimolato della domande della principessa. Cartesio aveva
elaborato una concezione dualistica dell’uomo, individuando una parte pensante e una parte estesa (REX COGITANS ed
EXTENSA). Queste 2 rex interagiscono. Ed Elisabetta chiede a Cartesio come interagiscono anima e corpo e come il
corpo provoca all’anima le passioni. Secondo Cartesio l’anima non soltanto patisce ma anche agisce. Le passioni
dell’anima sono i sentimenti, mentre le azioni dell’anima sono i pensieri, la volontà. Ad ogni azione corrisponde una
passione perché c’è un punto di contatto tra l’anima e il corpo che si chiama GHIANDOLA PINEALE (che ha sede nel
cervelletto). Questa ghiandola è sede dell’anima. Queste passioni l’anima le prova in seguito a dei movimenti del corpo.
L’anima subisce le passioni del corpo che si muove attraverso i muscoli. Ma i muscoli oltre che dai nervi sono mossi
anche dagli spiriti animali che si trovano nel sangue. Quando vediamo qualcosa che ci impaurisce, non proviamo
direttamente un sentimento d paura, ma questo lo proviamo dopo che è successo qualcosa a livello di corpo. Prima il
corpo reagisce e poi l’anima subisce questi movimenti dei nervi e degli spiriti che si riverbano nella ghiandola pineale.
Cartesio spiega tutto ciò attraverso un movimento fisiologico e quindi dobbiamo agire sul corpo per placare, dominare
le passioni. Le passioni sono necessarie, l’importante è non farne un uso improprio, bisogna razionalizzare con la forza
della volontà. E ciò lo possiamo fare agendo sul corpo, dobbiamo far si che il corpo non abbia più quelle reazioni che
provocano le passioni dell’anima. Noi dobbiamo volerlo, dobbiamo convincerci che determinate cose non ci devono
suscitare una reazione di paura. Se noi razionalizziamo possiamo formulare dei pregiudizi razionali sulle cose e le cose
cesseranno di avere un effetto passionale. Dobbiamo insegnare al corpo ad non agire in quel modo. Secondo Cartesio il
pericolo o il male non sta sulle cose ma sul giudizio che noi formuliamo. Se noi formuliamo un giudizio corretto le cose
cesseranno d provocare dei sentimenti anche dolorosi.
SPINOZA
Come Cartesio anche Spinoza ha parlato di dualismo. Però mentre Cartesio aveva detto che anima e corpo entrano in
contatto in un punto (ghiandola pineale), Spinoza invece ha detto che l’uomo è unita inscindibile dall’anima e che ciò
che avviene nel corpo avviene automaticamente anche nell’anima e viceversa. Infatti Spinoza parla di AFFEZIONI. Gli
affetti sono presenti sia nel corpo che nell’anima e che quindi non ci sono le passioni dell’anima, ma le passioni che
coinvolgono l’uomo nella sua interezza. Questi affetti principalmente sono 4: orgoglio e umiltà, amore e odio. Secondo
Spinoza l’uomo s’illude di essere libero e quindi è infelice e di conseguenza soffre nell’anima e nel corpo. L’uomo deve
abbandonare l’idea di essere capace di dominare le passioni. Spinoza critica la Scolastica, la teologia perché da un lato
illude l’uomo di essere al centro dell’universo, di essere potente, di essere felice e di potersi salvare però di contro
sostiene che l’uomo non riesce a farlo a causa del peccato e che quindi ha bisogno di Dio. inoltre critica anche gli Stoici
perché avevano imposto di sradicare le passioni. Spinoza sostiene che l’uomo non può fare ciò perché non è libero ma è
schiavo delle passioni. Quindi l’uomo non deve imparare ad non essere schiavo delle passioni ma deve imparare ad
accettarle. Le passioni fanno parte di un disegno predeterminato nel quale l’uomo si trova a vivere. L’uomo deve
rivolgersi alla realtà cercando di conoscerla con la ragione, quindi abbandonare quella conoscenza inadeguata che
abbiamo con i sensi. L’uomo con la ragione e l’intelletto (che è all’apice della ragione) si vede come una parte di questa
realtà e a questo punto avrà imparato a non essere schiavo delle passioni. In tal modo considererà le passioni come un
momento necessario della sua vita, le quali dovevano verificarsi. Con gli Stoici, Spinoza ha in comune la tesi del
determinismo. La filosofia di Spinoza è rigorosa, la quale non tiene conto delle debolezze umane ma che insegna
all’uomo a sorridere delle sue stesse debolezze e ad accettarle per quelle che sono.
Spinoza sostiene che dobbiamo trasformare le passioni in azioni, dobbiamo trasfigurare queste passioni attraverso le
azioni, vedere le passioni per quelle che sono, cioè come un moment della nostra vita e non esserne infelici ma
accettarle senza esserne schiavi.
HUME
Hume vive nel 18° sec (1711-1776), quindi durante l’Illuminismo e in cui vi è una fiducia verso la ragione. Hume però
compendia assieme la fiducia nella ragione con la fiducia nei sensi o nelle sensazioni. Hume esprime la sua concezione
morale in: TRATTATO SULLA NATURA UMANA (1739) è l’opera più importante; RICERCA SULL’INTELLETTO UMANO
(1748); RICERCA SUI PRINCIPI MORALI (1751). La posizione di Hume nell’ambito della storia della filosofia morale è
fondamentale perché segna un distacco notevole dai pensieri precedenti. Infatti Hume sostiene che è da sfatare quella
convinzione che vuole le passioni in contrasto con la ragione. Secondo Hume la ragione non è superiore alle passioni. A
proposito delle passioni la filosofia precedente ha insegnato che queste devono essere sradicate o dominate e che la
ragione è superiore a queste. Secondo Hume il movente delle azioni morali sono le passioni. La ragione non deve
stabilire se una passione è migliore di un’altra. La ragione serve all’uomo (altrimenti questo non ne sarebbe dotato) a
valutare meglio l’azione morale e non a soffocare o dominare le passioni. L’azione morale è dettata dai sentimenti, dalla
simpatia che io provo nei confronti degli altri. La simpatie è il movente principale dell’azione morale. Il termine SYNPATHEIN significa compatire, patire insieme. Secondo Hume la simpatia è un impulso, un istinto naturale che mi spinge
ad agire in modo morale nei confronti dell’altro. La parola simpatia infatti deve essere inteso nel senso etimologico del
termine, ovvero capacità di compatire, di patire assieme a quell’altra persona (empatia: concetto che ancora non è
sviluppato bene nella filosofia moderna). La mia azione morale non è mossa dalla ragione ma dal sentimento. La
simpatia mi porta ad avere amore nei confronti degli altri e quindi è un qualcosa che non nasce dal ragionamento ma
che nasce dall’interiorità, da quella sfera che era stata considerata in passato irrazionale ma che secondo Hume non lo
è. La ragione serve a farmi capire se la mia azione è esagerata, a farmi proiettare meglio e sicuramente non a
contrastare le mie passioni, gli istinti perché tutti gli istinti sono giusti. La ragione mi può aiutare a mostrare
l’infondatezza del mio desiderio. Gli istinti non sono mai erronei, non mi spingono mai a fare un azione sbagliata, la
ragione serve ad aggiustare il tiro. In un passo Hume dice che la ragione è e deve essere schiava delle passioni. Quindi
Hume capovolge tutto quello che era stato detto precedentemente. L’etica di Hume è NATURALISTICA e OTTIMISTICA,
infatti Hume mai potrebbe dire che la natura umana è malvagia ed accogliere l’affermazione di Hobbes il quale sostiene
che l’uomo davanti ad un altro uomo è un lupo. Questo pessimismo nasce con Machiavelli e continua con Hobbes.
Secondo Hume la società civile, il contratto sociale, la legge, il diritto pubblico, non nasce perchè bisogna frenare la
malvagità della natura umana (come voleva Hobbes). Secondo Hume la società civile si costituisce sulla base della
SYNPATHEIA (amore nei confronti di un altro uomo) e non per malvagità umana. Invece l’etica kantiana è del dovere e
rifiuta ogni sorta di etica naturalistica. L’etica naturalistica è un etica in cui la natura comanda e spinge/muove la mia
azione. La natura umana è fatta più di sentimenti che di razionalità. L’etica naturalistica pone come fine ddella propria
azione morale, il raggiungimento della felicità, del piacere, della serenità, tutto quello che secondo Kant è del tutto
naturale e soggettivo.
BRANO
Il Conte di Shaftesbury e Hutcheson anticipano la concezione di Hume della naturale socievolezza dell’uomo. Siccome la
natura umana è socievole allora non c’è bisogno di coercizione, perché gli uomini son già ben disposti a comportarsi
bene, in quanto l’uomo ha dentro di sé un senso morale innato (buon senso)
BRANO
In questo testo Hume ci spiega il rapporto tra le passioni e la ragione. L’istinto mi spinge a desiderare un bene che a volte
è insignificante e che quindi non vale la pena desiderare. A questo punto interviene la ragione la quale mi fa capire che
quello che sto desiderando giustamente, non vale la pena fare sforzi per ottenerla. La ragione quindi non si contrappone
alle passioni ma è ausiliare delle passioni. Il meccanismo delle passioni è naturale e automatico esattamente come
quando in meccanica una libbra riesce a sollevarne 100 grazie al vantaggio della sua posizione. Non è
sbagliato/irragionevole il mio desiderio, ma è errato il mio giudizio, perché io l’ho giudicata buona quando invece non lo
è (ad es. la mela di Adamo ed Eva). Posso affievolire il mio desiderio con l’ausilio della ragione dando un giudizio esatto.
Poiché le passioni sono vere, non ci possono essere contrapposizioni tra ragione e passione.
