i grandi restauri del Gruppo Trevi

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i grandi restauri del Gruppo Trevi
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Introduzione
Non si è visto spesso una tesi ad argomento umanistico che abbia come focus un
argomento tecnico, la storia delle tecnologie di fondazione, di solito appannaggio di
facoltà ingegneristiche.
L'Academy del Gruppo Trevi , che ha come prima attività proprio la divulgazione delle
conoscenze delle tecnologie di fondazione, ha colto l'occasione per supportare
un'opera con al centro tale “storia”.
L'opportunità ci è stata fornita da Giulia, che attraverso il suo saggio ha raccontato
il nostro mondo, con un punto di vista ed un linguaggio volutamente estraneo ai
tecnicismi dell'argomento che pensiamo possa raggiungere e appassionare un gran
numero di persone al di là dei soli addetti ai lavori.
L'opera assume così i toni di un racconto dal ritmo serrato e piacevolmente scorrevole,
offrendo uno scorcio dell'impegno profuso dal personale del Gruppo Trevi nello
sviluppo delle tecnologie e della loro applicazione ai campi di intervento più disparati:
dalle fondazioni vere e proprie, alla conservazione di beni storici ed artistici.
Ed è proprio in quest'ultimo campo che il racconto si rende ancora più affascinante.
Due case history, due simboli della storia e della cultura dell'umanità, uno (la Torre
di Pisa) legato al mondo occidentale e l'altro (i Buddha di Bamiyan) legato a quello
orientale, permettono al lettore di assistere alla sinergia tra l'innovazione tecnologica
e la tutela della tradizione culturale e del patrimonio artistico, con lo scopo di
preservare due luoghi appartenenti alla lista dei Luoghi Patrimonio dell'Umanità in
pericolo (Word Heritage in danger).
Dott.ssa Alessandra Trevisani
Academy Director
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Indice
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Cap.1. L'ingegneria del sottosuolo:
una storia, la nostra storia
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Cap. 2. Ingegneria, fondazioni, arte:
racconti da un passato lontano
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Cap. 3. Il Gruppo Trevi e Soilmec:
un successo che parte dalle basi
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Cap. 4. Storia, arte e ingegneria:
i grandi restauri del Gruppo Trevi
4.1 Il grande restauro della Torre di Pisa
4.2 I Buddha di Bamiyan
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Cap. 5. Per concludere
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Cap. 6. Bibliografia e sitografia
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Cap.
L'ingegneria del sottosuolo:
una storia, la nostra storia
Se proviamo a pensare alla storia dell'umanità, ci rendiamo conto che uno degli
aspetti della vita su cui si è ben presto concentrato l'impegno dell'uomo è stata la
costruzione di edifici: superato il periodo delle caverne, l'uomo ha sempre cercato
di realizzare abitazioni e strutture, utilizzando via via i materiali che risultavano più
idonei a garantire solidità e sicurezza. E così, dalle capanne si è passati alle pietre,
fino ad arrivare, in tempi più recenti, a materiali più stabili come il cemento armato.
Sono nati i villaggi, poi le città e le metropoli, e il “costruire” si è esteso a strutture
molto complesse dando così vita al mondo in cui attualmente ci muoviamo ogni
giorno, un mondo fatto di edifici in cui si snoda la vita di tutti in ogni suo aspetto.
Da qui l'importanza del costruire bene, garantendo sicurezza, stabilità e anche la
massima vivibilità di ciascun edificio. Un problema che l'uomo si è posto fin dai
tempi antichi: firmitas (solidità), utilitas (funzionalità), venustas (bellezza) erano le
caratteristiche fondamentali di una costruzione secondo l'architetto di epoca romana
Vitruvio, che nel suo celebre De Architectura affermava: “Tutte le costruzioni devono
avere requisiti di solidità, utilità e bellezza. Avranno solidità quando le fondamenta,
costruite con materiali scelti con cura e senza avarizia, poggeranno profondamente
e saldamente sul terreno sottostante; utilità, quando la distribuzione dello spazio
interno di ciascun edificio di qualsiasi genere sarà corretta e pratica all'uso; bellezza,
infine, quando l'aspetto dell'opera sarà piacevole per l'armoniosa proporzione delle
parti che si ottiene con l'avveduto calcolo delle simmetrie”.
Concentriamoci quindi sulle opere di fondazione, essenziali per le attività di costruzione
di edilizia e di architettura. La loro importanza è insita nel loro nome: “fondamenta”,
ovvero le basi su cui si regge una costruzione. Concetto che si può estendere a
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tutto: a un edificio, certo, ma anche a un progetto di altro tipo, allo sviluppo di un’idea.
Senza “fondamenta” forti e ben articolate, nulla può reggere. Se pensiamo alle
fondamenta edilizie, è noto che ingegneria, architettura e tecnologia si sono concentrate,
nei secoli, sull’obiettivo di poter disporre di fondazioni sempre più sicure e di solidità
garantita. Ma come si è arrivati ai risultati straordinari che conosciamo oggi?
Nel 2012, il Gruppo Trevi, leader nel mercato dell'ingegneria del sottosuolo, ha
ottenuto un primato incredibile, arrivando a realizzare diaframmi fino a 250 metri di
profondità, con il prezioso contributo di Soilmec, la divisione meccanica del Gruppo.
Se da questo traguardo proviamo a guardarci indietro, quello che vediamo è un
immenso cammino, iniziato molti secoli fa, di cui il Gruppo Trevi ha compiuto i più
recenti e importanti passi. Ecco perché vi portiamo con noi in questo viaggio nel
tempo: perché ogni periodo storico, e tante, tantissime persone, hanno contribuito
a scrivere un capitolo di una storia che, ancora oggi, è sotto gli occhi (e sotto i piedi)
Campo prove Gualdo - Gualdo di Roncofreddo (FC) Italia
-250 m “Recond mondiale di perforazione per diaframmi”
di tutti noi.
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Cap.
Ingegneria, fondazioni, arte:
racconti da un passato lontano
Per iniziare a raccontare questa storia, dobbiamo riavvolgere il nastro fino al 2980
a.C., quando un progettista di nome Imhotep, al servizio del Re d'Egitto Djoser, fu
incaricato di costruire un particolare tipo di tomba detta mastaba, che rendesse
omaggio alla grandezza del sovrano. Non lo si poteva ancora sapere, ma l'evento
era storico: proprio allora, a Saqqara, fu eretto il primo grande edificio in muratura
della storia, risultato della sovrapposizione di strati di pietra calcare di dimensioni
decrescenti, per un'altezza complessiva di 59,94 metri. Per lavorare questi blocchi
di pietra, gli operai ebbero a disposizione, con tutta probabilità, soltanto dei picconi
di metallo. Le attrezzature per sollevare e trasportare i materiali grezzi non esistevano:
era perciò necessario adoperare una grandissima quantità di manodopera che
portasse con la sola forza fisica, tramite ceste o rampe provvisorie, la terra e le
pietre. Pochi mezzi, molto sudore e fatica: questi gli strumenti che si avevano a
disposizione all'epoca.
Dunque fu Imhotep il primo costruttore di arte muraria; ma
fu un architetto di nome Hemiunu che, nel 2570 a.C., segnò
la storia erigendo, a Giza, in onore del faraone Cheope,
una struttura di tale grandezza e fama da essere conosciuta
e ammirata ancora oggi: la Grande Piramide, una delle
sette meraviglie del mondo. Un'altezza di 146,6 metri,
centomila uomini, vent'anni di lavori: numeri da capogiro
se si pensa che le pietre di calcare di cui si compone questo
incredibile edificio arrivavano a pesare tonnellate e che si trattò
di un lavoro eseguito interamente a mano. La Piramide fu costruita
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sull'Altopiano di Giza, e non fu certo una scelta dettata dal caso: forte dell'esperienza
passata, che aveva visto interi monumenti funerari crollare per lo smottamento del
terreno, il Capo-costruttore considerò più adeguato quel sito, più solido perché
costituito da roccia calcarea. La scelta della tipologia di suolo e i lavori di spianamento
furono dunque determinanti e hanno permesso a questa mastodontica opera di
arrivare fino a noi.
A partire dal XVI secolo a.C., la Grecia divenne una vera e propria fucina di idee e
di invenzioni nel campo dell'ingegneria. Nasceva una figura nuova e diversa dal
Capo-costruttore egiziano: l'architekton, ovvero “maestro delle arti pratiche”, che
coniugava una prima scienza teorica alla direzione delle forze operaie. I primi semi
dell'ingegneria moderna per come la conosciamo oggi erano piantati, e piano piano
si plasmava una scienza volta a facilitare e a migliorare la vita (e il lavoro) di tutti i
giorni. In virtù della funzionalità, venne concepito, a Samo, il primo porto della storia,
modello per molte costruzioni portuali successive, per agevolare il commercio
marittimo; ci si impegnò per evolvere la tecnica di estrazione e di costruzione delle
miniere, realizzando, a Laurion, pozzi straordinariamente profondi (fino anche a 115
metri) per l'estrazione di minerali. Un'impresa colossale se si pensa che il terreno
roccioso veniva estratto a mano, con il solo aiuto di picconi e scalpelli.
Attorno alla metà del III secolo a.C., Archimede inventava la pompa elicoidale, detta
appunto vite di Archimede, usata soprattutto per gli scavi subacquei ma utilizzata
anche oggi, per attività agricole e di irrigazione. Gli ingegneri dell'antichità non
possedevano le conoscenze scientifiche approfondite disponibili adesso, eppure
alcune delle loro “invenzioni” vengono utilizzate tuttora, testimoni di un'ottima
lungimiranza e di un pizzico di fortuna.
Durante l'Impero romano, a partire dal 31 a.C., si scoprì che dall'unione tra la calce
e una polvere vulcanica si poteva ottenere un ottimo cemento idraulico, che si
indurisce sott'acqua. E, in effetti, sono soprattutto acquedotti e ponti le opere di
maggiore rilievo storico di questo periodo, come l'Acquedotto Appio, dal nome del
primo costruttore romano più famoso, Appio Claudio (a cui dobbiamo anche la Via
Appia). Evoluzioni, queste, che vengono “registrate”, nel 15 a.C., nel De Architectura
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di Vitruvio che abbiamo citato inizialmente, vera e propria pietra miliare della letteratura
ingegneristica. È Vitruvio a descriverci la natura delle fondazioni romane dei ponti
(uno dei più importanti, costruito nel 109 a.C., è Ponte Milvio a Roma, che ha resistito
a tutti i pesi trasportati sopra di esso attraverso i secoli). Gli operai sollevavano i piloni,
che non potevano superare certe dimensioni, aiutandosi con delle funi. I piloni dei
ponti venivano quindi inseriti in cassoni in quercia, ben ancorati al fondale, dopo aver
prosciugato la zona dall'acqua con delle pompe e aver riempito gli spazi vuoti con
materiali come malta o sabbia, per poi aggiungere ulteriori pietre per garantire la
longevità e la stabilità della struttura. Dobbiamo proprio ai romani un'ulteriore
invenzione per la stabilità non solo dei ponti, ma anche degli acquedotti e dei teatri:
l'arco. Se il monolite utilizzato precedentemente rischia spesso di spaccarsi, l'arco
si sorregge grazie alla sola forza di pressione tra i massi, dunque i pesi che riesce
a tollerare sono molto più elevati. Basti pensare che è costruito con la tecnica degli
archi il Ponte Pietra, unico ponte di epoca romana rimasto oggi a Verona.
Il Medioevo (tra il V e il XV secolo d.C.) è noto soprattutto per la ricchezza di cattedrali
e fortezze. È interessante notare come le cattedrali, celebri per la loro magnificenza
e grandezza, fossero spesso erette su terreno povero. Le fondamenta, che
raggiungevano basse profondità, stentavano a sostenere il peso di quelle immense
opere. Questa sarebbe una delle ragioni che hanno portato la Torre di Pisa, la cui
costruzione iniziò proprio in quel periodo (nel 1174), a diventare “pendente”: avremo
modo di approfondire questo caso molto particolare. Ad ogni modo, in altre occasioni
l'esperienza si è rivelata più riuscita: lo storico Jean Gimpel, nel suo Costruttori di
cattedrali, ci dice che: “le fondamenta delle grandi cattedrali penetrano fino a dieci
metri di profondità (è il livello medio di una stazione del metro parigino) e forano in
certi casi una massa di pietra non meno grande di quella visibile”. Non è quindi un
caso se molte cattedrali gotiche, che tendevano a svilupparsi verso altezze mai
raggiunte prima riuscendo, al tempo stesso, a coniugare tecnica e estetica, sono
arrivate fino a noi e sono “sopravvissute” a guerre e sconvolgimenti della natura. La
Basilica di Saint-Denis, nella periferia di Parigi, ne è la prova: costruita nel 1136, è
uno dei primi edifici in stile gotico della storia.
