L`urlo - PIMPIRIMPANA

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L`urlo - PIMPIRIMPANA
L’URLO
Nicole Zacco
Ricordo che in quel mese di maggio l’unico momento buono per uscire era di notte, quando il
pungente vento del nord lasciava il posto ad una brezza tiepida che calmava il mare. E allora al
tramonto chiudevo i libri, mi facevo un bagno caldo e preparavo la cena, in attesa che Andy e Ben
arrivassero con la loro carcassa metallica ed insieme decidessimo cosa avremmo fatto quella notte. Eravamo un trio strano secondo la gente, perché eravamo teneri, belli e diversi tra noi e questo
ci rendeva speciali. Era un’impresa impossibile per i nostri compaesani accettare che due ragazzi
ed una fanciulla potessero essere diventati tanto amici da cenare ogni sera insieme, come chi si
vuole bene senza un fine riproduttivo, come chi ha da condividere qualcosa di diverso, di trascendentale. Eravamo visti come una specie di gruppo primitivo, promiscuo, ma questo non ci scoraggiava, anzi, ci stringeva sempre più l’uno verso l’altro perché bene o male tutti ci lasciavano soli. Eravamo proprio così, soli, tre splendidi soli che illuminavano e mettevano a nudo le paure ed i
limiti di quelle poche anime con cui spartivamo la terra in questa vita. In realtà, a dirla tutta, la
gente disprezzava me. Non era puro odio il loro sentimento, ma comunque d’odio erano unti i loro sguardi quando viaggiavo fra le strade del paese. Erano spaventati dai miei vent’anni e dalla
mia solitudine: era impossibile che un’orfana delicata, dagli occhi buoni e vulnerabili, non avesse
ancora trovato nessuno a cui appoggiarsi; “strano che ancora nessuno se la sia presa.” È così penoso sapere che per la gente i sentimenti si riducano a questa banalità, che qualcosa di antico e inclassificabile come il dolore o la solitudine subisca continuamente tentativi di canonizzazione e
recinzione in poche semplici regole o conseguenze. Certo che ci avevo pensato, all’Amore. Ma
non di certo perché i miei genitori erano morti prematuramente. Semplicemente, quando la mandria di ragazzi del paese aveva cominciato a fare tappa al mio podere, Lui non si trovava fra loro.
Eppure nella mia emarginazione, io ero libera. Come il vento del nord che sceglie di toccarci proprio a maggio. O come un gabbiano che blocca il traffico perché decide che quel giorno, lui, la
strada vuole attraversarla a piedi.
Quella sera di maggio io, Andy e Ben cenammo come sempre insieme, prendemmo le nostre
chitarre e decidemmo di fare un giro lungo la costa schiarita dalla luna, che quel giorno era adamantina, spaventosa, solenne. Ricordo che in macchina cantammo una canzone il cui ritornello
faceva: “We don’t bleed if we don’t fight”. Non c’è sangue senza lotta, era un’equazione semplice
dopotutto. Mi chiesi cosa volesse dire e non perché non sapessi l’inglese. Ogni tanto ci fermavaIN PIMPIRIMPANA N. 6 DEL SETTEMBRE 2013
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mo in qualche spiazzo e lì ci raccontavamo qualcosa, Ben suonava la chitarra, io ed Andy cantavamo e così via, a turno, tutta la notte. Forse fu la birra, ma senza capire come ci sorpresero l’alba
ed il blu freddo del mattino. Un pallore argentino ci svelò il vero volto del posto dove eravamo.