KANT, SCHOPENHAUER, J.S.MILL
KANT
L’etica kantiana sarà un punto di riferimento per tutte le altre etiche. Da Kant in poi le posizioni si biforcano; filo kantiani
e antikantiani. Per Kant ogni azione morale deve essere mossa dal dovere (etica deontologica), infatti il dovere sta alla
base dell’etica kantiana. Per Kant la legge morale deve avere come incipit: “Tu devi” o “Tu non devi”. In una discussione
in cui si deve scegliere se il movente dell’azione morale sono le passioni o il dovere (ragione) ovviamente Kant propende
per la ragione. La ragione che determina un azione morale è la RAGION PRATICA. Mentre la CRITICA DELLA RAGION
PURA si occupa della conoscenza, ciò che posso conoscere e in che modo lo posso conoscere. Le formule dell’imperativo
categorico sono 3:
1° FORMULA: ci dice che dobbiamo fare un test di universalizzabilità. Questo testo è la garanzia per capire se la massima
della mia azione è morale. In altre parole, possiamo capire se la regola di un comportamento è morale provando a
chiederci se vorremmo che essa fosse seguita da tutti, cioè che diventasse una regola universale (critica della ragion
pratica). Kant dice che dobbiamo distinguere tra la massima della mia azione e la legge morale. La massima è sempre un
principio morale ma è sempre qualcosa di oggettivo. Bisogna fare il test di universalizzabilità.
2° FORMULA: è la formula più importante. “Agisci in modo da trattare l’umanità, sia nella tua persona sia in quella di
ogni altro, sempre anche come fine e mai semplicemente come mezzo”. Comanda di trattare l’umanità non come mezzo
ma come fine. Questa formula mi fa capire che questa legge morale non è contraria all’umanità. Le mie azioni hanno lo
scopo di realizzare un regno di fini. Ovvero fare in modo che si dispieghi il disegno di Dio, in cui gli uomini compiendo il
loro bene contribuiscono a fare in modo che ciascuno dopo la morte, nell’aldilà, si renda degno della felicità. Non è vero
che in Kant non vi è sentimento, perché l’uomo anche nel sentire la legge morale, ha la sensazione della grande bontà di
Dio che c’impone di sacrificare in questo mondo. Secondo Kant il sentimento esiste, però non dobbiamo cedere ad esso
perché altrimenti ricercheremmo il nostro benessere.
3° FORMULA: è una sintesi delle prime 2. “Agisci in modo che la tua volontà possa valere come legislatrice universale”.
Ovvero la volontà del singolo deve diventare legislatrice universale.
Tanto gli uomini quanto Dio sono considerati esseri razionali da Kant. Dio però è un essere totalmente razionale, è
un’entità che vive in quello che Kant chiama mondo noumenico. L’uomo invece è un essere fenomenico perché è fatto
di sensibilità e di materia, però è anche noumenico perché possiede la ragione e l’intelletto. Nell’uomo, quindi,
coesistono ragione e passioni. L’uomo è dotato di libero arbitrio, quindi può decidere se conformare la sua massima alla
legge morale. Infatti può anche decidere di non conformarla alla legge morale, in quanto l’uomo comune, secondo Kant,
è fragile. Anche Dio si conforma alla legge morale però per Dio è naturale perché è pura razionalità.
MASSIMA: è il principio soggettivo, cioè tutti quello che penso di fare.
LEGGE MORALE: è il principio valido per tutti.
BRANO
L’imperativo categorico è formale; comanda la conformità. L’imperativo non indica il contenuto ma solo la forma.
Kant dice che quando agiamo dobbiamo sottoporre la nostra azione a un test di universalizzabiltà. Ad es. Kant dice “Tu
non devi uccidere” perché la massima della tua azione non è universale perché malvagia. Kant però dice che qualcuno
può decidere di non uccidere perché ha paura di finire in carcere, e ciò indica che la sua azione non è morale perché è
condizionata dalla paura di essere condannato. L’azione è morale quando la si compie per dovere. La legge morale deve
prescindere da qualsiasi cosa, anche dalla situazione politico-giuridica. La sfera giuridica è fatta da leggi che impediscono
di fare certe cose e se non le rispetto vengo punito da essa. La morale è una sfera superiore a quella politica. la moralità
non deve essere imposta attraverso la legge. Essa è una questione interiore, di coscienza. Se io non uccido per paura
l’imperativo non sarà categorico ma ipotetico. La legge morale deve essere autonoma, non deve dipendere da altro.
SCHOPENAUER
Secondo Schopenhauer l’uomo è dominato dalla volontà che lo lacera, rendendolo profondamente infelice, in quanto è
proprio la volontà che spinge l’uomo ad agire. Per Schopenhauer l’azione morale deve nascere dalla COMPASSIONE e
non dalla volontà. L’uomo deve cercare di non volere, deve essere capace di frenare i suoi istinti e desideri, in quanto
questi lo renderanno infelice. L’uomo è volontà ma il mondo è una rappresentazione, infatti l’uomo non può ottenere
tutto ciò che desidera. Secondo Schopenhauer l’imperativo categorico kantiano non vale, perché quello che l’uomo
vuole è il suo benessere e la sua felicità personale. Secondo Schopenhauer, Kant ha sbagliato perché non ha valutato la
volontà e l’egoismo nella natura umana. Ad es. se io uccido il mio vicino di casa, la massima della mia azione non può
valere come legge universale perché se tutti facessero così anche io un domani potrei essere ucciso dal mio vicino di
casa. Schopenhauer utilizza un esempio del genere per dire che, tacitamente, nell’imperativo categorico Kantiano è
implicito che non venga lesa la mia felicità o il mio interesse personali. In realtà, dice Schopenhauer, l’uomo non vuole
che venga messo in discussione il suo benessere personale e ritiene che l’etica di Kant sia eteronoma e che l’imperativo
di Kant sia ipotetico. Schopenhauer nell’opera “Il fondamento della morale” critica la posizione di Kant, in modo
particolare l’imperativo categorico, in quanto ritiene che sia un mascheramento di quello che è invece il vero
fondamento dell’etica kantiana cioè l’EGOISMO. L’uomo fondamentalmente è un elemento passivo in questa realtà e
quindi subisce e gli conviene, per una questione egoistica, che venga rispettata la giustizia per far si che non venga lesa
la sua libertà. Se l’uomo fosse attivo ciò non gli converrebbe. Secondo Schopenhauer Kant ha subordinato la legge
morale all’egoismo, alla propria convenienza e ha mascherato tutto ciò con l’imperativo categorico.
BRANO
La critica di Schopenhauer cerca di scardinare il cuore dell’etica kantiana ovvero la forma dell’imperativo categorico. Il
mio egoismo, secondo Schopenhauer, diventa il fulcro della mia decisione. Il fatto che voglio che non si debba rubare
conviene a me. La norma kantiana è un imperativo ipotetico in quanto condizionato dall’egoismo e dall’esperienza.
Per Schopenhauer il fondamento della morale è la compassione che nasce da un principio. Il fondamento della morale
non deve essere l’imperativo categorico ma qualcosa di più profondo, che l’uomo trova dentro di sé: la COMPASSIONE,
ovvero non soltanto NON FARE DEL MALE, MA QUANDO PUOI SII DA AIUTO AGLI ALTRI. Tutta la nostra attività morale si
deve basare su questo fondamento. Schopenhauer dice che il cristianesimo per primo ha colto questo aspetto della
natura umana, di essere di aiuto al prossimo. Schopenhauer sostiene che ci sono 3 istinti nell’uomo:
EGOISMO: volere il proprio bene
MALVAGITà: volere il male altrui
COMPASSIONE: volere il bene altrui
La morale kantiana si differenzia da quella di Schopenhauer e di Kierkegaard perché non si basa su un credo teologico.
La morale di Schopenhauer sostiene che Cristo ci ha insegnato a far del bene agli altri e questo deve essere il punto di
partenza di ogni nostro comportamento e non la formalità della legge. Il punto di arrivo è invece il nostro
comportamento che deve nascere dalla compassione. Bisogna avere chiaro la realtà in cui viviamo, la quale è dolorosa,
dove l’uomo tenta di ottenere tutto ciò che vuole senza riuscirci. Se noi soffochiamo i nostri istinti peggiori ci
accorgiamo della nostra situazione passiva e della nostra situazione di sofferenza e che tutti gli altri vivono nella nostra
stessa situazione. Non c’è l’individuo felice. Tutti viviamo dolorosamente e per questo motivo dobbiamo aiutarci. Per
Schopenhauer non esiste la possibilità di essere felici. L’uomo deve compatire, non deve far soffrire gli altri più di
quanto soffrono per natura. È la compassione che mi spinge a comportarmi in modo giusto. Schopenhauer non parla di
felicità ma di moralità. Schopenhauer critica il cristianesimo per aver sottolineato l’amore solo per gli uomini e non per
gli animali.
JOHN STUART MILL
J. S.Mill ritiene che l’imperativo categorico persegua il nostro utile; dietro l’oggettivazione kantiana c’è sempre l’utile.
Schopenhauer e J. S.Mill sostengono che l’uomo trovandosi in una situazione passiva, evita di far subire agli altri dal
momento che potrebbe subire egli stesso. J. S.Mill dice che l’uomo preferisce conformarsi alla legge morale per evitare
di subire. Ma se l’uomo fosse potente non gli converrebbe più conformare la massima della sua azione alla legge
morale. J. S.Mill è un filosofo che rientra nella corrente degli utilitaristi, cioè tra coloro la cui espressione ruota attorno
al concetto dell’utile. Anche se in effetti J. S.Mill rifiuta le critiche che vengono poste a questa posizione. Per J. S.Mill
nell’ambito di una scala di valori, di beni utili sono sempre più importanti quelli che riguardano l’anima, l’intelletto e non
l’aspetto corporeo e naturale dell’uomo. La sua riflessione morale si concretizza in una critica mossa a Kant. Comunque
accetta il test di universalizzabilità di Kant, anzi sottopone anche il suo principio di moralità al test. Critica il fatto che
Kant abbia voluto pretendere che la sua fosse una morale del tutto autonoma quando invece la formula dell’imperativo
categorico salvaguardia l’utile dell’individuo.