Le fortezze, come le cattedrali, appartengono al periodo medievale. Anche qui è la
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Archimede di Siracusa
(Siracusa, 287 a.C. circa - Siracusa, 212 a.C.) è stato un matematico, fisico e inventore
siracusano. Considerato come uno dei più grandi scienziati e matematici della storia, i
contributi di Archimede spaziano dalla geometria all'idrostatica, dall'ottica alla meccanica.
Nel 235 a.C. durante un viaggio in Egitto inventò la vite di Archimede, detta anche còclea,
una macchina utilizzata per il trasferimento dell'acqua ai canali d'irrigazione. Fino a quel
momento l'acqua di irrigazione veniva portata nei campi tramite secchi sollevati a mano,
un metodo lento e faticoso. La vite di Archimede è costituita da una grossa vite (una
superficie elicoidale che circonda un albero cilindrico centrale) posta all'interno di un tubo
cavo. L'energia necessaria alla veniva solitamente fornita dalla rotazione di una maniglia
o da eliche di mulini a vento. La parte inferiore del tubo è immersa nel liquido da sollevare
e ponendo in rotazione la vite, ogni passo raccoglie un certo quantitativo di liquido, che
viene sollevato lungo la spirale fino ad uscire dalla parte superiore e alimenta i sistemi
di irrigazione.
Oggi la vite di Archimede è stata sostituita da pompe a motore e ruote
idrauliche, ma il principio dell'invenzione di Archimede ha valore duraturo
e il concetto principale, utilizzare la vite per sollevare un
liquido o un materiale granulare (sabbia, ghiaia o solidi
frantumati), è stato esteso a varie applicazioni moderne.
Nel campo delle tecnologie di fondazione è stato sviluppato
un metodo per la costruzione di pali di grande diametro
chiamato CAP.
I Cased Augered Piles (CAP) vengono eseguiti per
mezzo di un elica continua alloggiata all'interno di
una camicia in acciaio. Durante la fase di perforazione
il materiale di scavo viene caricato dall'elica e
trasportato in cima alla camicia, sfruttando il principio
della vite di Archimede, per venire poi scaricata a
terra attraverso un sistema a secchioni. Raggiunta
la profondità richiesta l'elica e la camicia vengono
estratti mentre viene versato del calcestruzzo
attraverso l'albero tubo cavo interno. Infine, se
necessario, dei rinforzo in acciaio (gabbie, profili o travi) vengono calati
nel calcestruzzo fresco.
Rif. Bibliografici: 100 Greatest Science Inventions of All Time; Di Kendall F. Haven
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FASE 1
PERFORAZIONE
FASE 2
ESTRAZIONE E CONTEMPORANEO
GETTO DI CALCESTRUZZO
Pali Secondari
armati con gabbia
Pali Secondari
armati con gabbia
Pali Primari
non
armati
La produzione di attrezzature di
perforazione Soilmec annovera
diversi modelli dedicati alla
tecnologia CAP/CSP, tra questi la
SR-100 con una profondità
massima di 28 metri.
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FASE 3
INSERIMENTO GABBIA
DI ARMATURA
Pali Primari
armati con profilo
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pietra il materiale prediletto dai costruttori, che in genere progettano queste strutture
sui promontori, al fine di avere la massima visibilità dell'orizzonte. Esse rappresentavano
infatti una forma di protezione militare in seguito all'invenzione delle catapulte, per
difendere le città o semplicemente i castelli dei reali. Un esempio su tutti è il castello
di Coucy, in Francia, che con un fossato profondo 20 metri e le doppie porte era
praticamente inespugnabile. Il suo torrione, che era usanza costruire affinché fungesse
da ultimo rifugio per il proprietario in caso di attacco, raggiunge i 55 metri ed è tuttora
il più alto d'Europa.
Tra il XV e il XVII secolo, si cominciò ad ambire a combinare con la tecnicità
dell'architettura e la scienza dell'ingegneria anche i “capricci” puramente estetici
dell'arte. A questo periodo appartengono, ad esempio, la cupola di Santa Maria del
Fiore, a Firenze, progettata dall'architetto Filippo Brunelleschi, nonché molti ponti
di grande rilievo storico. Le tecniche di fondazione erano, tuttavia, ancora ben lontane
dalla perfezione: basti pensare che il fissaggio dei piloni per il Ponte di Rialto di
Venezia, completato nel 1591 sotto le direttive dell'architetto Antonio da Ponte, pose
particolari problemi a causa del terreno paludoso e instabile. Secondo l'architetto
Vincenzo Scamozzi, il ponte sarebbe addirittura potuto crollare da un momento
all'altro. Oggi il ponte è ancora in piedi, ma l'usura sta pian piano provocando piccoli
crolli parziali (l'ultimo, di una colonna, nel 2011). La scarsità di conoscenze relative
alle tecniche di fondazione creò problemi anche a Parigi, quando vennero costruiti
i cassoni per le fondazioni del Pont Neuf, il ponte più antico della Ville Lumière (risale
al Seicento), nonché il primo ad attraversare la Senna in tutta la sua larghezza. Agli
ingegneri che si occuparono dei cassoni fu chiesto di realizzare dei modelli in legno
ma, nonostante questa precauzione, la spinta della corrente del fiume e l'assenza
di piloni resero da subito il ponte instabile e le fondazioni dovettero essere riparate
ancora prima di essere completate. Un c aso di eccellenza fu, invece, il Pont Royal,
costruito tra il 1685 e il 1689: si tratta del primo ponte a essere stato costruito con
fondazioni a pozzi. I cassoni erano aperti e a tenuta stagna e la parte superiore venne
lasciata sopra la superficie dell'acqua. Al loro interno furono eretti i piloni, a loro volta
circondati da una serie di palafitte. Il ponte rimase in buone condizioni e l'architetto
che ne progettò le fondamenta, il religioso François Romain, acquisì una grande
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fama nell'ambiente degli ingegneri dell'epoca.
Nello stesso periodo, furono completati i lavori di un'altra grande opera francese: il
Canal du Midi, fortemente voluto da Luigi XIV per favorire e velocizzare gli scambi
commerciali senza dover passare dallo stretto di Gibilterra. Il canale, lungo 240
chilometri, unisce l'oceano Atlantico e il mar Mediterraneo. Un progetto tanto
complesso da essere passato per tante mani (era considerato infattibile), prima di
arrivare sotto gli occhi dell'ingegnere Jean-Paul Riquet, che perfezionò il progetto
e concluse l'opera con successo. Il Canal du Midi è oggi composto da più di cento
chiuse, lunghe quasi 30 metri e larghe 5,8, e da innumerevoli dighe.
Nel XVIII secolo, le conoscenze e le tecniche di fondazione vanno via via
perfezionandosi. Per la prima volta, un ingegnere di nome Hubert Gautier, nel suo
Traité des ponts (1716), fa il punto sulla situazione dell'ingegneria meccanica applicata
alla costruzione dei ponti. Ci narra una storia delle tecniche utilizzate in passato e
nella sua epoca, descrive i materiali di cui sono fatti; dedica un intero capitolo alle
fondamenta, ponendo alcuni interrogativi relativi alle proporzioni dei piloni e degli
archi e raccontando le sue esperienze personali sul campo. Inoltre, afferma che
esistono tanti tipi di fondazioni quanti sono i terreni e le tipologie di struttura che si
vogliono costruire, e incalza coloro che progettano tali costruzioni ad avere prudenza,
recandosi in sito per osservarlo con attenzione, e a collaborare al meglio con coloro
che, invece, sono incaricati di costruire effettivamente la struttura. Aggiunge, infine,
che “colui che crea il progetto, deve farlo seguendo un ordine ben preciso, come
se dovesse costruire la struttura con le sue stesse mani; per i progetti dei ponti, che
sono una delle materie più difficili, si deve essere particolarmente cauti. Tutto
dev'essere chiaro, per poter giudicare con obiettività; non ci dev'essere niente di
eccessivo o di straordinario. È necessario chiarire quali sono le difficoltà, soprattutto
quelle che riguardano le fondazioni”. Con dettaglio e dovizia di particolari giunge
quindi a noi una prima opera scritta che ha lo scopo di insegnare a gestire le opere
di fondazione.
È tuttavia a un italiano che si deve un'importante svolta nel campo delle fondazioni
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del Settecento. Fino ad allora si erano usati esclusivamente
i cofferdam o campane: Jean-Baptiste de Voglie sperimenta
invece per la prima volta i cassoni per costruire le fondamenta
del ponte di Saumur, in Francia (nel 1753). Questo sistema
consente di scavare e preparare le fondazioni subacquee.
Il cassone viene calato nel corso d'acqua e l'aria viene
pompata fino a una pressione superiore al peso dell'acqua
sovrastante. L'aria pompata fa defluire l'acqua e il lavoro
può cominciare: gli operai devono poi uscire come fanno i
sub, ossia previa lenta decompressione. Sebbene si tratti
di un procedimento complesso, è efficace da secoli. Ad
esempio, per costruire il ponte di Westminster a Londra,
erano stati fatti degli scavi sul fondale del fiume per affondarvi
un cassone, che fu poi svuotato per erigere al suo interno
un pilone in pietra.
Le fondazioni non erano comunque molto profonde e durature.
Per garantire una maggiore solidità delle fondazioni nella
fase di inserimento del cassone, l'ingegner De Voglie decise che, a Saumur, avrebbe
fatto tagliare le palafitte direttamente sott'acqua utilizzando una particolare sega
subacquea. Ciò permise di raggiungere anche una maggiore profondità, che sarebbe
stata superata soltanto nel 1811, quando l'ingegnere francese Claude Deschamps
utilizzò lo stesso procedimento per inserire i cassoni a quattro metri sotto terra.
Nel XIX secolo, l'uso dei cassoni non soltanto divenne corrente per le fondazioni
subacquee, ma fu sviluppata e migliorata la loro composizione con l'avanzare della
tecnologia. Infatti, un altro ingegnere francese, Jacques Triger, affondò per la prima
volta cassoni ad aria compressa (anche detti cassoni pneumatici) nei fondali subacquei,
nel 1839. Questa speciale tipologia di cassone permette di raggiungere profondità
superiori rispetto al più tradizionale cofferdam. Gli operai entrano nel cassone
utilizzando una camera di pressione e di decompressione e scavano il terreno
sottostante in zone sempre più ristrette. Quando gli operai tornano in superficie,
l'eliminazione della pressione spinge il cassone verso il basso. Una volta reinserita
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la pressione, gli scavi possono continuare, e così via. Era la prima volta che si
utilizzava il cemento per costruire i cassoni.
Nel frattempo, un ingegnere americano di nome James Finley brevettava un modello
di ponte che sarebbe stato “ricopiato” in tutti gli Stati Uniti e nel mondo. Si trattava
infatti dell'inventore del ponte sospeso: questo tipo di ponte può supportare carichi
anche molto pesanti, ferrovie comprese. L'area di attraversamento è sostenuta grazie
a un sistema di cavi fatti di materiali rigidi, sorretti a loro volta o da strutture costruite
sui piloni o da cavi posti alle estremità. Finley fece costruire il primo ponte di questo
tipo, il Jacob's Creek Bridge, in Pennsylvania, nel 1801 (ma fu purtroppo abbattuto
trent'anni dopo). Il sogno di Finley era di realizzare una costruzione che non richiedesse
spese ingenti per i materiali o per il suo mantenimento, e che fosse abbastanza facile
da costruire da poter rappresentare un modello per altri ponti, per altri progetti.
Ci riuscì: i cavi erano costruiti in ferro fucinato, materiale poco costoso e resistente,
e riuscivano a svolgere una doppia funzione. Da una parte, rendevano l'impalcato,
ovvero il piano stradale del ponte, particolarmente flessibile e quindi sufficientemente
solido da supportare carichi pesanti e, dall'altra, abbastanza rigido da non flettersi
neanche con i venti forti.
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Nel 1869, fu costruito un altro ponte sospeso, decisamente più celebre, progettato
da un tedesco trasferitosi negli Stati Uniti, che fece fortuna proprio con la costruzione
di ponti sospesi. Si trattava di John Roebling, l'autore del ponte di Brooklyn che,
a New York, collega Manhattan e il quartiere di Brooklyn. Sfortunatamente, morì
poco dopo l'inizio dei lavori, così il progetto fu preso in mano dal figlio Washington
Roebling.
La prima cosa
da fare era
costruire le
calotte a cui
assicurare i cavi,
c
sarebbero
dovute essere
alte 84 metri.