Mi sentii soffocare in macchina, mi sembrava così assurdo che fosse già giorno, che fossimo
arrivati in un batter d’occhio in un posto tanto sconosciuto. Non ero mai stata lì, ne ero certa,
dovevamo essere parecchio lontani da casa perché quello non aveva neppure l’aria di essere il
Mediterraneo. Ci trovavamo nei pressi di una rupe che si inoltrava in una vastissima baia. Lì l’alba
aveva tutto lo spazio per fare la ruota senza farsi sgridare da nessuno. Riuscii a scendere di
macchina e sentii che l’aria era intrisa di quell’odore sapido degli scogli, penetrante. C’erano delle
voci e vidi che non lontano, in basso, su una spiaggetta rosata venata di grigio erano parcheggiati
un paio di camioncini. Il cielo accennò a schiarire e ne uscirono una decina di ragazzi con le
tavole da surf. La violenza dell’alba ne colpì in pieno uno. Gli raggiunse prima il mento, le labbra
rosa e poi l’iride, rimbalzandogli sulla chioma. Occhi verdi così non ne avevo mai visti. Capelli
ricci scomposti facevano offensivi ed inimitabili giri su se stessi, dando al viso un’aria nobile e
ribelle. Mentre parlava con uno dei suoi compagni gli spuntò un sorriso candido ingestibile.
Aveva i canini accentuati, come tutti quelli che per fermare il corso delle cose sono abituati a
morderle. Mi girai a guardare i miei amici, ma loro si erano parcheggiati meglio e stavano già
russando. Decisi che mi sarei riposata anche io e scelsi una sporgenza tondeggiante coperta di
ginestre e ne feci il mio scomodo giaciglio con un paio di felpe scelte a caso dal bagagliaio della
macchina. Fremevo, mi incuriosiva il brulichio eccitato del gruppo di giovani. Sembrava che
davanti a loro ci fosse uno spettacolo divino stupefacente, eppure non li aspettava altro che un
mare gonfio e inospitale, turbato dal ritorno mattutino del maestrale. Parevano tanti gemelli, tutti
stretti nella muta nera che lasciava liberi solo un paio di centimetri di caviglie. Il gruppo di ninja
acquatici sfidò il freddo, si tuffò e remò contro le grasse spumose facendosi cullare dall’incertezza
del primo approccio. Solo il ragazzo dal sorriso carnivoro ai miei occhi non riusciva più a
fondersi col resto del gruppo. Era come se dal mio sguardo al suo viso fosse stato cucito un filo
invisibile, mentre gli altri non erano che placidi erbivori intenti ai loro giochi che convivevano
ingenuamente con quella presenza conturbante. Era quasi imbarazzante stare lì al freddo, storta e
scomposta su una roccia a guardarli. Sperai che non mi notasse nessuno, che mi crescesse
addosso altra ginestra fino a coprirmi. Che niente mi costringesse a distogliermi dallo spettacolo
dei dieci pinguini. Appena pronti, però, furono tutti l’uno contro l’altro: cacciatori. Si lanciarono
sfrecciando a pelo d’acqua facendo salti e volteggi con la tavola che restava misticamente ferma
sotto i loro piedi. Alcuni, come germani reali, s’inabissavano con la tavola al petto lasciando
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passare sopra di loro la massa d’acqua, spaventati forse dalla rapidità, o dall’altezza delle onde.
Giocherellarono ipnoticamente per un po’. Poi, qualcosa ruppe il ritmo. Una gigantesca blu
nacque senza preavviso dalle ceneri di un’onda precedente e si gonfiò ruggendo. Tutti
cominciarono a remare ma uno solo arrivò per primo: era lui, il ragazzo colpito dall’alba. Aveva
remato più forte degli altri e si era alzato sulla tavola in tempo per cavalcare tutta l’onda fino in
fondo, percorrendo il tunnel vetroso. Gli altri lo incitarono a conquistarsi fino all’ultimo quella
piccola vittoria, e fu così che il ragazzo tirò la testa indietro e guardò il cielo ad occhi socchiusi
rilassando il petto con un sospiro profondo. Poi riempì i polmoni di iodio e lanciò un grido
spaventoso. Trasalii tenendomi la mano al cuore. Mi sentii investire da così tanto calore da essere
costretta a guardare la scena dietro un sipario di lacrime bollenti. Quell’animale felice mi aveva
sconvolta. Guardai verso la macchina per sapere se qualcuno dei ragazzi si fosse accorto di
qualcosa, ma vidi solo Ben che dormiva con la faccia schiantata sul finestrino. Mi venne da ridere
perché nonostante tutto ero felice che non ci fossero, così sarebbe stato bello raccontarglielo.