BRANO
Si richiama alle parole di Gesù. Riprende la regola aurea ovvero: non fare agli altri ciò che non vorresti sia fatto a te.
Secondo J. S.Mill la morale deve basarsi su questa regola insegnataci da Cristo e non disconosce l’utilità personale.
Kant non ha voluto rivelare il vero senso della morale, cioè ciò che sta base alla base di ogni nostra decisione è l’utile.
Secondo J. S.Mill anche l’imperativo categorico kantiano si basa sull’utile. L’utile di J. S.Mill non è l’utile del singolo ma
dell’umanità che ci circonda. Il criterio che ci deve muovere nella nostra azione deve essere l’IMPARZIALITà, in modo che
la nostra azione possa valere per tutti. J. S.Mill critica Kant per aver fondato un etica formale del tutto autonoma che
non prescinda dai contenuti materiali. Invece per J. S.Mill l’etica non può prescindere dai contenuti materiali (felicità,
benessere, piacere) e soprattutto dall’utile, infatti se non fosse così saremmo dei burattini della legge morale. Il test di
imparzialità equivale al test di universalizzabilità. L’utilitarismo è stato tacciato di non tener in considerazione il sacrificio
e di basarsi sulla libera espressione dei desideri personali del singolo individuo. Ma J. S.Mill sottolinea che l’utilitarismo
non rifiuta il senso del sacrificio. L’uomo nel momento in cui cerca il bene altrui sacrifica il suo punto di vista. J. S.Mill
sottolinea che l’utilitarismo non è un etica edonistica cioè basata sul soddisfacimento di ogni piacere personale ed
individuale. Tutti questi punti di vista nascono dalla critica mossa a Kant.
HEGEL, KIERKEGAARD, ROSMINI, NIETZSCHE
Tra i filosofi dell’800 vi sono Hegel, Kierkegaard, Rosmini e Nietzche, i quai prendono a bersaglio l’etica kantiana. Questi
4 filosi non hanno niente in comune, ad eccezione dell’aver criticato l’etica kantiana, anche se però questi rifiuti non
combaciano. L’aspetto principale che viene criticato è l’autonomia dell’etica kantiana. Kant diceva che la volontà
dell’uomo era autonoma quando si conforma alla legge morale e quando non dipende dai contenuti materiali come la
felicità. Kant aveva criticato tutte le posizioni religiose, le quali consideravano Dio come punto di riferimento. Inoltre
Kant critica anche le etiche edonistiche, utilitaristiche, cioè tutte quelle etiche costruite sull’imperativo ipotetico.
Secondo Kant Dio stesso è subordinato alla legge morale. La fede di Kant, il quale nella Critica della Ragion Pratica parla
delle idee metafisiche come principio di fede, non è teologia tradizionale ma razionale, filosofica. Kant postula
l’esistenza di Dio in virtù di un ragionamento filosofico e non sulla base di una rivelazione o di un testo sacro. Kant
inoltre critica le teologie rivelate perché impongono un etica eteronoma, la quale dipende dalla volontà di Dio. l’uomo
secondo Kant invece si deve orientare solo sulla base della ragione, la quale ci dice come agire.
HEGEL
Hegel critica l’etica kantiana perché non ha tenuto conto dell’ethos. Per Hegel l’ethos è qualcosa di ben preciso. Inoltre
dell’etica kantiana critica la formalità e di conseguenza di non aver tenuto conto del contenuto, della situazione nella
quale l’uomo si trova a vivere. In Hegel morale ed eticità non sono la stessa cosa. Per Hegel la realtà che si dà nella
storia, che noi possiamo descrivere nelle sue manifestazioni storiche, non è altro che la storia di uno Spirito che parte
come idea (cioè quando è del tutto privo di coscienza) e poi attraverso numerose tappe del suo sviluppo giunge allo
stadio dello Spirito Assoluto, momento in cui l’idea esce fuori di sé fino ad assumere piena consapevolezza di sé. Questo
Spirito si dispiega nel tempo e si rivela attraverso fasi principali. Questo Spirito inizialmente era privo di contenuto, di
coscienza, poi nella storia si è manifestato e prima si è oggettivizzato e poi è ritornato in sé. Quindi abbiamo prima uno
Spirito soggettivo, poi oggettivo e poi uno Spirito Assoluto. Tutto questo procedimento viene detto PROCESSO
DIALETTICO ed è un processo di superamento, cioè ogni tappa dello sviluppo dello Spirito nasce come superamento
della tappa precedente. Tutto avviene per negazione della tappa precedente e quindi per superamento ( indica
miglioramento e non cancellazione) Hegel crede nello sviluppo continuo, quello che è valido oggi non lo può essere
domani. Ogni corrente filosofica non altro che una tappa dello sviluppo dello Spirito. Per Hegel la filosofia nasce in un
momento già in cui lo Spirito si è estrinsecato nella natura (è già oggettivato).
Le 3 tappe sono:
La logica che studia lo Spirito Soggettivo
Lo Spirito Oggettivo in cui vi è la FAMIGLIA, SOCIETà CIVILE quindi moralità e l’ETICITà.
Lo Spirito Assoluto è l’ultima tappa di questa manifestazione in cui abbiamo: ARTE, RELIGIONE e FILOSOFIA.
Secondo Hegel la riflessione di Kant si è fermata a livello della moralità. Quindi l’etica kantiana viene superata da quella
hegeliana ma comunque viene mantenuta perché secondo Hegel, Kant ha detto qualcosa di positivo nell’aver
sottolineato la libertà dell’uomo ovvero l’uomo è libero di decidere come vivere. Per Hegel l’errore di Kant è stato di non
aver tenuto conto dell’ethos nel senso di costume, consuetudine, società in cui l’uomo vive. Inoltre critica l’astrattezza,
la formalità dell’etica kantiana. L’ethos è la realtà concreta in cui l’uomo vive e da cui non si può prescindere nel
momento in cui si stabiliscono le norme morali. Hegel distingue tra etica ed ethos. L’etica deve tener conto dell’ethos.
La morale deve nascere a posteriori, dopo una riflessione sulla situazione nella quale l’uomo si trova a vivere.
KIERKEGAARD
È un filosofo danese che vive nella prima metà dell’800. Il suo pensiero deriva dalla sua interiorità che non è quella di
una persona ottimista. Kierkegaard aveva con il padre un rapporto conflittuale. Il padre gli impone un educazione severa
e quando Kierkegaard viene a conoscenza di un episodio della vita del padre che ne mostra l’incoerenza, ne rimane
turbato e comincia a vivere in maniera conflittuale sia con il padre che con se stesso. Regine Olsen, era la sua fidanzata,
la quale viene lasciata dal filosofo in quanto costui vive una situazione di profonda malessere che gli viene in particolar
modo dal rapporto con la religione cristiana. Kierkegaard, decide di abbracciare totalmente il cristianesimo e interrompe
il suo rapporto con Regine, in quanto questo avrebbe potuto compromettere la sua totale dedizione verso Dio. le sue
opere più importanti sono “Aut-Aut” e “Timore e Timore”. Sono 2 opere in cui Kierkegaard rivela il suo pensiero morale
e soprattutto una teoria antropologica che lo fa definire, da parte dei critici, il capostipite dell’esistenzialismo. In realtà
Kierkegaard non è un esistenzialista, perché l’esistenzialismo filosofico nascerà più tardi. Tuttavia con la sua riflessione
sull’esistenza dell’uomo, che egli considera più importante rispetto all’essenza (come aveva fatto Hegel e Kant), si
presenta come un esistenzialista anti-litterem. Inoltre scrive “Il concetto dell’angoscia”. La filosofia di Kierkegaard è una
risposta polemica nei confronti della filosofia hegeliana, in particolar modo non accetta la concezione sull’uomo. Per
Hegel l’uomo non è qualcosa di cui valga la pena studiare l’essenza, l’esistenza dei caratteri, perché il singolo di quello
che è il sistema hegeliano, è solo una tappa e uno strumento dello sviluppo dell’Assoluto. Questo processo dialettico
hegeliano consta di 3 momenti che si succedono l’uno all’altro: TESI-ANTITESI-SINTESI. La Tesi viene negata dall’Antitesi
(cioè ogni fenomeno si afferma e poi viene negato da un altro fenomeno che si contrappone). Poi vi è la Sintesi che è un
momento superiore, in cui tutto quello che è stato negato, torna inverato. Questa dialettica hegeliana è dell’et et, cioè
c’è l’uno ma anche l’altro e un altro ancora e così via, secondo uno sviluppo che per Hegel è necessario ed è già
determinato. Questo sviluppo è trascendente perché razionale. Quando Hegel ci dice che tutto ciò che avviene nella
realtà avviene ed è avvenuto perché necessariamente doveva avvenire, perché la ragione si dispiega e questa razionalità
si dispiega nella realtà. Kierkegaard dice che in realtà l’uomo hegeliano non è libero ma è un tassello di questo processo.
Hegel non è interessato alla fenomenologia dell’uomo ma solo alla fenomenologia dello Spirito. Kierkegaard critica la
dialettica dell’et et dicendo che tutto ciò che avviene nell’individuo non avviene in maniera necessitata e determinata.