Per realizzarle
era necessario
che
fondazioni
f o s s e r o
h
e
le
particolarmente profonde. Venne costruito, quindi, un cassone in legno e in acciaio
per ogni calotta. La tecnica utilizzata era, ancora una volta, quella dei cassoni ad
aria compressa, che permetteva di scavare e, pian piano, affondare il cassone nel
fondale. All'epoca non si conoscevano gli effetti che gli sbalzi di pressione potevano
avere sul corpo, così molti operai che lavoravano dentro i cassoni (e lo stesso
Washington Roebling che andava a visitare il cantiere di tanto in tanto) soffrirono di
disturbi fisici importanti. Ma, per il bene dell'opera, i lavori continuarono. Quando
Washington non ebbe più forze per proseguire, fu una donna a completare il progetto:
sua moglie Emily. Si costruirono delle calotte in granito, con uno stile dal sapore
gotico che coniugava funzionalità ed estetica. Infine, fu la volta dei cavi: ne furono
realizzati quattro, in zinco, lunghi più di cinquemila metri; le estremità vennero fissate
agli ancoraggi contenuti nelle calotte. La base era invece costituita da travi d'acciaio
sostenute da tiranti. Il ponte venne completato nel 1883 e per molto tempo rimase
il ponte sospeso più lungo del mondo, con un'estensione di quasi due chilometri.
Il ponte di Brooklyn rappresentò una vera e propria punta di diamante nel settore
delle fondazioni per ponti: i cassoni ad aria compressa erano stati utilizzati per
la prima volta per un'opera così grande e in materiali così resistenti e moderni
per l'epoca.
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John Roebling
(Muhlhausen, 12 giugno 1806 - New York, 22 luglio 1869)
Ingegnere prussiano naturalizzato statunitense, si stabilisce negli Stati Uniti nel 1831 e
inizia a lavorare come ingegnere statale. Si occupa della gestione amministrativa di strade
e canali e, spinto da questa esperienza, decide nel 1841 di aprire una piccola fabbrica
per la produzione di cavi intrecciati in acciaio. Nel 1844 inizia la sua attività di ingegneria
e diviene famoso per la progettazione di ponti sospesi ed in particolare per il ponte di
Brooklyn.
La maggior meraviglia del ponte di Brooklyn non sono le sue dimensioni, la bellezza, la
funzionalità o le tecnologie utilizzate bensì il fatto che è stato costruito a mano. Roebling
utilizzò delle tecniche innovative come il metodo del cassone pneumatico per le
fondazioni dei due piloni e un sistema di ancoraggi con cavi metallici. I cassoni erano
grandi scatole di legno che servivano da base per i piloni del ponte, gli operai entravano
all'interno delle casse e queste venivano riempite di aria
compressa. All'interno di questag camera di
lavoro gli operai scavavano il
fango dal letto del
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fiume fino a raggiungere la solida roccia. Infine a completamento delle fondazioni dei
pilastri i cassoni venivano riempiti di calcestruzzo. Nonostante la funzionalità tecnica
l'utilizzo dei cassoni pneumatici può provocare danni alla salute tanto che suo figlio
Washington, che diresse i lavori dopo la morte di John, fu parzialmente paralizzato a
causa della malattia da decompressione causata dall'aria compressa.
"All'interno del cassone tutto aveva un aspetto strano, irreale. C'era una sensazione di
confusione nella testa, come lo scorrere di molte acque. In un primo momento i battiti
erano accelerati poi, a volte, le pulsazioni scendevano al di sotto della normale frequenza.
La voce era debole, innaturale, parlare richiedeva un grande sforzo. Le luci fiammeggianti,
le ombre profonde, il rumore confuso di martelli, trapani e catene, le forme seminude che
sembravano svolazzare di qua e di la, in un indole poetica, realizzai il senso dell'Inferno
di Dante. Una cosa per me era evidente - il tempo passava in fretta nel cassone (E.F.
Farrington, meccanico del ponte di Brooklyn) ".
Con lo sviluppo delle macchine da perforazione anche le tecniche per le fondazioni di
grandi opere in acqua si sono fortemente evolute verso l'utilizzo dei pali trivellati. La
procedura più utilizzata per lo scavo dei pali è con asta (kelly) e rivestimento metallico
permanente utilizzando perforatrici posizionate su idonei pontoni galleggiati o su zampe
affondate nel fondale, in funzione del battente d'acqua.
Il Ponte Vasco da Gama sul fiume Tago (Lisbona - Portogallo) costituisce uno dei più
importanti progetti infrastrutturali in acqua realizzati in Europa. Il ponte, che si estende
per ca.18 km, si sviluppa su viadotti per circa un terzo dell'intero sviluppo completando
il sistema viario che circonda la città di Lisbona e costituisce un nodo importante per
l'attraversamento del Portogallo e della Spagna nella direttrice Nord-Sud. Le fondazioni
adottate per i viadotti sono state di due tipi: pali trivellati di grande diametro e pali
battuti in acciaio, con diametri variabili da 800 a 2200 mm fino ad una profondità di 79
m eseguiti da pontoni appositamente studiati per poter operare nelle diverse fasi produttive
e con variazioni di marea e in totale sicurezza.
Il ponte Vasco da Gama in numeri:
148 Pali Trivellati Ø 2200 mm
124 Pali Trivellati Ø 2000 mm
3
Prove di carico su pali in acqua
16400 Palancole in acciaio
80000 Dragaggi
110
3450
11300
6700
5200
Pali infissi
Deck Surface
Underwater laying of geotextiles
Posa subacquea calcestruzzo
Costruzione tubi in acciaio
Rif.Bibliografici:
DESIGN AND DESIGNERS by Michel Virlogeux
www.brooklynbridgeaworldwonder.com
Vasco da Gama bridge by Trevi Spa
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Non tutti sanno che nello stesso periodo acquisiva fama e talento per le sue costruzioni
metalliche un ingegnere francese ancora sconosciuto. A soli ventisei anni aveva
preso in mano la costruzione del ponte di ferro di Bordeaux ed era poi diventato il
proprietario di officine che fabbricavano praticamente qualsiasi tipo di oggetto in
acciaio. La sua fama sarebbe però esplosa soltanto nel 1889, in occasione
dell'Esposizione Universale di Parigi. Era Gustave Eiffel, considerato il padre delle
costruzioni metalliche e autore della celeberrima Tour Eiffel, vero e proprio emblema
della Ville Lumière.
La costruzione di quell'opera,
che è tuttora l'edificio più alto di
Parigi, richiese soltanto due anni.
Eppure non fu certo facile: basta
guardare i numeri: 18,038 parti
metalliche, 300 operai, 50
ingegneri, 2,500,000 ribattini in
ferro.
Le
fondazioni
costituiscono il “pezzo forte”
della torre e richiesero soltanto
cinque mesi per essere
costruite. Eiffel verificò tramite
delle trivellazioni preparatorie se
la natura del sottosuolo sarebbe
stata in grado di supportare
tranquillamente le quattro
fondamenta previste e il peso
della struttura. Il terreno dello
Champ de Mars era composto da uno strato di argilla ricoperto da sabbia e ghiaia
di vari spessori, che avrebbe potuto facilmente sorreggere le fondamenta. I cassoni
ad aria compressa furono costruiti in acciaio e riempiti di calcestruzzo e, nonostante
il peso considerevole previsto per la struttura, furono affondati soltanto fino a 15
metri nel sottosuolo. Terminate le fondazioni, i pezzi furono assemblati utilizzando
delle impalcature in legno e l'opera fu completata ventuno mesi dopo: praticamente
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in tempo record, considerati i mezzi limitati
dell'epoca. Alta 304 metri (senza antenna),
criticata dagli artisti di allora e da alcuni
parigini oggi, ma inevitabilmente entrata a
far parte dell'immaginario di tutto il mondo
quanto ad architettura di stampo francese,
la Tour Eiffel mantenne il primato di edificio
più alto del mondo fino al 1930, anno della
costruzione del Empire State Building a New
York (381 metri). Il mantenimento
rappresenta la nota dolente della struttura:
ogni singolo pezzo dev'essere controllato
senza tregua, e il ferro, che tende a usurarsi,
richiede a tutt'oggi riverniciature per
trecentosessantacinque giorni l'anno.
La tecnica dei cassoni pneumatici era quindi ormai diffusa e consolidata.
Nel 1893, quattro anni dopo il completamento della Tour Eiffel, fu deciso di utilizzarla,
per la prima volta, per un palazzo per privati. Si trattava dell'Empire Building, a New
York. Fu progettato da due architetti, Kimball e Thompson, e furono tra i primi a
Manhattan a utilizzare la tecnica di costruzione con lo scheletro in acciaio per
raggiungere altezze più elevate. Ancora oggi, l'Empire Building è considerato uno
dei più bei palazzi di New York per il suo stile neoclassico curato nel dettaglio. Il
critico d'arte ed esperto di architettura Montgomery Schuyler definì le arcate del
basamento “uno dei più raffinati esempi di architettura delle nostre strade”. Con
l’affinarsi delle tecniche di fondazione e di costruzione, diventa sempre più facile
sfruttare la tecnica non solo per la funzionalità di un edificio o di un ponte, ma anche
per trasformare gli orizzonti cittadini, rendere le strutture sicure e solide ma anche
piacevoli all'occhio, alla ricerca dell'accuratezza interiore ma anche della ricercatezza
esteriore.
A New York, le fondazioni pneumatiche continuarono a essere ampiamente usate
anche durante il XX secolo. Oltre all'Empire Building, le fondazioni di molti edifici
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furono costruite seguendo questo metodo: l'edificio della Mutual Life (1900), l'Hudson
Terminal (1906), l'edificio della Federal Reserve (1924) e il Verizon Building (1926).
Tuttavia, fu spesso il materiale (roccioso) del sottosuolo a creare difficoltà. Piano
piano si cominciò a preferire le palafitte in cemento per la costruzione di edifici “di
uso comune”, che permettevano di penetrare una gamma più estesa di materiali e,
cosa da non sottovalutare, penetrare il terreno a estremità più elevate, anche fino a
30 metri. Questa tecnica consiste nell'affondare i tubi d'acciaio nel terreno, svuotarli
e riempirli di cemento. Il famoso edificio che ospita la Bank of Manhattan al 40 di
Wall Street è stato costruito su fondamenta analoghe nel 1920 ed è anche stato uno
dei grattacieli più alti del mondo prima di vedersi soffiare il primato dal Chrysler
Building, sempre a New York.
Per quanto riguarda le fondazioni di ponti, anche qui si misero da parte
momentaneamente le fondazioni pneumatiche, alla ricerca di tecniche ancora più
innovative. Venne così sviluppata la tecnica dell'isola di sabbia: per affondare il
cassone, si usa come barriera un cofferdam pieno di sabbia e il sistema di dragaggio
allo scoperto. Questa tecnica venne utilizzata, nel 1935, per affondare cassoni di
51,8 metri a un'analoga profondità per l'Huey P. Long Bridge, che si trova in New
Orleans e attraversa il Mississippi per tutta la sua larghezza. Il terreno argilloso del
sito non avrebbe permesso di costruire fondamenta solide con le tecniche tradizionali.
Ci raccontano Tonja Koob Marking e Jennifer Snape in Huey P. Long Bridge, dedicato
alla storia di questa grande struttura: “quando fu inizialmente concepito un ponte
ferroviario che attraversasse il Mississippi, nel 1892, il terreno cedevole lungo il fiume
e l'ambiente difficile che lo circonda facevano sì che quella costruzione fosse
praticamente impossibile da realizzare con i metodi esistenti. Il progetto definitivo,
sviluppato trent'anni dopo dal progettista di ponti Ralph Modjeski, spinse la
progettazione e la costruzione oltre i limiti dell'ingegneria civile, per trasformare quel
ponte in realtà. I costruttori di ponti sfruttano ancora oggi alcune delle idee di Modjeski,
quasi ottant'anni dopo”.
Nel 2011, questo ponte ha ricevuto addirittura il National Historic Civil Engineering
Landmark dall'American Society of Civil Engineers, un premio per strutture, statunitensi
e non, di grande valore storico nell'ambito dell'ingegneria civile. Tale riconoscimento
è stato attribuito anche al canale di Panama e alla Tour Eiffel.
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La tecnica dell'isola di sabbia è stata sfruttata anche per un altro notevole ponte
americano, il Bay Bridge di San Francisco, completato nel 1935. Questo ponte
sospeso, lungo otto chilometri e mezzo, collega la città di Oakland con San Francisco.