Quel momento, quell’istante appena trascorso sembrava aver infranto qualcosa nel mio piccolo
paniere di emozioni. Quello era un urlo primordiale. Il canto di una vergognosa felicità. Continuai
a guardare quei ragazzi finché non mi venne sonno. Al mio risveglio non c’erano più.
Nei giorni successivi ebbi modo di tornare più volte al promontorio, ma la mareggiata era
finita ed al suo posto era arrivata una tediosa bonaccia. Una calma che mi stava stretta. A volte
pensavo a quel ragazzo e mi toccavo il petto ancora indolenzito. Sembrava che quell’urlo lo avessi
fatto io. Che la gioia di quel giovane uomo l’avessi partorita io dal diaframma. Lo scossone di
quell’alba mi aveva portato a pensare, e a diffidare. Del silenzio. Di chi usa sempre quel tono di
voce di seta, che scivola senza vibrare mai. Di quegli uomini, donne, bambini, che sorridono
senza ridere mai scompostamente. Di me stessa e del mio esistere senza niente che mi faccia mai
urlare. Una mattina stilai una lista dei miei più grandi desideri e mentre li leggevo l’unico rumore
che feci fu quello di un piccolo sbadiglio. Davvero non c’era niente nella mia vita che mi rendesse
veramente felice?
La notte restavo sveglia ad ascoltare il vento ed il mare, in attesa di una piccola, insignificante,
mareggiata che mi desse speranza di rivederlo, di risentirlo. Anche le cene con i ragazzi erano
cambiate: io non mangiavo più. Avevo una paura tremenda di aver lasciato passare qualcosa che
non sarebbe mai più tornato. L’unica cosa di cui avevo bisogno di nutrirmi era quell’energia. La
sera quando suonavamo io cantavo con tutta la voce che avevo, quasi fosse un segnale continuo
che mandavo all’universo: torna, chiedevo. Finché finalmente arrivò di nuovo quel rombo di
schiuma e sassi. Quella mattina arrivai alla roccia delle ginestre e con tutta fretta cercai di
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scorgerlo nel gruppo. Lo vidi e questo bastò ad irrorarmi il corpo di lava incandescente. Di nuovo
la corsa, di nuovo il tuffo, di nuovo il grido.
Passai così un’intera stagione. Una stagione in cui persino il mare non fu più lo stesso. Un
mare azzurro che mangiò la spiaggia e costrinse i ninja alla resa, incappucciati e sbuffanti. Io ed il
carnivoro ci eravamo conosciuti e avevamo finito per essere come il fiume ed il mare: l’uno che
accoglie l’altro e se ne nutre. Ogni tanto però, appena l’orizzonte si increspava, lui mi lasciava sola
in gran fretta e con una tiepida carezza. E ogni volta gli schiaffi sulle rocce erano più violenti. Ma
era una solitudine felice la mia, perché a ripagarmi c’era sempre il grido. Quell’anima elettrica
sconvolgeva il cielo e lasciava cadere sugli spettatori lapilli di estasi incandescente ed io non
chiedevo altro che quel nostro modo di vivere, quell’essere insieme selvaggi e per sempre.