Secondo Kierkegaard l’uomo si trova davanti a sé la scelta. Kierkegaard all’et et sostituisce l’Aut aut. Kierkegaard parla di
legge dei 3 stadi e questi stadi non sono necessariamente successivi l’uno all’altro ma può scegliere a quale stadio della
vita fermarsi. Quindi l’uomo non passa automaticamente allo stadio successivo e non è un completamento ma una
contrapposizione , un altro modo di vivere. Secondo Kierkegaard, Kant ha preteso che l’etica fosse autonoma, ma in
realtà essa è eteronoma perché dipende da un fine che si vuole realizzare. Inoltre Kierkegaard ritiene che non basta
sottomettersi alla legge morale per far si che l’uomo superi quell’angoscia che gli viene dal senso del peccato. Il
problema profondo di Kierkegaard è il peccato che impedisce all’uomo di vivere serenamente. Kierkegaard parla di noia
in questa vita. L’etica kantiana ha preteso di superare il punto di vista del singolo in vista del bene universale. Secondo
Kierkegaard, l’uomo rimane sempre con l’angoscia e l’unico modo per liberarsene è il salto nella fede. Ma anche lì
l’uomo non ha nessuna certezza (“Timore e Tremore”). Ad es. Abramo da uomo morale non avrebbe mai potuto
accettare di uccidere suo figlio e non aveva nessuna certezza che Dio gli bloccasse la mano. Abramo però sceglie
lanciandosi nella fede e alla fine Dio gli fermerà la mano. L’uomo deve avere il coraggio di avere il salto nella fede.
Kierkegaard, inoltre, critica Kant, per aver illuso l’uomo facendogli credere che con le sue sole forze si sarebbe reso
degno della felicità.
BRANO
Kierkegaard dice che l’etica non risolve i problemi esistenziali dell’uomo in quanto perde la sua singolarità. L’etica allieva
i dolori del singolo. Quando il singolo si subordina al generale non risolve i suoi problemi, il suo stato d’animo, la sua
conflittualità. Non c’è un ragionamento che mi possa risolvere i problemi, il mio rapporto con l’Assoluto lo risolvo solo
con un salto verso la fede.
ROSMINI
È una personalità nota in Italia. Nella sua opera “Sulle Origine delle idee” critica Kant. Da quest’opera si può estrapolare
il pensiero platonizzante di Rosmini, il quale fa ricorso alle idee. È un filosofo cristiano che riprende l’etica platonica e
anche quella agostiniana. Secondo Rosmini Kant ha sopravalutato l’uomo. La sua seconda opera è intitolata i “Principi
della scienza morale” secondo Rosmini l’etica, la riflessione sulla morale, dipende dalla riflessione ontologica, di
conseguenza il bene assume un valore ontologico. Per Rosmini tutto quello che noi possiamo conoscere( e in qualche
modo riprende anche il dubbio cartesiano), non deriva dall’esperienza che noi facciamo ma dalle idee innate che
abbiamo dentro di noi. La legge morale, quindi, ci viene già data, l’uomo non la deve trovare in sé come aveva detto
Kant ma ci viene già data. Il discorso di Rosmini nasce da un fraintendimento della morale kantiana. Rosmini dice che
Kant ha detto che l’uomo trova dentro di sé la legge morale e quindi non deve fare fatica a trovarla. Rosmini intende
l’etica kantiana come se Kant avesse voluto sopravalutare il singolo uomo considerandolo un Dio, come se il singolo
uomo fosse capace da sé di crearsi la legge morale, e di conseguenza non ha bisogno di Dio o di un essere superiore. In
realtà Kant non aveva detto ciò, anzi aveva detto che il singolo si doveva fare piccolo in quella che è l’umanità. Il Dio di
Kant è un Dio filosofico; la religione di Kant è razionale. Rosmini interpreta ciò come se Kant avesse dato troppo potere
all’uomo e poco potere a Dio, soprattutto quando Kant dice che la legge morale deve essere rispettata anche da Dio. in
realtà Kant dice che Dio non ha motivo di non rispettarla in quanto non ha desideri, quindi gli viene naturale non deve
fare alcun sforzo. Rosmini non avendo capito ciò dice che l’uomo di fronte a Dio si deve ridimensionare. Inoltre Rosmini
dice che dobbiamo rispettare e mantenere bello il mondo, così come vuole Dio. L’uomo tramite le idee innate può
conoscere questa realtà e nel momento in cui la conosce la vede bella. Agostino diceva che tutto è buono e che l’uomo
deve volere il bene, deve comportarsi il bene. Come diceva Agostino dobbiamo scegliere tra i beni.
NIETZSCHE
Siamo nelle soglie del ‘900. La parola nichilismo significa distruzione dei valori morali. Tutta la riflessione morale di
Nietzsche si contrappone al concetto classico di etica. In “Al di là del bene e del male” Nietzsche decostruisce tutti i
valori , valuta il valore dei valori tradizionali per sostituirli a dei valori che siano più consoni alla natura umana. Nietzsche
sostiene che tutta la storia della filosofia, soprattutto quella morale, non ha fatto altro che sacrificare, annientare,
violentare la vera natura umana. Nietzsche, parlando di genealogia della natura, rivolge la critica maggiore a Socrate.
Per Nietzsche, Socrate è l’artefice di questa violenza che la filosofia occidentale ha perpetrato nei confronti della natura
dell’uomo. Nell’opere sulla Tragedia greca, sostiene che solamente nell’epoca presocratica, la natura umana è stata
considerata nella sua essenza dalla filosofia morale. Nietzsche sostiene che la natura umana è soprattutto irrazionalità,
sofferenza e in questo punto sicuramente riprende il pensiero di Schopenhauer. Nell’opera “Al di là del bene e del male”
Nietzsche ripercorre la storia della morale e dice che nel:
1° periodo (premorale-presocratico): le azioni morali erano valutate per le conseguenze che avevano le azioni.
2° periodo (epoca morale): si valuta l’origine dell’azione e quindi l’intenzione.
Nietzsche si scaglia contro l’epoca morale, in quanto ritiene che ci si maschera nel l’intenzione. L’intenzione non ci può
rivelare la moralità di una persona, perché l’intenzione è qualcosa di costruito. Nietzsche dice che invece noi dobbiamo
distruggere questi valori che ci sono stati imposti dalla società, dalle etiche. Questi mortificano la natura umana.
L’intenzione è frutto di un ragionamento e quindi non naturale. E l’interiorità che mi deve spingere ad agire in un modo
piuttosto che in un altro modo. Secondo Nietzsche la morale tradizionale è dei deboli, degli schiavi. Quella che invece
auspica Nietzsche è quella degli aristocratici, dei forti. I forti sono coloro che sono in grado di dire sì alla vita, di vivere la
vera natura umana, di farla venire fuori naturalmente. Quindi fa una contrapposizione tra deboli e forti. La morale,
secondo Nietzsche, ha causato in noi quei sensi di colpa che fanno sorgere in noi la nevrosi. I deboli non hanno la
capacità d’imporsi e vengono difesi dalla legge morale, livellando tutti verso il basso. Il super-uomo deve farsi guida
dell’umanità. Dio è morto e con lui tutti i valori. I valori che devono nascere non devono essere creati ad hoc da qualche
demagogo. Nietzsche critica tutte quelle etiche che hanno imposto una disciplina, causando l’appiattimento, infatti egli
si chiede: “Chi ce lo dice che così l’uomo è più buono?” Nietzsche ritiene che un uomo risentito non è più buono di un
uomo che esprime la sua natura liberamente. L’uomo deve saper affrontare la situazione esterna e non deve rifugiarsi
nella legge morale.
HARE, HABERMAS, MCINTYRE, RAWLS
Nel novecento in seguito alla fondazione dell’etica Kantiana si era diffuso un luogo comune che in questo momento
diventa una certezza nella filosofia morale ovvero che il giudizio morale per essere tale deve avere due caratteri
fondamentali: L’universabilità e la Dimostrabilità. Una norma morale per essere tale deve valere per tutti gli uomini in
ogni luogo, in ogni tempo, in ogni momento. Il principio, per essere morale deve essere dimostrato razionalmente. Ciò
lo traiamo dall’insegnamento kantiano secondo cui un principio morale per essere tale deve essere universale, a priori,
oggettivo e razionale. Tuttavia in questo periodo sorgono delle correnti filosofiche morali che non accettano in toto
queste considerazioni. Queste correnti si diversificano perché c’è sia una ripresa dell’etica kantiana sia il tentativo di
conciliare l’etica kantiana con le altre etiche. Tra questi autori vi è Hare il quale cerca di compendiare il kantismo con
l’utilitarismo proponendo un’etica materialistica di contro all’etica formale di kant. Invece Habermas (1970) sostiene
una forma di etica intersoggettiva che si oppone all’impersonalismo e al soggettivismo kantiano. Infatti le norme morali
non devono essere individuate soggettivamente ma nell’agire comunicativo cioè una sorta di discussione tra i soggetti
morali. Rawls scrisse “Una teoria della giustizia” nel 1971 nella quale da una giustificazione etico-politica della giustizia.
Alla nozione di bene (nozione cardine delle etiche teologiche) sostituisce la nozione di giustizia. Egli sostiene che
nell’epoca contemporanea dobbiamo partire dal concetto di giustizia. Le nostre azioni morali dovranno essere giuste e
non buone. A tutte le etiche teologiche sostituisce un’etica deontologica in cui predomina il dovere che però a
differenza di kant deve essere coadiuvato con la giustizia. Macintyre è un autore che esula da queste due posizioni e che
si richiama ad un’etica antica ed aristotelica. Anche habermas si era rifatto all’etica aristotelica. L’etica aristotelica, non
è morta infatti intorno al 1970 nasce un fenomeno chiamato “la riabilitazione della filosofia pratica”, la cui paternità
viene ascritta al filosofo tedesco Riedel. Tutti questi filosofi appartengono a questa corrente anche se poi ognuno di loro
ha una teoria diversa. L’etica aristotelica è la prima scienza morale, prima di essa ci sono state solo delle riflessioni sul
problema morale. Aristotele da uno statuto epistemologico alla riflessione morale facendo così dell’etica una vera e
propria scienza. La morale è una scienza che ha un suo soggetto ed una sua razionalità pratica le cui prescrizioni morali
hanno una loro base scientifica. Questi filosofi accusano Kant per aver scisso due aspetti dell’uomo: Ragione e
sentimento.