Analogamente al Huey P. Long Bridge, in fase di progettazione l'impresa parve
pressoché impossibile. In certi punti l'acqua arrivava anche fino a 30 metri di profondità;
il perimetro da coprire era particolarmente lungo; il terreno del fondale della Baia di
San Francisco non si prestava bene ai metodi di fondazione tradizionali. Per questi
motivi, il Bay Bridge rappresenta un'innovazione sotto più punti di vista. Innanzitutto,
per costruire le sue fondazioni fu realizzato un cassone di dimensioni mai viste prima
(28 metri per 60). Per l'ancoraggio centrale, furono impiegate cinquantacinque palafitte
d'acciaio piene d'aria compressa da inserire nel cassone e affondare nel fondale
della Baia. Per gli scavi, venne utilizzato un escavatore a benna mordente, ovvero
un particolare tipo di escavatore dalla forma simile a una conchiglia, che veniva calato
attraverso le palafitte per scavare il terreno fangoso della Baia.
Il processo consisteva dunque nel calare una palafitta fino alla profondità desiderata,
chiuderla e riempirla d'aria compressa, per poi fare lo stesso con la palafitta successiva.
Ciò permise di affondare il cassone a 67 metri sotto il livello del mare. Il Bay Bridge
ottenne così un altro primato, quello delle fondazioni più profonde, almeno fino agli
anni Quaranta. Tutte le calotte (quattro in totale) furono costruite spingendo dei piloni
in acciaio nel fondale a formare un cofferdam a tenuta stagna, per poi pompare via
l'acqua e posizionare le fondamenta. La struttura in acciaio del ponte fu costruita
con l'aiuto di gru posizionate sulle calotte. E per finire, un altro primato: la costruzione
del Bay Bridge richiese anche la realizzazione di un tunnel attraverso la Yerba Buena
Island per collegare le campate a est e a ovest del ponte.
Questo tunnel è nel Guinness dei Primati come tunnel più grande del mondo, largo
26 metri e alto 17.
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È dunque evidente che la necessità di creare collegamenti per scambi commerciali
spinse a realizzare grandi strutture. Un altro esempio è rappresentato dal canale di
Panama, che unisce l'Oceano Atlantico al Pacifico e attraversa l'istmo di Panama,
in America Centrale. Il canale è lungo quasi 80 chilometri: un'opera monumentale,
che venne realizzata sotto la direzione dell'ingegner John F. Stevens e poi del
colonnello George Washington Goethals, a partire dal 1907.
Gli scavi rappresentarono la parte più problematica della costruzione del canale: si
dovettero scavare circa 200 milioni di metri cubi di terra e roccia e costruire chiuse
alte più di 20 metri. Nel complesso, dalla progettazione all'inaugurazione, la realizzazione
del canale richiese più di trent'anni e le difficoltà incontrate durante gli scavi spinsero
ad approfondire gli studi di geotecnica e di composizione dei terreni.
Una delle differenze fondamentali tra le fondazioni del passato e quelle di oggi è
proprio una diversa conoscenza del comportamento del suolo e della varietà di
risposte che esso può dare a seconda della posizione geografica. Un fondamentale
contributo nell'arricchimento delle conoscenze in questo ambito è stato portato da
un uomo nato a Praga a fine Ottocento, che lavorò al MIT e a Harvard e scrisse un
volume ancora oggi considerato un “must” dai professionisti del settore, intitolato
Soil mechanics in engineering practice. Si tratta dell'ingegner Karl Terzaghi,
comunemente definito come il padre della geotecnica. Ma facciamo un passo indietro:
che cos'è, innanzitutto, la geotecnica? Si tratta, per definizione, della disciplina
dell'ingegneria civile che studia su basi scientifico-matematiche il comportamento
dei terreni e delle rocce interessati da opere di ingegneria. L'abbiamo visto viaggiando
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attraverso la storia di molte grandi opere: ponti, cattedrali, edifici che avrebbero
potuto esistere ancora oggi sono crollati o sono stati irreparabilmente danneggiati
a causa di fondamenta costruite senza riflettere sulla tipologia di terreno su cui si
andava a lavorare, compromettendo intere strutture per non averne curato le “basi”.
Diventa così essenziale avere una conoscenza approfondita dei terreni per poterne
prevedere le reazioni, anticiparne il comportamento, costruire basi solide per strutture
più durature. Karl Terzaghi ha avuto un ruolo determinante nel sottolineare l'importanza
di questi studi, esaminando per la prima volta la natura dei terreni ed elaborando i
principi della meccanica del suolo, nel 1948. A lui si deve il principio delle tensioni
efficaci, che si riferisce all'interazione, nei terreni saturi, tra le particelle solide e il
contenuto d'acqua presente nei pori. La tensione efficace è “lo sforzo che agisce
sulle particelle del terreno”. Terzaghi era consapevole della scarsità di mezzi che
l'epoca a lui contemporanea imponeva, ciononostante era convinto che una conoscenza
approfondita del comportamento del suolo avrebbe potuto costituire una vera e
propria svolta nell'ambito dell'ingegneria civile, ancor più dei mezzi di alta tecnologia
in sé e per sé. Scoprendo e analizzando i meccanismi del suolo, soprattutto sul lungo
periodo, Terzaghi sviluppò metodi per tenere questi meccanismi sotto controllo e
garantire solidità e sicurezza alle fondazioni in ogni tipologia di terreno. Scrive nella
prefazione del suo celebre Soil mechanics in engineering practice: “nella stragrande
maggioranza dei lavori, non c'è bisogno che di previsioni approssimative, e se tali
previsioni non possono essere fatte con mezzi semplici, non possono essere fatte
altrimenti. Se non si possono fare previsioni approssimative, il comportamento del
suolo deve essere osservato in fase di costruzione, e il progetto potrebbe necessitare
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di modifiche sulla base delle constatazioni fatte. Tutto ciò non può essere ignorato
senza sfidare lo scopo stesso della meccanica del terreno”.
Mezzi semplici, conoscenza e consapevolezza: se poi si hanno anche a disposizione
tecnologie innovative, tanto meglio. Ma alla base di una struttura solida e duratura
ci sono anche studio e metodo, senza tralasciare i dettagli.
Forse è anche grazie a questa nuova consapevolezza se negli ultimi cinquant'anni
geotecnica, edilizia, fondazioni e architettura hanno conosciuto uno sviluppo che,
è proprio il caso di dirlo, è sotto gli occhi di tutti. Pensiamo al fenomeno dei grattacieli.
La corsa verso l'edificio più alto richiede anche fondazioni più grandi, più solide, più
durature. In Skyscrapers and the men who build them, William Starrett definisce la
costruzione di grattacieli come una “lotta contro gli elementi”, anche perché “le
fondazioni sono progettate nel terreno lungo i grattacieli svettanti già esistenti. Acqua,
sabbie mobili, roccia e fanghi argillosi ci sbarrano la strada verso le rocce di
fondazione”.
A New York, nel 1931, fu completato l'Empire State Building, che tutti conoscono
per essere stato il grattacielo più alto del mondo fino agli anni Settanta, quando
furono costruite le Torri Gemelle del World Trade Center. Alto 381 metri (senza
antenna), fu costruito dagli architetti Shreve, Lamb & Harmon, che fecero realizzare
fondazioni in cemento profonde quasi 17 metri, con centinaia di operai che scavarono
per giorni attraverso la roccia, per garantire un supporto solido a quell'enorme
struttura in acciaio.
La voglia di toccare il cielo di New York non cessa ed ecco che viene eretto il World
Trade Center, un complesso di sette edifici tra cui le Torri Gemelle, tristemente
famose per essere state distrutte dall'attentato dell'11 settembre 2001. Erano alte
più di 410 metri e le fondazioni che vennero costruite da Minoru Yamasaki & Associates
e da Emery Roth & Sons erano stupefacenti. Affondavano nel basamento roccioso
a oltre 21 metri e, nel sito delle torri, sono stati rimossi più di 914 m2 di terra e roccia
per far posto a fondamenta lunghe 298,7 metri e larghe 155,4. Venne utilizzato il
metodo della trincea scavata con fanghi bentonitici, che serve a creare delle barriere
sotterranee per evitare di compromettere le fondamenta degli edifici e delle strade
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nelle vicinanze. Le fondamenta del cosiddetto “WTC” sono chiamate, negli Stati
Uniti, bathtub, “vasca da bagno”, perché la gigantesca struttura serve a proteggere
la zona di Lower Manhattan da eventuali fughe d'acqua provenienti dal fiume Hudson.
Una struttura piuttosto fragile ma che ha resistito al crollo delle torri, pur presentando
problemi in fase di ricostruzione a Ground Zero. Trevi Icos, società americana del
Gruppo Trevi, è intervenuta proprio per il consolidamento del terreno di quest'area
ricca di significato nell'immaginario americano e del mondo intero.
Ad oggi, è sempre più l'Oriente a vantare grandi strutture che colpiscono l'occhio
anche del più “profano” osservatore. Il grattacielo Burj Khalifa di Dubai, negli Emirati
Arabi, è stato ufficialmente aperto al pubblico nel 2010 ed è attualmente l'edificio
più alto del mondo (828 metri con antenna), ma non è da meno la Mecca Royal Hotel
Clock Tower a La Mecca, in Arabia Saudita, alta 601 metri con l'antenna. In entrambi
i casi sono stati necessari studi in sito e campionamenti del sottosuolo prima di poter
costruire le fondazioni e la struttura portante. Per il terzo edificio più alto del mondo,
il Taipei 101 (508 metri) a Taiwan, sono state realizzate analoghe ricerche. In questo
caso, si è optato per fondazioni su pali a una profondità di 30 metri, con prove di
carico e installazioni di prova dei pezzi.
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Ma le straordinarie evoluzioni delle fondazioni non sono solo quelle visibili agli occhi,
ma soprattutto quelle che non si vedono e si “nascondono” nel sottosuolo, frutto
dell’impegno, dell'applicazione e della cura di tante persone che oggi lavorano per
costruire fondamenta sempre più solide e sofisticate. L'abbiamo ricordato: nel 2012,
è stato il Gruppo Trevi ad aggiudicarsi il record delle fondazioni più profonde, grazie
alla messa a punto da parte di Soilmec dell'Idrofresa “Tiger”, che permette di realizzare
scavi fino a 250 metri di profondità, un limite mai raggiunto prima. Le sfide della
geotecnica potranno quindi essere affrontate e vinte, specialmente nel settore delle
infrastrutture idrauliche. Come dire: stiamo raggiungendo nuove vette, anche quelle
più impensabili, anche quelle che non si sviluppano verso il cielo, ma verso ciò che
si trova proprio sotto i nostri piedi e sostiene le nostre case, i nostri uffici, le nostre
grandi strutture.
Cosa ci riserva il futuro nel campo delle fondazioni? Certo è che la storia stessa, che
abbiamo visto, ci insegna a far tesoro delle conoscenze e delle tecniche del passato,
ma anche a non “adagiarsi” mai e a cercare sempre l'evoluzione e il progresso,
perché grandi risultati possono essere ottenuti tramite la collaborazione, la ricerca,
la messa a punto di tecniche sempre nuove. Ormai lo sappiamo: solo sulle basi più
solide si costruisce qualcosa di veramente grande e duraturo.
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Grattacieli
Sin dal medioevo la tendenza dell'architettura sia essa residenziale o militare, era sviluppare
verso l'alto, costruire la torre più alta, ma l'altezza di questi edifici era fortemente limitata
dalle dimensioni massicce e pesanti delle fondazioni. Nel XIX secolo grazie alla capacità
di produrre acciaio industrialmente, all'invenzione di ascensori sicuri ed efficienti unitamente
allo sviluppo delle tecniche di misurazione ed analisi di carichi strutturali è stato possibile
progettare strutture alte fino al cielo: i grattacieli.
La progettazione di un grattacielo implica la creazione di una
struttura che sia in grado di sostenere il carico verticale e
che ne garantisca resistenza e flessibilità tali da resistere
ad un forte vento e non ondeggiare in maniera eccessiva
tale da causare agli occupanti malessere fisico o emotivo.
Il processo edilizio può essere suddiviso in tre stadi: Una
sotto-costruzione, la sovrastruttura e le coperture esterne.
Le fondazioni, solitamente costituite da pali o cassoni,
penetrano attraverso gli strati superiori del terreno e si
estendono basso fino a substrato roccioso. Delle travi metalliche vengono appoggiate
allo strato di roccia per garantire sostegno e ancoraggio all'edificio. Una volta che
l'armatura in acciaio è stata posizionata si procede a coprirne l'intera struttura con
calcestruzzo. La sovrastruttura di un grattacielo è come un vero e proprio scheletro in
acciaio. Ogni piano è composto da colonne verticali metalliche collegate a traverse
orizzontali creando una struttura solida e flessibile. Negli edifici di maggiori dimensioni
vengono poste anche delle travi diagonali per dare resistenza supplementare allo scheletro.
Le coperture esterne invece non sono strutturali ma semplicemente ne racchiudono la
struttura. Essi possono esser realizzati con pannelli di differenti materiali come vetro,
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metallo o lastre di materiali rocciosi.