Fino a che il tempo non ci portò a quella sera. Il cielo era viola e mi sentivo già schiacciare dai
pesanti vapori notturni. Il gruppo di omini in muta aveva piazzato qualche faro ad illuminare le
giganti voraci, le balene impalpabili che sfiatavano sugli scogli un vomito salato e bianco. Lui era
seduto accanto a me, scalzo, col viso pulito e lo sguardo composto. Sembrava uno scolaretto che
aspettava di portare la mela al maestro, un bambino col farfallino in attesa di un incontro
importante. In quel momento era scomparsa dal suo volto la fame del cacciatore. Dopo minuti di
quiete alzò le sopracciglia. In lontananza la prima serie di onde. Mi salutò con una lenta carezza
ed un bacio lungo. Si spogliò e imbracciò correndo il destriero di resina. Il tramonto si spense
lasciando una scia di sangue che ci mise tutti al buio. Lo vidi tuffarsi nel mare nero e scomparire.
La peggiore cecità: quella dell’incertezza. Poi lo vidi emergere ed in base al suo fluttuare nel buio
intuivo l’altezza delle onde. Mi sentivo nauseata e infreddolita, tanto che senza accorgermene
caddi in un sonno violento. Mi svegliai dopo attimi indefiniti. C’erano delle urla. Lo vidi, era lì,
stava volando sulla cresta. Schizzi pece ed argento sagomavano il suo corpo, stagliato contro la
luce della luna. Il suo grido: una gioia che superava il lamento stanco delle onde, il rombo lontano
e malinconico del temporale, il gemito del vento. Sorse spontaneo dalla scogliera un applauso
entusiastico della gente. La sua bellezza, la sua forza erano più grandi anche del mare. Poi,
qualcosa andò storto. L’invidia dell’universo, quella forza strana che ci rende tutti piccoli e che
porta le cose a cadere sempre giù verso la rovina, proprio quando pensiamo di avercela fatta. La
tavola gli sfuggì da sotto i piedi, rimbalzò sullo specchio d’acqua. La punta, scheggiatasi nel
trambusto, gli si conficcò nel fianco e lo fece precipitare sulle rocce della secca.
Nella baia neanche il frastuono delle onde. Solo il sospiro del tiepido filtrare della schiuma a
riva, fra i grani di sabbia. In lontananza le nuvole basse e viola si illuminarono in silenzio, seguite
da un rombo di tempesta così distante da sembrare oltre il futuro.
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Non mi girai neanche a guardare. Mi alzai così lucida come non ero mai stata. Tremò la
ginestra al posto mio. E m’incamminai per strada, senza guardare dove andassi. Le mie labbra,
con un filo di voce, canticchiarono quella vecchia canzone: “We don’t bleed if we don’t fight.”
Adesso quelle parole erano chiare.
Presto per sopravvivere non mi sarei più ricordata di che colore diventava il suo viso all’alba,
o di come faceva il vento a muovere così lentamente i suoi riccioli, nonostante la salsedine. Avrei
perso la direzione delle sue ciglia quando guardava in basso, o con quale piede partiva per stare
dritto come una freccia sulla sua tavola.
Ma non avrei mai dimenticato il grido. Un urlo in cui confluiva tutto. Lo squarcio del cielo
prima che si rompa in miliardi di gocce che sfamano la terra. Il terrore. Il battito. Il ruggito di una
fiera in lotta. I tamburi di una guerra.
Era tornato l’inverno e spesso tornavo alla baia a guardare le onde grigie e le loro creste
impazzite. Il mare sembrava una città di vetro. Quel rapido scorcio d’amore mi aveva fatto paura,
non sapevo più se sarei stata di nuovo pronta a provarlo ancora. Ben e Andy non avevano smesso
di venire da me per cena e ogni sera era di nuovo una festa a tre. L’unica cosa che era cambiata
era che la gente adesso mi salutava per strada. Sì perché qualcuno mi aveva voluto e perché mi
avevano vista piangere e questo faceva di me una persona normale. Mi incoraggiavano tutti con
timidi sorrisi commossi. La morte stranisce chi la guarda da lontano. Mi resi finalmente conto che
la normalità che la gente aspettava per tutta la vita era quella: una baia silenziosa ed una “muta”
nera che, con grande sollievo, ci rende tutti uguali.
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