Moore
Moore sostiene che il ritenere l’uomo scisso dai due aspetti che lo caratterizzano (ragione e sentimento) sia un punto di
partenza errato e di conseguenza saranno errate anche le deduzioni. Il sentimento, sfera emozionale dell’uomo, era
stato considerato irrazionale e per questo motivo si doveva contrapporre alla ragione considerata la parte razionale.
Moore critica sia Kant che ha sacrificato il sentimento per la ragione sia Hume che ha subordinato la ragione al
sentimento. Moore, Scheler e altri filosofi cercano di recuperare nella sua interezza ragione e sentimento in quanto
questi si compendiano. Moore sostiene che alla base della moralità ci sia l’intuizione. Egli esprime la sua concezione
morale nell’opera intitolata “principia ethica”. Per Moore l’etica deve riflettere sui suoi principi per questo motivo
realizza una meta etica analitica, ovvero una riflessione della scienza su se stessa. L’etica deve riflettere sul linguaggio
con cui vengono veicolati i principi della morale. Le etiche contro cui si rivolge Moore hanno confuso il momento della
riflessione sulle emozioni della morale con il momento descrittivo o normativo. Moore dice che prima di stabilire come
ci dobbiamo comportare dobbiamo prima di tutto stabilire di cosa stiamo parlando e definire le caratteristiche della
morale. Anch’egli, come Kant, vuole fondare un’etica autonoma. L’etica non deve essere confusa con le altre scienze
perché i metodi di indagine sono diversi, infatti il suo oggetto di indagine è il bene ed il suo metodo di indagine è
l’intuizione. Per Moore il concetto di bene è indefinibile e tutte le etiche precedenti, sia quelle naturalistiche che quelle
metafisiche, sono cadute nella fallacia naturalistica, in quanto hanno preteso di definire il bene e dalla loro definizione
di bene hanno dedotto i principi morali, ma in questo modo hanno fallito perché hanno fatto derivare l’etica dal loro
concetto di bene. Per Moore il concetto di bene è indefinibile perché è una nozione semplice. Una parola denota una
nozione e una nozione denota una realtà. Una nozione semplice non può essere suddivisa per essere studiata, ad
esempio il concetto di giallo è indefinibile perché lo usiamo per descrivere altre nozioni “la terrina gialla”. Le filosofie
metafisiche identificavano il bene con una sostanza metafisica (Dio, l’idea del bene di platone…). Secondo Moore non
dobbiamo dedurre di dover essere dall’essere perché l’ambito del dover essere prescinde dall’ontologia. Il bene per
Moore viene intuito dalla sfera razionale dell’uomo. La morale deve scaturire dall’interiorità dell’individuo (so cos’è il
bene perché è coinvolta la mia sfera emozionale). Moore sostenendo che l’idea del bene è indefinibile ci rimanda a
Platone il quale nella repubblica spiega che l’idea del bene non si può definire, infatti si avvale dell’analogia con il sole.
Come il sole, pur dando vita, calore e nutrimento agli oggetti sensibili, non si identifica con essi; così il bene permette la
visione del mondo intellegibile e trascendente. Con ciò Moore vuole dire che il bene è una idea innata oggettiva e
universale da tirar fuori. Dopo aver intuito cosa sia il bene dobbiamo interrogarci su come realizzarlo. Secondo Moore i
principi morali di cui non dobbiamo dubitare sono quelli che vengono dai godimenti estetici. Per capire se quell’idea di
bene è giusta dobbiamo fare l’isolamento assoluto a differenza di quanto diceva platone. Infatti Platone sosteneva che
per individuare l’idea bisognava guardare gli uomini e quello che avrebbero avuto in comune sarebbe stata l’idea di
uomo. Moore ritiene che ciò sia sbagliato perché in tal modo il principio morale si fa derivare dall’osservazione della
realtà empirica. Moore sostiene che dobbiamo isolare l’elemento che si verifica in condizioni analoghe, il fattore
emergerà dall’intuizione ovvero da una cosa che viene da se e non dedotta a posteriori. La ragione interviene quando
dobbiamo scegliere come comportarci per condurre una vita morale, in quanto essa riflette su quei valori che sono
dentro di noi. I principi morali che si possono conoscere attraverso l’intuizione attengono alla sfera emozionaleaffettiva dell’uomo. I principi morali riguardano 2 ambiti: l’ambito dell’affetto della persona in cui ci sono i valori più
importanti e la sfera dei giudizi estetici. La posizione di Moore si richiama all’intuizionismo di contro al razionalismo
kantiano.
SCHELER
Scrive “Il formalismo nell’etica e l’etica materiale dei valori”. Sono 2 concetti che si contrappongono. Scheler vuole
proporre un etica materialistica di contro all’etica formale di Kant perché quest’ultima non tiene conto del singolo e
della sua interiorità ma solo del dovere e della forma che la legge morale deve avere e non del contenuto. Anche Scheler
ritiene sbagliata la contrapposizione ragione e sentimento. Egli ritiene corretta le caratteristiche obiettive, a priori,
universali dell’etica kantiana, infatti la novità di Scheler sta nel materialismo. Oltre alla forma bisogna tenere in
considerazione anche l’aspetto reale in cui l’uomo vive. Scheler per certi versi si ricollega a Moore, anche se lo critica
perché si era soffermato ad approfondire la parte fondativa dell’etica trascurando la parte normativa. Le parole chiavi
del titolo dell’opera di Scheler sono: FORMALISMO ETICO, ETICA MATERIALE, PERSONALISMO ETICO. Le prime 2 sono
contro perché Scheler intende fondare attraverso quest’opera un etica materiale contro l’etica formale kantiana. I
principi morali kantiani essendo formali non rispecchiano la vera natura dell’uomo. Scheler ritiene che la filosofia
moderna ha schematizzato la natura umana rappresentandola in modo conflittuale, in quanto ha scisso la ragione dal
sentimento. Scheler si rifà al metodo fenomenologico di Husserl, il quale permette di conoscere l’essenza delle cose,
basandosi sulla particolare accezione del termine fenomeno.
FENOMENO: non come lo aveva inteso Kant (apparenza), non è quello che appare ai sensi ma ciò che appare alla mia
coscienza che coglie l’essenza delle cose. Le cose vengono sottoposte al procedimento “epoche” (termine tecnico dello
scetticismo che significa sospensione del giudizio) in modo da far emergere la verità, la loro essenza che si rivela
immediatamente alla nostra coscienza.
Secondo Scheler non possiamo prescindere dalla sfera affettiva ovvero la percezione che riguarda l’interiorità (ad es. il
dolore provocato dal tradimento di un amico). Mentre la percezione sensibile riguarda l’esteriorità (ad es. il dolore
provocato da un pizzico). Anche secondo Scheler la ragione interviene nel momento della scelta di un determinato
comportamento, che mi fa scegliere se confermarmi ai principi. Dall’interiorità dell’individuo emergono i valori che sono
quelli del piacere, tecnici, vitali, spirituali e del sacro. Scheler ha un pensiero pessimistico in quanto ritiene che l’uomo
non riesce a liberarsi dalla sua egoità. Infatti dice che per l’uomo i valori più importanti sono i meno forti (quelli del
sacro) mentre i valori meno importanti sono più forti perché esercitano più pressione. I termini spirituali, spirito sono
intesi come ragione e non come qualcosa appartenente alla sfera religiosa.
HARE
È un importante esponente della filosofia analitica la quale ha elaborato una posizione che parte dall’esigenza di
esaminare il linguaggio morale (stessa cosa Moore). Sia Hare che Moore condannano tutte quelle filosofie che sono
cadute nella fallacia naturalistica facendo derivare il dover essere dall’essere. Critica l’intuizionismo di Moore e il fatto
che quest’ultimo non si sia soffermato sulla sfera prescrittiva dell’etica. Per Hare l’etica (e quindi i principi morali) ha 3
caratteristiche principali:
NORMATIVITà/PRESCRITTIVITà: l’etica è una guida dell’agire morale.
UNIVERSALE: come aveva insegnato Kant i principi morali devono essere sottoposti al test di universalizzabilità.
PREDOMINANTI: i valori morali devono predominare su tutti gli altri. Nel momento in cui sorge un conflitto tra principi
morali ed estetici, quelli più importanti e dominanti devono essere quelli morali. Ad es. se mio marito mi regala un
cuscino che non mi piace non deve dominare il mio valore estetico ma quello morale, no facendo rimanere male il
marito.
L’intuizione non ci permette di avere una conoscenza obiettiva ma soggettiva. I principi morali colti intuitivamente non
sono conoscitivi e dall’intuizionismo sono nate poi delle correnti filosofiche come l’emotivismo. L’emotivismo oltre che
da Hare viene criticato anche da Habermas e Rawls. L’emotivismo è una corrente filosofica che fa capo quelle teorie
intuizionistiche sostenendo che questi valori attengono alla sfera dell’interiorità e non sono conoscibili scientificamente.