All'inizio del XX secolo cominciò una vera e propria gara per chi costruisse l'edificio più
alto del mondo, in tutti gli Stati Uniti le multinazionali costruirono grattacieli per il loro
valore promozionale in grado di dare notorietà e aumentare il prestigio. Dopo la prima
guerra mondiale si è verificato negli Stati Uniti un vero boom del mercato immobiliare,
con un particolare impulso alla costruzione di nuovi grattacieli nelle città di New York e
Chicago. In particolar modo in un paio d'anni, tra il 1930 e il 1931, vi fu un vero e proprio
“spareggio” con colpi di scena e finale a sorpresa. La gravità divenne obsoleta.
Come in un moto di orgoglio al crollo
della borsa di Wall Street del 1929
la Banca di Manhattan completò in
tempistiche eccezionali la costruzione
del grattacielo più alto mai costruito
a New York. Sotto la supervisione
dell'architetto H. Craig Severance
la costruzione del Trump Building
(conosciuto anche con il suo indirizzo:
40° Wall Street Building) cominciò
nel maggio 1929 e venne
ufficialmente inaugurato il 26 maggio 1930, solo 12 mesi dopo. L'edificio architettonicamente
può essere considerato una moderna interpretazione di gotico francese. Dal centro del
suo gigantesco basamento parte una torre centrale che culmina in un calotta metallica
di colore verde fino ad un altezza complessiva di 283 m suddivisi in 71 piani.
Sfortunatamente per Severance nello stesso periodo venne commissionato al suo exsocio William Van Alen il design dell'edificio Chrysler. Walter Percy Chrysler (18751940) nacque a Wamego, Kansas, e presto comincio a lavorare macchinista e meccanico.
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Passò alle case automobilistiche, sua vera passione e dopo una rapida carriera in Buick
e General Motor gli venne affidata la riorganizzazione della società automobilistica MaxwellChambers e dopo cinque anni, nel 1925, l'assorbì nella neonata Chrysler Corporation.
Per Walter P. Chrysler la costruzione dell'edificio più alto del mondo rappresentava un
vero status simbolo. I lavori di fondazione cominciarono l'11 novembre 1928, e vennero
rimossi in loco oltre 75000 tonnellate di rocce e terreni, dopo l'escavazione venne versato
calcestruzzo fino alla profondità di 21 m al di sotto di Lexington Avenue. La costruzione
della sovrastruttura in acciaio iniziò il marzo e a settembre venne posata l'ultima trave
strutturale con una incredibile produzione settimanale di quattro piani. L'esterno è
considerato un tour-de-force di Art Deco e l'abbondanza di utilizzo in ogni sezione di
acciao Nirosta ne fa uno dei grattacieli più interessanti in assoluto. Il grattacielo della 40°
Wall Street si sviluppava per settanta piani per un altezza di 282 m mentre il Chrysler
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Building era 77 piani per un altezza totale di 262 m. Per un attimo sembrò che Severance
avesse vinto ma accadde l'impensabile. Venne segretamente trasportata e montata
all'interno della torre Chrysler una guglia in acciaio lunga 56 m. Solo pochi mesi dopo il
giorno di apertura del Trump Building venne eretta la guglia della Chrysler in cima all'edificio
e in circa 90 minuti la gara dell'anno fu decisa: il Chrysler Building con i suoi 319 m è fu
ufficialmente dichiarato il "più alto edificio del mondo". Il Chrysler rappresenta un
monumento di un'epoca; è il ninnolo d'argento sul braccialetto di Manhattan, ma non
avrebbe tenuto questo titolo per molto tempo: un anno dopo l'Empire State Building fu
eretto. Il progetto dell' Empire State Building fu commissionato al rinomato studio di
architettura di New York di Shreve, Lamb & Harmon. Il sito prescelto per il grattacielo
era originalmente occupato dal Waldorf-Astoria hotel. La demolizione della struttura iniziò
nell'ottobre 1929 e i lavori di costruzione delle fondazioni dell'Empire State building
cominciarono ufficialmente il 17 marzo 1930. Enormi blocchi di cemento sono vennero
posizionati 17 m al di sotto del marciapiede come base per le colonne di fondazione in
acciaio più grandi mai realizzati, ciascuno del peso di oltre dodici tonnellate. Il grattacielo
è un colosso in stile Art Deco, la sua facciata e stata composta con Indiana limestone,
acciaio inox, alluminio, granito e vetro. L'Empire State Building venne inaugurato al
pubblico con grande enfasi il 1 maggio 1931.
Per la prima volta il numero totale di
piani in un grattacielo conterrebbe tre
cifre e con 102 piani e 443 m di altezza
l'Empire State Building divenne per
oltre 40 anni il grattacielo più alto del
mondo, fino alla costruzione del del
World Trade Center Torre Nord alla
fine del 1970.
Rif. Bibliografici:
The American Skyscraper, 1850-1940:
A Celebration of Height by Joseph J. Korom
www.madehow.com/Volume6/Skyscraper
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MT-22 “ Pali Trevisani”
Una delle prime attrezzature cingolate battipalo
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3.
Cap.
Il Gruppo Trevi e Soilmec:
un successo che parte dalle basi
Il Gruppo Trevi è leader nel settore delle fondazioni speciali, sia per quanto riguarda
i servizi offerti sia per i macchinari realizzati dalla divisione meccanica Soilmec S.p.A.
Il Gruppo rientra, inoltre, tra i protagonisti nel settore delle perforazioni petrolifere.
Ma per raccontare bene una grande storia bisogna partire sempre dall'inizio, perché
sono i singoli passi che si compiono a tracciare la via verso il successo. E l'inizio
del cammino del Gruppo inizia nel 1957, quando Davide Trevisani fonda, a Cesena,
l' “Impresa Palificazioni Trevisani Geom. Davide”. Impossibile prevedere come,
nel giro di una manciata di anni, la determinazione, la ricerca incessante dell'eccellenza
e la passione che si mette solo quando si vuole davvero raggiungere un obiettivo
avrebbero portato a straordinari risultati anche a livello mondiale. Si stavano compiendo
quei passi che, uno dopo l'altro, sarebbero diventati i capitoli più illustri
della storia dell'azienda. Ripercorriamo insieme le tappe più salienti
della vita del Gruppo Trevi fino a oggi.
La grande svolta per l'internazionalizzazione dell'azienda
è la commessa per la realizzazione delle fondazioni
dell'Apapa Road, in Nigeria. Si tratta di una grande
arteria in prossimità di Lagos, su cui passano migliaia
di persone ogni giorno poiché collega la città portuale
con il resto del Paese. Un primo incarico internazionale
di grande responsabilità, dunque: la prova che quando si
investe in ciò che si crede e si collabora con impegno e
passione, se ne raccolgono presto i frutti. Quel risultato non può
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che spingere a insistere ancora di più sull'innovazione tecnologica. Davide
e il fratello Gianluigi decidono allora di fondare Soilmec S.p.A., che ha
fatto della costruzione di macchinari e impianti altamente tecnologici per
l'ingegneria del sottosuolo la sua missione.
Gli anni Settanta sono costellati di sfide accettate e vinte. Nel 1971, il
Gruppo Trevi ottiene il contratto per costruire, in Argentina, le fondazioni
dei ponti sul fiume Paraná, lungo quasi cinquemila chilometri e che
attraversa il Brasile, il Paraguay e l'Argentina. La maggior parte del corso
d'acqua è navigabile e viene utilizzato soprattutto per le attività legate
alla pesca. È in quest'occasione che viene fondata la Pilotes Trevi sacims,
che opera da ormai oltre quarant'anni per la costruzione di fondazioni
speciali e di infrastrutture. La missione è di costruire le fondazioni per i
ponti sospesi, stradali e ferroviari, di Zárate-Brazo Largo, che collegano
Zárate e Brazo Largo. Questa struttura è poi diventata un'importante (e
imponente) via di comunicazione tra la provincia a sud di Entre Ríos e
quella a nord di Buenos Aires. Si tratta dei primissimi ponti strallati di
grande luce del mondo, ovvero un particolare di ponte sospeso, in cui
l'impalcato è sorretto da cavi ancorati a piloni. Qui il Gruppo Trevi ottiene
un importante primato: per la prima volta vengono scavati pali da 2,2
metri di diametro in acqua, alla profondità di ben 74 metri. Non è un caso
quindi se, in seguito, gli interventi in Argentina del Gruppo aumenteranno
a dismisura, superando ormai ampiamente i trecento: citiamo, per esempio,
le fondazioni per il ponte Rosario-Victoria (nel 2003), che collega la città
di Rosario (in provincia di Santa Fè) e Victoria (in provincia di Entre Ríos),
per cui sono stati realizzati 630 piloni in acqua lunghi fino a 50 metri; o
la realizzazione di numerose dighe tra cui quella di Los Caracoles (2007),
in provincia di San Juan.
Nel 1976, il Gruppo ottiene il contratto per realizzare le nuove banchine
del porto di Bandar-Abbas, la città portuale più importante dell'Iran
affacciata sullo stretto di Hormuz, che chiude il Golfo Persico.
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Sfortunatamente, i lavori non poterono essere completati a causa della rivoluzione
khomeinista, ma nel 2001 la Port Authority iraniana ha commissionato al gruppo
cesenate l'ampliamento del porto: un dato significativo che sottolinea la capacità di
fidelizzazione dell'azienda. Oggi il nuovo porto di Bandar Abbas, chiamato Shahid
Rajaee Special Economic Zone, copre un'area di 20 km2 e consente di immagazzinare
una grandissima quantità di merci e di effettuare le operazioni di carico e di scarico
con rapidità.
Il 1979 è un anno di grandi innovazioni tecnologiche. Viene realizzato e brevettato
un macchinario sofisticato, il Vibrotrevi, che permette di “piantare” i pali battuti in
sito senza dover asportare il terreno, arrivando a profondità di 25-27 metri, per tubi
il cui diametro può variare dai 335 ai 610 millimetri. Il Gruppo Trevi concepisce, poi,
la tecnologia Trelicon: questo tipo di palo permette di evitare la decompressione
del terreno e l'utilizzo di fanghi bentonitici di perforazione. I pregi? Niente vibrazioni,
pochissime emissioni acustiche, perfetto per le trivellazioni nei centri urbani. Lo
smaltimento del materiale di risulta è facilitato, la varietà dei diametri e delle lunghezze
dei tubi è ampia.
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Una nuova importante commessa getta le basi per una proficua collaborazione con
l'allora concorrente Ing. Giovanni Rodio & C.: la realizzazione della diga di Khao
Laem, in Thailandia. Ci troviamo a poche centinaia di chilometri da Bangkok, sul
fiume Quae Noi, nei pressi del confine con la Birmania. La Thailandia desiderava
sfruttare al meglio le proprie risorse idriche per dipendere il meno possibile
dall'importazione di petrolio: da qui l'idea di costruire una diga con rivestimento in
calcestruzzo, alta 90 metri e lunga 1000, per fornire energia elettrica e acqua per
l'irrigazione a buona parte del Paese. Il Gruppo Trevi si occupa delle perforazioni e
delle iniezioni per le costruzioni delle gallerie di spalla destra, mentre Trevi-Rodio
costruisce il diaframma (un tipo di paratia in calcestruzzo) ed effettua le perforazioni
e le iniezioni per la costruzione della diga stessa. Una collaborazione, questa, che
sfocerà in una vera e propria acquisizione da parte del Gruppo Trevi di Ing. Giovanni
Rodio & C., arricchendo il capitale di know-how del Gruppo. Infatti, la Società
“Ing. Giovanni Rodio & C. Impresa Costruzioni” rappresentava una vera e propria
pietra miliare nel campo dell'ingegneria civile ai suoi albori: fondata nel 1921 e forte
dell'amicizia del fondatore con l'ingegner Karl Terzaghi, metteva per la prima volta
in pratica questa scienza. Inevitabile la sinergia che sarebbe poi scaturita dall'incontro
con il Gruppo Trevi, se si pensa alla natura già internazionale della Società e alla
passione condivisa per l'innovazione tecnologica. Ricordiamo che si deve all'Ing.
Giovanni Rodio & C. il brevetto del “palo lubrificato”, che non viene influenzato dagli
assestamenti del terreno; la realizzazione delle prime miscele tixotropiche e chimiche
per il miglioramento delle caratteristiche del terreno; il brevetto Rodio-Dehottay, per
il congelamento del terreno con anidride carbonica, impiegato nel 1937 per l'Ara
Pacis Augustae a Roma; l'esecuzione di pali di grandi dimensioni, ma anche i piccoli
“micropali tubfix”. Insomma, tutta l'esperienza maturata in passato nel settore è
passata nelle mani del Gruppo Trevi che gestisce questo capitale di competenze con
rinnovata energia.
Ma sono solo gli inizi di una lunga scalata verso successi sempre più soddisfacenti.