Seguire l’emotivismo significa che in un conflitto tra 2 persone è insanabile perché ognuno pensa che il proprio valore
sia quello giusto cadendo nel soggettivismo. Hare non rifiuta del tutto l’intuizionismo perché sostiene che ci sia una
sorta di punto di partenza infatti per intuizione dobbiamo intendere una cosa diversa da quella detta da Moore il quale
sosteneva che si doveva procedere con l’isolamento assoluto. Secondo Hare i principi morali si colgono intuitivamente
ma dipendono da tanti valori, infatti i valori morali sono quelli che assorbiamo nel corso della nostra vita e non sono a
priori come diceva Moore. A differenza di Moore ritiene che l’etica non deve essere basata totalmente sull’intuizione in
quanto è la ragione che stabilisce la priorità. Un conflitto morale tra due azioni buone si può risolvere solo attraverso la
critica della ragione. Ad esempio se mentre vado a trovare in ospedale un amico mi trovo coinvolto in un incidente e c’è
una persona che ha bisogno di soccorso mi trovo di fronte a due principi morali in quanto ci sono 2 persone che hanno
bisogno. A questo punto l’intuizione non ci aiuta più, questo conflitto morale può essere risolto solo con la ragione. Per
superare il conflitto morale dobbiamo essere imparziali e per far ciò dobbiamo porci nella situazione dell’arcangelo.
L’arcangelo è una figura spirituale che non ha in comune con l’uomo le debolezze e l’aspirazione, egli è un prescrittore
obiettivo ed è altruista per eccellenza. L’imparzialità in etica è fondamentale perché bisogna pensare all’utile della
collettività e per far ciò, l’uomo si deve sforzare di incarnare l’arcangelo.
RAWLS
È un filosofo contemporaneo politico kantiano. La sua opera più importante “Una teoria della giustizia” 1971, rientra
nell’ambito della filosofia analitica. L’etica non deve occuparsi del singolo soggetto ma delle istituzioni politiche, sociali,
educative, e in tutte quelle che devono garantire quei diritti che rientrano nella sfera morale. Critica le etiche
teleologiche perché pongono al centro della loro attenzione il concetto di bene subordinando le norme a questo bene. Il
concetto di giustizia viene subordinato al bene. Le etiche migliori sono quelle deontologiche che si basano sul giusto non
facendosi condizionare dal bene. Infatti il bene della maggioranza può andare a discapito della minoranza. In Rawls è
presente il concetto di equità che vuole eliminare le discriminazioni. Le etiche dell’utile non rispettano la minoranza
causando razzismo. Infatti Kant diceva “agisci in modo che la massima della tua azione possa valere per tutti”. Rawls
propone due principi di giustizia su cui la società deve basarsi:
1) principio di libertà: è un principio morale supremo. Per evitare le discriminazioni dobbiamo garantire la libertà.
Tuttavia però esistono disuguaglianze nel campo sociale, economico, culturale che non si possono evitare ed a questo
punto subentra il secondo principio di giustizia.
2) lo stato deve fare in modo che ci sia una sorta di compensazione, che non ci sia emarginazione nei ruoli. Tutti devono
avere opportunità come ad esempio scegliere un lavoro. Non devono esistere caste.
L’individuazione di questi due principi deve essere il prodotto di un contratto tra varie parti che si devono riunire ed
essere imparziali. A tal proposito dice che dobbiamo porci davanti agli occhi un velo di ignoranza e spogliarci della
soggettività e non pensare ai propri interessi. L’etica si deve basare sul concetto di giustizia.
HABERMAS (1929 Esponente della scuola di Francoforte)
Mette in discussione l’imparzialità di Hare in quanto ritiene che questa si possa raggiungere attraverso l’agire
comunicativo. Critica la posizione dell’arcangelo di Hare perché è un essere imparziale, spirituale che non ha le nostre
esigenze. Critica l’ipotesi del velo di ignoranza perché è una condizione fittizia che non si può realizzare. Per garantire
universalità ed imparzialità è necessario che ci sia una comunicazione intersoggettiva. Quando comunichiamo ci
esprimiamo attraverso il linguaggio che deve avere 4 requisiti fondamentali in modo che ci possa essere l’intesa tra gli
interlocutori: verità, veridicità, giustezza e comprensibilità. Discutere secondo queste regole garantisce che si arrivi ad
un punto di vista comune. Il principio “D” da cui scaturisce il punto di vista morale in Habermas consiste nel fatto che i
principi raggiunti attraverso la pratica del discorso non siano lasciati alla scelta del singolo ma siano stati raggiunti da un
accordo trovato insieme. Bisogna salvaguardare le esigenze di tutti e capire se possono essere accolte da tutti in un
ipotetico agire comunicativo. L’agire comunicativo di Habermas si contrappone all’agire strategico che ha come fine
degli obiettivi sfruttando l’etica e facendola divenire una tecnica che serve a raggiungere degli obiettivi non morali.
L’agire comunicativo invece è fine a se stesso. Ha come scopo raggiungere il punto di vista morale attraverso l’intesa e
deve essere accolto da tutti. L’etica di Habermas è un’etica che coniuga le esigenze della contemporaneità e delle etiche
tradizionali.
SCHEDA
La Rehability erung della filosofia pratica
Quando si parla di filosofia pratica si intende quella aristotelica che ha per oggetto l’agire dell’uomo. Oggi non possiamo
riabilitarla del tutto perché valida solo per il periodo storico aristotelico. Bisogna ritornare ad Aristotele perché aveva
reso autonoma l’ambito della prassi dall’ambito della poiesi (produzione). Aristotele diceva che per imparare ad essere
buoni bisogna agire moralmente e questo lo si impara agendo e non attraverso teorie. Questa riabilitazione vuole
liberare la sfera pratica/morale dalla sfera tecnica/produttiva. La techne ha snaturato l’uomo stesso e la natura non
esiste più in modo a se stante ma è asservita all’uomo.
MCINTYRE (1929 SCOZIA)
nel 1981 scrisse “dopo la virtù. Saggio di teoria morale” questo libro inizia con una ipotesi inquietante in quanto si
racconta una storia in cui avviene una catastrofe in seguito alla quale viene distrutta la scienza (libri, uccisi tutti i
ricercatori..). Poi Mcintyre immagina che ciò accada all’etica. Non esisterebbe più un’etica obbiettiva universale, a
misura d’uomo che identifica con l’etica aristotelica. Per Mcintyre la morale che si deve tenere in considerazione è
quella aristotelica che a partire dall’illuminismo è stata annientata proponendo molte ipotesi morali, tutte con la
pretesa di essere le migliori. Non c’è più un punto di contatto tra queste posizioni che tendono di imporre all’uomo delle
norme e che non si chiedono più come l’uomo debba vivere. Mcintyre si richiama a Nietzche il quale con la sua critica è
riuscito a smascherare la presunta oggettività e imparzialità dei principi e delle regole morali. I tre livelli della teleologia
aristotelica sono riflessione sull’essere; come passare dalla potenza all’atto; considerazione di come l’uomo deve essere.
Secondo Aristotele le potenzialità possono diventare atto attraverso l’educazione nell’etica aristotelica le virtù sono i
mezzi mentre il fine è agire bene sia per me che per gli altri. Secondo Mcintyre questo momento della coltivazione delle
virtù non esiste più in quanto viene erroneamente identificato con il dovere. Nell’etica moderna la virtù è unica e
coincide con il dovere ma in realtà esiste una pluralità di virtù, di disposizioni del carattere che vanno sviluppate e
coltivate per dar vita al progetto di vita del soggetto.
WEBER, APEL, LEVINAS
Il termine responsabilità fa il suo ingresso nel lessico filosofico e giuridico- politico nel corso del diciottesimo secolo. Il
concetto di responsabilità in Hegel rinvia al futuro. Infatti questo termine viene dal latino spondeo che significa
“prometto, assicuro”. La responsabilità quindi è un dovere nei confronti degli altri a cui stiamo facendo una promessa e
a cui dobbiamo dare una risposta in futuro. L’etica della responsabilità nasce nel 900 riprendendo il concetto di
responsabilità dall’ambito giuridico-politico.
WEBER
È un sociologo e fu il primo a parlare di responsabilità dell’uomo politico nella conferenza intitolata “La politica come
professione”. Weber sosteneva che le scelte dell’uomo politico colpiscono l’umanità quindi prima di decidere le norme il
politico deve rifletterci bene perché ha una responsabilità verso gli altri e il futuro. Le sue scelte potrebbero avere
conseguenze nefaste. Per Weber l’uomo politico deve avere 3 requisiti:
1) passione politica: perché nel momento in cui sorgono i problemi, se non si ha passione, si tenta di mollare tutto.
2) lungimiranza: l’uomo politico deve essere distaccato dagli uomini e dalle cose, non deve avere sentimenti in modo da
essere obiettivo. Platone diceva che i politici non devono avere famiglia.
3) senso di responsabilità: verso la causa scelta deve sentire il peso della responsabilità.
All’etica della responsabilità contrappone l’etica della convinzione. L’etica della responsabilità è teleologica in quanto ha
un fine che ha a che vedere con il futuro (si può aggiustare il tiro). L’etica della convinzione è deontologica ed il principio
di base viene considerato sempre valido e viene perseguito fino alla morte. Successivamente dice che il momento
teleologico e deontologico si devono integrare, le leggi morali si devono rispettare ma prima bisogna valutare i fini ed i
mezzi per raggiungerli.
APEL
È un filosofo contemporaneo che da una parte ci richiama l’agire comunicativo di Habermas, mentre dall’altra a Weber a
proposito dell’etica della convinzione e della responsabilità. Apel sostiene che la responsabilità è un dovere di tutti e
non solo dell’uomo politico infatti parla di un’etica della co-responsabilità. Ritiene che l’etica della responsabilità si
debba conciliare con quella della convinzione e quindi deve essere sia deontologica che teleologica. Apel è un kantiano
in quanto sostiene che l’etica deve essere una scienza autonoma, universale, non materiale, con una sua fondazione
ontologica. Le norme morali non possono essere lasciate alla libertà del singolo ma devono essere individuate
intersoggettivamente. L’intersoggettività supera la monologicità ed in questo si differenzia da kant e si ricollega ad
Habermas a proposito dell’agire comunicativo. Infatti il discorso deve essere vero, comprensibile, veridico, giusto.