Nel 1990, il Gruppo aveva già brevettato il Reinforced Protective Umbrella Trevi
Method, una speciale tecnologia per lo scavo di gallerie in terreni sciolti, con gli
impianti realizzati da Soilmec S.p.A.. Quell'anno, il Giappone, tecnologicamente
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avanzatissimo, importa metodo e attrezzature per l'Hasaki Tunnel & Bridge, un
complesso progetto per la costruzione di ponti e tunnel sull'autostrada Hokuriku
Expressway, nei pressi della città portuale di Niigata.
Due anni dopo, la Trevi Construction Co. Ltd. di Hong Kong, appartenente al Gruppo
Trevi, ottiene due contratti riguardanti la realizzazione della diga di Ertan, sul fiume
Yalong, nella Repubblica Popolare Cinese. Un'occasione speciale per affermare la
propria presenza in Oriente. Da una parte, viene realizzato un diaframma impermeabile
per i cofferdam a monte e a valle. Dall'altra, il terreno roccioso che ospita le fondazioni
della diga viene consolidato, impermeabilizzato e drenato. La centrale elettrica della
diga dispone di sei generatori che possono produrre fino a 3300 MW di energia, che
la rende la centrale più grande e potente della Cina. Il Gruppo si è avvalso di un team
internazionale, con costruttori provenienti da tutti e cinque i continenti che hanno
lavorato per portare a compimento questa mastodontica opera, alta 240 metri e
lunga 774,7, nella top ten delle dighe più alte del mondo. Insomma, una tappa
importante per il Gruppo, che ha segnato diversi record. Nel contempo, più
precisamente nel 1994, al Gruppo Trevi veniva affidato anche un progetto di grande
importanza culturale, e dal sapore, questa volta, tutto italiano: il consolidamento
della Torre di Pisa, edificio di alto valore storico, uno tra i più importanti simboli
dell'Italia all'estero. Ma di questo parleremo più avanti: il delicato intreccio tra
innovazione tecnologica e arte merita un approfondimento a sé.
Ma quello della Torre di Pisa non è l'unico grande restauro a cui il Gruppo Trevi ha
dato il proprio contributo. La partecipazione, nel 1996, alla costruzione della nuova
biblioteca di Alessandria, in Egitto, simboleggia l'importanza attribuita dall'azienda
alla salvaguardia della cultura e dei beni artistici. La storia di questa biblioteca è nota:
costruita attorno al III secolo a.C., sotto il regno di Tolomeo II Filadelfo, conteneva
una grandissima quantità di opere dense di sapere. Un patrimonio dal valore
inestimabile, almeno fino a quando, probabilmente prima del VII secolo d.C., andò
distrutto in un incendio. Nel 1990, il governo egiziano annuncia una collaborazione
con l'UNESCO per riportare la biblioteca ai suoi antichi fasti e riaffermare il suo
grande valore culturale in tutto il mondo. La Bibliotheca Alexandrina risorge, quindi,
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come un'araba fenice dalle sue antiche ceneri, e con un'architettura all'avanguardia.
Nel cuore di Alessandria, grande città che si affaccia sul Mar Mediterraneo, la nuova
e moderna biblioteca ha acquisito circa quattro milioni di libri più alcune preziosissime
collezioni di manoscritti egiziani. L'edificio principale si compone di monolito e granito
grezzo, con incisioni degli alfabeti antichi e moderni di tutte le lingue del mondo,
mentre la struttura in toto è in acciaio e possiede schermi in alluminio che racchiudono
un doppio vetro antiriflesso per proteggere l'interno dalla luce del sole. Nel complesso,
la Bibliotheca Alexandrina occupa 85,000 m2 e al suo interno si trovano gli immensi
scaffali che ospitano le opere, un istituto per la conservazione e il restauro degli
antichi manoscritti (era una delle funzioni dell'antica biblioteca), un'enorme sala di
lettura (duemila postazioni), una biblioteca per l'infanzia, un museo della scienza e
una scuola di informatica. Il Gruppo Trevi partecipa quindi non solo alla realizzazione
di una grande e moderna struttura, ma a un vero e proprio avvenimento culturale di
spicco, volto a riportare in vita e a omaggiare un'antica istituzione, rifondandola con
un'ispirazione fresca e che guarda al futuro. Il desiderio del re Tolomeo II di “raccogliere
tutti i libri del mondo” in quell'unica biblioteca potrebbe realizzarsi proprio nel nostro
presente, grazie alla dimensione internazionale che caratterizza la nuova biblioteca
di Alessandria.
Nel 2003, il Gruppo Trevi collabora con l'UNESCO anche per un altro grande restauro,
ovvero quello dei Buddha di Bamiyan, in Afghanistan. La distruzione delle due
gigantesche statue da parte del regime talebano ha seriamente compromesso la
stabilità del sito. Il Gruppo interviene per restaurare ciò che rimane e preparare l'area
a un'eventuale ricostruzione. Ma ne parleremo più avanti: l'impegno necessario per
garantire la solidità del sito merita di essere descritto in dettaglio.
Nell'ultimo decennio, si sono susseguiti uno dopo l'altro importanti interventi,
soprattutto negli Stati Uniti. Il Gruppo ha partecipato alla costruzione della Central
Artery di Boston, detta anche the Big Dig (“il grande scavo”), un vero e proprio
“megaprogetto” per convertire l'autostrada Interstate 93 (la principale autostrada
della città di Boston) in un lunghissimo tunnel (quasi 6 km) sotto la città. Si è trattato
di una delle infrastrutture più complesse mai state realizzate negli Stati Uniti e si
componeva di due principali progetti: l'autostrada esistente, a sei corsie, viene
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rimpiazzata da un'autostrada sotterranea e da due ponti che attraversano il Charles
River a nord del percorso; in più, l'Interstate 90 viene estesa tramite lo scavo di un
tunnel fino al Logan Airport di Boston.
Nel 2003, il Gruppo partecipa al consolidamento delle dighe di Walter F. George
e Tuttle Creek. La prima, nel grande lago Walter F. George, che percorre più di 136
km e separa lo stato della Georgia da quello dell'Alabama. Il progetto richiedeva la
costruzione del diaframma, con l'utilizzo delle tecnologie innovative in possesso
dell'azienda nella parte superiore della diga situata sul fiume Chattahoochee. L'ottimo
lavoro fatto dal Gruppo (controlli con piezometro hanno dimostrato la diminuzione
significativa delle infiltrazioni) ha posto le basi per l'acquisizione di nuovi contratti per
la realizzazione di altre tre dighe. A differenza del diaframma della diga di Walter F.
George, che è plastico, per la diga nel lago di Tuttle Creek, in Kansas, sono stati
realizzati 350 diaframmi di bentonite e calcestruzzo, lunghi 13,7 metri e profondi 21,
perpendicolari all'asse della diga. Nel contratto, erano inclusi anche la costruzione
della pedana di lavoro, il restauro del terrapieno a valle e il rivestimento della parte
a monte della diga.
Nel 2010, il Gruppo Trevi ha ottenuto commesse per la realizzazione di opere presso
due delle università più importanti degli Stati Uniti, quella di Harvard e del
Massachusetts Institute of Technology (MIT). Nel primo caso, il compito è stato
di costruire un diaframma per l'Harvard Art Museum (Massachusetts), un museo
progettato dal celebre architetto Renzo Piano. La struttura viene estesa a formare
un unico grande edificio per ospitare tre musei già esistenti: il Fogg Art Museum, il
museo più antico di Harvard, con collezioni appartenenti al Rinascimento e ai Preraffaeliti); il Busch-Reisinger Museum, l'unico in Nord America dedicato all'arte
germanica di tutte le correnti artistiche e di tutte le epoche; e, infine, l'Arthur M.
Sackler Museum, dedicato all'arte asiatica, con collezioni che racchiudono, tra gli
altri, bronzi cinesi e sculture provenienti da templi buddisti. Un compito delicato,
dunque, che si intreccia con la rilevanza storico-artistica del sito e caratterizzato
anche da difficoltà legate alla complessa geologia del terreno e al poco tempo a
disposizione (il lavoro doveva essere terminato entro fine 2010). Il completamento
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di quest'intervento non è che un'ulteriore conferma delle competenze tecnologiche
e della professionalità del Gruppo. Inoltre, sempre a Boston, il Gruppo realizza
diaframmi di fondazione per il MIT, università di ricerca famosa in tutto il mondo.
Infine, ricordiamo un intervento del Gruppo Trevi che ha ricevuto l'interesse dei media
in Italia e all'estero. A New York, il Gruppo ha realizzato il diaframma per le fondazioni
del nuovo centro trasporti del World Trade Center, caratterizzato da circa 1 km di
gallerie per pedoni. Come è facile immaginare, questo progetto è carico non solo
di tante aspettative e di volontà di dare il meglio, ma anche di fattori emotivi radicati
nell'importanza ideologica che ha assunto il sito dalla distruzione delle Torri Gemelle
nel 2001. Il lavoro, terminato nel 2007, ha quindi presentato difficoltà a livello emotivo
ma anche a livello pratico, dato che il sottosuolo dell'area si compone di roccia e
di strati inclinati, difficili da trattare. Eppure, anche questa volta, il Gruppo ha accettato
la sfida, e l'ha vinta.
I macchinari progettati da Soilmec S.p.A. sono stati importati nella Grande Mela,
calibrati al millimetro in previsione del lavoro da eseguire. Precisione e impegno
hanno portato il progetto al successo: oggi possiamo dire che le fondazioni del
nuovo World Trade Center, e la volontà di rinascita del sito, sono più forti di prima.
Riconosciuto leader mondiale dell'ingegneria del sottosuolo, il Gruppo Trevi continua
a crescere, a sviluppare l'innovazione tecnologica oltre i limiti, a ottenere successi
in tutto il mondo. Le persone che fanno parte di questo grande team internazionale,
di 43 etnie differenti, aumentano di anno in anno e, nel 2012, si è arrivati a toccare
la soglia dei 6,689 dipendenti. Ciò che caratterizza l'azienda sono anche e soprattutto
i suoi orizzonti internazionali: le divisioni servizi del gruppo sono presenti negli Stati
Uniti, in Canada, a Panama, in Colombia, Venezuela, Perù, Cile, Brasile, Argentina,
Germania, Svezia, Danimarca, Austria, Italia, Turchia, Algeria, Nigeria, Angola,
Mozambico, Iran, Oman, Emirati Arabi Uniti, Qatar, Kuwait, Arabia Saudita,
Hong Kong, Filippine, Australia e Nuova Zelanda; per non parlare della divisione
metalmeccanica, presente negli Stati Uniti, in Colombia, Brasile, Francia, Regno
Unito, Italia, Germania, Egitto, Iraq, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Russia,
Bielorussia, Cina, Hong Kong, Giappone, India, Singapore e Australia.
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Una vocazione internazionale che si traduce in un interesse a trecentosessanta gradi
su quanto può essere fatto per portare l'ingegneria del sottosuolo verso nuovi orizzonti
di innovazione, garantendo il massimo grado di sicurezza e di efficienza, nel rispetto
di ciò che può e deve essere salvaguardato. Pensiamo alla partecipazione del Gruppo
a numerosi progetti di solidarietà in tutto il mondo, raggruppati sotto il grande progetto
“Social Value”, come “Acqua per la vita”, per cui l'azienda ha donato un impianto
di ricerca e perforazione per la realizzazione e la manutenzione di nuovi pozzi d'acqua
in Uganda e Sudan. O ancora, il sostegno all'orfanotrofio di Vayalur, in India, nel
quadro del progetto “Mariella Children's Home”; la costruzione e la gestione di un
nuovo Centro Nutrizionale e un punto d'acqua a Cité Soleil a Haiti, o il progetto
“Colora l'energia”, che ha coinvolto gli studenti delle scuole elementari, medie
inferiori e superiori cesenati in un concorso pittorico sul tema delle energie rinnovabili.
Anche l'etica, dunque, è uno dei pilastri su cui si fonda l'azienda, rendendola
un'impresa professionale ed eclettica, e anche “buona”.
Ci sono poi interventi che non solo vanno a sfiorare le corde dell'emotività di ognuno
di noi ma riguardano direttamente il nostro passato, e soprattutto l'importanza della
sua salvaguardia. Il Gruppo considera molto seriamente la protezione delle
testimonianze storiche e lo dimostra con i fatti: nel prossimo capitolo, vi presentiamo
due casi in cui il Gruppo Trevi ha messo le proprie capacità al servizio di questo
importante e delicato scopo.
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4.
Cap.
Storia, arte e ingegneria:
i grandi restauri del Gruppo Trevi
Qual è l'importanza del passato? In cosa può esserci utile conservare e tramandare
la memoria di ciò che è stato, le testimonianze dei nostri predecessori, le conoscenze
che si nascondono dietro a un'opera di grande rilievo artistico e storico?
Sono domande, queste, che ci si deve porre, se si vuole comprendere appieno
l'impegno e la passione necessari per salvaguardare le testimonianze storiche.
Attraverso il nostro viaggio nel tempo, dalle primissime fondazioni a quelle più
sofisticate e moderne, abbiamo avuto modo di notare come ogni piccolo passo
compiuto nella storia dagli uomini e dalle donne che l'hanno costruita ha contribuito
a inserire un importante tassello del monumentale edificio che è il nostro passato,
un edificio che non smette mai di svettare verso l'alto. Ma cosa sarebbe questo
edificio se ad esso mancassero le fondamenta? O se non si lavorasse costantemente
per tenerle monitorate, per sapere cosa può danneggiarle e come conservarle
efficacemente nel tempo?
Questa è l'importanza della storia. Determinate scoperte fatte in un passato molto
lontano possono essere ritrovate, con la stessa velocità con cui erano state dimenticate.
L'abbiamo visto: certe tecniche di fondazione utilizzate secoli fa sono usate ancora
oggi, modernizzate, migliorate, sviluppate. L'umanità, nel corso della sua esistenza,
è stata in grado di fare grandi cose, che spesso sono ancora (e devono essere) sotto
gli occhi di tutti.
Il Gruppo Trevi opera anche affinché ciò che di importante ci ha lasciato il passato
non vada perduto. Gli interventi effettuati in tal senso sono tanti, ma due sono quelli
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più rappresentativi. Da una parte, il restauro delle fondazioni della Torre di Pisa, dal
1990 al 2002, in Italia. E poi il consolidamento e recupero del sito archeologico che
ospitava due statue di Buddha nella valle di Bamiyan, in Afhanistan, nel 2001: una
struttura forse meno conosciuta della prima, ma che simboleggia la necessità e
l'urgenza della salvaguardia di beni storico-artistici a livello internazionale. Occidente
e Oriente, dunque, zone lontane geograficamente, con un passato culturale diverso,
eppure così vicine nella missione di tutelare un'eredità storica e artistica di un'importanza
che trascende logiche politiche o economiche appartenenti al nostro presente.
La nostra identità è nostra responsabilità, ma è definita anche dall'eredità che ci è
stata lasciata da chi ci ha preceduto. L'UNESCO (Organizzazione delle Nazioni Unite
per l'Educazione, la Scienza e la Cultura) che mantiene la lista dei patrimoni dell'umanità,
tra essi annovera Piazza dei Miracoli, di fronte alla Torre di Pisa, e ha commissionato
il restauro dei Buddha di Bamiyan.
La convenzione internazionale del 1972, che definisce un sito come patrimonio
dell'umanità, lo descrive come “il legame tra il nostro passato, ciò che siamo ora, e
ciò che passeremo alle generazioni future”. In queste parole è racchiuso tutto il senso
dell'importanza della salvaguardia dei beni storico-artistici che sono arrivati fino a
noi. Il Gruppo Trevi si è impegnato al fine di mantenere solido e forte questo legame.
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4.1
Il grande restauro della Torre di Pisa
La Cattedrale di Santa Maria Assunta, il Battistero di San Giovanni, il Campo Santo,
e poi quel Campanile, noto ai più come “torre pendente di Pisa”, che agli occhi del
turista profano di architettura e di ingegneria sembra sfidare ogni legge di gravità.
Monumenti di rara bellezza, da cui Gabriele d'Annunzio rimase talmente colpito da
scrivere, nel 1910, nel romanzo Forse che sì, forse che no: “l'Ardea roteò nel cielo
di Cristo, sul prato dei Miracoli”. Da allora, la piazza del Duomo di Pisa è comunemente
chiamata “piazza dei Miracoli”: perché quelle straordinarie opere di cui è costellata
appaiono per la loro unicità come dei miracoli.
Quella che tutti conoscono come “la torre pendente di Pisa” è, dunque, il campanile
della Cattedrale di Santa Maria Assunta e troneggia sull'altrettanto celebre Piazza
dei Miracoli. I lavori per la costruzione iniziarono nel 1173. La paternità dell'opera
non è certa, ma è solitamente attribuita allo scultore Bonanno Pisano, il cui nome è
stato ritrovato su un'urna a seguito di scavi archeologici. I lavori vennero interrotti
pochi anni dopo, mentre veniva costruito il terzo piano. Le ragioni di questa interruzione
non sono chiare: alcuni sostengono che la causa sia stata un primo cedimento del
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terreno, altri che diverbi di natura politica o economica abbiano
portato ad abbandonare l'opera. Sembra comunque che i primi
tre piani presentassero già una pendenza a poco tempo di
distanza dall'inizio della costruzione. Nel 1275, l'ingegnere
Giovanni di Simone prese in mano le redini del progetto
e ne compì buona parte (aggiunse tre piani), apparentemente
nel tentativo di “raddrizzare” la torre, come si può supporre
a osservare l'inclinazione della struttura dal terzo piano
in poi. Neanche in questo caso si riuscì però a portare i
lavori a compimento, cui si arrivò soltanto a metà del XIV
secolo, con l'aggiunta della cella campanaria da parte di
Giovanni Pisano.
La torre è alta circa 60 metri. Costituita da un corpo cilindrico
di muratura, la sua struttura si compone di loggiati di archi
e colonne. L'esterno è diviso in otto segmenti, detti “ordini”,
ovvero il basamento, sei balconate e la cella campanaria.
Quest'ultima è a cielo aperto ed è collegata al piano terra,
ovvero alla cosiddetta Sala del Pesce (che deve questo
nome a un bassorilievo che rappresenta un pesce), tramite
tre rampe di scale e l'ultima, a chiocciola, è composta da
293 scalini e porta alla sommità.
Il terreno sottostante è composto da una varietà di
stratificazioni. In generale, si parla di un sottosuolo fatto
di limi, argille e sabbie fini. Le stratificazioni possono essere
divise in tre “complessi” differenti: il primo, detto Complesso
A, è composto di limi, argille e sabbie che arrivano a una
profondità di 10 metri. A sud della torre le sabbie s o n o
particolarmente fini e quindi più suscettibili
alla compressione; questa dovrebbe
essere la ragione della pendenza
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iniziale della torre. Al contrario, il Complesso B, a
una profondità di 40 metri, è composto
prevalentemente di terreno argilloso, mentre il
Complesso C si compone di sabbie inferiori, a una
profondità di circa 70 metri.
Dunque, la pendenza della torre è dovuta a due
ordini di cause: da una parte il sottosuolo di sabbie
fini, che per sua natura ha tendenza a essere
facilmente compresso; dall'altra, il peso stesso
della torre ha causato una deformazione proprio
sotto di essa, in cui la superficie che separa le sabbie
superiori dalle argille è minima. Non si può quindi
attribuire l'inclinazione a una rottura delle fondazioni,
bensì alle caratteristiche intrinseche dell'area in cui
la torre è stata costruita.
Come abbiamo visto, l'inclinazione della torre è evidente
sin da poco tempo dopo la sua costruzione e ben prima
del suo completamento. Ecco perché, nel corso dei
secoli, sono state formate vere e proprie commissioni
con l'incarico di trovare una soluzione al problema,
avendo cura di non danneggiare l'opera. Un compito
delicato, talmente delicato che le varie commissioni si
sono succedute una dopo l'altra fino ai tempi recenti,
senza apportare soluzioni significative. La primissima
commissione, formata da due magistri lapidum e da un
magister lignaminis (esperti di muratura e di legno), viene
instaurata nel 1292 e ha il pregio di redigere un verbale
comprensivo di misurazioni specifiche che
sarebbero servite successivamente. Dopo
la realizzazione di un catino con lo scopo
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di “riequilibrare” il peso della torre, ma che servì solo a peggiorare la situazione,
venne formata una seconda commissione nel 1840 per prosciugarlo (senza riuscirci).
Il crollo del campanile di San Marco, a Venezia, nel 1902, è la goccia che fa traboccare
il vaso: da lì in poi numerose commissioni si concatenano alla ricerca quasi disperata
di una soluzione.
Nel 1965, viene formata la prima commissione composta anche da ingegneri
geotecnici, e presieduta dal fisico Giovanni Polvani. È a questa commissione che si
deve la raccolta della maggior parte dei dati tecnici riguardanti la torre. Nonostante
un concorso internazionale, ancora non viene trovato un progetto che sia in grado
di stabilizzare la torre senza comprometterne il valore storico e artistico. Ma il tempo
stringe: nel 1989 crolla la Torre civica di Pavia, ci sono delle vittime, la gente vuole
più sicurezza. Sarà il Comitato Internazionale, istituito nel 1990, ad agire davvero per
portare alla soluzione tanto cercata. La sua forza è l'eterogeneità dei suoi membri:
provengono da tutto il mondo, sono esperti restauratori e ingegneri geotecnici, ma
anche storici dell'arte. Al fianco del Comitato, il Consorzio Progetto Torre di Pisa,
con il compito di effettuare le indagini e il monitoraggio del sito. Per la prima volta,
tecnica e storia si incontrano, e la loro sinergia sarà la chiave per lo straordinario
restauro della torre.
La corsa contro il tempo era partita. Eppure le cose non andavano fatte di fretta: era
necessario coniugare efficienza ed efficacia. Ben presto si identificarono due problemi
in particolare: alcune zone della torre erano tese, e poco sarebbe bastato per provocare
un crollo improvviso dell'intera struttura; in più, se il terreno di fondazione si fosse
rotto, la torre avrebbe finito per ribaltarsi. Bisognava quindi fare in modo di mettere
da subito in sicurezza il sito con interventi temporanei, per poi cominciare ad attuare
gli interventi definitivi di stabilizzazione. A questo scopo, nel 1992 vennero realizzate
cerchiature provvisorie, con cavi, all'altezza della prima cornice. Una volta individuate
le zone più tese della struttura, la muratura venne consolidata tramite iniezioni di
malte e l'inserimento di barre in acciaio.
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A seguito di analisi approfondite sulla natura del terreno e dell'inclinazione della
struttura, appare evidente come anche solo una lieve diminuzione della pendenza
basterebbe a interrompere il progredire della torre verso il basso. Si decide allora di
ridurre l'inclinazione di mezzo grado tramite un cedimento indotto a nord delle
fondazioni. Ciò non solo permetterebbe di mettere in sicurezza la struttura, ma anche
di salvaguardarne l'integrità e il valore storico. Il Comitato ha passato in rassegna
tante possibilità per ottenere questo risultato, per poi arrivare a scegliere il metodo
della sottoescavazione, nel quale si estraggono in modo controllato piccole
quantità di terreno al di sotto della zona della fondazione scelta.
La delicatezza del compito imponeva, tuttavia, un'estrema cautela prima di procedere
a lavorare direttamente sulla torre. Venne addirittura realizzata una fondazione
“sperimentale” in un angolo di Piazza dei Miracoli per controllare le risposte che il
procedimento avrebbe avuto sul terreno. Nonostante i risultati positivi ottenuti anche
in questa fase, ancora non si poteva avere certezza di come sarebbe andata la prova
“reale”. Cura e attenzione erano le parole d'ordine che guidavano i lavori: si pensava
prima di tutto a preservare la torre e a evitare danni che avrebbero potuto essere
fatali anche e soprattutto da un punto di vista artistico. Perciò venne realizzata una
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struttura di presidio con due stralli (cioè strutture in cavo d'acciaio che servono a
evitare l'inflessione laterale di determinati elementi di un edificio) collegati a livello
del terzo ordine e assicurati a due strutture metalliche situate a nord della torre.
Quest'opera di presidio permise di procedere a una sottoescavazione preliminare
(quindi molto limitata) in tutta sicurezza, nella primavera del 1999.
La risposta fu positiva: la torre arrivò a stabilizzarsi e, dal settembre di quello stesso
anno, non si registrò più alcun movimento dell'edificio. Si passò così alla fase
successiva: la sottoescavazione definitiva, che durò un anno, dal 2000 al 2001.
38 metri cubi di terreno asportato, il 30% dei quali al di sotto della fondazione
e il 70% a nord di essa, arrivando a lavorare a una profondità massima di due
metri: questi i numeri che sintetizzano i lavori di sottoescavazione definitiva.
Questo procedimento diede risultati talmente straordinari che già mentre veniva
effettuato si poté cominciare a rimuovere le opere provvisorie, come le cerchiature
e gli stralli della struttura di presidio. L'unica cosa che non è mai stata smontata e
che rimane ancor oggi, discreta, dietro gli edifici dell'ente Opera Primaziale, sono i
cavalletti di ancoraggio degli stralli, che fungono un po' da testimoni del grande
impegno e dell'immensa passione messi in quei dieci anni di lavoro per salvaguardare
non solo un edificio, ma un vero e proprio simbolo.