L’etica di apel è simmetrica in quanto a un nostro diritto corrisponde un dovere dell’altro e viceversa. Sia Apel che Jonas
sostengono che oggi l’uomo vive in una situazione unica in quanto si trova di fronte ad un disatro ambientale a cui deve
dare una risposta. Le etiche precedenti non possono dare una risposta perché impreparate in quanto non potevano
conoscere ciò.
LEVINAS
È un filosofo ebraico. L’etica si basa su una relazione reciproca e simmetrica. Questa reciprocità nelle etiche moderne è
stata annullata perché l’individuo ha annullato l’altro facendolo diventare come una propria proiezione. Bisogna
rompere questa totalità restituendo all’altro la sua autonomia. Per Levinas l’etica è la filosofia prima. L’uomo deve
ascoltare l’altro e le sue esigenze. L’altro deve essere oggetto della nostra cura. Abbiamo una responsabilità nei
confronti degli altri.
ENGELHARDT, NAESS, JONAS
La scienza non è più autonoma perché deve rispondere alle nuove esigenze che la società tecnologica e globalizzata ci
pone. Deve trovare applicazione in vari settori.
NAESS
Ecologista che si occupa di ecologia profonda in sovrapposizione all’ecologia superficiale. Quella superficiale è
antropocentrica. Ha parlato del rapporto uomo-natura. Tutte le specie devono essere salvaguardate perché tutti siamo
come nodi di una rete ed ogni specie ha bisogno delle altre. L’imperativo categorico kantiano deve essere modificato
perchè tutte le specie viventi devono essere rispettate.
ENGELHARDT
La sua è una posizione bioetica laica chiamata bioetica secolare. Egli ritiene che i conflitti non si possono superare né
con la forza né con la ragione né con la conversione alla dottrina dell’altro ma solo attraverso una procedura in cui le
persone si pongano assieme a ragionare, raggiungendo l’intesa. Per persone si intende che lo stato ci deve mettere nelle
condizioni di diventare persona. Per Engelhardt l’embrione non è una persona. La persona è colei che è in grado di
intendere, volere, essere autonomo e cosciente della sua posizione.
MONOGRAFICO: IL PRINCIPIO RESPONSABILITA’
JONAS (1903-1993)
Jonas è un autore tedesco che fu costretto nel 1933 a lasciare la Germania perché ebreo e a rifugiarsi negli USA. La sua
esistenza è segnata dagli episodi storici del nazismo e ciò ha inciso sull’eredità del suo pensiero. L’evoluzione del suo
pensiero conosce 3 interessi fondamentali
1) Per lo gnosticismo e il problema religioso. Jonas segue la guida del suo maestro Heidegger, anche lui studioso del
pensiero antico, il quale sostiene che la filosofia occidentale abbia dimenticato il vero senso del’essere per l’ente.
2) Quando lascia il suo paese s’interessa della filosofia della natura e in generale per la vita.
3) S’interessa di problemi di bioetica (rapporto tra l’uomo e il problema della vita) e anche dell’ambiente (problemi
ecologici), etiche applicate.
Quando scrive quest’opera è cosciente del ruolo importante che possiede il filosofo morale e del danno che ha compiuti
l’uomo nei confronti della natura. Il filosofo morale ha una responsabilità forte. Il problema morale non è sincronico ma
riguarda il futuro, quindi non riguarda la città ma l’umanità e non è un problema strettamente politico. Secondo Jonas il
problema di oggi riguarda il nuovo agire dell’uomo. L’etica è la scienza che si occupa dell’agire dell’uomo.
Precedentemente la filosofia si è occupata solo dell’agire tra i singoli uomini e non in relazione alla natura. La natura era
vista come una realtà distinta di cui si sentiva il timore. Oggi, l’agire dell’uomo, è cambiato, perché agisce contro la
natura. L’uomo è diventato più potente della natura in seguito ai progressi della scienza e della tecnologia. La natura
adesso è asservita. Jonas critica l’abnorme uso che l’uomo fa della tecnologia mettendo in discussione il rapporto
UOMO-NATURA. L’uomo è quasi diventato schiavo del suo stesso potere. L’uomo faber (uomo tecnologico) è diventato
l’oggetto in quanto sperimenta su stesso, mettendo a repentaglio la sua esistenza come specie. L’agire umano non è
controllabile. Prima l’uomo vedeva la natura come un qualcosa che lo dominava; invece ora è riuscito a superare quei
limiti riuscendo a sconfiggerla. L’uomo attualmente si occupa del problema dell’allungamento della vita, anche se
questo vorrebbe vivere in modo indegno. Per quale motivo tutto ciò? Le etiche precedenti non potevano prevedere il
cambiamento dell’agire umano e non potevano neanche pensare al potere tecnologico dell’uomo. È necessario una
nuova etica. Quelle precedenti vengono criticate da Jonas, perché si occupavano solo dell’uomo, mai dell’ambiente,
della natura in generale, dei bambini, degli animali. Le etiche precedenti erano basate sulla reciprocità, a un dovere
corrispondeva un diritto. Queste etiche erano sincroniche perché si occupavano solo de momento che si stava vivendo e
non del futuro dell’umanità. Ora, invece, dobbiamo convincerci ad assumere un comportamento richiesto dai tempi
attuali: RESPONSABILITA’. Critica l’etica kantiana perché teneva conto dell’intenzione e non delle conseguenze. Jonas
dice che è importante valutare le conseguenze e ciò lo deve fare sia l’uomo politico sia l’uomo comune sia il filosofo.
Quest’ultimo ha il ruolo di smuovere le coscienze. Dobbiamo fare in modo che le conseguenze delle nostre azioni non
mettano a repentaglio l’esistenza della specie umana. Dobbiamo valutare quello che stiamo facendo e con ciò si
riferisce in particolar modo a chi ha in mano il potere della tecnologia (ad es. gli scienziati). Jonas è contro il positivismo,
perché la fiducia nella scienza ha portato a tutto ciò. Il criterio per fondare una nuova etica è l’euristica della paura,
perché è solo con la paura, gli orrori della morte, che si possono smuovere le coscienze, in quanto la posta in gioco è la
sopravvivenza della specie. Dobbiamo occuparci del fatto che non ci sono valori morali e non dello sviluppo della
scienza. I valori morali servono ad impedire applicazioni abnormi della tecnologia. [Ad es. Rita Levi Montalcini dice che
dobbiamo preoccuparci dell’assenza dei valori etici e non dello sviluppo della tecnologia, in quanto mancano delle
normative etiche che regolano l’agire dell’uomo. Non bisogna cancellare i progressi della scienza che ci hanno fatto
diventare ciò che siamo oggi. La tecnologia ci dà la possibilità di intervenire sulla natura, il segreto sta nell’utilizzo giusto
di queste enorme potenzialità che abbiamo. Ad es. la patata blu in Africa]. La Montalcini e Jonas dicono che bisogna
utilizzare le nostre capacità per migliorare la nostra vita.
In questo libro si tratteggia la condizione dell’uomo il quale ha cercato di progredire. Prometeo è un personaggio del
mondo greco. Zeus voleva nascondere il fuoco all’uomo, il quale gli avrebbe permesso di diventare homo faber e quindi
costruirsi utensili e armi da guerra. Prometeo donando il fuoco umano lo fa crescere sia in civiltà che in forza. Jonas a tal
proposito dice che l’uomo grazie al fuoco si era reso superiore alle bestie. Quest’ultime venivano utilizzate per i suoi
scopi. Nonostante ciò però non aveva sconfitto la natura e la rispettava.
Se l’agire umano è cambiato rispetto alle epoche passate ciò vuol dire che le etiche del passato non sono più adeguate
ad orientare l’uomo nella “praksi”. Jonas in questo libro propone come campione delle etiche precedenti l’etica
kantiana perché ne manifesta i caratteri basilari:
ANTROPOCENTRISMO: L’uomo al centro dell’universo. Le etiche precedenti si sono limitate ad analizzare il rapporto
dell’uomo con i suoi simili, non sono andate oltre, ad esempio nel rapporto uomo natura. Ciò perché la natura era una
sorta di baluardo inespugnabile . per quanto l’uomo abbia saputo dissodare la terra, servirsi degli animali, tuttavia ha
sempre rispettato la natura. La natura era una totalità di cui l’uomo ne faceva parte. Ora con le nuove tecnologie l’uomo
sta provando a sconfiggere anche la morte, superando i limiti delle sue possibilità. Il suo atteggiamento può essere
etichettato come arrogante. Questo potere abnorme lo sta portando a superare ogni limite naturale facendo si che
l’uomo divenga nemico della natura e di se stesso. Dobbiamo difendere l’uomo da se stesso perché i progressi della
tecnica lo stanno facendo divenire un mostro. L’inquinamento è un problema di natura morale perché sta portando alla
distruzione del pianeta e della specie umana. Jonas richiamandosi ad Hobbes dice che l’esigenza di una nuova morale
nasce a causa della cattiva natura dell’uomo.
SINCRONICHE: perché hanno affrontato il problema dell’oggi e non del futuro.
SIMMETRICHE: (qualcosa che è sullo stesso piano) un’etica che ha considerato diritti e doveri come reciproci.
Solo tre forme di etica si sono occupate del futuro però oggi non sono ripercorribili. Ad esempio tra le etiche religiose vi
sono quelle ascetiche ma in queste il protagonista è sempre l’uomo che si sacrifica per avere un premio, quindi la posta
in gioco è sempre il singolo uomo. L’etica di Jonas è altruistica. Jonas critica il principio di speranza perché costruisce
delle norme di comportamento nella speranza che un domani la vita e la natura possano migliorare. Della speranza non
possiamo aver certezza perché ci lascia nel dubbio. Dobbiamo amare la vita e responsabilizzarci. Solo il principio
responsabilità ci da la certezza che possiamo fare qualcosa di positivo per il domani. La nuova etica deve essere
proiettata verso il futuro perché secondo Jonas ciò che oggi viene messo in crisi è la sopravvivenza dell’uomo in futuro.
L’etica kantiana non si occupa delle conseguenze e dice che non è necessario il sapere per la morale perché questa è
autonoma. Ma in realtà, dice Jonas, non è così.. dobbiamo rispettare il pianeta, perché è necessario che ci sia una vita
buona ed adeguata. Fino ad oggi l’ambito della tecnologia non era stato sfiorato dalla morale, perché l’uomo non si era
spinto oltre. Fino ad oggi la tecnica aveva supportato la natura, oggi invece si vuole superarla sconfiggendola. Per questo
motivo oggi la morale sfocia anche nell’ambito della tecnica. La morale prima si occupava di stare bene in zone ristrette
anche temporalmente, il futuro era nelle mani del fato, di Dio. L’elemento fondamentale di Jonas è di guardare al
futuro: quello che faccio oggi può nocivo domani per la natura. L’uomo si è lasciato prendere dal potere abnorme
datogli dalla tecnica che consiste in un vuoto morale. L’uomo ha violentato la natura. Ciò è un problema morale perché
la natura non sa richiedere i propri diritti, non sa difendersi. Esattamente come le esigenze future che ancora non
esistono e che quindi dobbiamo avere la stessa responsabilità che abbiamo nei confronti dei nostri figli. La scienza non ci
aiuta a fondare una nuova etica perché ci ha fatto sviluppare un idea sbagliata della natura. La scieza moderna e
soprattutto il positivismo ci hanno fatto credere che abbiamo diritti sulla natura e non che la natura abbia dei diritti. La
techne spinge l’uomo a convincersi che il suo potere deve ancora di più evolversi. Tutto ciò non riguarda il singolo ma la
collettività. La morale deve interessarsi dell’agire collettivo nell’ambito della techne e quindi da morale diventa anche
un problema politico. La morale deve sfociare nella politica che non può fare a meno di imperativi morali, perché si
rivolge alla società. La legislazione si deve occupare del fatto che ci sia un mondo per le generazioni future. Ci deve
essere un mondo degno di essere vissuto dall’uomo, mi devo obbligare perché ho una responsabilità nei confronti dei
posteri. Non possiamo, però, rientrare nella sfera personale ma in quella universale: se ti vuoi uccidere,fallo! Discorso
diverso ad es. per la bomba atomica. Nelle forme di ascesi la posta in gioco è la felicità personale, ma questo
estremismo non è morale ma religioso (ad es.kamikaze).
FONDAZIONE METAFISICA DELL’ETICA
Bisogna dare all’etica una ragione per esistere, in modo che se io mi attengo a questo principio mi comporto bene.
Questo principio deve essere fondato metafisicamente, ovvero deve andare oltre le cose sensibili. Per Jonas il principio
responsabilità è l’uomo. La natura dell’uomo è di essere responsabile ed è proprio questo che lo rende uomo. Il
principio si deve fondare con l’uomo. L’uomo ha responsabilità verso la natura e gli altri uomini, perché hanno in
comune il fatto di essere. L’essere è un bene in sé, se lo distruggo faccio male in quanto l’uomo è responsabile. Il fatto
che la natura ci sia è un bene. Dobbiamo imparare a capire cosa sia bene e cosa sia male. L’uomo può fare bene o male,
a differenza degli animali, in quanto egli a potere. L’uomo è un soggetto perché ha il potere di agire. La natura è un
oggetto perché agiamo su di essa. L’azione principale dell’uomo è quella di conservare la natura. La caratteristica
dell’umanità è di essere responsabili, prendersi cura della natura e di fare in modo che qualcuno si prenda cura della
natura. L’essere è uguale al bene, quindi ogni essere è un fine in sé, ovvero ha già in se stesso il fine di esistere. Natura e
uomo sono fini in sé, Jonas vuole superare l’antropocentrismo. Vi è una comunanza di destini se la natura scompare
l’uomo non può vivere. L’uomo vive in simbiosi con la natura e quindi deve rispettare sia l’oggetto che il soggetto. Ci
sono 2 tipi di responsabilità:
1) EX POST FACTO: dopo che le cose sono successe
2) DETERMINAZIONE FUTURE: preservo (tipo di responsabilità di cui parla Jonas).
L’imperativo categorico di Jonas “Agisci in modo che la tua condotta sia compatibile con l’esistenza di un umanità
futura”. In poche parole non fare danno, conserva quello che c’è. Mentre l’etica di Kant era fondata sul dovere, quella di
Jonas è fondata sul poter.
L’essere è uguale al bene e al dover essere. L’uomo deve dover fare.
Gli esempi di soggetti morali che Jonas ci presenta in questo libro sono 2: GENITORI E UOMINI DI STATO. Entrambi sono
accomunati da:
TOTALITà: quando un genitore ha un figlio non si deve limitare a nutrirlo ma lo deve accudire in tutto perché sono
resposabili nei suoi confronti.
CONTINUITà: non interrompere mai la propria responsabilità.
FUTURO : devono garantire il futuro all’oggetto della loro responsabilità.
L’etica di Jonas prevede l’imperativo della sopravvivenza. La sua etica è minimalista e il minimo che si può è la
sopravvivenza.
KANT: Puoi, dunque devi (fondata sul dovere)
JONAS: DEVI, DUNQUE FAI, DUNQUE PUOI (fondata sul potere)
L’essere irresponsabile è chi usufruisce del potere ma non del dovere. La capacità di essere responsabili implica il dover
esserlo. Il fatto che ho una responsabilità implica che la devo usare.
PARADIGMA RESPONSABILITà COME OGGETTO
Esempio neonato verso il quale si hanno doveri e non diritti perché:
ESSERCI Già
NON ESSERE ANCORA
POSSIBILITà DI NON ESSERE PIù
CAPITOLO V E VI
La prima cosa che dobbiamo fare è fare in modo che sia possibile la sopravvivenza dell’umanità. Ma questo
implica che ci si debba chiedere in primo luogo che cosa deve essere l’uomo in quanto uomo. In altri termini,
l’etica dell’emergenza, che all’ambiziosa speranza in un paradiso terrestre contrappone la speranza più
modesta nella abitabilità futura del mondo, presuppone una critica approfondita all’ideale utopico. Infatti
l’utopismo non è solo uno dei sogni più antichi dell’umanità ma oggi, con la tecnica, sembra trovare i mezzi
per tradurre in pratica le sue prospettive, e quindi non rappresenta più una sorta di innocua evasione ma un
potenziale alleato dell’apocalisse tecnologica.
L’utopismo prometeico dell’Occidente ha storicamente assunto due forme principali. Una è quella che deriva
dal filosofo inglese Francis Bacon, e l’altra da Marx. Soffermandosi in particolare sulla teoria marxista, Jonas la
critica soprattutto in tre punti. Il primo è la troppa fiducia nella tecnologia mentre esso dimentica che
l’aggressione tecnica alla natura ha dei limiti quantitativi ben precisi, che non possono essere violati. Fra
questi limiti, Jonas ricorda quelli legati all’incremento demografico, all’alimentazione, alle materie prime,
all’energia e al surriscaldamento ambientale. Il secondo punto è criticare gli ideali messianici più radicali del
marxismo (vedi il filosofo marxista Ernst Bloch e il suo principio speranza). Il terzo punto è forse il più
importante dei tre perché critica la dottrina secondo la quale la storia non avrebbe portato ancora alla luce
l’uomo autentico che invece sarà nel futuro, l’uomo libero dopo la rivoluzione comunista. Secondo Jonas
l’uomo autentico, nel senso dell’uomo vero, reale, concreto, pur con le sue caratteristiche di finitudine e i suoi
limiti, è invece esistito già da sempre.
È importante rendersi conto, dice Jonas, che ogni presente dell’umanità costituisce un fine in se stesso e lo è
stato perciò in ogni epoca passata. Jonas comunque non critica solo il marxismo ma anche l’etica basata sul
profitto e sul libero mercato. Jonas critica sia Stati Uniti che Russia, i “due giganti tecnologici”, di cui riconosce
pregi e difetti. E più che preferire uno all’altro, preferisce chiedere ad entrambi uno sforzo comune verso il
perseguimento della pace. La denuncia dei poteri tecnologici non vuol comunque dire un rifiuto della
tecnologia. Deve semplicemente voler dire prudenza nell’uso delle scienze e non rinuncia ad esse. A questo
riguardo Jonas introduce il nuovo concetto di una euristica(=dal greco eurisko, cerco, indago, indica l’arte di
promuovere e di ben condurre la ricerca) della paura. La paura deve essere appunto intesa come uno stimolo
che induce ad agire per il meglio. Anzi la filosofia stessa deve servire sempre e comunque da stimolo, da
pungolo per l’acquisizione di una coscienza ecologica mondiale e per la responsabilizzazione etica
dell’umanità. Visto che noi oggi rischiamo l’estinzione totale, allora il nostro nuovo dovere, generato dal
pericolo, spinge per forza di cose e in prima istanza verso un’etica della conservazione, della salvaguardia,
della prevenzione e non tanto del progresso e della perfezione (cfr. p. 178 tr.it. ). Quel che conta è garantire la
sopravvivenza delle generazioni future e non pensare tanto ad una ipotetica perfezione raggiungibile nel
futuro dall’umanità. Da questo punto di vista, Jonas ha insistito sui pericoli insiti nella clonazione: (egli è
contrario alla manipolazione genetica perché la vita è sacra: L’uomo è stato creato ad immagine di Dio, e
dovremmo avere paura ad intrometterci in quel profondo segreto che è l’uomo) mentre è favorevole
all'eutanasia (il diritto di vivere, inteso come fonte di tutti i diritti, include anche il diritto di morire).