Gli ultimi interventi fatti riguardarono il consolidamento del catino. Il Comitato decise
di collegarlo direttamente alla torre, trasformandolo in una sorta di estensione della
fondazione della torre stessa. Venne realizzata una cerchiatura per la fondazione e
ripristinata la
continuità del fondo del catino. La variabilità della falda freatica sotto la torre, che
aveva rappresentato una delle cause della sua pendenza, venne regolata tramite un
sistema di drenaggio appositamente studiato, che non necessita di pompe ma che
permette di raccogliere le acque di drenaggio e di spingerle nel collettore di scarico
delle acque meteoriche del catino, per poi “inviarle” nella fognatura urbana. Tutto
ciò permette quindi di controllare e ridurre gli “smottamenti” del sottosuolo e di
evitare che la torre si inclini a causa della deformazione del terreno.
Nel 1995, l'inclinazione della Torre di Pisa (3,97 gradi rispetto all'asse verticale) è
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stata riportata al livello a cui era prima della costruzione del catino, che ne aveva
seriamente compromesso la stabilità, e da allora non è mai aumentata. Il sistema di
monitoraggio che era stato installato durante i lavori è stato semplificato per consentire
di tenere sotto controllo la struttura anche sul lungo periodo. Questo pur sempre
complesso sistema permette di monitorare al tempo stesso la pendenza della torre,
i movimenti della fondazione, le variazioni delle lesioni registrate, le variazioni del
diametro del fusto della torre e gli eventuali eventi sismici.
Il Gruppo Trevi ha affrontato questa sfida mettendo le proprie capacità organizzative
e ingegneristiche al servizio di un ideale, quello della salvaguardia di beni storicoartistici di grande valore oggettivo ed emotivo. Gli occhi dell'Italia e del mondo sono
stati per dieci anni puntati su questi lavori, in cui è stato possibile coniugare tecnologia,
teoria, professionalità e anche cuore. Perché questa storia che vi abbiamo raccontato
non è solo la storia di un intervento ingegneristico, ma la storia di un salvataggio. Il
salvataggio di un monumento e di un valore inestimabile: quello della storia.
A volte è solo grazie alla tecnica e alla competenza che si può salvaguardare la
bellezza.
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4.2
I Buddha di Bamiyan
Questa storia inizia in Oriente: più precisamente in Bamiyan, in Afghanistan.
È una terra dal clima capriccioso, il Bamiyan: la valle è lunga e desertica, circondata
dalle montagne, e d'inverno le temperature scendono anche decine di gradi sotto
lo zero. Siamo sulla Via della Seta, un percorso che unisce l'Asia centrale e la Cina,
utilizzato soprattutto per gli scambi commerciali tra tutti quei mondi. Oltre ai mercanti
e ai commercianti di passaggio, però, il Bamiyan ospitava i pellegrinaggi di uomini
religiosi, buddhisti, che qui decisero di installarsi e creare monasteri, luoghi di culto.
Erano soprattutto monaci eremiti, che vivevano in una semplicità portata all'estremo,
dormendo in grotte scavate nel terreno roccioso. Nella loro vita quotidiana, era
inevitabile cercare di dare un'iconografia alla propria fede; e allora dipingevano,
scolpivano, lavoravano la roccia e la plasmavano con immagini religiose.
Probabilmente è stato proprio così che sono “nate” le due alte, imponenti statue di
Buddha di cui siamo qui a parlarvi. Erano frutto del sudore, della fatica, ma anche
di una fede incrollabile, che aveva portato a scolpirle per oltre due secoli, probabilmente
tra il III e il V secolo d.C. L'area godeva di una grande prosperità, anche e soprattutto
culturale: all'epoca, dominava la popolazione dei kushan, che sostenevano fortemente
il valore della cultura. Così venne costruita una scuola, e poi un monastero, e poi
loro, quelle colossali statue, una alta 38 metri (Small Buddha), l'altra 53 (Great
Buddha): la più alta statua di Buddha che il mondo antico potesse vantare. Erano
scolpite direttamente nella montagna, mentre ci si serviva di fango e paglia per
plasmare i dettagli. Si dice anche che, in origine, le statue fossero ricoperte di
meravigliosi gioielli.
Ma la straordinaria opera di costruzione di queste statue è messa in ombra dalla loro
incredibile distruzione. Nel XII secolo, quella terra culturalmente florida era caduta
sotto il dominio islamico, che tollerava poco l'iconografia appartenente ad altre
religioni. Eppure, per alcuni secoli, le due grandi statue furono risparmiate: in fondo,
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rappresentavano esseri umani e non dei; in più, appartenevano a un'epoca precedente
al dominio islamico. Ecco quindi che si succedettero i sultani e i sovrani ma, a parte
qualche lieve danno, i due Buddha rimasero lì, in piedi, apparentemente incrollabili.
Ma l'adorazione delle icone, le icone stesse, erano un affronto inaccettabile per i
talebani, anche se affondavano le radici quindici secoli prima e ormai di buddhisti,
in quella terra, ne rimanevano pochi. A poco servì il decreto emanato dal Mullah
Mohammed Omar, in cui affermava l'importanza della conservazione delle due statue
per favorire il turismo in Afghanistan. La situazione ormai stava già degenerando, e
nulla sembrava poter fermare quel processo: banditi musica, sport, televisione, era
ormai nell'aria che venisse emanato il tanto temuto decreto che ordinava la distruzione
delle statue. Il Mullah aveva cambiato idea a marzo del 2001 e, secondo il quotidiano
Times, aveva dato ufficialmente il suo appoggio a quella “esecuzione”. A nulla valsero
i richiami internazionali, le richieste di
prendere in custodia le statue, di
sradicarle e portarle lontano, pur di
salvarle. La minaccia della distruzione
di quelle opere che erano sopravvissute
per 1500 anni provocò un vero e proprio
dibattito internazionale e interno. L'ala
oltranzista e quella più moderata dei
talebani si scontrarono, mentre tutto il mondo guardava con apprensione all'imminente
sorte delle raffigurazioni. Forse la miccia che aveva fatto scattare il sistema era stata
un evento singolo (si diceva che una delegazione straniera avesse offerto fondi per
restaurare le statue e che la cosa avesse fatto infuriare il Mullah, perché nel contempo
migliaia di persone morivano di fame e non godevano di aiuti umanitari), oppure fu
semplicemente un tentativo per affermarsi, per dimostrare qualcosa al mondo.
Fatto sta che, quella primavera, quelle dibattute statue vennero fatte esplodere. E
si scoprì che un po' incrollabili lo erano: erano grandi, la roccia dura e forte, e ci volle
più di un mese per abbatterle quasi completamente, a colpi di cannone e dinamite.
E neanche quello bastò: ancora oggi si possono distinguere alcuni tratti e alcune
parti rimaste, oltre alle due enormi nicchie nella roccia in cui troneggiavano.
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Dal 2002, le organizzazioni internazionali cominciarono a riflettere sul recupero e il
restauro del sito, oltre alla sua messa in sicurezza: le esplosioni avevano comportato
l'instabilità dell'area, e si riteneva possibile un crollo improvviso, anche solo parziale.
Nel 2003, il riconoscimento internazionale più importante, che permise di iniziare
davvero i lavori: l'inserimento nella lista dei “patrimoni dell'umanità in pericolo”
da parte dell'UNESCO. Le ragioni che portarono a questa decisione erano molteplici
ed evidenti: quelle statue e le nicchie in cui si trovavano rappresentano una
testimonianza preziosa dell'arte buddhista; in più, i loro resti testimoniano come gli
scambi sulla Via della Seta tra le popolazioni orientali abbiano spinto a un'evoluzione
multiculturale che si espresse anche attraverso questa forma d'arte.
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Si passò, allora, all'azione. Gli archeologi visitarono il sito, verificando ciò che poteva
e doveva essere salvato; l'UNESCO, e il governo giapponese che forniva i fondi,
diedero il via ai lavori di restauro. Innanzitutto, il Gruppo Trevi effettuò studi geologici
sul terreno del sito, con campionamenti, test di laboratorio e ricerche sul campo. Un
lavoro che, oltre che lungo e complesso, poteva rivelarsi anche pericoloso: c'era il
rischio di trovarsi a urtare accidentalmente delle mine anti-uomo. Ciononostante,
questi studi vennero portati avanti dal 2002 fino al completamento del restauro. Si
poté stabilire che era necessario tenere conto dei grandi sbalzi di temperatura che
caratterizzano l'area (forte caldo in estate, freddo gelido in inverno); che le rocce che
compongono la zona sono prevalentemente conglomerati, e soprattutto siltiti,
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un tipo di rocce sedimentarie; che infiltrazioni d'acqua, erosioni, accumuli di fango
sono i fenomeni geomorfologici che interessano il sito.
In seguito a queste analisi, venne redatto uno studio di fattibilità per il consolidamento
delle nicchie e della parete di roccia che le ospita. Era necessario realizzare un
sistema di monitoraggio delle crepe sin da subito. Un sistema ad alta precisione. E
poi: installare un supporto temporaneo che mantenesse stabili i blocchi di roccia,
anche durante i lavori; evitare le vibrazioni da trivellazione; stabilizzare la parte
posteriore delle nicchie. Ingegneri, archeologi ed esperti di conservazione dei beni
culturali collaboravano in perfetta sinergia.
Insomma, la storia si ripeteva, come per la Torre di Pisa. Il procedimento di restauro
si rivelava ancora una volta delicato e complesso; il minimo errore poteva
compromettere mesi di progettazione, di impegno e, soprattutto, l'integrità di un
pezzo di storia. Era quindi necessario conoscere in profondità le caratteristiche del
sito, fare esperimenti prima di agire, ma soprattutto avere come priorità la conservazione
delle caratteristiche artistiche della struttura. Quando i lavori di consolidamento
“effettivi” iniziarono, si aveva tutto sotto controllo: ci si servì di scalatori professionisti
per percorrere la parete rocciosa con ancoraggi e chiodi. Una particolare miscela
di malta venne ideata con l'aiuto di esperti dell'ICOMOS (ONG per la conservazione
dei monumenti storici) per ridurre il più possibile l'impatto delle teste degli ancoraggi.
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I lavori di consolidamento e restauro sono terminati nel 2006. La parete e la nicchia
del Buddha situato a est sono oggi stabili, e la nicchia del Buddha situato a ovest
è protetta dalle infiltrazioni. Il pericolo di caduta pietre è sventato. Il sito è quindi
pronto per un'eventuale ricostruzione.
Il Gruppo Trevi, che per questa missione ha lavorato di concerto con importanti
organizzazioni internazionali e con esperti d'arte e di storia di tutto il mondo, ha
stabilizzato la struttura rimanente e l'ha messa in sicurezza per rendere possibili gli
studi archeologici futuri. L'intervento si può dire perfettamente riuscito: i tecnici
dell'UNESCO si sono complimentati con il Gruppo Trevi, sottolineandone la grande
innovazione tecnologica e la professionalità.
Le ombre delle nicchie che oggi si stagliano, vuote ma profondamente solide, nella
valle di Bamiyan rimangono a testimonianza di come anche di ciò che viene distrutto
è possibile salvare qualcosa. Un altro bene di altissimo valore storico è stato
recuperato e protetto: il Gruppo Trevi ha lavorato per proteggere la storia, per salvare
una forma d'arte. Dimostrazione del fatto che quando questi mondi incontrano
l'innovazione tecnologica, la passione, le alte competenze tecniche e un know-how
internazionalmente riconosciuto, non ci sono sfide che non possono essere vinte.
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5.
Cap.
Per concludere ...
Qual è la scintilla capace di trasformare un’azienda in una “grande azienda” come
il Gruppo Trevi, apprezzato e ammirato in tutto il mondo?
La risposta risiede senz’altro nella storia che abbiamo appena raccontato. Quella di
un'azienda che non ha mai rifiutato anche le sfide più difficili, anzi le ha affrontate
con l’entusiasmo che caratterizza chi sa di poter vincere. Un entusiasmo per una
mission in cui si crede, ma anche un serio impegno da parte di tutte le persone che
hanno messo le loro capacità al servizio dell’azienda. Un lavoro veramente “di gruppo”,
fatto di studio e progettazione ma anche di buona amministrazione e organizzazione,
perché nulla si costruisce senza buone “fondamenta”. Il Gruppo Trevi queste
fondamenta le ha sempre avute solide e trasmette questa sua forza nel lavoro di ogni
giorno.
Il Gruppo Trevi fa onore all'imprenditoria italiana e ha portato in giro per il mondo
le sue competenze, la sua creatività, la sua passione per l’innovazione tecnologica.
Le sue solide basi l'hanno reso un’eccellenza mondiale.
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6.
Cap.
Bibliografia e sitografia
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